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28 Luglio 2015Il carattere distintivo della donna moderna, ove per "moderna" si intende la donna che ha fatto propri i principi della vita e della società moderna, è l’edonismo che non si traduce in un aumento del benessere personale, e sia pure egoisticamente inteso, ma che, al contrario, si intreccia con un malessere profondo, irriducibile, producendo uno stato d’infelicità, abbattimento, disistima di sé, che sbocca in una vera e propria nevrosi permanente.
E, se il tratto dominante della modernità è riconducibile, in modo diretto o indiretto, alla cultura dei diritti, così come essa si viene incubando fra il XVII e il XVIII secolo, ossia fra il libertinismo e l’illuminismo, esplodendo poi nella Rivoluzione francese, allora il tratto distintivo della donna moderna è la sensibilità al proprio diritto a vivere per se stessa; ad essere "autentica", cioè staccata dalla maternità e dal matrimonio; a inseguire l’obiettivo della propria auto-realizzazione, intesa non in continuità con la tradizione e in armonia con gli altri, a cominciare dall’uomo, ma in antagonismo con essi, e in spregio alla consuetudine, al punto da identificare quest’ultima come l’emblema della schiavitù, e l’emancipazione da essa come il passo irrinunciabile sulla via del proprio "riscatto", non solamente sociale, ma anche morale ed umano.
In altre parole: in una cultura dei diritti a senso unico, quel che conta è essere sempre se stessi, non "divenire" se stessi: cioè non lavorare su se stessi per tenere a bada, canalizzare o sublimare le tendenze inferiori e per portare alla luce quelle superiori, realizzando infine ciò che si deve essere; ma godere della propria condizione attuale, quale che essa sia, assolutizzandola, sfruttandone tutte le pieghe, godendone tutte i piaceri e allontanandone tutti i fastidi, i sacrifici, i doveri. Ed è così che si misconosce la vera natura della persona umana: si nega in essa l’elemento etico, la spinta al superamento di se stessi e il bisogno della trascendenza, e ci si compiace del contingente, dell’effimero, dell’esistente.
Nel caso della donna, la cultura dei diritti ha prodotto un nuovo tipo umano, incurante della propria vocazione femminile in quanto tale: un essere androgino, privo di femminilità (a meno che si confonda la femminilità con l’esibizione esteriore, sovente volgare, dei caratteri sessuali femminili), duramente maschile nella ricerca testarda, brutale, meramente utilitaristica di una non meglio precisata "libertà", ma senza i valori positivi della virilità, quali la lealtà, la sincerità, il coraggio; un essere androgino e, nello stesso tempo, stranamente ipersessuato, esasperatamente egoico, nevroticamente competitivo, che vede una rivale da eliminare in qualsiasi donna e un nemico potenziale, ma anche un oggetto di piacere, da usare e gettare, in qualsiasi uomo; un essere androgino, infine, che si vergogna di contrarre qualsiasi legame, che vive come una prospettiva tragica la maternità e il matrimonio, che rifugge e aborrisce da qualsiasi cosa lo possa ancorare e stabilizzare, perché vede in ciò un pericoloso indizio di sottomissione e di schiavitù.
La società, per un siffatto tipo umano — e ciò vale anche per il corrispondente tipo maschile, l’edonista nevrotico — non può apparire che come il luogo del male; sulle tracce di Rousseau, e su quelle, più recenti, di Freud, di Pirandello, di Sartre, essa non viene vista che come un Moloch insaziabile, perennemente assetato di vittime umane: un mostro bramoso di divorare il singolo individuo, che non ha nulla di buono da offrire, né si capisce bene donde abbia tratto origine; in breve, come l’antagonista assoluto, con il quale bisogna ingaggiare una lotta senza quartiere, perché la sua vita sarebbe la nostra morte, e non si fanno prigionieri.
Ad accorgersi per tempo del nuovo tipo femminile prodotto dalla modernità, quando il fenomeno era ancora embrionale e non sempre facilmente riconoscibile nelle sue reali dimensioni, sono stati, come al solito, i poeti e gli scrittori, assai prima e assai meglio dei filosofi o degli psicologi: l’inglese Thomas Hardy (1840-1928) spicca fra essi come uno dei più perspicaci e penetranti, sia nei suoi romanzi, come il celebre «Tess dei d’Urbervilles», sia nei circa quaranta racconti ove, a giudizio di alcuni critici, si raccoglie e risplende la parte migliore, anche se non sempre la più conosciuta, della sua vasta produzione narrativa.
Così l’anglista Rosangela Barone nel suo studio: «I racconti di Thomas Hardy» (Bari, Dedalo Libri, 1980, pp. 83-95):
«Le figure femminili hardiane, per quanto eterogenee, presentano lineamenti e movimenti che non è difficile omologare e ridurre ad un denominatore comune. […] Le protagoniste dei racconti — giovani e meno giovani — sembrano tutte "a stenti liberate dalle bizzarre fantasie dell’adolescenza femminile". Prima e dopo aver trovato marito — e anche dopo averlo perso — tutte si rivelano cariche di una prepotente voglia di vivere, di realizzarsi a qualunque costo. Analfabete o comparativamente colte, addette ad umili lavori o figlie del bel mondo di provincia, cercano tutte un’alternativa alla noia, odiano il chiuso ambiente in cui sono costrette a vivere e cambiano umore repentinamente, reagendo con intensa carica emotiva alla realtà con cui vengono a contatto. Plasmate secondo "l’immagine della natura stessa", esse formano un "bouquet" di sensitive; si rivelano insoddisfatte di quanto posseggono e vogliono cambiare, fuggire "oltre la siepe", vivere l’amore, realizzarsi in piena libertà. Pur di raggiungere tale obiettivo, ricorrono a "rimedi disperati", non facendosi scrupolo di inventare scuse ed escogitare abili scappatoie con imbattibile rapidità. Romantiche e pratiche a un tempo, seguono un filo serpentino, intricato, imprevedibile e non esitano a realizzare il "coup d’audace" fatto di "determinazione basata sull’impulso". […] Le donne del Wessex sono il riflesso e la reazione alla disperata realtà in cui vivono: la ristretta mentalità della famiglia e del paese, la solitudine dell’ambiente naturale, la difficoltà — spesso impossibilità — di investire le proprie energie in attività produttive che ne garantiscano l’autonomia acuiscono il senso di oppressione di queste creature e le portano alla nevrosi, quella che Freud definisce "frustrazione della soddisfazione dei desideri libidinosi", la quale rende necessaria una qualche digressione. Lionel Johnson definisce le enigmatiche donne hardiane "donne dai nervi ipertesi, dalle menti iperflessibili: la loro alta e bassa marea mentale è regolata da quel potere — come è scritto nella storia di Barbara de’ Grebe — "che una donna ha di vedere il reale nella rappresentazione del reale, la realtà nel sogno — un potere…, che gli uomini non sono assolutamente i grado di uguagliare". Quelle di loro che intraprendono un’azione abbastanza in buona fede, sotto la spinta di un impulso altruistico, prima o poi arrivano a domandarsi "se è stato saggio dare alla propria vita l’indirizzo a suo tempo scelto". […] In alcuni casi lo stato depressivo causato dai bisogni affettivi e dal desiderio sessuale inappagato è tale da portare alla devastazione del sistema nervoso, come succede a Barbara [nel racconto "Barbara of the House of Grebve"]. […]
Quanto a Hardy anticipatore della sensibilità a noi contemporanea, le sue "short stories", come i romanzi, sono per gran parte ispirate al fascino del sesso, anche se trattano il rapporto di coppia in modo evasivo e con riferimenti ancor più fugaci che nei romanzi. […]
Per quanto fisiognomicamente affini alle fanciulle perseguitate dei romanzi sentimentali alla Richardson e dei romanzi gotici alla Walpole, le protagoniste delle disperate avventure hardiane, anche quando sedotte dal "padrone" — come la lattaia romantica Margery, la meno romantica Rhoda, la fiera Tess — non fanno ricorso ad altri per aver giustizia, ma lottano da sole e, comunque, conservano fino in propria la loro selvaggia fierezza. Nell’universo raccontato da Hardy la figura della "Vergine Rovinata" — è il titolo di una sua poesia — è una presenza parecchio ricorrente, sintomo eloquente della realtà ambientale con i suoi rapporti gerarchici di tipo feudale e con i suoi tabù. Eppure nessuna di loro si configura né come vittima inerme né come virtuosa perseguitata dal senso del peccato, ché Hardy è uno dei pochi artista a non essere "afflitto" dal problema della lotta del Bene e del Male. […] Nella quasi totalità dei racconti hardiani la donna occupa la posizione centrale e l’amore, il rapporto con l’altro sesso, costituisce la realtà determinante della "storia"(meno di un quinto dell’intera produzione narrativa breve di Hardy si occupa di temi diversi dall’amore).»
Ma è proprio vero che le donne hardiane sono animate da una prepotente voglia di vivere? Esse inseguono il fantasma dell’amore: un amore libero, assoluto, sciolto da qualunque vincolo esteriore, da qualsiasi pastoia sociale e convenzionale; e, pur di inseguire quel loro sogno, non esitano a consumarsi, a sfidare il mondo intero, a soffrire i più amari tormenti. Eppure non sono delle eroine senza macchia e senza paura, ma delle povere creature isteriche, profondamente nevrotizzate, che, in ultima analisi, non sanno neppure ciò che vogliono: infatti, l’amore assoluto che inseguono non è l’amore vero, che è sempre un atto concreto, diretto verso un oggetto preciso, ma una sorta di smania o delirio di onnipotenza, un fantasma ossessivo e ossessionante, una vera e propria forma di alienazione mentale, dalla quale si lasciano soggiogare e che le trascina verso un destino di solitudine, infelicità e angoscia, senza risarcirle in nulla, senza redimerle, senza insegnare alcunché, dal momento che non di vero amore si tratta, ma di una proiezione irrealistica, inconcludente, inverosimile, di ciò che esse scambiano per amore, ma che è soltanto lo specchio ed il riflesso del loro io ipertrofico. In ultima analisi, si tratta di creature disperate, alla lettera: che hanno perso la speranza, perché hanno perduto se stesse e la fede nella vita (anche se non lo sanno), a cominciare dalla loro dimensione materna; creature che corrono verso l’auto-distruzione, anime perse, che si sono lasciate possedere da forze diaboliche, anche se scambiate per impulsi generosi e per slanci affettivi carichi di romantica abnegazione. Inconsciamente, esse cercano l’espiazione, più che la redenzione: e la cercano facendosi del male, bruciando i ponti dietro di sé, gettandosi allo sbaraglio con folle avventatezza, senza valutare le conseguenze dei loro atti. Non sono più soggetti dotati di libero volere, ma creature di puro istinto, che cercano nella natura l’impossibile realizzazione di se stesse, avendo scordato l’antica verità che la natura non è buona in sé, ma che essa attende una grazia proveniente dall’alto per potersi trascendere, purificare, spiritualizzare.
Eppure, viste con sguardo distratto, codeste donne "moderne" paiono avere dei tratti spirituali: sembrano capaci di sentire in profondità, di prodigarsi, e, se necessario, di sacrificarsi per qualcosa di più grande di loro. In un certo senso, tutto questo è vero: ma ciò per cui si prodigano, ciò per cui sono pronte a sacrificarsi, non è qualche cosa che stia realmente al di sopra di loro, ma è il loro ego inferiore, il luogo dei loro istinti primordiali: esse si inginocchiano per servire la parte meno nobile di se stesse, anche se, in genere, sono così abili da auto-ingannarsi e da vedersi come le sacerdotesse disinteressate di una religione dell’amore puro e altruista. Lacerate da inconsci sensi di colpa, tormentate da spinte e tensioni opposte, protese a volere e respinte da ciò che vorrebbero, altro non sono che delle creature pietose, nel senso più immediato dell’espressione: suscitano pietà, ma non riescono a commuovere sino in fondo, perché è troppo evidente agli altri ciò che esse si sforzano di nascondere ai loro stessi occhi: che vogliono soffrire, perché non credono nella bontà della vita; e che non vogliono essere libere, perché non saprebbero che farsene della vera libertà, la quale presuppone, sempre e comunque, tanto la fede nella bontà della vita, quanto l’intenzionalità libera e responsabile dell’agire, compresa la realistica valutazione delle conseguenze.
Tess dei D’Urbervilles, così, è parente di Madame Bovary, di Anna Karenina, della Pisana di Ippolito Nievo: dalla letteratura inglese, a quella francese, a quella russa, a quella italiana — e l’elenco potrebbe continuare — si tratta sempre del medesimo tipo umano: della donna che non è più donna, perché ha smesso di credere nella vita. Non desidera più dei figli, perché non crede nella vita; e non desidera legarsi a nessuno, se non per una "libera" scelta — che poi è l’equivalente di nessuna scelta, perché la libertà assoluta non esiste, e la libertà negativa è il contrario della vera libertà. Non sa amare, perché non ha nulla da offrire, se non delle velleità indistinte, delle pretese cariche di angoscia. È una creatura disperata, che inconsciamente cerca la morte, perché solo in essa potrà avere la pace, uscendo dalle sue dolorose contraddizioni.
Vi è una tragica lezione, in ciò, se qualcuno si prende la briga di ascoltarla: la vita è degna di essere vissuta, se si crede nella sua bontà; ma, per questo, occorre tendere a divenire ciò che si deve essere.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels