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La filosofia della storia di Mao Zedong: strano miscuglio di cinismo e moralismo

Ora che il tristo personaggio e le sue ancor più tristi imprese (a cominciare dalla sanguinaria "Rivoluzione culturale" che, in nome del "popolo", ha sterminato alcuni milioni di persone) sono consegnati alla valutazione dei posteri, ci si può togliere la curiosità di vedere quale fosse la filosofia della storia che animava il Grande Timoniere, Mao Zedong, fin da prima che conquistasse il potere del Paese più popoloso della Terra, la Cina.

Nel maggio 1938, dopo che era iniziato, da quasi un anno, il conflitto sino-giapponese (ufficialmente il 7 luglio 1937, con l’incidente al Ponte «Marco Polo», presso Pechino, ma senza dichiarazione di guerra da nessuna delle due parti), Mao tenne una serie di conferenze ai militanti del Partito comunista su quell’argomento, dal titolo «Sulla guerra di lunga durata»; alcuni passaggi ci sono sembrati meritevoli di riflessione, per meglio comprendere quale fosse la filosofia della storia da cui discendevano le decisioni politiche di Mao (da: Mao Tse Tung, «Opere. Teoria della rivoluzione e costruzione del socialismo», Roma, Newton Compton Editori, 1977, pp. 257-278):

«[…] anche se il Giappone può ottenere l’appoggio esterno da parte dei paesi fascisti esso si troverà di fronte a una opposizione internazionale maggiore dell’appoggio internazionale ricevuto. La forza dell’opposizione internazionale crescerà gradualmente e alla fine non solo neutralizzerà la forza dell’appoggio internazionale ma farà anche sentore la sua pressione sullo stesso Giappone. Tale è la legge secondo cui una causa ingiusta non può trovare che scarso appoggio, e tali sono le conseguenze che derivano dalla natura stessa della guerra del Giappone. Riassumendo, il vantaggio del Giappone consiste nel suo grande potenziale bellico, e i suoi svantaggi nel carattere retrogrado e barbarico della sua guerra, nell’insufficienza di risorse umane e materiali, e nello scarso appoggio internazionale. […]

La nostra guerra non è una guerra qualsiasi, è una guerra che si combatte tra la Cina e il Giappone negli anni trenta del XX secolo. Quanto al nostro nemico, il Giappone, esso è innanzi tutto un imperialismo moribondo, è già in un’epoca di decadenza, ed è diverso non solo dall’Inghilterra al tempo in cui questa sottomise l’India, quando l’Inghilterra era ancora in un’epoca di ascesa del capitalismo ma anche da ciò che esso stesso era venti anni fa, al tempo della Prima guerra mondiale. La guerra attuale è scoppiata alla vigilia del crollo generale dell’imperialismo mondiale, e in primo luogo dei paesi fascisti; questa è appunto la ragione per cui il nemico ha sferrato questa guerra di avventura, che ha il carattere di un ultimo sforzo disperato. È qui assolutamente certo che la guerra avrà come risultato non la distruzione della Cina ma dei circoli dominanti dell’imperialismo giapponese. […]

Perché l’Abissinia fu asservita? Primo, perché essa non era soltanto un paese debole, ma anche un paese piccolo. Secondo, perché non era tanto progressista come la Cina; era un vecchio paese in fase di transizione dal sistema schiavistico a quello della servitù della gleba; un paese dove non esistevano né capitalismo né partiti politici borghesi, per non parlare del partito comunista, né un esercito come l’esercito cinese, per non parlare di un esercito come l’Ottava armata. Terzo, perché non fu in grado di attendere l’aiuto internazionale e dovette combattere nell’isolamento. Quarto, e questo è il punto principale, perché furono commessi errori nella direzione della sua guerra contro l’aggressione italiana. Così l’Abissinia, fu soggiogata. Ma esiste ancora in Abissinia una diffusa guerriglia che, se sarà continuata, permetterà agli abissini di liberare la loro patria nel futuro quando subentrerà un cambiamento nella situazione internazionale. […]

Queste allora sono le domande e le conclusioni: e le conclusioni: la Cina sarà asservita? Risposta: no, non sarà asservita e la vittoria finale sarà sua. Può la Cina vincere rapidamente? Risposta: no, non può vincere rapidamente, e la guerra dovrà essere una guerra di lunga durata. Sono giuste queste conclusioni? Io penso che lo siano.[…]

Se si considera una partita di "weichi" su scala mondiale… [vediamo che] il nemico accerchia la Cina, l’Unione Sovietica, la Francia, la Cecoslovacchia e altri paesi con il suo fronte dell’aggressione, mentre noi contro accerchiamo la Germani, il Giappone e l’Italia con il nostro fronte della pace. Ma il nostro accerchiamento è come la mano di Buddha che si trasforma nella Montagna dei cinque elementi, la quale domina l’universo; i moderni Sun Wu-kung — gli aggressori fascisti – saranno alla fine sepolti sotto di essa per mai più risorgere. […]

La storia dimostra che le guerre si dividono in due categorie: le guerre giuste e le guerre ingiuste. Tutte le guerre progressiste sono giuste e tutte le guerre che impediscono il progresso sono ingiuste. Noi comunisti ci opponiamo a tutte le guerre ingiuste che impediscono il progresso, ma non ci opponiamo alle guerre giuste, progressiste. Noi comunisti non solo non ci opponiamo alle guerre giuste, ma vi partecipiamo attivamente. La Prima guerra mondiale è un esempio di guerra ingiusta: le due parti combattevano per interessi imperialistici, ed è per questo che i comunisti di tutto il mondo si opposero risolutamente ad essa. Il mezzo per opporsi a una guerra di questo genere è fare tutto il possibile per impedirla prima che scoppi, ma una volta scoppiata, bisogna opporsi alla guerra con la guerra, opporsi alla guerra ingiusta con la guerra giusta, ogni volta che sia possibile. La guerra del Giappone è una guerra ingiusta che ostacola il progresso, e tutti i popoli del mondo, compreso il popolo giapponese, devono opporsi e di fatto si oppongono ad essa. In Cina tutta la nazione, dal popolo al governo, dal partito comunista al Koumintang, ha innalzato la bandiera della giustizia e conduce una guerra rivoluzionaria nazionale contro l’aggressione. La nostra guerra è sacra e giusta, è progressista e mira alla pace. Non alla pace nel nostro paese soltanto, ma in tutto il mondo, non a una pace temporanea, ma alla pace perenne.»

Il lettore sarà forse rimasto colpito dalla frequenza e dalla disinvoltura dei riferimenti etici, e perfino religiosi (come quello alla "mano di Buddha": lui, il grande nemico della religione, che trasformerà la Cina un Paese ateo), a sostegno della "giustezza" della causa cinese durante la guerra contro il Giappone, vista, peraltro, come un tassello di una guerra mondiale molto più vasta: quella fra le potenze "fasciste" e le potenze "progressiste" (fra le quali, non senza stridente contraddizione, è costretto ad arruolare, tacitamente, anche le plutocrazie: Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti) e infine, addirittura, quella fra "causa giusta" e "causa ingiusta", cioè poco meno che tra Bene e Male.

Ragionando con l’accetta, senza la minima sensibilità per le sfumature e senza la minima elasticità concettuale, da bravo comunista che, prima di imporre il lavaggio del cervello al prossimo, lo ha imposto a se stesso, Mao sostiene che vi sono unicamente due generi di guerra, quella giusta e quella ingiusta; e che – non si capisce bene per quale motivo – le prime sono destinate a concludersi vittoriosamente (o meglio, lo si capisce benissimo: perché Marx, buon discepolo di Hegel, predice l’infallibile vittoria finale del proletariato sulla borghesia: esempio di guerra giusta per eccellenza), le seconde a concludersi disastrosamente per chi le ha intraprese.

A differenza dei filosofi medievali, che distinguono fra guerra giusta e guerra ingiusta in base a un principio etico, Mao distingue le distingue in base a un principio economico-sociale (e, nel caso dei Paesi coloniali o semi-coloniali, come la Cina, a un principio nazionale): è giusta una guerra che si combatte per l’affermazione del progresso, ingiusta una guerra che ha per scopo il regresso. La guerra del Giappone contro la Cina è regressiva, quindi ingiusta, quindi destinata a sicura sconfitta. Qui, però, il futuro Grande Timoniere fa un po’ di confusione, perché dice la guerra di aggressione giapponese è regressiva e "barbarica" perché scatenata in un momento in cui l’imperialismo mondiale, compreso quello giapponese, è in declino, e dunque condannato dal progresso della storia (come quella italiana contro l’Abissinia), ma che è regressiva anche per un’alta ragione, ossia perché ostacola lo sviluppo delle forze "progressiste" sia nel Paese aggredito, la Cina, sia al proprio interno, a danno del proprio popolo: così, di fatto, oscilla fra le due alternative.

Quel che appare chiaro, comunque, è che il Progresso, per Mao, prende il posto del principio etico e di quello religioso: è giusto quel che lo favorisce, è ingiusto ciò che lo ostacola. In questo, Mao è un perfetto figlio della cultura illuminista europea (altro che leader asiatico del tutto originale), un classico figlio di Rousseau e Robespierre: ingiusta, per esempio, deve essere stata la rivolta della Vandea nel 1793, e giusta la sua terrificante repressione: l’una, infatti, fu regressiva (figuriamoci: restaurare il trono e l’altare, nonché il feudalesimo!), l’altra, progressiva. Alla durezza moralistica giacobina, poi, Mao unisce il cinismo di matrice marxista-leninista: che altro significa, infatti, trasformare una guerra "ingiusta", come la Prima guerra mondiale, in una guerra "giusta", se non esaltare la guerra civile del proletariato contro la borghesia (il vero nemico di oggi e di sempre), e, dunque, teorizzare la giustezza della guerra civile, vista come la guerra giusta per eccellenza, perché mirante alla pace? Una pace, si scopre a un certo puto, che sarà riservata non solo alla Cina, ma al mondo intero; e che non sarà temporanea, ma perpetua: la pace dei cimiteri!

E qui viene a galla l’aspetto più impressionante, insieme messianico e genocidiario, della filosofia della storia di Mao. Solo chi pensa che il regno dei Cieli sia di questo mondo, ragiona come lui: sterminare i nemici, sradicare il Male e instaurare il Bene, ovunque e per sempre, sino alla fine dei secoli: amen! Ed ecco la necessità della Rivoluzione culturale; ecco la necessità del genocidio di Pol Pot ai danni del suo stesso popolo cambogiano; ecco la sfida di una guerra mondiale nucleare da parte dei dittatori nord-coreani, ultimi veri eredi del pensiero maoista; ecco la necessità delle foibe, delle "pulizie" di classe o etniche, dei gulag, dei manicomi di stato, dei campi di concentramento, del lavaggio dei cervelli, dell’indottrinamento assillante, ossessivo, sistematico. Quella di Mao è una filosofia della storia di matrice religiosa camuffata, in cui il Progresso ha preso il posto del vecchio Dio trascendente, e in cui tutto il Bene sta da una parte, tutto il Male dall’altra, come nel più perfetto manicheismo: il che lo porta ad approssimazioni e forzature continue e grossolane, perché lo costringe ad arruolare tra le forze del Bene anche parecchi diavoli, la cui fine ignominiosa e la cui dannazione eterna, peraltro, è solo rimandata. Le conferenze del ciclo «Sulla guerra di lunga durata», abbiamo visto, sono del 1938: chissà cosa avrebbe detto Mao, davanti al patto fra Hitler e Stalin dell’agosto 1939! Del resto, niente paura: quando ciò accadde, il futuro presidente non si sarebbe lasciato turbare da così poco: in nome della preparazione alla "guerra di lunga durata", anche questo amaro boccone sarebbe stato facilmente digerito, da lui e dai suoi. Stalin non ha fatto altro che prepararsi, guadagnare tempo, in vista dello scontro decisivo con il "fascismo" (Mao, ovviamente, non si prende il disturbo di distinguere tra il fascismo italiano, il nazismo tedesco e il militarismo giapponese: sono solo "fascismo", tutti quanti, come — appunto- Stalin insegnava).

Che, poi, Stalin abbia approfittato di quel compromesso per liquidare l’intellighenzia polacca con un colpo alla nuca, per far sparire dalla carta geografica la Polonia stessa, per attaccare e mutilare la Finlandia, per mettere le mani sui Paesi Baltici e sulla Bessarabia; e che, dopo la conquista tedesca di Parigi, si sia affrettato a mandare al suo "amico" Hitler un caloroso telegramma di felicitazioni, mentre gli forniva tutte le materie prime necessarie alla prosecuzione della sua guerra ("ingiusta", evidentemente): tutto questo è stato solamente tattica. Perché, come in tutte le fedi religiose spinte sino al fanatismo, anche la fede nel Progresso illimitato, possiede non solo i suoi dogmi, ma anche il suo «credo quia absurdum»: e arriva sempre il momento in cui, piuttosto che dare torto al sommo sacerdote, il credente è "invitato" a dare torto ai fatti, con l’espediente di far passare come "tattico" qualunque voltafaccia politico. In fondo, quel che cerca il credente in un tale idolo, non è una fede che lo persuada, ma che lo assorba, che diventi tutt’uno con lui, finché egli non arrivi più a pensare la realtà se non dall’interno della sua visione, per distorta che sia.

Si spiega, così, come Mao arrivi a leggere la storia mondiale in termini moralistici e provvidenziali, sia pure d’un moralismo estremamente grossolano e d’un provvidenzialismo che fa tremar le vene e i polsi a chiunque appartenga alla categoria degli "infedeli": perché tali infedeli devono essere convertiti, sì da non nuocere; oppure eliminati. Era l’alternativa che i conquistatori bianchi del Nord America avevano posto ai Pellerossa, nel XX secolo: sottomettersi e integrarsi, o altrimenti perire…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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