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La noia, il gran male del nostro tempo, è figlia legittima del relativismo e dell’edonismo

Gli uomini e le donne del nostro tempo soffrono di un male gravissimo e mai diagnosticato né riconosciuto come tale: la noia esistenziale, il leopardiano "taedium vitae", ossia la perdita e lo smarrimento del significato del reale.

Si vive come immersi in un mare di nebbia, avanzando a casaccio, senza punti di riferimento, senza speranze, senza illusioni, senza nulla che conferisca bellezza e significato alle cose: tutto è divenuto opaco, liquido, inconsistente e insignificante; nulla merita attenzione, nulla più trattiene il nostro interesse, il nostro amore, il nostro rispetto.

La realtà si è come sbriciolata, sfarinata, dissolta; al suo posto scorgiamo brandelli di cose, frammenti di pensieri, relitti di sentimenti, macerie di ricordi, polvere di valori; le cose sono diventati episodiche, slegate, casuali: nulla più le lega le une alle altre in una catena logica, etica, estetica, spirituale.

La noia, inoltre, è incapacità di uscire da se stessi, isolamento, chiusura: perché se le cose perdono splendore e significato, se il reale cessa di essere qualcosa di chiaro e definito, se valori, pensieri e sentimenti naufragano ed affogano in un mare di nebbia vischiosa, allora non ha più alcun senso fare il minimo gesto per uscire da se stessi, anzi, è semmai consigliabile rinchiudersi nella propria autosufficienza, dove, almeno, si sa quel che ci si può aspettare, e sia pure il fatto di dover vivere in un mondo fatto unicamente di specchi.

Lo scrittore che forse meglio di tutti ha descritto questo male del secolo è stato anche uno dei cattivi maestri che di un siffatto orizzonte nichilista è stato — insieme a tanti altri – l’araldo compiaciuto e, come tanti altri, un diretto beneficiario, nel senso che i suoi cattivi libri sono stati venduti a milioni di copie, e qualche critico ha tentato perfino di annoverarlo fra i grandi della letteratura: vogliamo dire, Alberto Moravia.

Ecco come la descrive nel suo romanzo omonimo (da: A. Moravia, «La noia», Milano, Bompiani, 1960, 1976, pp. 7-9):

«Per molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che per certi aspetti essa rassomiglia al divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. Per adoperare una metafora, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, a un dormiente, in una notte d’inverno: la tira sui piedi e ha freddo al petto; la tira sul petto e ha freddo ai piedi; e così non riesce mai a prender sonno veramente. Oppure, altro paragone, la mia noia rassomiglia all’interruzione frequente e misteriosa della corrente elettrica in una casa: un momento tutto è chiaro ed evidente, qui sono le poltrone, lì i divani, più in là gli armadi, le consolle, i quadri, i tendaggi, i tappeti, le finestre, le porte; un momento dopo non c’è più che buio e vuoto. Oppure, terzo paragone, la mia noia potrebbe essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina; come a vedere in pochi secondi, per trasformazioni successive e rapidissime, un fiore passare dal boccio all’appassimento e alla polvere.

Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza. Per esempio, può accadermi di guardare cin una certa attenzione un bicchiere. Finché mi dico che questo bicchiere è un recipiente di cristallo o di metallo fabbricato per metterci un liquido e portarlo alle labbra senza che si spanda, finché, cioè, sono in grado di rappresentarmi con convinzione il bicchiere, mi sembrerà di avere con esso un rapporto qualsiasi, sufficiente a farmi credere alla sua esistenza, e, in linea subordinata, anche alla mia. Ma fate che il bicchiere avvizzisca e perda la sua vitalità al modo che ho detto, ossia che mi si palesi come qualche cosa di estraneo, col quale non ho nessun rapporto, cioè, in una parola, mi appaia come un oggetto assurdo, e allora da questa assurdità scaturirà la noia la quale, in fin dei conti, è giunto il momento di dirlo, non é che incomunicabilità e incapacità di uscirne. Ma questa noia, a sua volta, non mi farebbe soffrire tanto se non sapessi che, pur non avendo rapporti con il bicchiere, potrei forse averne, cioè che il bicchiere esiste in qualche paradiso sconosciuto nel quale gli oggetti non cessano un solo istante di essere oggetti. Dunque la noia, oltre alla incapacità di uscire da me stesso, è la consapevolezza teorica che potrei forse uscirne, grazie a non so quale miracolo.

Ho detto che mi sono annoiato sempre; aggiungo che soltanto in tempi abbastanza recenti sono riuscito a capire con sufficiente chiarezza che cosa sia realmente la noia. Durante l’infanzia e poi anche durante l’adolescenza e la prima giovinezza, ho sofferto della noia senza spiegarmela, come coloro che soffrono di continui mal di testa ma non si decidono mai a interrogare un medico. Soprattutto quando ero bambino, la noia assumeva forme del tutto oscure a me stesso e agli altri, che io ero incapace di spiegare e che gli altri, nel caso mia madre, attribuivano a disturbi della salute o altre simili cause; un po’ come il malumore dei bambini piccoli viene attribuito allo spuntare dei denti. Mi avveniva, in quegli anni, di cessare improvvisamente di giocare e di restare ore intere, immobile, come attonito, sopraffatto dalla realtà del malessere che mi ispirava quello che ho chiamato l’avvizzimento degli oggetti, ossia dall’oscura consapevolezza che tra me e le cose non ci fosse alcun rapporto. Se in quei momenti mia madre entrava nella stanza e vedendomi muto, inerte e pallido per la sofferenza, mi domandava che cosa avessi, rispondevo invariabilmente: "mi annoio", spiegando così, con una parola di significato chiaro e angusto, uno stato d’animo vasto e oscuro. Mia madre, allora, prendendo sul serio la mia affermazione, si chinava ad abbracciarmi e poi mi prometteva di portarmi al cinema quel pomeriggio stesso, ossia mi proponeva un divertimento che, come sapevo ormai benissimo, non era il contrario della noia né il suo rimedio. E io, pur fingendo di accogliere con gioia la proposta, non potevo fare a meno di provare quello stesso sentimento di noia, che mia madre pretendeva di fugare, per le sue labbra che si posavano sulla mia fronte, per le sue braccia che mi circondavano le spalle, nonché per il cinema che lei mi faceva balenare come un miraggio davanti agli occhi. Anche con le sue labbra, con le sue braccia, con il cinema, infatti, io non avevo alcun rapporto in quel momento. Ma come avrei potuto spiegare a mia madre che il sentimento di noia di cui soffrivo non poteva essere alleviato in alcun modo? Ho già notato che la noia consiste principalmente nell’incomunicabilità. Ora, non potendo comunicare con mia madre dalla quale ero separato come da qualsiasi altro oggetto, in certo modo ero costretto ad accettare il malinteso e a mentirle…»

A parte l’evidente, masochistico compiacimento e la malsana, narcisistica voluttà, che traspaiono da questo brano di prosa, in cui il protagonista indulge a descrivere la noia, non solo come compagna inseparabile della propria vita, ma anche come principio generatore di una vera e propria filosofia dell’esistenza e della storia, non priva di qualche arzigogolo intellettualistico pseudo-pirandelliano, quel che appare chiara è la non volontà di chiedersi quale sia l’origine di codesta noia, appunto perché essa fornisce un comodo alibi all’inerzia morale ed il necessario pretesto per assumere la parte della vittima. Chiedersi che cosa sia e donde provenga potrebbe mettere in forse il ruolo di vittima, alla quale, ovviamente, non si può chiedere nulla, perché è già troppo se, gravato da un simile fardello, un essere umano riesce ancora a sopravvivere, trascinando la sua penosa esistenza, giorno per giorno, minuto per minuto.

Insomma: «non contate su di noi» (per dirla con il titolo del film girato nel 1978 dal regista Sergio Nuti, sul problema della tossicodipendenza giovanile); o, ancora: «non chiederci la parola», per adoperare la formula-manifesto di Montale in «Ossi di seppia» (del 1925). Coloro i quali si definiscono vittime della noia esistenziale, infatti, si sono ritagliate, nello stesso tempo, un angolo calduccio, un rifugio tutto sommato confortevole, all’interno del quale si è esonerati dalle responsabilità, dagli impegni, dai doveri: con quale coraggio si potrebbe domandare a costoro di assumersi responsabilità, impegni e doveri, vedendo che stanno così male, che sino così sfiniti, così abbattuti, così tristi? Sarebbe come ordinare a un paralitico di correre, o a un cieco di mettersi a dipingere: una vera e propria crudeltà, un abuso intollerabile, venato di sadismo.

E allora, ecco che le vittime della noia si sono assicurate una forma di esistenza assai comoda, anche se moralmente miserevole: nessuno può chiedere loro uno sforzo, un lavoro qualsiasi, una assunzione di ruolo quale che sia, compreso l’ambito dei sentimenti e degli affetti: gli annoiati sono come dei malati, e i malati, si sa, vengono automaticamente dispensati da qualsiasi genere di servizio: al contrario, sono gli altri che debbono prendersi cura di loro, che hanno dei doveri nei loro confronti, che devono impegnarsi al massimo per sorreggerli, per confortarli, per tenerli a galla, mentre rischiano di scivolare verso il fondo.

Ma chi ha la necessaria autorevolezza per formulare una diagnosi come quella della noia cronica, di cui certe persone sarebbero vittime? Nella situazione descritta da Moravia, ma anche in quella di tantissime persone che s’incontrano abitualmente nell’ambito della vita quotidiana, a formulare la diagnosi sono gli stessi malati: è sufficiente proclamare: «sono affetto dal male invincibile della noia esistenziale», et voilà, il gioco è fatto: tutti gli altri devono inchinarsi rispettosamente, se non anche compassionevolmente, davanti alla nostra sofferenza, e, soprattutto, devono scordarsi di poter pretendere qualcosa da noi, fosse pure la più elementare, come un minimo di onestà, di lealtà, di coerenza: perché alla vittima della noia cronica, tutto viene concesso e tutto viene rapidamente perdonato e dimenticato.

Attenzione: non vogliamo sostenere che la noia, intesa come un male dell’anima, e come un male cronico, non esista; e nemmeno intendiamo sottovalutarne la portata. L’abbiamo definita, anzi, come un male gravissimo; ma abbiamo altresì soggiunto che, sovente, essa non viene riconosciuta come tale. Come va, allora, che tante persone si fanno forti, in un certo qual senso, paradossale, di essere attanagliate dalla noia, per scusare in anticipo il loro disimpegno esistenziale, per giustificare la loro inerzia, la loro accidia (Petrarca docet), la loro assoluta incapacità di agire, di scegliere, di assumere decisioni, di restare fedeli agli impegni presi? Perché la noia è, nello stesso tempo, un male più diffuso e meno diffuso di quel che non appaia al primo sguardo; infatti, quanti ne soffrono realmente, sovente non sono poi gli stessi che dichiarano, a gran voce, di soffrirne; in poche parole: perché essa fa molte vittime, ma quelle che dicono di essere tali, spesso non sono vittime autentiche, ma fasulle, come il malato immaginario di Molière: il che ha portato alcuni a concludere, troppo frettolosamente, che la noia non esiste affatto, o che, comunque, non è poi quel gran male che si dice.

Invece è un male, e anche assai grave. La persona spiritualmente e fisicamente sana non si annoia: sia perché gli impegni quotidiani della vita la tengono costantemente occupata, sia perché una tale persona conserva quel grado di stupore, di curiosità, di ammirazione e di gratitudine davanti al reale, che sono i migliori antidoti preventivi contro l’insorgere della noia. In un ceto senso, la noia è un male da ricchi che dispongono di troppo tempo libero e che devono fare i conti con troppi pochi impegni della vita concreta. Spesso si tratta di persone "single", oppure senza figli, o che non hanno bisogno di lavorare per vivere. Non vogliamo banalizzare il problema: la noia può colpire chiunque; ma è certo che essa colpisce, di preferenza, quanti le offrono il fianco, e colpisce più a fondo quelli che non chiedono altro che di offrirglielo. E ce ne sono parecchi.

In conclusione, la noia è un male tipico del nostro tempo, un po’ come l’obesità. In una società più sobria, diciamo pure più povera, raramente la gente ha il tempo di annoiarsi e raramente scivola in quel circolo vizioso così ben descritto da Moravia. Del resto, in una società sana, i cattivi maestri non vengono ascoltati; e i predicatori della noia e del nichilismo non trovano credito, né seguaci…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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