
La teoria degli «equilibri intermittenti»: un goffo tentativo di salvare l’evoluzionismo dal naufragio
28 Luglio 2015
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28 Luglio 2015L’uomo, si dice, ha paura della morte; per questo non ne parla, se può farne a meno; per questo aborrisce dalle immagini della morte, a meno che non si serva di esse per esorcizzare la sua stessa paura, scaricando la tensione mentre guarda morire qualcun altro al posto suo (si pensi ai celebri versi del «De rerum natura» di Lucrezio: «Suave, mari magno turbantibus aequora ventis / e terra magnum alterius spectare laborem»): qualche personaggio della letteratura, del cinema o della televisione, qualche eroe negativo dei fumetti.
Si dice, e perciò lo ripetono tutti, come fosse verità rivelata: ma è proprio vero? È proprio vero che l’uomo ha sempre avuto paura della morte; che vive con la nevrosi della sua inevitabilità; che è — per dirla con Heidegger – un essere-per-la-morte? E se fosse, invece, un essere-per-la-vita? Se ci fosse stato un tempo nel quale non solo il pensiero della morte non lo turbava particolarmente, ma, in un certo senso, lo rasserenava, perché vedeva in essa non già la fine, ma il principio? Tutto dipende, evidentemente, da ciò che l’uomo pensa essere la morte: se la considera una porta che si chiude per sempre, o una porta che si apre sull’eternità.
Ebbene: c’è stato un tempo, e un tempo considerevolmente lungo, nel quale la morte non incuteva terrore agli uomini; durante la millenaria stagione del Medioevo cristiano, la consapevolezza della morte non rappresentava una nevrosi intollerabile, uno "shock" esistenziale suscettibile di farli impazzire, come vorrebbero tanti autori moderni, parlando dei suoi effetti psicologici nella società odierna; ma, al contrario, un punto luminoso e rassicurante, situato alla fine di quel difficile pellegrinaggio terreno che è la vita umana, e oltre il quale si pone il disvelamento finale del significato ultimo della vita stessa: l’incontro, faccia a faccia, con Dio Padre.
Naturalmente, molti autori contemporanei ironizzano su questa sicurezza rasserenatrice, di cui disponevano gli uomini del Medioevo, e la pongono in diretta relazione con le durissime condizioni di vita allora esistenti, e con la brevissima speranza di vita di quei nostri progenitori; ma si tratta di una critica tanto banale, quanto mal diretta. Innanzitutto, il pensiero della morte è suscettibile di rasserenare non chiunque conduca una vita dura, ma solo chi la conduce con spirito di accettazione e con immutata gratitudine verso il suo Autore; per chi covi uno spirito di rancore e di ribellione contro la durezza della vita, la morte non appare sotto le sembianze lusinghiere di una liberazione, ma come la beffa suprema e la come la sconfitta definitiva e totale. In secondo luogo, la speranza di vita dell’uomo medievale non era affatto bassissima: una volta superato lo scoglio della mortalità infantile, che colpiva soprattutto i bambini al momento della nascita, o ancora in culla, l’uomo medievale, che conduceva una vita sicuramente assai dura, ma anche infinitamente più sana di quella dell’uomo moderno, aveva davanti a sé la prospettiva quasi certa di diventare ottantenne, novantenne, o anche centenario (guerre permettendo, si capisce: ma ciò vale anche per noi moderni; né il Medioevo ha mai conosciuto stragi sistematiche di intere popolazioni, come è accaduto nel corso della due guerre mondiali del XX secolo).
Ad ogni modo, se la vita è dura oppure no (e non bisogna cedere alla tentazione di giudicare "dura" l’esistenza solo in base ai fattori materiali: la depressione, vero male strisciante della modernità, dimostra il contrario), non è questione di parametri oggettivi, ma di giudizio soggettivo: tanto è vero che la vita può essere giudicata insopportabile, soggettivamente, da colui che sta infinitamente "meglio", in base a dei criteri oggettivi, di un altro essere umano. Ora, l’uomo medievale "sapeva" che la vita è dura; non si aspettava nulla di diverso da essa; non immaginava "diritti" insistenti e non pretendeva che la vita soddisfacesse i suoi desideri, secondo la sua volontà; era conscio, invece, di dover, lui, assecondare il movimento della vita, disponendosi a viverla così come l’avevano vissuta i suoi genitori, i suoi nonni e i suoi bisnonni: senza attendersi di ricevere nulla in più di quanto, da essa, avevano ricevuto loro.
Con la formazione progressiva di una mentalità secolarizzata e anti-teologica, e con il sorgere delle filosofie del Progresso, vero e proprio surrogato laico della precedente fede religiosa, gli uomini moderni hanno incominciato a coltivare aspettative sempre più grandi: di poter sconfiggere la carestia e le malattie, di poter scongiurare le guerre, di abbattere la povertà e, da ultimo, di instaurare un ordine sociale equo e tale da non lasciare indietro nessuno, nemmeno i più sfortunati. Essi sono passati, così, da un impegno legittimo per rendere migliori le condizioni della loro vita, ad una crescente assuefazione nei confronti di dosi sempre maggiori di aspettativa: fino al delirio attuale, in cui sono arrivati a sognare la sconfitta materiale della morte e l’immortalità della vita terrena (come in certe pratiche magiche dell’antico taoismo: ma, questa volta, affidandosi alle tecniche medico-scientifiche).
Sta di fatto che, mano a mano che l’uomo moderno ha acquisito speranza nei confronti della vita terrena, è cresciuta in lui, fino ad assumere proporzioni incontrollabili, la paura della morte; e, di conseguenza, egli ha proiettato i suoi fantasmi di morte in un immaginario collettivo che la letteratura e i mass media non hanno esitato a sfruttare, fiutando in essi l’occasione per realizzare lauti profitti. Eserciti di vampiri, di lupi mannari, di mostri, di fantasmi, di "zombie" e di demoni si sono rovesciati da ogni parte, perfino nei cartoni animati televisivi e nei giochi elettronici dei bambini: e vale la pena di fare una riflessione sul fatto che questa invasione è partita dalla letteratura dei Paesi protestanti, e non già di quelli cattolici.
Come! Ci hanno insegnato sempre, fin dall’infanzia, che la cultura cattolica è una cultura triste, repressiva, odiatrice della vita e nemica di ogni anelito di gioia e di libertà; e poi dobbiamo constatare con mano che non da essa, ma da quella delle società protestanti, e particolarmente da quelle anglosassoni, si sono spalancate le porte tenebrose dell’Inferno, per vomitare sulla nostra immaginazione ogni sorta d’incubi, e popolando i nostri sogni di altre visioni spaventose, di rinnovati terrori senza nome.
Ha scritto lo storico francese Michel Vovelle (nato nel 1933, vivente) nel suo ormai classico «La morte e l’Occidente» (titolo originale: «La mort et l’Occident de 1300 à nos jours», Paris, Editions Gallimard, 1983;edizione italiana abbreviata a cura di Giovanni Ferrara degli Uberti, Roma, Editori Laterza, 1986, pp. 684-686):
«Siamo tutti figli di Hiroshima. Più che con il peso del ricordo, la colpa collettiva ci perseguita con le minacce di cui è gravida, con l’avvenuta dimostrazione che lo sterminio globale dell’umanità rientra nel regno del possibile. In qual modo gli uomini convivono con questa spaventevole minaccia di un’apocalisse possibile? Piuttosto bene, è giocoforza dirlo. Il complesso di Hiroshima s’incontra nelle pagine dei dotti, ma poco o nulla nelle preoccupazioni di quello che viene chiamato l’uomo della strada. E tuttavia, da una decina d’anni a questa parte, la rivoluzione delle applicazioni industriali dell’energia nucleare, portando l’ombra di Hiroshima fin sull’uscio di casa, o facendola comunque entrare nel nostro campo visivo, sembra aver prodotto — per il tramite della presa di coscienza ecologica il miracolo di sensibilizzare al pericolo della morte collettiva una frangia d’opinione rimasta fino allora passiva. Tocchiamo qui le alte paure d’oggi, rivolte verso l’avvenire: la paura della morte della natura, la paura dell’esaurimento delle risorse naturali, la paura dell’inquinamento. Su un altro fronte, ci siamo già imbattuti nella paura dell’estinzione di una umanità occidentale esangue per aver rifiutato la vita ed essersi lasciata deperire per mancanza di fede e di figli. Siamo forse di nuovo in un’epoca di millenarismo, che giuoca con l’immagine delle apocalissi a venire? Quale è possibile ricostituirla — di gran lunga tropo sommariamente — la mitologia di contrabbando dell’immaginario collettivo diffusa dai media ci colpisce per un certo numero di tratti. Constatazione ingenua: se Dio è larghissimamente scomparso (sostituito talvolta da una remota struttura collegiale, gli anziani o gli immortali) il Diavolo si difende alquanto meglio, pronto com’è a inviare i suoi emissari sulla terra (l’entrata dell’inferno non è forse la porta accanto?). Anche la morte è in buona salute. Conformemente alla tradizione, i fumetti la evocano nella forma dello scheletro: una convenzione trasmessa dai secoli. Ma la morte stessa si ritira davanti al ritorno in forze dei morti, che proliferano nella produzione popolare odierna.
Il fantasma, l’apparizione, i "ghosts", eredità storiche, occupano incontestabilmente un posto maggiore nelle società anglosassoni uscite dalla Riforma che non nel mondo cattolico: estrema rivincita del rimosso storico… Questi spiriti possono assumere forme diverse, dall’apparizione più classica a quei morti-doppi che, di rado benevoli, più spesso sono animati da pensieri di vendetta. Si tratta in ogni caso di presenze inquietanti che s’insinuano nel mondo dei vivi, assumendovi talvolta un aspetto più aggressivo: l’apparizione coesiste con l’immagine dei "transi", dei morti-vivi che i fumetti raffigurano come larve in genere ripugnanti, talvolta lubriche… Si delinea tutta una gamma, che conduce alle creature leggendarie di quest’aldilà insieme antico e nuovo. Dracula è in buona salute, ma ha generato, soprattutto figlie. La femminilizzazione del vampiro, un tratto universale [ma qui, forse, Vovelle dimentica il prototipo veramente classico di questo sotto-genere: Carmilla, la protagonista dell’eccellente romanzo breve dello stesso titolo, di Joseph Sheridan Le Fanu, pubblicato nel 1872], conduce nella serie americana al personaggio etereo di Vampirella, ma nella produzione fumettistica italiana, in una chiave differente, a eroine avvenenti e sessualmente attivissime che si chiamano Zacula, Jora, Belzeba, Shatana o Lucifera… Eredità è anche la "legione dei mostri", in cui Frankenstein va a braccetto con Dracula o con il Lupo Mannaro. Ma la creatura di Mary Shelley ha anch’essa figliato, potrebbe dirsi, secondo due filoni: da un lato il tuffo nel futuro con i robot terrestri; dall’altro il ritorno alle origini sulle tracce di King Kong, poi di Godzilla. Con i mostri giapponesi che negli anni Settanta hanno invaso il mercato americano, l’escalation regressiva sfocia nella Preistoria.
Aprendoci il cammino in questa foresta d’immagini, c’imbattiamo infine nella morte senza veli, senza travestimenti espressione delle paure che abbiamo evocato più sopra. In quest’arte d’evasione, la dimensione quotidiana della morte — ne stupiremo? — non ‘incontra tal quale: il cancro vi è ignorato… Ma da quest’immagine rifratta e fortemente deformata emergono alcuni "leitmotiv", che non ci sono ignoti. Troviamo lo spettro del potere medico (si veda il film "Coma profondo). Per il tramite di queste fabulazioni apparentemente gratuite, si regolano i conti con la famiglia, schiacciante e oppressiva in tutta la serie delle storie di fantasmi, di morti-dopi e di apparizioni; e lo status della donna — dalla vergine vittima al ritorno contemporaneo della sposa dominatrice — è più ambiguo che mai.
Non ci si accontenta di lavare i propri panni sporchi in famiglia. La specifica vocazione di questa letteratura e di quest’arte è di raccogliere — per esorcizzarli — i terrori della morte collettiva. Il tema del panico nella città o dell’apocalisse collettiva si affaccia con troppa insistenza per non essere significativo Che forma avrà la morte collettiva? Può esser il ritorno della peste o una nuova epidemia. Romanzi e film recenti hanno giocato con questo tema, cui possiamo associare quello della guerra batteriologica.»
Perché, dunque, l’invasione dei mostri portatori di morte e terrore è venuta dalla cultura dei Paesi protestanti, particolarmente anglo-sassoni? Certo, possiamo metterla in relazione con l’avvento della Rivoluzione industriale: i mostri, come quello creato dal dottor Frankenstein, fanno la loro irruzione contemporaneamente alle fabbriche mostruose, ai telai meccanici che rubano il lavoro agli operai, ai patiboli che vengono innalzati per punire in maniera esemplare i luddisti: e infatti poeti come William Blake stigmatizzano immediatamente quei «tenebrosi mulini satanici». Ma si tratta solamente di questo? Noi crediamo di no; siamo convinti, anzi, che la causa principale sia da ricercare proprio nella psicologia del protestantesimo, una maniera d’interpretare il messaggio cristiano che non ha nulla di rasserenante e che non presenta all’uomo la bontà infinita e la misericordia del Padre Eterno, ma che gira e rigira il coltello nella piaga del senso del peccato, terrorizzando l’uomo col pensiero delle pene infernali cui è destinato, se non verrà Dio a salvarlo…
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