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L’uomo, per Melville, vittima e responsabile della sua malvagità, è indegno di redenzione

Il lettore che chiuda l’ultima pagina di «Moby Dick», il capolavoro dello scrittore americano Herman Melville, rimane a lungo pensoso e si domanda che cosa significhi quel finale: perché la terribile Balena Bianca abbia la meglio sui suoi persecutori, riuscendo a trascinare a fondo tutti gli uomini del «Pequod» insieme alla loro nave e al suo comandante, l’invasato, implacabile e ossessionante capitano Achab. Chi sono i buoni? Chi è il cattivo? E quel mare, che si richiude senza un’increspatura, come una liquida tomba, su tutti quei marinai, fino a poco prima così gagliardi e orgogliosi della loro valentia e del loro ardimento: che cosa significa quella loro fine così tragica e inattesa, che ridesta lontane memorie dell’Ulisse dantesco?

È stato pensato, detto e scritto di tutto su tali cose: e, passando — naturalmente — per la psicanalisi, non c’è critico che non abbia proposto la sua personale soluzione dell’enigma; ma la verità è che non ne sappiamo molto di più di quanto ne sapessero i lettori del 1851, quando apparve il romanzo «Moby Dick, or the Whale», uno dei libri più importanti dell’intera letteratura nordamericana e uno dei maggiori in assoluto della letteratura universale.

Melville – come il suo amico Nathaniel Hawthorne, l’autore de «La lettera scarlatta», «Il Fauno di marmo» e «La casa dei sette abbaini», oltre che di alcuni straordinari racconti, fra i quali forse il più strano e inquietante di tutti, «Il mio parente, maggiore Molineux» – veniva da una formazione religiosa di tipo puritano e vivissimo era in lui il senso del male e del peccato, nonché la visione drammatica della vita umana, sospesa fra peccato e redenzione, e resa continuamente fragile e minacciata dagli assalti delle forze malefiche, sia esterne, sia interne all’anima. E quell’impronta gli è rimasta stampata addosso per sempre, benché tutta la sua attività di scrittore — come anche nel caso di Hawthorne — altro non sia stata che un tentativo di cercare e trovare le risposte giuste, per gettare un fascio di luce sul mistero incombente e terribile dell’esistenza umana, continuamente insidiata, e quasi assediata, dall’antico, implacabile Nemico degli uomini.

Non è sereno, dunque, il mondo di Herman Melville; ma, a differenza di quello di Hawthorne, quasi mai — tranne, in parte, nelle opere "esotiche" giovanile: «Taipee» ed «Omoo», frutto di una reale esperienza di vita selvaggia nelle isole dei Mari del Sud, viste ancora come l’Eden senza peccato — egli riesce nell’intento (se pure vi si prova) di aprire un varco in mezzo alle tenebre, di dissipare il senso angoscioso della caducità e dell’ambiguità della condizione umana, sospesa fra i due abissi incommensurabili della Caduta e della Redenzione. Quasi tutti i grandi scrittori della metà del XIX secolo, del resto, si sono confrontati, da differenti punti di vista, su tale massima questione — Manzoni, Tolstoj, Dostoevskij, Poe, Balzac, Baudelaire (mentre poi, dalla fine dell’Ottocento, le grandi questioni morali si allontanano e svaniscono dall’orizzonte letterario: si confrontino questi giganti con i "nani" del Naturalismo e del Decadentismo, per non parlare delle avanguardie novecentesche, e si vedrà la differenza di contenuti e problematiche); Melville, fra essi, occupa un posto a parte, dal momento che la sua visione è, fra tutte, probabilmente la più angosciante, la più pessimistica e la più disperata.

Il fatto è che Melville non crede nell’uomo: né con la grazia, né senza la grazia; senza la grazia, perché non è che una canna sbattuta dal vento, come direbbe Pascal; con la grazia, perché, a ben guardare, nessun uomo è degno di essa, e dunque l’intera umanità, come pensava Calvino, non è altro che una "massa dannata", dalla quale poi, forse, Dio, nella sua immensa bontà e misericordia, si degnerà di trascegliere, secondo un suo giudizio imperscrutabile, pochissimi eletti: ma non vi è alcun modo per sapere chi saranno, dunque non vi è pace possibile, per nessuno, nel corso della vita umana. Insomma l’uomo non può redimersi da solo, perché non ne ha le forze; ma non può neanche essere redento da Dio, perché ogni suo sforzo in tale direzione sarebbe vano, e perché, in fondo, non lo merita: tale è il suo destino, tale il dramma che lo avvolge, dalla nascita alla morte. E lo scrittore non può fare altro che prenderne atto, anche se in lui qualcosa, forse, si ribella.

Ha scritto l’anglista Sergio Perosa a proposito del romanzo di Melville «L’uomo di fiducia» – ma le sue osservazioni valgono per l’intera problematica dello scrittore americano, anche e soprattutto per il suo capolavoro, «Moby Dick» (da: S. Perosa, «Le vie della narrativa americana» (Milano, Mursia, 1965, pp. 39-40):

«… l’Adamo american, facile preda del subdolo impostore, è infatti già inesorabilmente scaduto dalla condizione edenica, è vittima perché in lui ha preso definitivo sopravvento la parte di Caino, e ciò che resta di Abele è solo la candida e ingenua sprovvedutezza di fronte al Male. È un Adamo indebolito nella fede in Dio, nella fiducia nel prossimo, nell’ideale dei valori universali: : un Adamo che scambia per timor religioso la propria endemica debolezza, la tiepidezza e la distorsione delle virtù cristiane, o risolve tutto in un facile ottimismo i cui tristi effetti, al contatto con le forze demoniache, son così evidenti,da fornire materia al riso. Il mito della tentazione satanica trova quindi, o crea, nel libro [cioè "The Confidence-Man"], lo spunto dell’attacco ironico e satirico contro il tiepido cristianesimo del tempo, la fede distorta e annacquata che è peggio della mancanza di fede, la rettitudine arida che s’è sostituita alla genuina bontà di animo, il motivo interessato che ha sostituito la voce del cuore; contro il trascendentalismo, in ciò che ha di più ingenuo ed utopistico, con l’incoerenza delle sue posizioni, il vezzo del semplicismo, la risibile predicazione della "self-reliance".

Nulla di strano che, in ultima analisi, sia il Male a trionfare: nel gioco mortale prospettato dal libro — e non porta qui se sul piano del "petty swindler", del misantropo per convinzione, o del Maligno personificato — l’uomo è ad un tempo vittima e responsabile, non merita, e non fa nulla per meritarsi, la redenzione, la salvezza, o la stessa compassione. Il mondo sembra malato, come diceva Amleto. Vittima e impostore si confondo, o si presuppongono, si cercano spontaneamente, se la vittima ha già accettato il presupposto su cui opera il nemico, e dà la propria fiducia a chi se ne serve per subdoli fini. È una forma di tremenda Apocalisse, se si vuole, questa rappresentata dall’ultima opera narrativa di Melville: a salvarsi dai raggiri sono soltanto, e parzialmente, un monco ipocrita, un cinico senza speranza, un ricco tanto incurante perché nulla può scalfire la sua ricchezza, un onest’uomo scorbutico come Pitch, e forse i due trascendentalisti, Mark Winsome ed Egbert, già perduti per conto loro.

Eppure non è tanto, come si sostiene da più parti, un esempio di timonismo senza speranza, questo di Melville, quanto una forma di ultimo umanesimo, perché la denuncia del male presuppone il moto di rivolta, la possibilità della resistenza e della salvezza. È un grido d’allarme, risultato di un’attenta e disincantata annotazione della vita umana in ciò che offre ("o più di quanto offra") di deleterio e meschino. Uno scrittore impegnato a portare alla luce l’oscuro mondo delle cose, come Melville, non poteva arretrare quando la scoperta fosse tale da oscurare le cose stesse. La verità del cuore o della mente, va detta prima che acquisti il volto di Gorgone e imponga il silenzio.»

Così, tornando all’opera principale di Melville, «Moby Dick», è inutile, o meglio, è fuorviante, domandarsi se il volto del Male sia quello della crudele Balena Bianca, che scorre i mari come un angelo della distruzione e della morte (forse non molti sanno che lo scrittore si è ispirato a una capodoglio realmente esistito, che i balenieri chiamavano Mocha Dick e che uscì vittorioso da decine di scontri con i suoi cacciatori umani), o se non sia quello – stralunato dalla follia – del capitano Acahab, posseduto da un demone più tremendo ancora del demone che egli tenta invano di esorcizzare, inseguendolo per tutti i mari del mondo e contagiando, infine, nella sua lucida pazzia auto-distruttiva, gli ufficiali e l’intero equipaggio. L’antico Nemico si cela, infatti, sia nell’uno che nell’altro: se la Balena Bianca rappresenta il Male che ci minaccia dall’esterno, l’ossessione e l’ebbrezza di superomismo che pervade Acahab, vera anima persa, è l’espressione del male che nasce dalle nostre stesse, abissali, imperscrutabili profondità: sono le due facce della stessa realtà. E la realtà è il Male, onnipresente e insidioso, invincibile e indistruttibile; il Male che ha sempre l’ultima parola, quando lo si fugge perché ci insegue fino alla morte, quando lo si affronta, perché ci contagia con i suoi venefici miasmi. Per ciascuno di noi, come per il capitano Achab, vale il noto aforisma di Nietzsche (in «Al di là del bene e del male», 146): «Se guarderai a lungo nell’abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te»

Non c’è salvezza, non c’è redenzione nell’universo asfittico e demoniaco raffigurato dalla penna di Herman Melville: lo stile talvolta caustico, talaltra sottilmente ironico e quasi umoristico, di cui si serve per addolcire questa amara, desolante verità, non deve trarre in inganno: è un universo di posseduti, di dannati e di dementi, senza un raggio di luce che non sia illusoria, senza un filo di speranza che non si riveli beffa atroce o amarissimo inganno. È un mondo desolato, crepuscolare, su cui Dio misericordioso non posa più il suo sguardo, perché si direbbe che lo abbia ripudiato e che abbia abbandonato nelle mani del Maligno; un mondo ormai pronto per l’estrema dissoluzione e per il giudizio finale. Che verrà, e verrà presto, tremendo e implacabile: proprio nello stile più severo dei profeti dell’Antico Testamento.

Che altro rimane da fare all’uomo, allora, all’uomo moderno, con tutte le sue macchine, le sue navi a vapore, le sue strade ferrate, le sue officine e i suoi formidabili appetiti di animale degenerato e sfuggito, per sua colpa, al piano della Salvezza, se non contemplare con un sorriso ebete, cinico, allucinato, l’avvicinarsi dell’ora estrema, la resa dei conti cui non si può sfuggire? Che altro rimane da fare a chi ha compreso, a chi ha visto, a chi ormai "sa", se non gettare il suo inutile grido di allarme, se non chiamare invano le guardie sugli spalti della fortezza assediata e ormai sul punto di essere espugnata, praticamente senza lotta, perché i difensori si erano assopiti o perché, folli e incoscienti, non credevano imminente la minaccia?

Eppure, c’è qualcosa che non torna in questo quadro possente e allucinato, in questa sinistra profezia di sciagura e dannazione eterna: non da parte dell’uomo, o non solo da parte dell’uomo, perché la debolezza e la tendenza al male fanno parte della sua natura, ferita dalle conseguenze del peccato originale, e tuttavia non rappresentano un dato irrimediabile, definitivo: se così fosse, allora vorrebbe dire che Dio ha abbandonato le sue creature, che ha rinnegato la sua opera. Ma questo pensiero è blasfemo: non è un pensiero cristiano; è un pensiero demoniaco. Esso equivale a negare il significato dell’Incarnazione, della Passione, della Risurrezione e della Redenzione, a bandire dal mondo la presenza dello Spirito Santo; e fa di Dio non già il Padre amorevole dell’uomo, che mai si stanca di cercarlo e di attenderlo a braccia aperte, ma un tiranno incostante e imprevedibile, che si è stancato di amare e perdonare: e che non è più Dio, ma il nemico della creazione, vale a dire il Diavolo. Pensiero tremendo, insopportabile e totalmente, radicalmente anti-cristiano; pensiero diabolico, quale fu concepito da Leopardi allorché il poeta italiano compose l’incompiuto — e poco conosciuto – «Inno ad Arimane» (cfr. il nostro precedente articolo «Leopardi cantore di Arimane è il campione di un satanismo disperato, ma lucido e coerente», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 16/10/2008»).

Esito paradossale della tetra, soffocante religiosità di matrice calvinista e puritana: nessun uomo è degno di salvezza, perché ciascun essere umano non è che un miserabile peccatore al cospetto di Dio. Eppure, come mai il Dio puritano si scoraggia e smette di tendere la sua mano salvifica verso le proprie creature? Non sarà che, avendo creato una distanza troppo grande fra lui ed esse, il calvinismo e il puritanesimo, e in genere la teologia protestante, di fatto sopprimono la cosa più bella del cristianesimo: l’infinito amore e l’instancabile pazienza di Dio? E non è che all’origine di questo stranissimo esito c’è un peccato di orgoglio, e sia pure di un orgoglio non riconosciuto come tale, da parte dell’uomo: ossia la sua pretesa di sconfiggere il male da solo, e di rendersi degno, da se stesso, di essere redento?

Ma nessuno è degno di essere redento, quanto ai suoi meriti. Dio non chiede all’uomo di rendersi degno d’essere salvato; l’uomo, per Dio, è già degno di ciò: purché lo voglia. E, per volerlo, l’uomo deve confessarsi piccolo e bisognoso: deve deporre l’orgoglio. Al contrario di quello che fa Achab…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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