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28 Luglio 2015
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28 Luglio 2015Non abbiamo alcuna intenzione di risollevare, per l’ennesima volta, l’annosa e sterile questione circa l’effettiva riuscita artistica del personaggio manzoniano di Lucia: la più perfetta delle sue creature, secondo gli uni, la figura più sbiadita e insignificante, secondo gli altri. Ci preme soltanto ricordare il punto centrale, dal quale non si può assolutamente prescindere se si vuole, non diciamo capire, ma almeno porsi nelle condizioni di comprendere, un personaggio come quello di Lucia. Che è un personaggio eterno, e dunque non moderno, anzi, diciamola tutta, antimoderno: e chi ne dubita, o storce il naso davanti a una tale definizione, vuol dire che non ha occhi per vedere come vanno le cose oggi, come si pone la maggioranza delle donne davanti al maschio — ché questo è Lucia: il simbolo della vocazione sponsale della donna — oppure, il che è persino peggio, vede, ma non ha il coraggio di tirare le dirette conclusioni. E cioè, o che il mondo moderno sbaglia radicalmente nel suo modo di intendere l’amore, particolarmente quello della donna nei confronti dell’uomo, oppure che a sbagliare radicalmente è Manzoni e, dunque, che Lucia è un personaggio, a sua volta, irrimediabilmente sbagliato, e nessuna valentia artistica, nessuna finezza psicologica varrà mai a riscattarlo dal suo "peccatum originale".
Ma come può il lettore dei nostri giorni; come può — soprattutto — la lettrice dei nostri giorni, per i quali l’amore è un atto puramente edonistico e il sesso un diritto all’orgasmo, stabilito per contratto, avvicinarsi al mondo interiore di Lucia, dell’innamorata Lucia — ché Lucia ama il suo Renzo, anche se non ostenta il suo sentire: e la cosa non è necessaria ad un grande scrittore, come non lo è nell’amore di Lavinia per Turno ad un poeta della misura di Virgilio -, alla sua delicatezza che non ha nulla di astratto, di artefatto, ma è la cristiana e umana delicatezza di una filatrice, di una operaia della Lombardia del XVII secolo, figlia del popolo e, probabilmente, analfabeta, ma non per questo sprovvista, al contrario, di nobiltà e finezza d’animo, e, soprattutto, di una totale dedizione a Dio e di una dolcissima confidenza in Maria Vergine, protettrice di tutti i credenti e in special modo delle anime innocenti e tribolate?
Ci sembra quanto mai opportuno, a questo proposito, riportare una pagina del critico Francesco Mattesini, tratta da un articolo intitolato «Letteratura e religione» (apparso su «Vita e pensiero» nel 1987 e citato in: A. Manzoni, «I promessi sposi», a cura di Gilda Sbrilli, Firenze, Bulgarini Editore, 1996, p. 406):
«Lucia è la personificazione dell’amore sponsale. Tra i personaggi è quello che Manzoni più ama proprio perché raffigura e incarna un ideale. Non un ideale letterario, di stampo trovadorico o stilnovista, bensì un amore reale. Un amore di sposa, ancorché "promessa" sposa, e che rimanga, per la maggior parte della sua vicenda, "promessa" con tutto ciò che questo stato comporta di sogni prima e poi di turbamento, di trepidazione, di tremore, di difesa di un sentimento, perché questo non perda la sua innocenza, il suo trasparente candore. "Io voglio essere vostra moglie, e non c’ verso — si legge nel capitolo sesto — che potesse proferire quella parola, e spiegar quell’intenzione, senza fare il viso rosso". L’io narrante si riserva di assumere egli stesso il compito, con questa sottile e ammiccante riflessione, di significare le metamorfosi interiori, cui va soggetta Lucia donna amante, e le loro esterne manifestazioni, come questa del "rossore" già cantata nelle "Pentecoste", quale dono dello Spirito. Lucia dà lezione di amore dando lezione di pudore. Quando infatti al termine della notte degli imbrogli, Manzoni ritrae i due promessi sposi, rimasti promessi, in fuga per la campagna, indugia sul comportamento di Lucia nei confronti di Renzo, e sui suoi molteplici delicatissimi sentimenti di donna innamorata e schiva, non ancora consacrata nel suo amore per il fallimento del matrimonio a sorpresa. "Lucia scansava dolcemente e con destrezza, l’aiuto che il giovine le offriva ne’ passi malagevoli di quel viaggio fuori di strada; vergognosa in sé, anche in tale turbamento, d’esser già stata tanto sola con lui, e tanto famigliarmente, quando s’aspettava di divenir sua moglie, tra pochi momenti. Ora, svanito così dolorosamente quel sogno, si pentiva d’essere andata troppo avanti, e, tra tante cagioni di tremare, tremava anche per quel pudore che non nasce dalla trista scienza del male, per quel pudore che ignora se stesso, somigliante alla paura del fanciullo, che trema nelle tenebre, senza saper di che". Testo di grande rilevanza etico-psicologica, che, nei suoi felici esiti semantici, ci permette di cogliere e di seguire tra i chiaroscuri di un sentimento amoroso, non ancora segnato dallo Spirito, i timori e i rimorsi inconsapevoli dell’innocenza, attraverso un sofferto e fittissimo esame di coscienza. Lucia diventa così il simbolo dell’eros esorcizzato dalla Grazia e, prima della Grazia, dalla pudicizia, l’una e l’altra assunte a difesa dell’agape sponsale contro l’Eros edonistico. D’altro canto il celebre Addio espresso nel silenzio è esso stesso un finissimo espediente lirico-narrativo con cui Manzoni fa dire a Lucia di che specie era il suo amore e così come lo concepisce specularmente l’io narrante, affidandolo al soliloquio della sua creatura più diletta. Il soliloquio di Lucia, a ben guardare, è una tacita, ma intensa dichiarazione d’amore sponsale. Esso si muove tra il "brivido" suscitato dalla vista, in lontananza, del palazzotto di don Rodrigo e la nostalgia della casa natia e quella di Renzo che la doveva accogliere "in un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa". In questa dichiarazione la realtà del sentimento amoroso è rappresentata e compresa in una serie sfumata di metafore, che ne tracciano la fisionomia, i sussulti, il cammino affettivo, dal suo trepido nascere al suo pacato compimento davanti all’altare: "pensiero occulto"; "misterioso timore"; "rossore"; "sospiro segreto del cuore"; "rito", rito sacro, benedicente e santificante. Lucia, esule, ripercorre con la sua immaginazione, in silenzio, il viaggio indicibile di donna amante e credente, come è indicibile il sentimento che lo suscita e lo accompagna".»
Penosi, al confronto di questa bella pagina di critica letteraria, i tentativi di certi registi televisivi di "modernizzare" il personaggio di Lucia, di metterlo al passo coi tempi (i nostri!), di dargli una patina di spregiudicatezza e persino d’audacia, in modo da renderlo più familiare, più comprensibile, diciamo pure più umano e più simpatico al pubblico d’oggi, che non vuol sentire di rossori e s’impazientisce di voti alla Madonna, e che non arriva neppure a immaginare cosa siano l’amore e il matrimonio per una donna come Lucia: cioè, cosa siano stati per milioni di donne vissute prima della modernità, quando amore e matrimonio non erano una faccenda, prevalentemente, se non unicamente, sessuale, che si svolge unicamente tra due persone, all’insegna del massimo godimento possibile, ma bensì un incontro sacro e incoraggiato da Dio stesso, che si pone quale supremo garante della sua giustizia, della sua rettitudine e della sua resistenza a tutte le offese e contro ogni possibile nemico, interno così come esterno.
Lucia, dunque, ama Renzo: questo è poco, ma sicuro; solo che non lo ama, né manifesta il suo sentimento, alla maniera d’una ragazza dei nostri giorni: perché l’amore per Renzo, in lei, è inseparabile dalla vocazione sponsale e dalla vocazione materna, e mai ella guarda al suo Renzo se non con lo sguardo casto e schivo di una futura moglie e di una futura madre; né mai, neppure per un istante, ella separa l’amore per Renzo dall’amore per Dio, supremo garante e protettore delle loro nozze, nonché supremo sacerdote. Ecco perché si ribella, almeno inizialmente, all’idea di contrarre le nozze "a tradimento", nella famosa notte degli imbrogli: non tanto per un riguardo nei confronti di don Abbondio, percepito, comunque, come un ministro di Dio pavido e inetto, ma pur sempre come un ministro di Dio; ma per una forma di rispetto istintivo di fronte alla sacralità del matrimonio in se stesso, che non può essere menomata, né condizionata, dal comportamento discutibile, o addirittura indegno, d’un singolo sacerdote, perché a celebrare le loro nozze, e a benedirle col sacramento perenne del matrimonio, è, in ultima analisi, Dio stesso.
Questo discorso, ben lo sappiamo, oggi non piace: nell’epoca del divorzio facile e dell’aborto garantito per legge, un atteggiamento spirituale come quello di Lucia appare obsoleto, irragionevole, quasi fastidioso; diciamola tutta: dà un tantino fastidio, così come danno fastidio tutte le cose che colgono nel segno, perché mettono a nudo i nostri pregiudizi "progressisti", i nostri accomodamenti morali, la facilità e la disinvoltura con le quali ci alleggeriamo la coscienza ogni qualvolta le circostanze ce ne danno l’opportunità, anche se, in fondo alla coscienza, le voce ormai flebile, ma egualmente inequivocabile, della legge naturale, ci avverte che stiamo sbagliando, che ci stiamo mettendo su di una strada illecita, e che non avremmo il diritto di sovvertire la legge naturale solo perché la cultura dei "diritti", alla quale apparteniamo, ce ne dà la formale autorizzazione. Intuiamo, cioè, che Lucia non ascolta, né mai ascolterebbe, una voce discorde da quella della sua coscienza; e che la sua coscienza non le permette neppure di guardare al maschio puramente e semplicemente come a colui che è chiamato a soddisfare il suo desiderio sessuale, ma come a un futuro compagno di vita, di lavoro e di crescita cristiana, in una famiglia benedetta dal Cielo e allietata dalla nascita di tanti bambini.
Così è, se vi pare: e se no, lasciate perdere «I promessi sposi» e anche Manzoni, ché non ne cavereste alcun sugo; così come non potreste trarre alcun vantaggio, intellettuale o spirituale, leggendo la «Divina Commedia», se non siete disposti a mettere il mondo moderno, per quanto possibile, fra parentesi, e a sforzarvi di entrare nel mondo di Dante, che è, poi, quello di Tommaso d’Aquino, di San Francesco e di Santa Chiara, di Cimabue, di Giotto, di Federico II, dei Templari, delle cattedrali, dei pellegrinaggi, dei grandi peccatori, degli eretici come fra’ Dolcino, dei crociati, dei profeti, degli asceti, dei mistici e delle mistiche, di Gioacchino da Fiore e della bruciante attesa d’una palingenesi morale e sociale dell’umanità. Per capire lo spirito di un’opera, bisogna cercare di entrarci: e questo non è possibile se i nostri pregiudizi di uomini "moderni", cioè nemici di ciò che è universale ed eterno, e seguaci del dio Progresso e della Scienza materialista, fanno velo al nostro sguardo, alla nostra mente e al nostro cuore.
Manzoni, come Dante, come Bach, è un artista che depone il proprio "io" individuale e si lascia pervadere dallo splendore e dalla verità divine; che non cerca la propria gloria, ma la gloria di Dio; che non ha parole umane, o altre cose umane, da offrire alla nostra ammirazione, ma solo e unicamente la Parola e la Verità divine. E Lucia è la sua creatura più cara, più riuscita, più perfetta: chi non lo vede, chi non se ne fa una ragione è perché non lo vuole vedere, né lo vuole ammettere: se lo vedesse e lo ammettesse, infatti, gli parrebbe quasi di tradire la propria coscienza di uomo "moderno", ragionevole, libero, responsabile solo di fronte a se stesso; e dovrebbe deporre il sorrisetto ironico di superiorità che subito gli ispirano, quasi per un riflesso diabolico, i personaggi puri e casti come Lucia.
Vi è una sorta di odio inconfessato (e inconfessabile), negli uomini e nelle donne moderni, nei confronti di tutto quello che è autenticamente bello, limpido e trasparente; una sorta di possessione demoniaca inconsapevole, ma non perciò meno reale, che li spingono a irridere, schernire, disprezzare, le cose nobili e pulite, non insozzate neppure dal più piccolo schizzo di fango: un riflesso condizionato analogo a quello che, si dice, spinge il Diavolo a urlare di dolore anche al benché minino contatto con l’acqua benedetta, o al solo udire il nome di Dio e della Sua Madre infinitamente misericordiosa. In questo senso, «I promessi sposi» è un romanzo realmente difficile da leggere e da comprendere: più difficile che se fosse scritto in una lingua sconosciuta, o se le sue pagine fossero sigillate da una forza ignota ed inspiegabile.
In un certo senso, l’arte divinamente ispirata rappresenta, per noi, un segno di contraddizione: aiuta a sciogliersi le anime assetate di bene, di verità e di giustizia; e risospinge indietro, nel pantano dei loro pregiudizi scientisti e materialisti, le anime perse, incapaci di innalzarsi al di sopra d’un orizzonte di senso puramente egoistico, asfittico, chiuso alla trascendenza e compiaciuto della propria finitezza e della propria meschinità.
Un segreto per capire l’animo di Lucia? Lasciar andare il proprio ego, la propria superbia intellettuale, il proprio compiacimento di uomini e donne "moderni"; e farsi piccoli ed umili davanti al mistero dell’Assoluto, lasciarsi penetrare dalla forza eterna dell’Amore divino, senza condizioni…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels