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L’amicizia, così come la conosciamo, è una acquisizione dell’etica cristiana

«Il mio comandamento è questo: amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: morire per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate quello che vi comando. Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa che cosa fa il suo padrone. Vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto sapere tutto quello che ho udito dal Padre mio. Non siete voi che avete scelto me, ma io ho scelto voi, e vi ho destinati a portare molto frutti — un frutto duraturo. Allora il Padre vi darà tutto quello che chiederete nel nome mio. Questo io vi comando: amatevi gli uni gli altri.» (Giov., 15, 12-17)

Queste parole, pronunciate da Gesù dopo che ebbe lavato i piedi dei suoi discepoli, uno per uno, compreso Giuda che si apprestava a tradirlo e che quella sera stessa lo avrebbe consegnato ai suoi nemici implacabili, segnano una rivoluzione copernicana nel concetto e nella pratica dell’amicizia: una di quelle svolte antropologiche in cui si misura visibilmente, per così dire, la fine di un’epoca e l’avvento di un’epoca nuova, completamente diversa.

L’amicizia, fino a quel momento, era sempre stata concepita come una intesa fra uomini dagli interessi simili e dalla sensibilità affine: una relazione fra pochi che esclude tutti gli altri; una complicità, fatta di dedizione e delicatezza, che si staglia sullo sfondo della massa estranea, verso la quale non si può né si deve "sprecare" il tesoro delle proprie ricchezze interiori, perché non lo capirebbe e non lo saprebbe apprezzare al suo giusto valore. L’amicizia era il sentimento aristocratico per eccellenza: alla lettera, era nata e si era delineata, sempre più, come l’elemento caratterizzante della società aristocratica.

Il cristianesimo non nega che il sentimento dell’amicizia si stabilisca innanzitutto fra esseri simili e, come afferma Aristotele, specialmente fra i buoni (l’amicizia tra i malvagi essendo basata sull’interesse, laddove la vera amicizia è sempre benevola e disinteressata), ma invita gli esseri umani a compiere un passo avanti nel cuore delle relazioni umane e a scoprire un nuovo tipo di amicizia, fatto di benevolenza potenzialmente inesauribile, e perciò estensibile a tutti gli altri e soprattutto al prossimo, a coloro che sono particolarmente bisognosi. Una amicizia, dunque, che non si esaurisce mai, per quanto generosamente venga distribuita, perché la sua sorgente è perenne: ed è perenne perché non è terrena, cioè – come tutte le cose terrene — imperfetta e contingente, ma soprannaturale, in quanto scaturisce dall’amore di Dio e non da sentimenti puramente umani. Chi ama in Dio, infatti, può amare il mondo intero ed ogni essere che vi alberga, gratuitamente e contemporaneamente; e il suo amore può essere benevolo, disinteressato e sovrabbondante, realizzando il miracolo di unire la massima intensità con la massima estensione, mentre tutte le altre relazioni umane o si estendono in senso orizzontale, nella dimensione della quantità, ovvero in quello verticale, cioè nel segno della qualità.

Un amore di amicizia, dunque: "agape", "chiarita"; qualcosa che il modo antico raramente ha conosciuto, perché sempre legato al concetto della reciprocità, nel bene e nel male, ossia all’idea che si può amare solo chi ci ama, e che si deve odiare chi ci odia (di qui anche l’idea della vendetta come dovere ineludibile e, pertanto, la pratica della spietata legge del taglione, che interpreta il perdono come un atto di viltà o come un tradimento del proprio dovere).

L’uomo antico è, in fondo, terribilmente solo, perché, nel migliore dei casi, può amare e sentirsi amato solo nella misura in cui ha qualcosa da offrire, non per se stesso, con tutte le proprie insufficienze e i propri limiti; egli non è mai giunto a concepire l’idea che si possa essere amati di un amore disinteressato, di un amore di benevolenza, indipendentemente dai propri meriti, né che si possa amare in questo modo chiunque, anche chi è molto lontano sul piano sociale, e perfino chi è nostro nemico.

Scrive, a questo proposito, Paolo Di Sacco (in: P. Di Sacco–M. Serìo, «Scrinium. Storia e testi della letteratura latina», Milano, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 2008, vol. 1, p. 532:

«Nelle civiltà antiche l’amicizia era un’esperienza percepita come fondamentale. La stessa struttura aristocratica delle società antiche favoriva il formarsi delle amicizie: legami privati con cin cui si suppliva alla debolezza degli stati. Del resto, in un mondo dove l’autorità civile non aveva ancora assunto i compiti e le funzioni che oggi svolge, era ovvio che gran parte dei buon ordine sociale fosse affidato alla gestione, ovviamente interessata,m delle grandi famiglie. Diventare un loro "amico" si riduceva però a un rapporto molto opportunistico, di interesse e di protezione. Difficile, perciò, parlare di vera "amicizia", come la intendiamo noi.

Questo quadro comincia a mutare tra IV e III sec. a. C., con lo sviluppo della società ellenistica. Lo svuota,mento della "polis" e la "nascita dell’individuo" (cioè dell’uomo in quanto uomo, visto in se stesso e non più in come parte della collettività politica) sollecitarono un nuovo intimismo, il bisogno di rapporti più personali e meno utilitaristici. Anche l’amicizia cominciò così a essere apprezzata n se stessa, e on solo per i vantaggi che se ne potevano ricavare.

Da tempo, intanto, i filosofi greci avevano teorizzato un’amicizia più autentica e personale. Tuttavia, all’inizio, essa appariva possibile solo come legame tra i sapienti. Platone (ma anche filosofici stoici come Zenone e Crisippo) si immaginava che in una città ideale i saggi che vi abitanti siano portati a condividere con gli altri saggi i beni esterni, mentre resteranno per sempre in possesso dei beni interni, la sapienza e la virtù. I custodi dello stato, come veri amici, hanno tutto in comune, anche le donne, e fanno a gara nel beneficarsi reciprocamente.»

Un diverso modello di amicizia fu elaborato da Aristotele. L’amicizia pè un bene necessario alla vita umana: tutto quanto di buono l’esistenza ci offre, dal potere alla ricchezza alla felicità, non può essere adeguatamente gustato e messo a frutto senza amici. A differenza di Platone, però, Aristotele distingue tra amicizia "perfetta" (quale può realizzarsi solo tra virtuosi) e amicizie imperfette. La prima è un amore attivo di benevolenza reciproca; è un rapporto che tende alla perfezione, a un’effettiva intimità, da vivere quotidianamente insieme. Perciò Aristotele pensa che il numero degli amici non possa essere grande.

Se per tutte le scuole ellenistiche (epicurei, stoici, cinici, ecc.) l’amicizia è il maggiore tra i beni esterni, sono soprattutto gli epicurei a celebrarla: vivere in comunità, esortarsi reciprocamente, godere gli uni degli altri sono i tratti specifici della filosofia epicurea. Tale comunità costituisce un microcosmo di relazioni, che accoglie i filosofi (cioè chiunque voglia seriamente prendersi cura della salute della propria anima) e le loro famiglie, al di là di ogni discriminazione di ceto e sesso.

L’amicizia, nella cultura classica, ha un significato selettivo: non si può essere amici di tutti, anzi uno degli aspetti più appaganti dell’amicizia consiste proprio nell’intimità ricercata con pochi e scelti simili. Quello cristiano è invece amore per il prossimo, cioè per chiunque, anche per il nemico. Proprio sull’amore ("agape" in greco); il suo corrispondente latino è "caritas") insiste il cristianesimo: è l’amore il nuovo sentimento universale in cui si riassume tutta la proposta etica della nuova fede. Anche tra uomo e uomo, tra padrone schiavo, tra uomo e donna, indifferentemente, mentre per tutta la cultura antica (epicurei a parte) l’amicizia è un sentimento riservato ai maschi, i soli a potere concepire alti valori ideali). Il punto è che il cristiano ama non a partire dall’io, ma a partire da Dio. Perciò la carità cristiana trascende di gran lunga l’orizzonte del pensiero antico. Tuttavia, in qualche modo, ne rappresenta il compimento: raccoglie infatti motivi che emergevano in modo sparso dalle riflessioni dei filosofi classici. Per esempio si possono considerare motivi precristiano alcune sottolineature presenti nel "Laelius" ciceroniano, come l’amare un amico per se stesso, non per i vantaggi che ne possono venire; o come ,’accettare, in nome dell’amicizia, anche le sofferenza che possono derivare dalle sventure altrui.»

Perciò, quando santa Rita da Cascia (al secolo, Margherita Lotti; Roccaporena, 1321-Cascia, 22 maggio 1457) esorta ed implora i suoi figli di non desiderare la vendetta contro gli uccisori del loro padre — che era anche suo marito – e di desistere da ogni idea di metterla in pratica — ella rompe, veramente e clamorosamente, una tradizione millenaria e capovolge, nel segno del perdono cristiano un intero sistema di etica e di doveri sociali: all’odio sostituisce l’amore; alla sete di vendetta, la dolcezza del perdono. E non solo non volle che lo vendicassero: pregò Dio che, piuttosto di vederli macchiati di un delitto, Egli li prendesse con sé per l’eternità.

Nulla del genere si era mai visto nel mondo antico; o, se pure lo si fosse visto, i contemporanei non avrebbero giudicato che fosse il caso di tramandarlo, perché non sarebbe stata cosa di cui andare fieri; al contrario, un fatto del genere sarebbe apparso come un intollerabile segno di viltà, come un inconcepibile venir meno ai doversi familiari. Ulisse, per esempio, non si era atrocemente vendicato per molto meno, uccidendo i giovani pretendenti alla mano di Penelope, uno dopo l’altro, al solo scopo di vendicare il suo onore offeso e di eliminare qualsiasi futura minaccia nei confronti del suo trono di re d’Itaca?

Giungiamo così alla conclusione che l’amicizia, così come noi oggi la conosciamo, non è affatto un sentimento "naturale", ma è il frutto di una lunga elaborazione culturale, spirituale, sociale e morale, e che il fattore decisivo per giungere alla sua definizione attuale è stato il cristianesimo; senza l’etica cristiana, l’amicizia non sarebbe per noi quello che, effettivamente, essa è; sarebbe qualcosa di diverso, di più rozzo, di più egoistico. Sarebbe una sorta di patto utilitaristico fra persone che si conoscono e si apprezzano, ad esclusione di ogni altro.

Platone, Aristotele, Epicuro, Cicerone, Seneca e altri scrittori antichi parlano a lungo del sentimento dell’amicizia; nessuno di loro, però, tocca gli accenti sublimi di Gesù Cristo nel discorso d’addio dell’Ultima cena, così come ce lo riferisce il Vangelo di Giovanni; e nessuno ha saputo metterlo in pratica con lo spirito di totale abnegazione che Egli ha mostrato, benché ricevesse, in cambio, l’ulteriore dolore dell’abbandono e del rinnegamento da parte dei discepoli («Prima che il gallo abbia cantato due volte, proprio tu, Pietro, che dici di voler dare la vita per me, mi avrai rinnegato per tre volte»).

Questo è solo uno dei moltissimi esempi che si potrebbero fare per mostrare sino a che punto il cristianesimo, anche se non si è cristiani e non ci si vuol riconoscere suoi eredi (come il filosofo Bertrand Russell, che mostra, con il suo stesso rifiuto di capire, la tremenda povertà di un pensiero immemore delle proprie radici), ha trasmesso alla nostra società, alla nostra cultura, al nostro modo di sentire e di pensare; è solo uno dei cento e cento mattoni con i quali è stato tirato su l’edificio della civiltà europea dopo il tramonto del mondo antico, e che è divenuto a sua volta, nel bene e nel male, il centro di una nuova civiltà mondiale, che viene detta moderna.

Il progresso, nell’idea e nella pratica dell’amicizia, è stato immenso. Con ciò non si vuol dire, tuttavia, che la massa degli esseri umani sia divenuta, effettivamente, migliore. Sì, oggi il pubblico non si affolla agli spettacoli gladiatorî e non si bea al terrificante spettacolo di decine, centinaia, e talvolta migliaia, di esseri umani che si uccidono l’un l’altro per il suo divertimento, o che devono battersi contro le fiere, o che sono dati ad esse in pasto, inermi e legati, oppure, ancora, che vengono impalati, torturati, crocifissi, bruciati vivi; sarebbe ingenuo, però, dedurne che la malvagità e il sadismo non abbiano saputo escogitare altre forme infernali di perverso piacere; sarebbe ingenuo, e fuorviante, pensare che l’umanità abbia realmente compiuto un significativo progresso morale.

Gli uomini sono e restano uomini, non sanno e non vogliono oltrepassare la loro natura; e, per uno che si vi sforza, e vi consuma tutta la sua energia, altri mille o diecimila si rotolano nella sozzura morale e sprofondano sempre più in basso. Però il cristianesimo ha introdotto una luce, un principio di speranza, uno squarcio di cielo azzurro, là dove prima regnavano le tenebre, l’angoscia, la disperazione. Cristo non è venuto ad abolire il male, ma a mostrare la via del bene.

La nuova pratica dell’amicizia, pura e disinteressata, appartiene a questa schiarita, a questa preziosa boccata d’aria pura (cfr. il nostro articolo «Bellezza, bontà e verità dell’amicizia spirituale nel pensiero di Aelredo di Rievaulx», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 27/05/2008). E non è cosa da poco. Il Regno di Dio non è di questo mondo; in esso, tuttavia, può almeno incominciare…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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