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28 Luglio 2015
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28 Luglio 2015Che il male eserciti un suo fascino particolare, perverso — appunto -, è cosa talmente nota, che non varrebbe, di per sé, la pena di tornarvi sopra. Tutti sanno che i grandi criminali attirano una segreta, e a volte nemmeno tanto segreta, ammirazione, da parte delle folle; e anche molti piccoli criminali riscuotono una certa popolarità, purché la loro trasgressione abbia impersonato il desiderio di rivolta di tanti altri piccoli uomini e piccole donne, abbastanza rancorosi da condividere un odio patologico verso la società, ma non abbastanza coraggiosi da tradurre quell’odio in azioni concrete. È noto, ad esempio, che quei ragazzi che sterminano i genitori e i fratelli, ricevano poi, in carcere, migliaia di lettere indirizzate da ammiratori e ammiratrici, con numerose proposte di fidanzamento e sperticate parole di ammirazione e di lode per ciò che hanno fatto. Ed è altrettanto noto che le donne, in modo particolare, subiscono in pieno il fascino del bandito, dell’avventuriero, del filibustiere, sia questi tale in senso proprio, che figurato: dietro ad ogni piccolo o grande delinquente, c’è l’amore di almeno una donna, più spesso di parecchie donne: dal passatore di campagna al dittatore paranoico e genocida, l’elenco delle amanti e delle aspiranti mogli sarebbe lunghissimo, se qualcuno avesse il tempo e la voglia di redigerlo. Perché ciò avvenga, è cosa che, in questa sede, non intendiamo approfondire: tanto più che qualsiasi tentativo di spiegazione, a nostro avviso, non potrebbe limitarsi alla sfera della psicologia o della sociologia, ma dovrebbe, necessariamente, estendersi all’ambito dell’antropologia filosofica.
Qui, per ora, desideriamo approfondire un aspetto più particolare del problema: vale a dire non la semplice ammirazione per colui (o colei) che compie il male, segreta o palese, individuale o collettiva; ma il compiacimento per tale ammirazione, spinto fino al disprezzo del bene, fino alla negazione del male in se stesso, o — il che è lo stesso — della distinzione fra il bene e il male; e, infine, spinto anche oltre il relativismo etico, ossia fino al capovolgimento, puro e semplice, dei valori morali, ponendo il male al posto del bene, e viceversa. Nemmeno Machiavelli, il principe dei cattivi maestri, era arrivato a tanto: perfino lui non aveva preteso di sovvertire i valori, ma solo affermare che, «se necessitato», l’uomo (il principe, l’uomo politico) deve saper entrare anche nel male, per usare la sua espressione. Forse, nemmeno Nietzsche: la sua "trasmutazione" di tutti i valori era più una posa, una ostentazione, che un atteggiamento reale e intenzionale; e, soprattutto, era motivata più dallo sdegno per l’ipocrisia e per il conformismo imperanti, che non da una volontà realmente malvagia, lontanissima da lui e dai suoi atti (le fruttivendole e le vecchiette di Torino lo chiamavano "il santo" per la sua aria ascetica e i suoi modi gentili).
Oggi, invece, non un singolo pensatore, non un singolo intellettuale, né singole persone, ma l’insieme della nostra cultura, sembra essere giunta a una sorta di capovolgimento compiaciuto dei valori: un capovolgimento che consiste nel proclamare ammirazione per il male e disprezzo per il bene, e che, anche se — generalmente — si limita alla sfera delle parole, delle vanterie, delle pose esteriori, nondimeno trasmette al pubblico, e specialmente ai bambini e ai giovani, un messaggio morale disastroso, gravido di conseguenze d’incalcolabile gravità e distruttività. Si tratta di capire come e perché si sia giunti a questo punto e quali possano essere le vie d’uscita, concrete e praticabili, da una situazione di tal fatta.
Ma, prima, prendiamo in esame un esempio tipico, paradigmatico, di quel che stiamo dicendo: il "caso Franti", vale a dire il caso dell’indiscusso eroe negativo del libro «Cuore» di Edmondo De Amicis. Osservava, in proposito, il giornalista e scrittore Cesare Marchi, in uno dei suoi libri di maggior successo, «Non siamo più povera gente» (Milano, Rizzoli, 1989, pp. 188-9):
«Quando nel 1984 la televisione mise in onda "Cuore", fu bandito, in collaborazione con il ministero della Pubblica Istruzione, un concorso fra gli alunni delle elementari e delle medie per conoscere la loro opinione su quel grande melodramma pedagogico, che è il capolavoro di Edmondo De Amicis. Risultato: il personaggio che ha maggiormente interessato la curiosità dei ragazzini è stato Franti, il "cattivo", questo Gei Ar in calzoncini corti. A differenza dei coetanei delle passate generazioni, gli odierni coetanei di Franti lo giustificano e si schierano contro De Amicis, che invece lo condanna senza appello. Franti è una canaglia, che si fa cacciar da scuola, la madre lo riconduce in classe supplicando il direttore di aver pazienza e il direttore, toccato dalle parole della povera donna, pallida e malaticcia, riammette in classe il ribaldo, mentre l’altra piangendo e tossendo se ne va. Ed ecco la fine dell’episodio: "Il direttore guardò fisso Franti, in mezzo al silenzio della classe, e gli disse, con accento da far tremare: Franti, tu uccidi tua madre! Tutti si voltarono a guardare Franti, e quell’infame sorrise." Questa frase ha una forza icastica che lascia il segno, come "La sventurata rispose" nei "Promessi sposi", riferita ala monaca di Monza, sedotta dal turpe Egidio.
Ora ai nostri ragazzini piace Franti. Sono diventati dei piccoli mostri anche loro? Non credo. Piace Franti perché il suo, sebbene cinico, è l’unico sorriso che compare nel "Cuore". Da questo libro il riso è bandito, una cappa di piagnucolosa tetraggine incombe sulle sue pagine, irte di punti esclamativi, mesti cipressi della punteggiatura. L’anno scolastico comincia male, il maestro perde la madre, lo scolaro Robetti finisce sotto l’omnibus. Il direttore "nessuno l’ha visto più ridere dopo che gli è morto il figliolo, volontario nell’esercito". Enrico, l’autore del diario, un giorno resta a casa, indisposto, e dove lo porta la madre per distrarlo? All’istituto dei rachitici. Nel "Cuore" s’ode un colpo di tosse a ogni voltar di pagina. C’è un ammaestra che tossisce sempre, ma va a scuola egualmente, altrimenti perde lo stipendio. Ogni tanto ci scappa il morto, e Garrone, il buono per definizione, si offre come necroforo. Non si ride mai, perché il riso è il principio del dubbio, dello scetticismo. E la pedagogia di De Amicis poggia su granitiche certezze.
Per "fare gli italiani" egli distribuì regionalmente le virtù: sardo è il tamburino ferito a Custoza; fiorentino il piccolo scrivano che aiuta di notte il padre nel lavoro di copista; padovano il piccolo patriota affamato che, ricevuti sul bastimento dei soldi da alcuni stranieri impietositi, glieli getta in faccia appena sente sparlare dell’Italia; lombarda la vedetta che sale sull’albero durante la guerra del 1859; romagnolo il sangue del giovane che salva la nonna, mettendosi tra lei e il coltello dell’assassino. Compiuto l’equo dosaggio delle virtù nostrane, De Amicis tenta di affratellare Nord e Sud, incaricando Derossi, il primo della classe, di abbracciare a nome di tutti il compagno venuto dalla Calabria, sperando così di risolvere quel problema che, cent’anni dopo, non risolverà nemmeno la Cassa del Mezzogiorno.
I nostri ragazzi, smaliziati dall’ironia dei fumetti, stentano a capire i candori e i languori di "Cuore", specchio d’una società che non esiste più. Non esistono più i mestieri del fabbro ferraio, dello spazzacamino; il quaderno di calligrafia è stato sostituito dal computer. L’astuto Garoffi che si scrive la lezione sulle unghie è scavalcato dalla tecnologia avanzata degli odierni candidati, che agli esami si fanno trasmettere il compito via transistor. E il tamburino sardo, probabilmente, sarebbe un obiettore di coscienza.»
Ebbene, proprio questa pagina di Cesare Marchi ci dà un utile indizio per trovare delle risposte alle domande che ci eravamo posti circa l’origine del capovolgimento dei valori e del compiacimento verso il male che pervadono la nostra cultura e che sempre più caratterizzano l’atteggiamento dell’uomo medio, vale a dire dell’uomo-massa. Quella che noi chiamiamo "la cultura" di una data società, è, sostanzialmente — oggi almeno — il prodotto dell’azione convergente di un certo numero d’intellettuali, i quali, pur non essendo la maggioranza, riescono, nondimeno, ad esercitare un influsso determinante sugli orientamenti del sentire e sulla stessa morale della cosiddetta opinione pubblica, vale a dire del gregge che non pensa, ma "reagisce" a degli stimoli opportunamente dosati e somministrati dagli organi d’informazione, dai libri, dalla scuola e dall’università. Questi intellettuali sono in grado di esercitare un influsso così grande perché, invece di svolgere una funzione critica, di filtro, tra la realtà e il pubblico, si mettono, puramente e semplicemente, al servizio del potere di turno — economico, politico, sociale -, in cambio di favori, rendite, privilegi di vario genere, o anche perché vengono lusingati nella loro vanità e riescono, in tal modo, a sentirsi qualcuno, pur non brillando né per cultura, né per intelligenza, né per originalità, né — meno ancora — per coerenza e dirittura morale. In breve, sono dei mercenari: ma dei mercenari che si mettono in perfetta sintonia con la pubblicità consumista, con i giornali e le riviste a grande tiratura, con la televisione; in breve, abdicano alla loro funzione socialmente utile (posto che ne abbiamo mai avuta una) e si rendono facili strumenti dell’imbarbarimento progressivo della società, avvalorando, con il "peso" (si fa per dire) e con l’autorevolezza (ipotetica) della loro firma, tuta una serie di mode, di tendenze, di atteggiamenti, i quali, guarda caso, contribuiscono a rendere la massa dei cittadini-contribuenti-consumatori sempre più prona ai voleri dei poteri occulti, finanziari e politici, e sempre più convinta, nello stesso tempo, di essere quanto mai libera ed emancipata: libera ed emancipata in una misura sconosciuta a qualunque epoca del passato.
Insomma, questi pseudo-intellettuali si comportano come un maestro, o un professore, i quali, per farsi una facile popolarità tra gli alunni, cominciassero a ostentare disprezzo per la scuola, per i libri, per i loro colleghi scrupolosi, per il direttore o per il preside, per le famiglie dei bambini o dei ragazzi; che si mettessero a sghignazzare, con aria complice, da amiconi, davanti alle furberie dei propri alunni, a scusare e giustificare le assenze "strategiche", fatte per sottrarsi alle verifiche; a incoraggiare e a fomentare il dileggio verso il sapere, verso le istituzioni, verso i valori dei padri: e tutto questo in cambio della misera soddisfazione di sentirsi ammirati senza alcuna fatica. Dopo qualche mese o qualche anno di siffatto "insegnamento", gli alunni di quelle classi avranno maturato un totale disordine intellettuale e morale; non sapranno più riconoscere il giusto dall’ingiusto; non capiranno nemmeno chi è loro veramente amico e chi nemico, perché scambieranno per amico qualunque adulto venga incontro, e magari solleciti, i loro più bassi istinti, e prenderanno, viceversa, per nemico chiunque tenti di far leva sul loro senso di responsabilità, sul loro desiderio di apprendere, sul loro rispetto verso uomini e cose, a cominciare dai propri genitori. Ebbene: questo è precisamente ciò che è successo, e sta continuando ad accadere, nella nostra bella Italia, nella nostra bella Europa, da alcuni decenni a questa parte, in tutti gli ambiti della vita sciale: dalla cultura alla politica, dall’arte alla filosofia, dalla religione all’economia.
Gli intellettuali alla moda, questi lupi travestiti da agnelli, gli insegnanti demagoghi, i preti modernisti, i legislatori progressisti, i genitori permissivi e incoscienti: tutti costoro hanno contribuito a creare non solo la mancata distinzione, fra le giovani generazioni, del bene dal male, del lecito dall’illecito, del giusto dall’ingiusto, ma, addirittura, a promuovere l’ammirazione nei confronti del male e dei malvagi, e il dileggio, lo scherno, nei confronti del bene e dei buoni. Essere considerati "buoni" è divenuta una specie di condanna: chi ne è colpito, scade agli occhi dei suoi compagni, retrocede al livello minimo della stima e della credibilità. A tal punto sono venuti a mancare i buoni esempi e i buoni insegnamenti; a tal punto il pervertimento delle coscienze e delle intelligenze ha fatto progressi, non contrastato da alcuno, anzi, applaudito e corteggiato da molti, da troppi (come il solito Umberto Eco che intona l’elogio di Franti).
È così che vogliamo seguitare? Benissimo: ma non illudiamoci che la cosa sia innocente, che si tratti solo di parole, di sana ironia, di atteggiamenti scherzosi privi di reali conseguenze. Nossignori: questi sono i germi che stanno conducendo a morte la nostra società. La nostra società muore perché il bene ha smesso di essere attrattivo e il male è stato circondato di ammirazione scriteriata, irresponsabile, da chi avrebbe dovuto fare buona guardia, da chi avrebbe dovuto proteggere le pecore dai lupi famelici. Nessuno si illuda: una società, una cultura, che corteggiamo il male, sono destinate all’autodistruzione. È matematico; si tratta solo di vedere in quanto tempo il processo verrà condotto a compimento. Perciò, chi è in buona fede farebbe bene a svegliarsi, a riscuotersi, ad assumersi le proprie responsabilità, a fare anche "mea culpa": forse non è già troppo tardi. Forse…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels