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28 Luglio 2015Vi è stato un tempo – e molti di noi hanno fatto in tempo a vederlo – in cui le città, i paesi, i quartieri, erano popolati da una umanità più varia, più ricca e più viva di quella di oggi; e in cui, in mezzo ad essa, spiccavano alcune figure particolarmente originali, uomini o donne, le quali, per un tratto caratteristico, o – più spesso – per l’insieme della loro personalità, del loro modo di essere, del loro modo di porsi di fronte alla vita, s’imponevano all’attenzione dei compaesani e, sovente, conquistavano anche il rispetto, la simpatia e la stima.
Poteva essere un vecchio d’ingegno, che, grazie ad una pronta intelligenza e a un forte senso pratico, trasmetteva la sua autorevolezza e aveva sempre un uditorio attento, di giovani o di adulti, di persone desiderose di parlare con lui e consigliarsi per qualche circostanza o per qualche decisione da prendere. Poteva essere una donna saggia ed esperta, una levatrice, o una semplice massaia, dall’animo buono e comprensivo, che sapeva ascoltare, consolare, orientare, mettere pace nelle famiglie in discordia. Poteva essere un individuo — uomo o donna – in fama di possedere dei poteri occulti, di saper guarire le piante e gli animali ammalati, lì dove il vivaista o il veterinario erano nell’imbarazzo, impotenti, o fallivano nei loro interventi. Poteva anche essere un maturo cantastorie, un profondo conoscitore delle tradizioni locali, di tutte le famiglie del posto, delle usanze e delle credenze religiose, magiche, soprannaturali, che amava raccontare le sue storie affascinanti, la sera, davanti alle grandi famiglie contadine riunite nel fienile, oppure all’osteria, o alla taverna, davanti a un fiasco di buon vino e ad alcuni bicchieri mai vuoti: quando, s’intende, le osterie erano ancora dei luoghi importanti e quasi solenni, pieni di socialità, carichi di storia, di passato, di vita, e non dei locali anonimi, arredati all’americana, con la radio a tutto volume e, magari, con proprietari e camerieri cinesi, dove si beve in fretta e in silenzio, quasi senza amici, poi si paga e si va fuori.
Insomma: prima del definitivo avvento della modernità, ossia della società industriale avanzata, le persone, mediamente, erano più diverse l’una dall’altra, anche se simili erano i loro valori, i loro punti di riferimento, le loro prospettive; vi era una maggiore uniformità sui valori sociali condivisi, sui fondamenti e sulle ragioni ultime del vivere insieme con gli altri, ma vi era, nel complesso, una assai maggiore differenziazione in fatto di caratteri, atteggiamenti, modi di parlare, insomma in fatto di sensibilità individuale. Vi era più spazio per il talento, per la creatività, per l’originalità del singolo. Non è vero che la civiltà contadina, e, in generale, la civiltà pre-industriale, erano tendenzialmente conformiste; erano molto attaccate alla stabilità, questo sì, nel senso che davano importanza alla tradizione e alla fedele trasmissione dei modi di sentire, di pensare e di vivere delle generazioni precedenti; ma poi, in concreto, ciascuno era sollecitato ad entrare nella vita secondo la sua inclinazione, a svolgere il suo lavoro con le sue attitudini particolari, a dare il meglio di sé in quello che aveva di originale rispetto a tutti gli altri. Il falegname, il pittore, l’oste, il calzolaio, il commerciante, il droghiere, il tipografo, il macellaio, il tappezziere, l’arrotino, l’ombrellaio, il contadino — sissignori: il contadino –, svolgevano il proprio mestiere ciascuno in una sua maniera caratteristica: e non c’erano mai due maniere perfettamente uguali.
Ecco il ritratto di una di queste persone eccentriche, nei ricordi di Maurizio Boschiero, uno scrittore vicentino autodidatta, autore di un simpatico libro di racconti di vita vissuta (da: M. Boschiero, «Sui sentieri del tempo» (Villaverla, Edizioni del Colore Rosso, 2006, pp. 27-29); ritratto che assume una connotazione particolarmente patetica perché delineato in presenza di una grave sciagura, l’alluvione, che spazza via cose e memorie:
«Nel 1966 io aveva dodici anni, un’età in cui i ricordi e le storie, si fidano nella memoria, si piantano lì, come le stelle in un cielo limpido e senza orizzonte. Io ricordo quei giorni di novembre come fosse ora, quella piena dell’Astico, "la brentana" come era d’uso chiamarla tra noi, temuta e rispettata, fu un evento che segnò la vita ed il paesaggio circostante. Trascinò con sé tutto, qualche volta anche la speranza, insieme ai ricordi e le cose. Ne restano ancora oggi i segni, le racce, sugli argini e sui muri umidi dei vecchi mulini, ancora vivi in quegli anni, perché abitati, ora testimoni muti e cadenti di quell’epopea laboriosa e lontana. Fu quella piena, una marea di acqua terrosa e torbida, in cui galleggiavano erbe, piante, animali, enormi balle di cellulosa e suppellettili, cani, animali, tavole, ferri ed enormi pezze di stoffa di tanti colori, che come bandiere sventolavano in quel cielo caduto nel fango. L’urlo il rumore sordo e grave, di quelle onde contro la riva e i sassi era il cupo sottofondo di quei giorni, un ringhio tragico e cattivo, che copriva le voci ed il battere incessante della pioggia. Mi ricordo anche l’odore di quei giorni, odore d terra e di acqua, odore direbbero i vecchi "da freschin" [in dialetto veneto, di uova marce]. Io stavo sull’argine in alto, con la mia mano nella mano di mio padre, sicuro appiglio, porto tranquillo a cui attaccare i miei piccoli pensieri, le mie grandi paure.
I nostri terreni, coltivati a vigna, prato e grano, ma ridotti in quei giorni ad uno stagno marrone, degradavano quasi a ridosso del vecchio mulino alla "Cengella" in quel di Chiuppano. Era questo una costruzione antica e grande, a cui certi archi, certe colonne e certe date (1600), conferivano un’eleganza nobile e severa. I muri ormai corrosi dal tempo, trattenevano nomi e scritte ormai sbiaditi, ricordi di generazioni passate, di vite affannate tra quelle stanze, quell’acqua e quelle macine. Anche le parole dei vecchi in quei giorni assumevano un tono severo e sacro che facevano, di quel momento, una liturgia solenne ed antica. C’era con noi un vecchio magro che fumava la pipa, calmo, lo sguardo perso tra quelle onde, che sferzavano come fruste. Era "Bepi rana", l’ultimo abitante della "Cengella", un essere quasi acquatico, un fauno antico ed ironico che tutti conoscevano con quel nome grottesco, ma lui non se ne adombrava, sfidando la malizia di chi qualche volta ne rideva. Gran bevitore e grande filosofo, un saggio che confondeva i poeti, che parlava di Dante e di Dio, raccontava storie e scriveva poesie. Guardava e fumava, poi qualche parola buttata là distrattamente, forse era in quella corrente che vedeva scorrere la sua vita come in un film e danzare i fantasmi dei suoi antenati Il fumo, che saliva in alto, in volute ampie e calde, quasi a scaldare quel cielo fradicio e marcio, forse erano le preghiere di un rosario dimenticato. Restammo così, non so per quanto tempo, bagnati ed infreddoliti, pareva che il tempo si fosse fermato, tutto pareva sospeso, immobile, solo il livello dell’acqua continuava a salire. Saliva lento e inesorabile, fino a raggiungere, ad un tratto, le stanze del piano abitato. L’acqua in poco tempo sommerse i pavimenti e trascinò in una danza lenta e tragica ciò che poteva galleggiare; ogni confine venne confuso in un gioco beffardo e greve. Ora il mulino sembrava una gigantesca nave di pietra ai miei occhi di bambino, una barca ormai priva di ormeggi in balia del rumore e dell’acqua e Bei, il suo capitano la guardava sgomento. Esclamò soltanto: "Stavolta la ze finia, el se proprio inrabià". Non ho capito in quel tempo se si riferisse al fiume o a Dio, o forse faceva lo stesso, per lui quel fiume era un Dio. Una sorta di idea panteista ed eterna che accomunava gli uomini gli dei e le cose. Pi venne la sera, calò un buio sipario su quello spettacolo tragico ed io non ricordo più niente del fiume. Ricordo che un giorno vidi Bepi passare, tirava un carretto, con su un po’ di roba, qualche cassa, dei libri, mi salutò con la mano. Seppi più tardi che andò ad abitare in paese, con la moglie Celinia, in una piccola casa dai muri di pietra. Bepi lo vedevo tornare spesso al vecchio mulino, tornava da solo, il passo ciondolante e lo sguardo perso forse tra i suoi ricordi, come tra quelle antiche onde. Un giorno, mi fece un regalo, mi portò un libro. Era un vecchio libro dalle pagine scure e sbiadite, era "Il mulino del Po". Forse era il suo testamento, voleva consegnare a me bambino un ricordo, un segno, come quelli graffiati sui muri e la sua anima dal fiume.»
Come potremmo definire la figura, o la professione, di questo vecchio signore, "Bepi rana", il quale era un «gran bevitore e grande filosofo, un saggio che confondeva i poeti, che parlava di Dante e di Dio, raccontava storie e scriveva poesie»? Non ci sono le parole per dirlo, perché, di persone così, non ce ne sono più. Oggi, un bevitore è un bevitore e basta; e un filosofo è solo un filosofo, un signore che sta in mezzo ai libri e vive in una dimensione asettica, lontano dal sentire delle persone comuni. Non succede più che un gran bevitore sia anche un grande filosofo; né che un frequentatore abituale delle osterie sappia anche scrivere poesie e parlare in modo affascinante di Dio e della «Divina commedia».
Quanto ai bambini, hanno ben altro da fare, che ascoltare le storie dei vecchi: hanno il loro smartphone, il loro tablet, i loro giochi elettronici… Cose serie, insomma; e non sciocchezze e perdite di tempo, come le vecchie strane storie di un "Bepi rana". Non le capirebbero nemmeno, forse: e ciò va inteso alla lettera. Tanti ragazzi non comprendono neanche più il dialetto parlato dai loro nonni; sanno parlare e comprendere solo un brutto italiano senz’anima, quello della televisione o, peggio, dei messaggini telefonici; figuriamoci se potrebbero comprendere quel parlare di tutto, della vita, dell’anima, della poesia. I vecchi, non li ascoltano più: perché sono vecchi e non capiscono niente. Solo i giovani, forse, meritano un po’ della loro attenzione, almeno qualche volta; ma i vecchi, che ci stanno a fare?
Sono finiti i tempi dei "Bepi rana"; sono finiti i tempi della saggezza popolare, semplice ma non banale, e talvolta anche profonda (perché la semplicità non è il contrario della profondità, semmai un suo ornamento). Se qualcuno ha un problema, va dallo psicologo o, nei casi più gravi, dallo psichiatra; se qualcuno ha bisogno di un consiglio, va dal consulente finanziario, o dal notaio, o dall’avvocato. Tutti consigli a pagamento, si capisce. Di consigli per le cose dell’anima, non se ne ha più bisogno; semmai, si può guardare l’oroscopo, o — magari — interrogare il proprio "spirito guida", come insegnano certe pratiche New Age e come si sa che hanno fatto, o che fanno, questo o quel divo del cinema. Ci sono anche delle rubriche sulle riviste settimanali, e perfino dei libri, per i lettori più intellettuali (per quelli, cioè, che leggono un libro ogni tanto): articoli e libri dai titoli appetitosi e, soprattutto, rassicuranti, del genere: «Sii te stesso al cento per cento»; «Prendi la vita nelle tue mani»; «Cento consigli per volersi bene e vivere felici». Che meraviglia. A che servirebbe il consiglio di un amico «che vede, e vuol dirittamente, e ama», per dirla con Dante? Roba d’altri tempi; roba da Medioevo, appunto. Ma noi siamo moderni: e non abbiamo alcuna nostalgia, e meno ancora bisogno, di certe usanze medievali.
E c’è un’altra osservazione generale da fare, di carattere sociologico e antropologico. Così come la modernità ha favorito un pluralismo di superficie, e un conformismo di sostanza, allo stesso modo essa ha moltiplicato la quantità degli interessi, ma ha drasticamente ridotto la qualità nel modo di praticarli. Oggi le persone, a cominciare dai bambini, fanno mille cose, sentono mille voci (anche da macchine, come la televisione, e non da altre persone), discutono di mille cose, parlano con una infinità di altri soggetti (specialmente a distanza, ad esempio col telefonino: mentre guidano l’automobile, mentre pedalano in bicicletta, mentre camminano per la strada, o mentre già sono insieme ad altri amici); però, a ben guardare, non approfondiscono niente, e, in definitiva, non sono realmente interessate a nulla. Parlano, ma non hanno niente da dire; vanno di qua e di là, ma è come se restassero ferme, perché non ascoltano, non riflettono, né metabolizzano le esperienze; stanno sempre in compagnia di qualcun altro, faccia a faccia o per interposta tecnologia, ma è come se ciascuno fosse totalmente solo, chiuso e murato nella propria illusoria autosufficienza.
Per essere realmente padroni della propria vita, bisogna aver elaborato un minimo di saggezza; e per essere saggi, bisogna saper essere umili, cioè porsi in ascolto. Bisogna saper stare anche da soli; ma, quando si è con gli altri, bisogna saper interagire in profondità con essi, non limitarsi ad averli fisicamente accanto. Noi, oggi, viviamo accanto a migliaia e migliaia di persone; le vediamo, le sentiamo, le sfioriamo, ma è come se una parete invisibile ci separasse da loro. Abitiamo in una Torre di Babele dalle mille voci, dalle mille sollecitazioni, ma dove ciascuno è consegnato ad una tremenda solitudine. Siamo una folla di persone interiormente scisse, socialmente disadattate, che si somigliano nei difetti ma non si imitano nei pregi: angosciate e ormai senza speranza. A meno che…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels