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Pasolini difendeva il latino per le ragioni sbagliate

Il 31 dicembre 1962 nasceva la nuova Scuola media unica, la quale, fra le altre cose, avviava lo smantellamento dell’insegnamento del latino: conservandone i rudimenti, ma a un livello ridicolo, e solo ancora per pochi anni, nel programma del primo anno, e lasciandolo alla scelta facoltativa dello studente e della sua famiglia, per il secondo e il terzo anno (al pari con l’educazione musicale e l’educazione tecnica).

Era l’inizio della fine del nostro sistema scolastico, sebbene la riforma venisse presentata con il debito accompagnamento di pifferi e tamburi da parte dei nascenti governi di centro-sinistra: inizio, anche, di quella sudditanza culturale dei cattolici verso il marxismo, che sarebbe durata fino alla consunzione del marxismo stesso, vale a dire fino alla fine degli anni Ottanta del Novecento, e perfino oltre, come ben sa chiunque conosca un poco da vicino la "forma mentis" degli intellettuali cattolici che si autodefiniscono "progressisti" (cardinali e vescovi compresi).

Se l’insegnamento della lingua latina — che, negli stessi anni, veniva espunta dalla liturgia cattolica ad opera non già del Vaticano II (nessun documento conciliare ha mai decretato una cosa del genere), ma della forzata e settaria interpretazione che ne venne data, appunto, dai teologi e dai padri "progressisti" — sia stato un bene oppure no, lasciamo giudicare a quanti ancora s’interessano alla questione: pochi, in verità, crediamo, come sempre accade riguardo a problemi che, a torto o a ragione, sono considerati di pura "archeologia" e dunque irrilevanti per il nostro presente (quasi che un presente degno di questo nome si potesse costruire ignorando la tradizione); sta di fatto che, allora, il dibattito intorno alla questione «latino sì, latino no», si accese immediatamente fra gli intellettuali e i sedicenti tali.

Una posizione anomala, in questo caso come in altri (ad esempio, circa gli scontri di Valle Giulia fra studenti e polizia) fu assunta da Pier Paolo Pasolini, il quale si gettò, con tutto il peso della sua scrittura graffiante e incisiva, a difesa del latino: suscitando, naturalmente, lo sdegno del coro dei soliti "progressisti" secondo copione; lo fece, tuttavia, per delle ragioni che, a noi, sembrano sbagliate, al giorno d’oggi, come lo erano allora: crediamo, pertanto, che valga la pena di andarsi a rileggere le argomentazioni dello scrittore friulano.

Scriveva, dunque, Pasolini, dalle colonne della rivista «Vie nuove» – legata, si badi, al Partito comunista italiano: quello stesso che lo aveva espulso, per "indegnità morale", fin dal 1949 — il 27 settembre 1962, rispondendo a un lettore torinese che aveva sollecitato il suo "autorevole parere" in merito alla "vexata quaestio":

«Pur con molte incertezze, se io dovessi dare il mio voto sull’insegnamento del latino nelle medie, sarei per il sì.

Sarei per il sì, ma evidentemente, in previsione di una riforma radicale della scuola. Perché, stando così le cose, il latino che si insegna a scuola è un’offesa alla tradizione. È il latino del perbenismo piccolo-borghese, accademico: criminale, insomma.

Sotto tutta la televisione, atrocemente aleggiante, c’è, questo latino: piccolo, miserabile privilegio di cultura.

Ma la colpa non è del latino. La colpa è della storia, che si insegna nelle scuole, o della letteratura,, che si insegna nelle scuole, o della scienza, che si insegna nelle scuole.

La nostra è una repubblica piccolo-borghese, la cui classe dirigente è in realtà, rispetto alla tradizione, a parole venerante, nei fatti sacrilega.

Guardi cos’ha fatto di Roma la speculazione edilizia, ossia la classe dirigente che sa il latino e che esalta il passato (un nobile romano recentemente ha dichiarato: io non leggo gli autori moderni, io leggo Dante!). E guardi cosa sta facendo nel Nord Italia il neo-capitalismo: una modernizzazione che rende irriconoscibili e mostruose le forme classiche di vita, senza dare nulla di nuovo al posto di queste se non il benessere economico e la cultura di massa!

Ora io sento un profondo senso d’ira contro l’azione sacrilega, nei confronti del passato, cioè della nostra storia, della classe dirigente tradizionalista e cinica. Difenderei il latino, con ira, contro la sua difesa bugiarda. Dobbiamo conoscere e amare il nostro passato, contro la ferocia speculativa del nuovo capitalismo, che non ama nulla, non rispetta nulla, non conosce nulla.

Il povero latino delle medie è un primo, minimo mezzo di conoscenza di quella nostra storia che la ferocia capitalista cerca di mistificare, facendola sua. È perciò, secondo me, un errore voler abolire l’insegnamento del latino: un errore come ogni tattica. Lo scacchiere della lotta è immenso e complesso: il latino è solo apparentemente un’arma del nemico…»

Pasolini, dunque, difende l’insegnamento del latino nella scuola media perché ritiene che si debba amare e conoscere il proprio passato: cosa che il neo-capitalismo della classe piccolo-borghese predica, ma non fa; al contrario, esso calpesta in modo selvaggio la tradizione e innalza nuove cattedrali pagane al culto del consumismo, della speculazione edilizia, dell’arrembaggio ai beni culturali e paesaggistici, che sono patrimonio dell’intera comunità.

Lo fa con toni enfatici e risentiti, che ricordano gli "astratti furori" del Gran Lombardo nella «Conversazione in Sicilia» di Elio Vittorini: dice di provare un senso d’ira contro l’azione sacrilega della classe dirigente, che smantella il nostro passato; vuol difendere il latino con ira (lo ripete) contro la ferocia speculativa del "nemico" di classe; ma pare che egli stia parlando quasi di un’altra umanità, per la quale è necessaria un’altra antropologia, se pure di uomini si tratta (e di nuovo ritorna l’implicito accostamento con il Vittorini di «Uomini e no»; Vittorini, si badi, ex fascista di sinistra, passato anch’egli nelle file del Partito comunista italiano), secondo il quale i "fascisti" non erano neppure esseri umani.

Poi se la piglia con il latino così come viene attualmente insegnato nella scuola media, per la quale auspica una riforma radicale: sostiene che è il latino del perbenismo piccolo borghese e lo qualifica, niente di meno (ma, allora, siffatto linguaggio era perfettamente "normale", presso gli intellettuali di sinistra) di "criminale". Pasolini odia quel latino per le stesse ragioni per le quali odia la classe che lo trasmette: perché lo vede come un segno di privilegio piccolo-borghese. Poveri piccoli-borghesi, quanto disprezzo e odio sono stati riversati su di essi, in quegli anni, in quantità industriali: non erano gli artefici principali della rinascita, economica e sociale, dell’Italia; no, erano i "criminali" speculatori, i "neofascisti" eternamente risorgenti delle fogne della storia. Mai del tutto vinti, e contro i quali — pertanto- era sempre necessaria una pronta e dura mobilitazione delle masse lavoratrici.

Ma l’ideologia di Pasolini non è marxista, è anarcoide: un misto di cattolicesimo di sinistra e di socialismo romantico, il tutto condito con dosi abbondanti di nostalgie pre-moderne. Non odia la borghesia perché rappresenta lo sfruttamento di classe, ma perché incarna la modernizzazione del Paese (anche se ciò è storicamente inesatto o, quanto meno, discutibile: con altrettanta ragione si può vedere in essa, e specialmente nella piccola borghesia da lui particolarmente detestata, la più strenua difesa dei morenti valori pre-moderni). Dunque, egli non odia la borghesia per le ragioni per cui la odiano i "veri" marxisti, cioè perché è divenuta, da forza di progresso, com’era in origine (al tempo del feudalesimo) una forza parassitaria; ma perché egli si mette idealmente dalla parte non già degli operai, bensì dei sotto-proletari, dei marginali, dei piccoli delinquenti di borgata. Gli sembra che siano ormai solo costoro a rappresentare la parte sana della società: tutto il resto è marciume, o in via di marcescenza. Anche gli operai e i figli degli operai, i quali cercano affannosamente di somigliare ai figli dei padroni, sono moralmente e spiritualmente marci: per questo li detesta, li sbeffeggia, li disprezza; per questo sta dalla parte dei poliziotti, che sono figli di proletari o di sotto-proletari, e contro gli studenti universitari, che sono figli di papà, vale a dire, piccoli borghesi insulsi e arroganti. Pasolini non è un pensatore politico, è un moralista cattolico alla Savonarola: ama e odia, ma soprattutto odia, con la pancia, e non con la testa.

La difesa del latino, dunque, per Pasolini, è la difesa della tradizione, della civiltà, della parte sana della società italiana, contro la barbarie capitalista, contro l’infinita e grossolana ignoranza borghese, contro l’ipocrisia e il cinismo della classe dirigente. Strano che non si sia accorto che la classe dirigente non era piccolo-borghese, ma alto-borghese; strano che non abbia visto come la piccola borghesia lottava appunto per difendere quel poco che restava della tradizione e della "civiltà", quei valori pre-moderni a lui tanto cari e così intensamente rimpianti. Chissà cosa direbbe oggi, che la piccola borghesia è stata letteralmente distrutta dalla globalizzazione e dalla crisi: esulterebbe, oppure farebbe un "mea culpa"?

Ora, Pasolini era considerato, e in parte era, in quegli anni e in quel (delirante) contesto culturale, un intellettuale "scomodo", appunto perché controcorrente; le sue posizioni, sovente "eretiche" rispetto alla Vulgata marxista, suscitavano reazioni indignate proprio nella sinistra in cui egli stesso militava: da questo si può facilmente dedurre quale fosse il grado di effettiva libertà e consapevolezza in cui si svolgeva il teatrino della vita culturale italiana negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta del secolo scorso. Chi osava affermare che, dopotutto, forse i sacri testi di Marx, Lenin e Stalin non andavano presi sempre e solo alla lettera, ma con un minio di flessibilità, era già in odore di eresia: posizione, peraltro, non priva di un certo qual grado di comodità o, perlomeno, di visibilità: perché, in un mondo di pigmei, un uomo semplicemente piccolino, appare come se fosse un gigante.

Codesti eretici, infatti, potevano godere di un certo quale rispetto da parte dei "compagni", o, quanto meno, venire ascoltati e presi sul serio, proprio perché venivano, comunque, dalla chiesa marxista, santa e infallibile, e destinata a sicura e imminente vittoria sulle forze oscure della reazione; rispetto e ascolto che non avrebbero mai avuto, se avessero preso le mosse da posizioni non marxiste (equivalenti, tutte, in grado maggiore o minore, al "fascismo", categoria astratta, ma efficacissima, del male universale); però potevano pescare simpatie anche fra i dissidenti, fra gli irregolari, fra i cani sciolti, fra gli "anticonformisti" (termine col quale era possibile designare tutti coloro i quali erano disposti a scostarsi di qualche millimetro dall’ortodossia marxista-leninista). Insomma, potevano giocare sia in casa che in trasferta, contemporaneamente; potevano fare sia da maggioranza, sia da opposizione; in tutti i casi, erano pur sempre sicuri di trovarsi dalla parte "giusta" della barricata.

E ora torniamo alla questione del latino. La riforma scolastica del 1963 voleva realizzare un tipico obiettivo politico del centro-sinistra: instaurare un egualitarismo culturale al livello della scuola media; in questa prospettiva, l’insegnamento del latino doveva necessariamente venire sacrificato, perché rappresentava l’emblema più vistoso delle differenze di classe. Che se ne faceva del latino, un ragazzino destinato alle scuole professionali, o, addirittura, all’ingresso nel mondo del lavoro? Il latino era un lusso per i figli della borghesia: uno sfizio che avrebbero potuto togliersi benissimo più tardi, iscrivendosi al liceo classico (o scientifico). Ma, per intanto, i ragazzini dovevano essere — o, piuttosto, sentirsi – tutti uguali: non importa se a scapito della conoscenza di quella lingua, da cui l’italiano stesso è derivato, e senza la quale, l’italiano stesso diventa incomprensibile, perché straniero a se stesso.

Pasolini, però, non apprezza i nobili intenti egualitari della riforma scolastica: sospetta ovunque la malafede – perché cos’altro ci si può aspettare, se non falsità e ipocrisia, da parte della marcia e decadente classe borghese? — e, pertanto, respinge con ira l’idea di espungere il latino dalla scuola media: per lui, non si tratta che dell’ennesima prova di quanto la borghesia disprezzi il passato, le tradizioni, la cultura, tutte cose di cui i proletari, invece, sono naturalmente assetati. Insomma, per lui le classi più umili, e specialmente i ragazzi di borgata, occupano la stessa funzione ideologica che ha il "popolo" nell’ideologia egualitaria di Rousseau, e specialmente nel mito del "buon selvaggio". S’immagina, pertanto — in linea con don Lorenzo Milani, suo fratello spirituale — che i figli dei poveri, dei proletari, meglio di tutto se di estrazione contadina piuttosto che operaia, siano desiderosissimi d’imparare tutto ciò che riguarda la nostra tradizione culturale, a cominciare dal latino, e di tradurre Cesare, Virgilio e Cicerone; mentre i figli di avvocati, medici e industriali non ne hanno voglia, perché sono pigri e viziosi, come i loro genitori. Ma è un argomento serio, questo?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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