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28 Luglio 2015Michel Onfray, il tipico intellettuale “libertario” che si è auto-investito Cavaliere del Nulla

Una volta i cavalieri della Tavola Rotonda andavano alla ricerca del Santo Graal: tutta la loro vita era votata al fine supremo di adempiere alla loro missione, di portare agli uomini i benefici ineffabili della più sacra fra le reliquie di Cristo.
Oggi, che viviamo in tempi tanto più civili e razionali, abbiamo i cavalieri del Nulla, che si sono auto-investiti ed auto-celebrati come tali, e che hanno fatto della loro vita una missione altrettanto piena di zelo e di entusiasmo: diffondere il relativismo assoluto, proclamare l’edonismo radicale, annunciare ai popoli tutti che è finalmente iniziata l’era della Libertà incondizionata, contro tutte le pastoie e le gerarchie, contro tutti i valori e le autorità .
Uno di questi è il francese Michel Onfray, del quale avevamo già avuto occasione di occuparci, accostandolo — per un certo verso, e cioè per l’odio virulento e viscerale contro il cristianesimo che accomuna questi due signori — al nostro "brillante" divulgatore della scienza materialista e positivista e del libero pensiero, Piergiorgio Odifreddi (cfr. l’articolo «È in atto una campagna anticristiana per sradicare ciò che resta del senso religioso», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 29/01/2014).
A dire il vero, si è sempre in dubbio se concedere troppo spazio a personaggi dalla caratura intellettuale e culturale così modesta, per non dire banale, perché questo potrebbe sembrare come un prenderli più sul serio di quanto non meritino; d’altra parte, poiché essi spadroneggiano sui media e nei salotti televisivi, e hanno acquistato una visibilità e una pseudo-autorevolezza addirittura mondiali, non è del tutto sbagliato, quando capita, ricordare al pubblico pensante — perché del grosso pubblico, che non pensa ma crede o finge di pensare, è meglio non occuparsi nemmeno — quanto siano vuoti e inconsistenti i loro discorsi e quanto usurpata la loro fama, spiegabile solo con l’estremo degrado del discorso filosofico oggi dominante, e con il conformismo intellettuale e il servilismo culturale ovunque diffusi a piene mani.
La società ha il diritto e il sacrosanto dovere di difendersi contro le forze che vorrebbero distruggerla: e codesti intellettuali senza radici, senza valori, senza serietà e senza pudore, rappresentano un vero e proprio pericolo per essa, dato che, gigioneggiando e assumendo pose accattivanti, riescono a sedurre molti, specialmente giovani, per non parlare — come è il caso di Onfray — quando arrivano a sedere in cattedra e, dall’alto di tanta solennità, distribuiscono a destra e a manca le loro perle di saggezza, che poi si possono ridurre al principio di fare ciascuno quel che vuole, infischiandosene di tutto e di tutti, e di schizzare quanto più veleno possibile sulla tradizione, sul senso dell’ordine, sull’onore, sul rispetto per chi ci ha preceduto, sulla fedeltà al proprio dovere, inteso non in senso edonistico, ma proprio come dovere di fare quello che è giusto fare, quello che contribuisce a promuovere la verità, la bontà e la bellezza, quello che incoraggia la vita, la custodia amorevole del passato, la serenità e la pace nel presente, la fiducia nel domani.
Onfray è, puramente e semplicemente, un cattivo maestro: come ce ne sono tanti, come ce ne sono troppi. Non ha nulla di speciale da dire, come filosofo non vale niente: il suo pensiero, se così vogliamo chiamarlo, è il solito minestrone indigeribile di nietzschianesimo e anarchismo, di psicanalisi freudiana (poi clamorosamente rinnegata) e di neo-marxismo libertario («decostruire Marx a sinistra», è uno dei suoi slogan): insomma aria fritta, un po’ di tutto e di niente, senza una prospettiva coerente e soprattutto costruttiva, senza un solo elemento che non abbia il sapore di una rivalsa, di una beffa, di una utopia da quattro soldi, di una odissea del rancore, che lui stesso chiama "collera" (già studente presso i salesiani dopo una infanzia difficile, Onfray ha maturato un odio patologico nei confronti del cristianesimo e della Chiesa cattolica).
Uno così, si ci potrebbe aspettare di udirlo, al massimo, mentre blatera e farnetica in luoghi come lo Speaker’s Corner, là dove si danno appuntamento intellettuali da strapazzo, macchiette del radicalismo militante e primedonne mancate del progressismo più becero e corrivo; invece lo si vede continuamente in televisione, compiaciuto di se stesso, brillante, ammiccante, dopo essere stato per molti anni insegnante statale; i suoi libri impazzano sul mercato, le sue interviste sono un evento mediatico: c’è da chiedersi, e con la massima serietà, quale apparato e quale disegno vi siano dietro di lui ed altri come lui, quale potenza nascosta e inconfessabile muova le sue pedine, per trasformare un signore così insignificante in un beniamino della cultura di massa.
Naturalmente, Onfray è l’araldo e il profeta di una non meglio specificata "rivolta dionisiaca" basata sulla naturalizzazione del principio di piacere (ed è questo, in fondo, l’unico prestito consistente da Nietzsche; il resto viene principalmente da W. Godwin, da Bakunin, da Camus e dagli esistenzialisti, oltre che dagli antichi filosofi cinici, da lui molto ammirati, e ai quali ha dedicato anche una monografia); e si batte, ovviamente, per l’eutanasia e il suicidio assistito e per ogni altra forma di libertà individuale, contro lo Stato e la Chiesa tirannici e oscurantisti. Un illuminista in ritardo, un sanculotto mancato (anche per ragioni economiche) e un "enragé" anticristiano fuori tempo massimo: tutto questo è Michel Onfray, che passa per una delle voci più originali della sinistra post-sessantottesca ed è, invece, la testimonianza eloquente del deserto intellettuale, culturale e spirituale che il ’68 ha prodotto dopo il "maggio gioioso".
Un ultimo elemento importante, che bene lo caratterizza, è la posa costante a intellettuale "contro", irriducibile, titanicamente proteso a mettere in fuga le forze della reazione, così come l’aspersorio dell’acqua benedetta mette in fuga legioni dei diavoli: siamo pur sempre nella Patria di Baudelaire, di Rimbaud e degli altri poeti maledetti; e questa, di posare ad "albatro" dalle grandi ali che, sulla terra ferma, non servono a niente, anzi, sono d’ostacolo, è una posa ormai addirittura scontata, ed estremamente stucchevole, di tutti coloro che, pur sfruttando una posizione di rendita nella detestata società borghese (e sia pure una rendita intellettuale: ma è forse cosa da poco?), si compiacciono di assumere la parte dei nuovi Robespierre, dei nuovi Marat e dei nuovi Babeuf, anche se dovrebbero pur sapere che i Robespierre, i Marat e i Babeuf, quelli veri, non se ne andavano in giro, ovunque applauditi e riveriti, ma rischiavano letteralmente la pelle (e infine la persero senz’altro) per fedeltà e coerenza con le loro idee, per sbagliate che fossero.
Sarebbe cosa assai noiosa, e sostanzialmente inutile, prendersi la briga di sfogliare i molti libri di Michel Onfray e di farne notare la genericità, la banalità, la superficialità, la ripetitività e l’assoluta mancanza di serietà. Nondimeno, affinché il lettore possa farsene una qualche idea, apriamo a caso uno di essi, uno qualsiasi, e leggiamo una paginetta della sua prosa (da: M. Onfray, «La politica del ribelle. Trattato di resistenza e d’insubordinazione»; titolo originale: «Politique du rebelle. Traité de résistance et d’insoumission», Éditions Grasset & Fasquelle, 1997; traduzione dal francese di Francesco Bruno, Milano, Ponte alle Grazie, 1998, pp. 103-105):
«… L’associazione della sinistra al demoniaco non ingiustificata, senza fondamento o parte di verità. In effetti, il demone, il diavolo, è colui che, nella logica cristiana ha preferito ribellarsi, disobbedire a Dio. Sottomettersi, non riflettere, accettare l’ordine e la legge definiti da Lui, ecco cosa fondava la legittimità angelica delle creature alate. In compenso, l’angelo decaduto, il diavolo, definisce chi ha scelto di esercitare la propria libertà, la propria autonomia, la propria indipendenza, e opta per il libero arbitrio contro la sottomissione agli imperativi divini. Principio libertario contro principio d’autorità, tutto è detto o quasi. La collera come modo dinamico, l’edonismo come contenuto, la volontà libertaria come mezzo, ecco cosa permette di stabilire fin d’ora una tipologia più precisa della sinistra di cui parlo
Che la sinistra sia parsa satanica, tanto agli occhi degli avversari — Joseph de Maistre vede la Rivoluzione francese come una creazione del diavolo — quanto ai propri, – quando si pone volontariamente sul lato sinistro dell’emiciclo il giorno del 1789 in cui, all’Assemblea nazionale, si deve scegliere o il re, di diritto divino, o il Parlamento, di diritto umano -, è del tutto normale. La sinistra dichiara allora il suo ancoraggio libertario radicale, dichiara di preferire il giudizio indipendente e l’azione autonoma all’obbedienza alle argomentazioni autoritarie. Si rammenti anche l’etimologia che associa Lucifero al portatore di luce e alla metafora demoltiplicata che culmina nella formulazione di un ideale detto dei Lumi.
D’altronde, satanica sn in fiondo, la sinistra si evolve all’interno degli inferni sociali, di quei mondi oscuri dove languono i dannati del corpo sociale: essa si dà pensiero di quell’universo dove le luci sono rare, se non assenti. Coloro per i quali essa formula un ideale sono gli esclusi, gli inermi, gli sfruttati, i miserabili, i poveri i dannati, gli schiavi, i dimenticati da una macchina che produce ricchezze e beni in quantità mostruosa spartiti fra pochi a detrimento di coloro che essa (sinistra) non dimentica e intende difendere. La collera che la anima assume come oggetto questa diseguale divisione dell’oro.
Alcuni che vorrebbero difendere la destra non estremistica, la quale spesso ha soltanto servi mascherati e vergognosi e pochi sostenitori a viso scoperto, negano questa esclusività della sollecitudine verso i dannati da parte della sola sinistra. Ora, per camuffare questa difesa della povertà, gli uomini e le donne di destra, evitando un cinismo verbale che potrebbe intralciare la pratica quotidiana di un cinismo reale, preferiscono parlare della necessaria disuguaglianza che genera emulazione, dell’utilità incontestabile delle disparità sociali nel rendere possibile la competizione senza la quale nessun progresso (di cui ovviamente si riservano l’usufrutto) è attuabile, dell’indispensabile ampiezza della scala dei salari al fine di stimolare l’attività lavorativa, dimenticando che alcuni, in gran numero, giacciono nel fango in cui sprofonda la loro scala, lontano, molto lontano anche dal solo primo gradino.
Collerica, edonistica, libertaria e satanica, la sinistra che formula rifiuta di mettere una croce sull’etica, cosa che taluni si sforzano di trovare assolutamente utopistica, e in questo hanno ragione, ma il loro torto consiste nel pensare che l’utopia designi una perversione, un vizio. Essa esprime una topografia inusitata: non mai in nessun luogo — che sarebbe atopico – , ma non ancora da qualche parte, non ancora incarnato, in atto, ma superbamente in potenza. Al potere, e non soltanto nell’opposizione, questa sinistra che amo preferisce autoaffondarsi o farsi anziché abiurare: quella di Jacques Roux l’Arrabbiato che si uccide per sfuggire alla ghigliottina, quella dei quarantottardi che si esiliano, dei Comunardi che accendono i focolai nei quali sanno di trovare morte certa, quella — anche — dei sessantottini che avranno rifiutato le prebende in un governo dopo il 1981 il cui motore è stato la perpetua esultanza nell’arte di praticare il rinnegamento.»
Fatta la tara alla retorica populista più estrema e al romanticismo politico più melodrammatico — manca solo che il povero Onfray chieda al pubblico un pugnale per sopprimesi e non dover assistere all’abiura della sinistra prezzolata e non dover sopravvivere in un mondo dominato dall’egoismo più mostruoso – non è che resti molto. Filosoficamente, è il nulla, zero virgola zero: si prenda, a titolo di esempio, l’assoluta "nonchalance" con cui Onfray mescola i concetti di "libertà", "autonomia" e "indipendenza", come se fossero sinonimi, o giù di lì. Non si prende mai il disturbo di argomentare, di approfondire, di distinguere, di sviscerare; ripete formule, slogan, frasi fatte, luoghi comuni: tutta roba che poteva andar bene per uno studentello del Quartiere Latino, munito di un megafono e di molta faccia tosta, nel maggio del 1968; ma discorsi imbarazzanti, penosi, grotteschi, da parte di un professore cinquantenne che s’impanca a nuovo oracolo della sinistra "pensante", dissenziente e disobbediente. La proposta, poi, è totalmente assente: testimoniare la coerenza di Jacques Roux, morire ma non arrendersi. Non è solo un programma da perdenti, che non sanno, né vogliano pensare seriamente all’arte di governare una società; è anche, e soprattutto, un programma da gente che non ha idee, che non sa pensare, che non s’interessa delle generazioni future — anche se dice, ripete e grida dai tetti di essere la sola a preoccuparsi dei "dannati".
Lo ripetiamo: la società ha il diritto, e anche il dovere, di difendersi da simili serpi velenose, da simili profeti del Nulla: ad esempio, spegnendo la televisione, se va in onda un’intervista di Onfray.
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