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Nelle leggende e nei riti bretoni il retaggio di una Europa antichissima, nobile e fiera

Al mattino della prima domenica di luglio, moltissima gente accorre a Grado, una cittadina del Friuli che sorge su di una minuscola isola dell’Adriatico (e che ancora nel 1918 faceva parte dell’Impero austro-ungarico), per assistere a una cerimonia imponente e carica di suggestione e di sentimento religioso, il "Perdon de Brana". Tutte le barche dei pescatori della laguna si raccolgono in porto per condurre in processione, dall’antica Basilica di Sant’Eufemia alla vicina isola di Barbana – sede di un santuario mariano che, secondo la tradizione, risale al VI secolo -, la statua della Madonna degli Angeli, che una mareggiata avrebbe portato a riva, in circostanze miracolose, nell’anno 582, al tempo dei Longobardi e del patriarca Elia.

Si tratta di un importante evento religioso e, nello stesso tempo — come sovente accade — folkloristico, che risale assai indietro nel tempo: è nato, infatti, nel 1237, per ringraziare Maria Vergine, alla quale la popolazione di Grado aveva fatto un voto in occasione d’una epidemia di peste. Un evento che è, nel suo genere, tra i più notevoli del Friuli, ma anche dell’Italia e dell’intera Europa: cosa alquanto interessante, se ci si sposta dall’alto Adriatico fin quasi all’altra estremità del continente, nella penisola di Bretagna — l’antica Armorica dei Celti -, la penisola che si protende a nord-ovest della Francia, fra l’Oceano Atlantico e il Canale della Manica, ci si imbatte in una tradizione sostanzialmente simile, quella dei "pardons" (identico è anche il nome), pellegrinaggi annualmente organizzati in onore dei santi patroni, della Madonna — specialmente per la festa dell’Assunta, il 15 di agosto — e di Sant’Anna, la madre di Maria.

Può essere che si tratti d’una mera coincidenza, tanto più che il Perdon de Barbana sembra essere più antico (i "pardons" bretoni sembrano risalire a circa duecento anni dopo, nel XV secolo); così come può essere che sia una pura coincidenza — anche se non tutti ne sono persuasi — il fatto che Veneti si chiamassero sia gli abitanti dell’antico Nord-est d’Italia, sia i Galli stanziati sulla costa meridionale della Bretagna, nell’odierno Morbihan, ove costituivano una potenza marittima che venne affrontata e vinta da Cesare nella campagna terrestre e navale del 56 a. C. In ogni caso, è un fatto che l’Europa è ricchissima di antiche tradizioni religiose e profane, talvolta fuse insieme in maniera affascinante, le quali presentano sorprendenti analogie e che ci ricordano le radici comuni della nostra civiltà, che si è sviluppata poderosamente dopo l’avvento del Cristianesimo, ma che, ancor prima di esso, presentava un quadro sociale e culturale assai vario e complesso, suscettibile di grandi sviluppi, quando avesse trovato — come, appunto, trovò — un fattore spirituale capace di unificarlo e di convogliarne le energie verso degli obiettivi comuni.

Comunque, tornando ai "pardons" di Bretagna, vogliamo ricordare che i più famosi sono quello di Tréguier, dedicato a Saint Yves Hélory; quello di Auray, dedicato a Sant’Anna, e il "troménie" di Locronan, che si svolge nel mese di luglio, ad intervalli di dodici anni. I "troménies" sono dei pellegrinaggi-processioni che si svolgono, sempre in Bretagna, solitamente ogni sei anni e lungo una distanza di dodici chilometri e il termine significherebbe, in origine, "giro della montagna", ossia qualcosa di paragonabile ai pellegrinaggi buddisti intorno al Monte Kailash. Eppure ricordano anche le rogazioni e possiedono delle forme equivalenti in Belgio, in Germania e nelle Isole Britanniche; oltre, come si è visto, al nostro Perdon de Barbana, nella Laguna di Grado.

È stato scritto, a questo proposito (da: Valerio De Lorenzo e altri, «Bretagna», Bagno a Ripoli, Firenze, Edizioni Edarc, 1994, pp. 54-57:

«Si dice che i bretoni abbiano i piedi per terra e la testa tra le nuvole e questo perché sono notoriamente un popolo di poeti capaci di sognare e di vivere in un mondo che sembra sospeso tra la realtà e la fantasia. Per fortuna queste prerogative non sono andate sciupate ma si sono trasformate in materia letteraria di gran pregio, in cui splende per fama e qualità il ciclo dei romanzi della "Table Ronde" e di tutti i racconti fantastici che ne sono seguiti; e si ricordi che nel Medio Evo si riconosceva dignità di fonte di ispirazione letteraria soltanto all’eredità letteraria di Roma, alla tradizione francese e alla materia bretone. La complessa materia di Bretagna che tratta del "Roi Arthur(Re Artù) e dei cavalieri della Tavola Rotonda , fra i quali emerge per la forte personalità Lancelot du Lac. La ricerca del Santo Graal è la radice da cui partono queste storie: il Graal sarebbe la coppa in cui bevve Cristo durante l’ultima cena e che sarebbe stata portata dalla Palestina nella foresta di Brocéliande  con alcune gocce del divino sangue, da Giuseppe d’Arimatea, un discepolo di Cristo. Qui se ne perdono le tracce e nel Vi secolo Roi Arthur e i suoi guerrieri dal cuore puro ne intraprendono la ricerca; in quest’opera si distingue Perceval. A queste si intrecciano le storie di "Merlin l’enchanteur"e della fata Vivane che per trattenerlo a sé per l’eternità lo chiude in un cerchio magico, e quella del triste amore di Tristan e Iseult.

Un’altra storia importante è quella della città d’Ys, nascosta dalle acque del mare e di cui trattiene le chiavi il buon re Gradlon padre di Ahès o Dahut, l’ingenua principessa vittima del diavolo. […]

Lo spirito bretone è per sua natura, ancora oggi, rivolto al fantastico, al soprannaturale, al sogno,. ma basta vedere questo paese per comprendere il perché di tutto ciò. certi paesaggi, certi scorci inevitabilmente certe atmosfere che non possono non lasciare il segno.

Nella mitologia bretone si sono stratificate nei secoli le credenze delle varie epoche a partire da quelle preistoriche, poi galliche e celtiche, che daranno l’apporto più grande, a cui si sono aggiunte quelle cristiane e un tipico fervore cattolico che cercando di riportare il tutto a una razionalità di per sé irrazionale riesce a creare un raro miscuglio imprevedibile e meraviglioso tra il mondo magico e le credenze religiose comunemente accettate.

Basti pensare a come, in tutte queste leggende e storie che sono il grandissimo patrimonio della Bretagna, il mondo dei vivi interferisce con quello dei morti, con l’Altro Mondo oppure all’agire dei santi e lo stesso Gesù e la Madonna in queste storie.

Oppure ancora si pensi a come si è preteso di cristianizzare ciò che era pagano e misterioso. Le croci sui "menhir" ne sono un esempio, o la costruzione di cappelle sugli antichi tumuli sepolcrali, o al contrario l’inserimenti del mondo magico su strutture cristiane, basti pensare alle sirene  e agli altri esseri fantastici che si incontrano nelle strutture delle chiese, dei "calvaires", degli "ossuaires", la presenza ossessiva delle fiamme dell’inferno e soprattutto della morte, l’Ankou, che viene personificata sotto forma di scheletro a volte orrido, a volte beffardo, armato di falce o di freccia, inciso o scolpito sui frontoni delle chiese, degli "ossuaires" oppure sulle acquasantiere. L’Ankou è anche il protagonista più frequente delle storie e leggende bretoni. Si aggiunga anche tutto il mondo magico delle fate,delle streghe e dei "korrigans"i folletti dei boschi a volte buoni altre malefici. Senza dimenticare i "lavandières de la nuit"che non sarebbero altro che e anime dei dannati che sono condannati a lavare il sudario dei morti.

Anatole Le Braz con "La Légende de la Mort", ha creato la raccolta più completa di tutte queste leggende e favole dell’immaginario bretone.

Ma il mondo fantastico bretone non si ferma al surreale [sic] ma si allarga al campo religioso dando corpo alle immaginose imprese di tutta una serie di santi guerrieri e guaritori.  Fra questi primeggia Saint Yves, il più amato e conosciuto dei santi di Bretagna a cui sono dedicati innumerevoli chiese, cappelle, quadri, statue e altro.

Il folklore e la religiosità si intrecciano superbamente nei "Pardons", fastose processioni in cui viene mischiato il fervore cattolico al culto delle tradizioni e dei costumi, divenuto raro nel resto della Francia. Si chiamano così poiché i fedeli che vi partecipano chiedono il "pardon" per i loro peccati, sciogliere un voto o chiedere delle grazie. Si svolgono quasi sempre nel pomeriggio e la processione con ceri, stendardi, statuine di santi portati da giovani o da ragazze seguiti dai preti e da pellegrini che intonano cantici parte dalla parrocchia per arrivare fino a un "calvaire" o ad una cappella dedicata alla Madonna o a qualche santo. Qui il sacerdote tiene un sermone seguito da preghiere collettive e da una benedizione. Finisce così la parte religiosa e inizia quella profana con musiche e canti, mangiate e tornei di lotta. In queste occasioni si possono vedere gli splendidi costumi bretoni, specie quelli femminili che possono essere semplici vesti nere o bianche o con merletti e sete multicolori con i grembiuli d raso o di velluto ricamati e ornati di pizzi; quasi sempre impreziositi dall’uso delle caratteristiche "coiffes", le cuffie che hanno reso l’immagine della Bretagna nel mondo…»

I "pardon" della Bretagna, così carichi di significati religiosi e di valori comunitari, qualificano l’identità di quell’antico popolo, che è quasi la sentinella occidentale dell’Europa: il dipartimento più occidentale Penisola armoricana si chiama, infatti, Finistére (in lingua bretone: Penn ar Bed, vale a dire "punta del mondo" o, per deduzione, "fine del mondo"), proteso verso le acque aperte dell’Atlantico. In un certo senso, esso è il meno francese e il più europeo fra quanti vivono entro i confini politici, sostanzialmente artificiali, della Francia attuale (e non si dimentichi che la Francia moderna nasce da un duplice movimento strategico, che ha creato le basi della sua potenza successiva: uno verso Sud, inglobando la civilissima Occitania, al tempo della Crociata bandita da papa Innocenzo III contro i Catari, nel 1208; ed uno verso Nord-est, assorbendo la civilissima Borgogna, dopo la morte dell’avventuroso ma imprudente Carlo il Temerario, avvenuta nella battaglia di Nancy del 1477).

Questo è il punto. L’Europa è carica di tradizioni, sia religiose che civili, le quali risalgono indietro nei secoli e nei millenni: una cosa che non ha equivalenti in altre parti del mondo, ad esempio negli Stati Uniti d’America (che pur pretendono di farsi modello fondamentale per ogni altra società moderna, ma che non possiedono quasi tradizioni, nel senso proprio del termine); ma che, d’altra parte, si fonda sulla pluralità delle identità locali, sulle autonomie regionali, sul prezioso e specifico retaggio che ciascuna di queste piccole Europe – dal Friuli alla Bretagna, dalla Sicilia al Tirolo, dalla Catalogna ai Paesi Baschi – è capace di offrire al sentimento comune dell’appartenenza europea, della civiltà europea, dell’essere Europei.

Essere Europei, è un modi di vivere e di pensare, di sentire e di amare: non diciamo affatto che sia migliore di quello di altri popoli e di altre civiltà; diciamo solo che è diverso, e che è percepito, da quanti lo possiedono, come un valore fondamentale, irrinunciabile, fatto di consapevolezza della propria storia, della propria arte, della propria cultura. Se tutto questo è stato esagerato, in passato, fino a non vedere gli aspetti deprecabili della nostra civiltà e fino a disconoscere il valore e la dignità delle altre, oggi si sta cadendo, anzi, si è caduti, nella degenerazione opposta: nel disprezzo di sé, nel rifiuto di sé, nell’abiura o, peggio ancora, nell’ignoranza e nella più completa indifferenza riguardo ai valori che hanno fatto grande la storia d’Europa.

La prima cosa da fare, quindi, per coloro che amano l’Europa, è quella di tornare a conoscere e a riscoprire la bellezza, la vetustà, la sapienza, delle generazioni che ci hanno preceduti e che hanno costruito un immenso edificio, unico nella storia mondiale, per coesione, saldezza spirituale, capacità di armonizzare fede e scienza, sapere sacro e sapere profano – questo, almeno, è stata l’Europa, fino a quando non ha fatto la sua comparsa una tendenza nuova e disarmonica, di matrice illuminista, nemica della tradizione, dello spirito, del Cristianesimo, e convinta, a torto, che, con la sola ragione strumentale e calcolante, con la sola ricerca dell’utile individuale e del benessere materiale, si possa costruire un mondo migliore, più felice, più armonioso.

La civiltà antica è caduta sotto i colpi dei barbari; la civiltà europea odierna rischia di cadere, in primo luogo, sotto il peso della nostra ignoranza, della nostra indifferenza, della nostra ottusa impermeabilità ai valori che hanno ispirato San Benedetto e Tommaso d’Aquino, San Francesco e Dante, Giotto e Beato Angelico, Erasmo e Michelangelo, Cervantes e Bach. Nostro primo compito, dunque — nostro, di noi che l’amiamo come una madre generosa, e che le siamo grati per tutto quanto essa ci ha amorevolmente trasmesso — sarà quello di riscoprirne il vero volto, detergendolo dalla sporcizia che l’incuria e la stupidità hanno permesso si depositasse sopra.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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