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Ma André Glucksmann è pensatore troppo piccolo per capire l’abissale profondità di Kierkegaard

Accade quando i nani pretendono di misurare i giganti: li misurano sul metro della loro statura; semplicemente, non li vedono: sarti troppo piccoli per prendere le misure di chi li sorpassa al punto da non lasciarsi scorgere da loro.

André Glucksmann, per esempio, nel suo libro «La terza morte di Dio», se la prende, fra gli altri, con Kierkegaard, che egli ritiene di aver trovato in contraddizione quanto al concetto del "timore e tremore" dell’uomo al cospetto di Dio, e che accusa, niente meno, di cadere nel ridicolo, allorché cerca di giustificare l’intenzione di Abramo di sacrificare il figlio Isacco.

Perché il lettore possa farsi un’idea personale, riportiamo il passaggio centrale del suo ragionamento (titolo originale, «La troisième mort de Dieu», Paris, Nil Éditions, 2000; traduzione dal francese di Elisabetta Sartori, Roma, Liberal Edizioni, 2004, pp. 314-318):

«Il cavaliere della fede si investe della funzione di carnefice senza parlare a nessuno, né a sua moglie Sara né a suo figlio Isacco, vittima designata. Tutto accade tra Dio e lui, senza una parola. "E allora perché Abramo lo fa? In nome di Dio, ed è del tutto identico, in questo caso, in nome proprio. Lo fa in nome di Dio, perché Dio esige questa prova ella sua fede; lo fa in nome proprio per poter portare questa prova". Quest’identità assoluta tra chi offre il sacrificio e chi lo riceve, tra il mittente e il destinatario, avvicina, più di quanto non venga comunemente riconosciuto, l’Abramo di Kierkegaard ai profeti assassini di Dio, alla Nietzsche.

Sulla strada per il sacrificio, il cavaliere della fede si mura in un insondabile silenzio. Perché?

Sappiamo che Abramo è alle prese con una ingiunzione contraddittoria: il Dio ella promessa sembra rinnegare la sua promessa e e volersi riprendere il pegno-Isacco, il figlio del miracolo, attraverso il quale era stata suggellata un’eterna Alleanza. Di fronte a questa aporia, l’atteggiamento del perfetto credente si avvita in un circolo vizioso. Risolversi, per obbedienza, al sacrificio preteso, significa non obbedire al comandamento: "non uccidere", viceversa, sottomettersi significa trasgredire, trasgredire significa sottomettersi. La questione merita tutte le discussioni che si vanno ingarbugliando da millenni. Si sono chiesti i maestri del Talmud: e se l’ordine di uccidere il figlio amati provenisse da uno spirito malvagio? Abramo avrebbe dovuto dubitare dell’autenticità di colui che lo aveva emesso, dunque doveva astenersi, ritenne Kant. È Dio che viene messo alla prova, più che l’uomo, pretendono altri. Così Schelling distingue una doppia, indecisa, natura del Dio, il cui lato oscuro reclama sangue e il lato luminoso lo proibisce.

L’originalità di Kierkegaard sta nella proibizione assoluta di una tale discussione, a cui tuttavia egli aggiunge il suo grano di sale. Il cavaliere della fede noin mette in discussione nessuno, né Dio n se stesso. Ascolta l’ordine, si mette in marcia, lo esegue. Punto. Questo significa raddoppiare il sacrificio del figlio attraverso quello dell’intelletto. Come se Kierkegaard, in sordina, avesse aggiunto all’ingiunzione contraddittoria — non uccidere e uccidi — una regola conclusiva: non discutere! Di colpo, l’ordine raggela, definitivamente imperativo e categorico. Esso rinchiude il suo servile destinatario in un cerchio non più vizioso, ma folle. "L’espressione etica per l’azione di Abramo è che egli voleva uccidere Isacco, l’espressione religiosa è ch’egli vuol sacrificare Isacco; ma in questa contraddizione si trova precisamente l’angoscia che può certamente rendere un uomo insonne — Abramo però non lo è, egli non ha questa angoscia."

Il "padre dei credenti" sceglie di essere infanticida senza ombra di esitazione, senza la minima discussione. È opportuno glorificarlo? In contraddizione con la tradizione che argomenta e contro-argomenta. Immaginiamo per un secondo che Abramo fosse informato e sapesse che l’orrore non avrebbe avito luogo, che Dio stava mettendo alla priva semplicemente l’astuzia del suo debitore, ecc.: Kierkegaard esclude questi accomodamenti. Vuole il paradosso. nient’altro che il paradosso. L’etica chiarisce: è un omicidio. La religione esulta, con altrettanta radicalità: è la più santa delle azioni sante. A quale condizione si impone l’encomio? Al prezzo di una sospensione teologica dell’etica. Sarebbe a dire che il cavaliere della fede potrebbe essere lavato dal crimine di infanticidio se, e soltanto se, sparisse il tribunale che si occupa di tali crimini. Abramo non si giudica. Trasgredendo l’etica, l’amore del figlio, il "non uccidere", Abramo si situa "aldilà del Bene e del male", in Dioe dunque nel Bene. Compie il grande salto nietzschiano,che liquidò il "Dio morale". […]

Il timore e il tremore del cristiano Kierkegaard e l’ebbrezza dionisiaca celebrata da Nietzsche implicano un0identica rimozione dei tabù. L’uno glorifica la Bibbia. L’altro la supera. Addirittura! Proiettando Abramo nelle sfere assai celesti di un rapporto assoluto, non solamente indiscusso ma indiscutibile col Creatore, Kierkegaard non ha forse inventato il Superuomo cristiano,, che campeggia nella certezza di non poter mai ingannarsi o essere ingannato? Per quale miracolo questo infallibile ma devotissimo Abramo si emancipa dal peccato originale e dall’universale fallibilità di cui esso è l’emblema? Lo slancio della fede coincide dunque con l’innocenza del divenire, e vola sei mila leghe al di sopra dell’immenso oceano delle dissomiglianze, dimora degli errori e degli orrori.

Segno di irriducibile imbarazzo, Kierkegaard, alla fine del percorso, infrange la sua regola d’oro. Mentre ripete fino alla noia che la fede non può in alcun caso giustificarsi con l’aiuto di argomenti, asserzioni, ipotesi, ecco che, contro ogni aspettativa, permette al suo Abramo, muto fino a quel momento, di spiegarci perché ha fatto quel che ha fatto: "Infatti egli dice: questo [la morte del figlio] però non accadrà; o se accadrà, Dio mi darà un nuovo Isacco in forza appunto dell’assurdo". Cadiamo dalle nuvole. Qui l’assurdo volge al ridicolo. E il paradosso scivola nel ragionamento comico dl padre di famiglia, che ved e il figlio partire per la guerra e consola la moglie: non piangere, donna, ne avremo altri! Se Abramo conserva la sua polizza di assicurazione divina, non ha nulla da perdere. Neanche da rischiare. Non è stata la sua fede a essere messa alla prova, ma la sua capacità di contare fino a due, nella certezza che Dio fabbrica i bambini a palate, per gratificare i credenti meritevoli. Un simile collasso dell’intelletto è rivelatore. Dato che il cavaliere della fede si accetta solo se il male non esiste, né in sé né in Dio, a lui è permesso di fare tutto e di dire qualsiasi cosa, diversamente dal comune mortale.

Kierkegaard non aveva torto a condannare al mutismo il suo "familiare di Dio",. Ma gli uomini sono animali parlanti, e lui finisce per aprire bocca. Sorpresa! Miseria! Ecco il suo Abramo, il suo prode cavaliere, che infila delle banalità da barzelletta. Proprio come il divino Heidegger, che indossa, senza crederci, il razzismo dei suoi fratelli di sangue. Proprio come l’eminente intellighenzia marxista, che frequenta i torturatori di basso livello, compagni di partito. Proprio come i mullah mistici, che reclutano i tagliagole drogati.[…]»

Questo ultimi accostamenti sono rivelatori di tutto un mondo concettuale di tutta una prospettiva intellettuale, di tutto un paradigma culturale. Glucksmann si è eretto a difensore dell’Europa, minacciata a morte dei barbari: e crede di rendere più efficace la sua difesa puntando il dito contro quei figli della cultura europea che hanno preparato la barbarie. La barbarie, per lui — neanche a dirlo — è l’assenza, o la debolezza, o la sospensione del pensiero razionale, strumentale e calcolante: il pensiero limpido e conseguente di Cartesio, con le sue idee chiare e distinte; e dunque la barbarie è, indifferentemente, quella dell’universo concentrazionario leninista, quella dei pianificatori del genocidio nazista, quella dei fanatici musulmani fondamentalisti, tagliatori di teste innocenti,m e.. quella di Kierkegaard e del suo cavaliere della fede, Abramo che si accinge a sacrificare suo figlio Isacco sul monte Moria, per obbedire a un ordine venuto direttamente da Dio.

Non lo sfiora nemmeno l’idea che, forse, non sono leciti questi accostamenti: nel suo zelo viscerale, nel suo sacro fuoco di crociato in difesa dell’Europa, Glucksmann accomuna in una sola condanna cose diversissime, aventi l’unico tratto comune della cieca violenza ordinata da un Dio assetato di sangue, sia esso il Dio dei Soviet, o degli ariani, o del Corano, o… del cavaliere della fede di cui parla Kierkegaard. Di quest’ultimo, addirittura, fa un Superuomo cristiano, uguale e contrario al Superuomo di Nietzsche — anacronismo significativo, perché nella logica di questo procedere a spanne, senza alcuna attenzione per le differenza, senza la minima sensibilità per la dialettica dei simili e dei distinti: come è proprio di quei filosofi all’ingrosso che devono a ogni costo portare a casa un giudizio prestabilito, un pensiero preconfezionato, sulla misura delle loro simpatie e antipatie, del loro (scarso) discernimento critico. Questo tipo di "filosofi" non vogliono prendersi il disturbo di capire cosa hanno detto altri, vogliono solo infilzare giudizi l’uno dietro l’altro e applicare etichette, distribuir pagelle. Questo è assurdo, quello è ridicolo: ma hanno fatto un serio sforzo per comprendere? O hanno soltanto applicato le loro categorie mentali a coloro che, adesso, pretendono di sottoporre a giudizio?

La fede di Abramo, spinta fino alla disponibilità di sacrificare il figlio Isacco, non è cosa che si possa realmente comprendere: è cosa cui ci si può accostare, appunto, "con timore e tremore, come si fa cn ciò che è troppo più grande di noi, e per la quale non possediamo non solo strumenti di giudizio, ma neppure una adeguata capacità di percezione. È come quando la formica pretende di misurare dell’Himalaya: semplicemente, essa non si rende conto della cosa che vorrebbe giudicare, non riesce neppure a vederla. Il gesto di Abramo non può essere giudicato secondo il metro umano, perché discende da una parola divina: e la parola divina non è una parola come un’altra, non si carica degli normali significato umano, ma è essa stessa fonte e norma di qualunque parola umana, eccedendo, però, la misura di ciascuna di esse. Ciò che forma la legge, è al di sopra della legge e non può essere giudicato: la luce non può essere vista, perché abbaglia: può soltanto essere accolta ad occhi chiusi, con riverenza: con timore e tremore.

Questo cercava di dire Kierkegaard, invitandoci a rispettare il silenzio in cui si svolge il dialogo fra Dio e Abramo: silenzio di cui Glucksmann, che non ne capisce niente, si fa beffe. Da bravo filisteo, insorge coi suoi piccoli perché di saccente pretenzioso: perché Abramo non si è consigliato prima con Sara, perché non ha parlato con Isacco? Chi gli dà il diritto di comportarsi così? Chi si crede di essere? Quante domande sciocche, perché mal poste. Abramo non può essere giudicato, né compreso con i parametri del’etica, perché l’etica viene da Dio, e anche l’ordine ricevuto da Abramo viene da Dio: dunque, viene dalla fonte stessa del Bene, una fonte che scaturisce ad altezze vertiginose, troppo ardue per la vista e per i polmoni umani. Nessuno potrebbe vedere chiaramente, nessuno potrebbe respirare liberamente a quelle altezze: gli amicherebbe la vista,m gli mancherebbe il fiato. Non sono altezze fatte per l’uomo.

Il peccato originale? E che lo dice che Abramo se ne sente sciolto? Chi lo dice che si sente in alcun modo superiore ai suoi simili; chi lo dice che si sente "assolto" per il fatto di agire come agisce? No: si sente terribilmente colpevole; però, nello stesso tempo, sa che deve agire così come Dio viole, e non altrimenti: sa che non può tergiversare con Dio. Assume su di sé un peso terribile, un fardello insopportabile, umanamente parlando: ma sa che Dio lo aiuterà a portarlo, che Dio glielo renderà leggero. Sì, è vero che si pine al di là del Bene e del male: ma non vi si pone in nome di se stesso, bensì abbandonandosi a Dio: e Dio, che è il Bene, sta al di sopra di quello che gli uomini chiamo "bene" e che riconoscono come tale. Gli uomini non vedono il Bene e il Male, vedono solo i beni e i mali; se così non fosse, sarebbero Dio. Ma Abramo non si sogna di essere Dio: niente a che vedere col Superuomo di Nietzsche, che si arrampica (ma chi sa come farà!) al di sopra di se stesso, al di sopra del proprio cielo e delle proprie stelle. No: Abramo non si sente superiore ad alcuno, non si ritiene sciolto dalle leggi dei comuni mortali: quello che si accinge a fare, non è una sfida a quelle leggi; è, semplicemente, un’altra cosa: una cosa che non esistono parole per esprimere. Egli è come un esploratore che si spinge in una terra inesplorata, dominata da altre leggi fisiche; è come un viaggiatore che penetra in un’altra dimensione, popolata di presenze che non lasciano orme sulla sabbia, perché non sono di sostanza materiale.

Questo Kierkegaard ha cercato di dire: ha cerato, balbettando (nonostante il suo stole limpido e chiaro), consapevole dell’immensa difficoltà di dire l’indicibile, di esprimere l’inesprimibile. Proprio come Dante nella «Commedia», allorché tenta di descrivere l’esperienza suprema: la visione beatifica e sconvolgente di Dio stesso. Non ci sono parole per dirla: ma, soprattutto, non è possibile capire una simile esperienza, se non ci si spoglia dell’universo concettuale ordinario. Qui vigono regole nuove e diverse, perché la realtà è di tutt’altra natura da quella che noi conosciamo nella dimensione abituale del nostro vivere, del nostro pensare e del nostro agire.

Ecco, questo è il punto: per comprendere il paradosso della fede — perché di un paradosso si tratta, e i razionalisti alla Glucksmann, per quanto bene intenzionati, non lo capiranno mai: si rendono conto che la fede cristiana si basa sui misteri abissali dell’Incarnazione, della passione, della Resurrezione? — bisogna cambiare abito mentale, bisogna farsi piccoli, bisogna tacere e ascoltare: bisogna lasciar parlare la vice di Dio. È di una conversione dell’anima che c’è bisogno: senza di essa, tutto quel che Dio potrebbe dirci, diverrebbe — appunto — qualche cosa di assurdo o, peggio, di ridicolo,Ma ridicola non è la parola di Dio — e nemmeno la parola di chi cerca di ascoltare quella parola, come fa Kierkegaard: ridicolo chi vorrebbe travasare l’acqua del mare in una piccola bica scavata nella sabbia.

Quante piccole menti, nel corso della storia — oh, menti bene intenzionate, addirittura zelanti, si capisce — si sono date un gran da fare per travasare nella bica scavata nella sabbia, tutta l’acqua del mare! E come si sono innervosite, quando si sono accorre di non riuscirvi, di non potervi mai riuscire! Come sono diventate petulanti, saccenti, bisbetiche: con quanta acrimonia se la sono presa con chi diceva loro: «Bada, che stai facendo? A quel modo non combinerai nulla; non potrai mai travasare l’acqua del mare in quella piccola buca!». Perché per le menti piccole — ma bene intenzionate, per carità — non vi sono misteri, né nella realtà, né nel cristianesimo: esistono solamente problemi, cose che prima o poi si potranno comprendere, spiegare e perfino misurare. Nel frattempo, alzano alte strida contro i cavalieri della fede: gente sospetta, ai loro occhi; gente che ha la coscienza sporca e molte cose da nascondere. Loro no, che non hanno niente da nascondere: sono così limpidi e cartesiani, così trasparenti… come le formichine che si arrampicano sopra un sasso e poi, trionfanti, si mettono a strillare ai quattro venti d’aver scalato la montagna più alta della Terra – anzi, dell’Universo…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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