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Quegli storici politicamente corretti che ce la raccontano come vogliono

Con le paci di Urtrecht (1713) e Rastadt (1714) si apre un nuovo scenario nella storia d’Europa: inizia la plurisecolare egemonia britannica, che durerà fino alla Seconda guerra mondiale; egemonia finanziaria, industriale e commerciale, che non ha bisogno di conquiste territoriali (ma intanto, fuori d’Europa, si va costruendo l’impero coloniale più grande della storia), tranne qualche essenziale base strategica, come Malta e Gibilterra, ma intanto esercita un monopolio sulle esportazioni e si tiene pronta, con la sua flotta potente e bene addestrata, a rintuzzare qualunque tentativo di aprire in esso la più piccola crepa, da parte di chicchessia.

Scriveva lo storico protestante Giorgio Spini, non senza un malcelato compiacimento, a proposito delle ripercussioni ideologiche della sostanziale vittoria inglese nella Guerra di successione spagnola, combattuta fra il 1701 e il 1713-14 (in: «Disegno storico della civiltà», Roma, Edizioni Cremonese, 1963, 1972, vol. 2, pp. 332-33):

«La sconfitta del Re Sole nelle guerre della Lega d’Augusta e di Successione Spagnola, ha altresì un evidente riflesso ideologico, in quanto sconfitta dell’assolutismo monarchico e dell’intolleranza religiosa di fronte alle idee maturatesi nel clima liberale dell’Olanda ed affermatesi in Inghilterra con la Gloriosa Rivoluzione del 1688. La revoca dell’Editto di Nantes e la II Rivoluzione inglese, infatti, hanno portato gran parte del protestantesimo a identificare la propria causa con quella della libertà religiosa e politica. Al confitto materiale fra Guglielmo III di Orange e Luigi XIV ha fatto riscontro, pertanto, un’accanita battaglia ideologica, di cui la vittoria anglo-olandese appare la finale conclusione.

Il più eloquente prelato della corte francese, Giacomo Benigno Bossuet (1627-1704), si è levato a difesa dell’assolutismo per diritto divino ed ha esaltato l’immutabilità dogmatica del cattolicesimo rispetto alla molteplicità di opinioni dei protestanti nella sua celebre "Histoire des Variations des Eglises Protestantes" (1688). Dall’Olanda, i profughi ugonotti come Pietro Jurieu (11637-1713), hanno risposto con un’accanita polemica, attaccando i fondamenti dottrinali dell’assolutismo ed affermando il diritto dei cittadini rispetto al sovrano. In Olanda altresì è stato profugo, durante il regno di Giacomo II Stuart, l’inglese Giovanni Locke (1632-1704), che ivi ha maturato il proprio pensiero, così da diventare il massimo teorico dei principi della II Rivoluzione Inglese, con la sua famosa "Lettera sulla tolleranza" (1688) e poi con i "Trattati sul governo civile" (1690).

Nessun campo della vita intellettuale è sfuggito in qualche modo al grande duello ideologico e politico-religioso fra il Re Sole ed i suoi avversari. Il più famoso tra i pensatori e matematici del tempo, il tedesco Goffredo Leibniz (1646-1716), è legato alla corte degli Hannover, che l’Inghilterra chiama ad occupare il proprio trono a sfida del Re Sole; il massimo scienziato, cioè Isacco Newton (1642-1627), esce dalle file del non-conformismo inglese, su cui il partito whig estende la sua protezione.

D’altra parte l’Olanda della seconda metà del Seicento è stata rifugio altresì dei superstiti seguaci dell’antitrinitarismo sociniano, cacciati dalla Polonia ad opera della Controriforma. Proprio le idee sociniane, pertanto, trovano nuova diffusione nell’intellettualità protestante anglo-olandese, tra la fine del sec. XVII ed i primi del sec. XVIII, portandola verso un razionalismo religioso sempre più accentuato. Lo stesso Locke dà una interpretazione del cristianesimo di carattere razionalistico, accentuandone l’aspetto morale a spese di quello dottrinale. Verso lo scetticismo si orienta Pietro Bayle (1647-1706), il cui "Dizionario storico e critico" (1695-1697) influisce potentemente sull’evoluzione intellettuale dell’Europa, anticipando le successive posizioni degli Illuministi. Si ha infine un trapasso verso il deismo settecentesco, con l’inglese Giovanni Toland (1670-1722) e la sua opera "Il cristianesimo senza misteri" (1696).

Dopo i trattati di Utrecht e Rastadt, pertanto, l’Europa si spalanca tanto alla influenza politica od alla penetrazione commerciale dell’Inghilterra, quanto alle idee liberali. In ogni paese, compresa l’Italia stessa, i principi giuridici del Grozio e del Pufendorff, la filosofia politica del Locke, la critica del Bayle o la scienza del Newton ed il pensiero del Leibniz conquistano gli spiriti. Si inizia così quel moto intellettuale, che assumerà tosto il nome di Illuminismo, ingaggiando battaglia col passato ed in modo particolare col retaggio della Controriforma.

Come il sistema della monarchia costituzionale od il regime di libertà politica e religiosa dell’Inghilterra si impongono all’universale ammirazione, così si impongono i successi dell’intraprendenza economica anglo-olandese. Il capitalismo borghese ha battuto clamorosamente il militarismo assolutista. In ogni paese d’Europa si delinea una gara ad imitare in qualche modo le fortune commerciali e marinare degli Inglesi: si dà ai problemi economici un’importanza affatto ignota nell’età della Ragion di Stato; ci si sforza di creare industrie e di partecipare ai grandi commerci transoceanici; ci si precipita, magari, nelle speculazioni finanziarie più rischiose. L’avanzata dello spirito borghese, già delineatasi nel secolo XVII, si fa sempre più risoluta e trionfante col passare del tempo.»

Quanto a trionfalismo, il brano dello Spini non scherza davvero: più che una pagina di storia, obiettiva e pensosa, preoccupata di comprendere come e perché si siano verificati certi fenomeni e si siano avviate certe trasformazioni, sembra invece uno spot pubblicitario del liberalismo e dell’etica protestante, del capitalismo borghese e delle "magnifiche sorti e progressive" dell’Inghilterra e dell’Olanda. Un quadro in cui si dà per scontato che quel certo tipo di progresso vada identificato con il progresso tout-court, e che quel particolare modello politico ed economico sia il migliore in assoluto, sì da ripartire le nazioni in due gruppi antitetici: quelle che lo stavano adottando, cosa che permetteva loro di avanzare sulla via della cultura, della tolleranza, del benessere, e quelle che, restando aggrappate a forme sorpassate e anacronistiche, identificabili nell’economia pre-capitalista e nel cattolicesimo, si condannavano da se stesse al regresso, alla conflittualità sociale e ad un inarrestabile processo di impoverimento.

Non viene fornita alcuna ragione, infatti, del perché il modello ideologico inglese e olandese, fondato sulla libertà di pensiero (cosa, questa, peraltro, largamente opinabile) ed il relativo modello economico liberale, fondato non solo sull’industria e sul commercio, ma anche, come lo Spini a denti stretti è costretto ad ammettere, su azzardate e spregiudicate speculazioni finanziarie (1694: fondazione della Banca d’Inghilterra: guarda caso, subito dopo la "Gloriosa Rivoluzione" che abbatte i cattolici Stuart e inaugura la monarchia costituzionale), avrebbe consentito il prevalere di quelle due nazioni e dei loro sistemi politici ed economici, rispetto ad un’Europa assolutista e arroccata su posizioni antiquate e reazionarie, rappresentata da Luigi XIV. In realtà, lo Spini non dimostra nulla, ma afferma un paradigma ideologico, secondo il quale il principio rappresentativo e la libertà di commercio non possono non avere la meglio sul principio della monarchia assoluta e su qualsiasi forma di limitazione del libro commercio.

Non spiega, però, lo Spini, che il principio del "libero commercio" era, ed è, una truffa, perpetrata dalle nazioni che partono avvantaggiate nel commercio e nella finanza mondiale, a danno di quelle più arretrate: perché esso equivale all’imposizione dei prezzi delle merci, e delle regole stesse del mercato, da parte di coloro che già si sono assicurati le posizioni di predominio, se non addirittura di monopolio: la Gran Bretagna nel XVII, XVIII e XIX secolo; gli Stati Uniti, a partire dalla metà del XX secolo. "Libero commercio", allora, significa libertà per le potenze monopoliste di stabilire i prezzi, la moneta di scambio, il sistema degli interessi, nonché, in genere, il controllo delle stesse vie di comunicazione per esportare o importare le merci: una libertà dalla quale la parte più forte ha tutto da guadagnare, raddoppiando, triplicando e quadruplicando i suoi capitali, con la sola prevalenza della moneta, mentre la parte più debole ha tutto da perdere, dovendo subire uno scambio su basi ineguali, che la indebolisce sempre di più, la indebita sempre di più, e fa crescere in misura geometrica la distanza nei confronti della controparte.

Dal punto di vista storiografico, il "metodo" dello Spini si riduce, in buona sostanza, ad un misero senno del poi, ad una servile adorazione dell’esistente, ad una approvazione incondizionata di chi ha vinto e ad una condanna senza appello di chi è rimasto soccombente. Egli dice, con grande compiacimento, che «il capitalismo borghese ha battuto clamorosamente il militarismo assolutista», e cerca di mostrare che tale vittoria era logica e inevitabile, per una intrinseca superiorità di quello su questo: ma tutto ciò non è storia, è propaganda. Per dimostrare il suo paradigma, egli semplifica, tace qua, esagera là, ritocca, aggira gli ostacoli; procede per schemi fatti, per luoghi comuni abusati. Parla, ad esempio, del "militarismo" della Francia di Luigi XIV, contrapponendolo al liberalismo inglese. Ma davvero si possono ridurre le cose in questi termini? Davvero il "militarismo" (concetto, comunque, anacronistico, nel contesto del XVII secolo) era solo quello francese, e non anche quello inglese? Allo Spini non viene in mente che il culto della forza può essere sia legato a una tradizione "ideale", quella della monarchia assoluta, sia posto al servizio di finalità pratiche, come la conquista delle materie prime o dei mercati commerciali. Perché lo Spini non nomina neppure i genocidi di cui si rese responsabile l’Inghilterra liberale: quello dei Tasmaniani, ad esempio, o quello (solo parzialmente riuscito) degli Aborigeni australiani? Perché non parla di Lord Jeffrey Amherst, che inaugurò, nel Nord America, la guerra batteriologica, facendo distribuire alle tribù di Pellerossa centinaia di coperte infettate dal vaiolo?

La verità è che il liberalismo non è un sistema politico ed economico intrinsecamente "migliore", o "più giusto", di altri; e si possono commettere, all’ombra di esso, atrocità e crimini per nulla inferiori a quelli perpetrati da altri sistemi. Storici conformisti, come lo Spini, hanno avvalorato una "leggenda nera" a senso unico, come se l’Inquisizione, i "conquistadores" e la notte di San Bartolomeo fossero il marchio incancellabile della civiltà cattolica, alla quale si contrappone una storia luminosa, piena di benevolenza e tolleranza, che sarebbe propria delle nazioni protestanti dell’Europa settentrionale. Da una parte l’oscurantismo, l’assolutismo, la barbarie; dall’altra il progresso, la ragione, e («pecunia non olet») la prosperità economica. In fondo, è esattamente lo stesso schema di Calvino: Dio finisce per premiare i più laboriosi, i più intraprendenti, gli eletti: il successo materiale è l’indizio privilegiato della loro santità.

Non è da storico, però, ma da propagandista, esagerare, come fa lo Spini, l’influenza dei minuscoli gruppi sociniani fuori d’Europa; non è da storico gongolare perché filosofi come Locke imprimono alla religione cristiana un indirizzo più razionalistico, o perché scrittori come Toland strappano alla religione il velo del mistero; non è da storico, ma da propagandista, presentare la vita intellettuale dei Paesi protestanti come piena di slanci e di energie, e tacere quel che nei Paesi cattolici veniva maturando, in ambito culturale, negli stessi anni; come non è da storico, ma da propagandista, compiacersi all’idea che il libertinismo, il razionalismo e il liberalismo stanno spianando la strada al nascente Illuminismo, quasi che quest’ultimo fosse un fenomeno positivo in se stesso, e non un fenomeno storico accanto ad altri fenomeni storici, che non gode di alcuno statuto privilegiato e la cui bontà è, semmai, tutta da dimostrare.

Concludendo: Giorgio Spini non è uno storico, ma un commesso viaggiatore del protestantesimo, impegnato a rivalutare il "contributo" protestante — e quello libertino – nella storia d’Europa, particolarmente del Seicento; così come, occupandosi della storia del Risorgimento, si impegna a sottolineare il "contributo" del protestantesimo, specialmente anglosassone, e questo come se l’Italia del XIX non fosse stata una nazione cattolica al 99% e come se i tentativi massonici e protestanti di rovesciare tale realtà fossero stati perfettamente innocenti e puramente idealistici, specialmente da parte della Gran Bretagna…

Tale è la storiografa politicamente corretta: una vulgata propagandistica in lode del vincitore e, perciò, in lode del protestantesimo, del libero pensiero, del liberalismo e della democrazia; e in lode delle potenze anglosassoni, le sole generose e altruiste, disinteressate e felicemente protese verso il futuro. Senza guardare il pelo nell’uovo, come le coperte di lord Amherst o il fungo d’Hiroshima…

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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