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La crociata contro gli Albigesi in un quadro di Daniel van den Dijck a Treviso

Il visitatore che varchi la soglia del grandioso tempio dei Domenicani a Treviso, dedicato a San Nicolò, e percorra nella fresca penombra la navata di sinistra, osservando i dipinti disposti lungo la parete, ad un certo punto sarà attirato da una tela di grandi dimensioni (due metri e mezzo di altezza per sei metri e mezzo di lunghezza) raffigurante una scena all’aperto, di soggetto storico, assai movimentata e quasi concitata.

Il soggetto che rappresenta è «San Domenico e Simone di Montfort contro gli Albigesi»; un tempo si trovava sotto l’organo, come è testimoniato dai quattro rappezzi, nella parte superiore, che contenevano i modiglioni della cantoria e quello più grande, a destra, che incorniciava in parte la porta di accesso all’attuale sacrestia. Ma nel 1922 la scoperta degli affreschi medievali sotto di essa fece sì che venisse arrotolata e depositata nel retro-organo, ove rimase fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Saggiamente fu messa al sicuro a Venezia, perché nel 1944 il quartiere fu selvaggiamente bombardato dai "liberatori" Anglo-americani, con un bilancio di migliaia di morti, e la chiesa di San Nicolò, meraviglia architettonica iniziata nel 1200 e terminata un secolo dopo per impulso del domenicano trevigiano Nicolò Boccassino (poi divenuto papa col nome di Benedetto XI) subì anch’essa danni gravissimi. Infine la tela ritornò a Treviso, nel 1959, e, dopo essere stata restaurata dai fratelli Volpin di Padova, fu collocata nella posizione attuale, sulla parete settentrionale, fra l’altare del Rosario e la porta laterale.

A lungo si è attributo il dipinto al pennello del veneziano Giacomo Petrelli, che l’avrebbe realizzato nel 1669; di questo parere era anche Mons. Giovanni Patrizio, autore della guida «Il tempio monumentale di S. Nicolò a Treviso», Treviso, 1962, pp. 26-28), che così descrive il soggetto: «Scena movimentata. S. Domenico accompagnato da altro frate e dal Conte Simone di Montfort leva il crocifisso contro un gruppo di eretici che stanno assalendo i cattolici adunatisi presso una Chiesa. Ma le frecce scagliate dagli Albigesi si ritorcono contro di essi uccidendone alcuni, altri mettendo in fuga. La vittoria si dovette alla devozione del Rosario caldeggiata e diffusa in tutti i paesi cattolici.»

In seguito l’attribuzione a Giacomo Petrelli è stata revocata in dubbio dai critici e ad essa si è ritenuto di sostituire quella al fiammingo Daniel van den Dijck (1610-1670circa), in base a ragioni di carattere formale, oltre che sulla base delle ricerche archivistiche. Così Morena Abiti nella sua recente monografia «Il tempo di san Nicolò a Treviso» (Treviso, 2004, pp. 32-33):

«La scena rappresenta l’assalto di un gruppo ereticale contro i cattolici tra cui San Domenico adunati presso una chiesa. L’episodio si inserisce nell’ambito della lotta contro gli Albigesi, avvenuta nel sud della Francia (1209-1229). Con il nome di Albigesi, dalla città francese di Albi, sono designati comunemente i gruppi ereticali affini ai Catari. Papa Innocenzo III (Lotario dei Conti di Segni, Anagni 1160-Perugia 1216) fu inizialmente contrario a usare mezzi violenti contro di essi sostenendo la possibilità della conversione.

San Domenico (1170-1221), fondatore dell’ordine dei Frati Predicatori, detti anche domenicani, nacque a Calaruega in provincia di Burgos (Vecchia Castiglia, Spagna), fu ordinato sacerdote e si aggregò ai canonici della sua diocesi. Durante il suo apostolato, percorrendo tutta l’Europa, si dedicò a predicare contro le eresie. Morì a Bologna, dove è sepolto nella chiesa a lui dedicata e viene commemorato l’8 agosto.

Il Santo, pur lontano dalle operazioni militari e dedito alla predicazione e alla conversione degli eretici, è rappresentato nel dipinto mentre solleva il crocifisso per ripararsi dalle frecce a lui dirette e respingerle contro gli assalitori. Alle sue spalle si vede Simone di Montfort, a capo del gruppo cattolico. Il quadro è animato da molte figure: a destra il gruppo di fedeli sulla scalinata di accesso al tempio, a sinistra il gruppo scomposto dei non credenti. Alcuni sono riversi a terra, altri stanno fuggendo a cavallo, uno è disarcionato. Il contrasto fra i due raggruppamenti è ben sottolineato dalla netta divisione spaziale impressa dall’albero posto al centro del dipinto.

La critica ottocentesca riconosceva in Giacomo Petrelli (documentato a Venezia e a Treviso dal 1639 al 1669) l’autore, tuttavia la paternità dell’opera a van Den Dijck può essere riconosciuta per le indicazioni tramandate dalla storiografia più antica, coeva alla realizzazione del telero, e, ancora, per la composizione, il disegno e il modo di trattare la forma delle figure.»

Ecco qui un’opera sconcertante, beninteso sotto il punto di vista storico; ché, sotto il punto di vista artistico, si tratta di un’opera certamente pregevole, caratterizzata da un tratto vigoroso, anche se un tantino enfatico – non per nulla siamo in piena stagione barocca -, da una plasticità corposa, erede della migliore tradizione classica e attenta fino al dettaglio: come si vede nelle pieghe realistiche delle vesti e nel chiaroscuro sapiente delle superfici, e soprattutto nella luminosità dei colori, che ricordano la tavolozza di Paolo Veronese, ed i cieli azzurri solcati da gonfie nubi temporalesche, alla maniera di Nicolas Poussin.

Sconcertante, dicevamo, per la significativa inversione della realtà storica, con i perseguitati trasformati in persecutori e con i persecutori trasformati in perseguitati, un po’ come accadeva alle vicende delle guerre indiane descritte attraverso la cinepresa dei film western sul tipo di «Ombre rosse» (che pure era un signor film, così come John Houston era un signor regista; ma anche van den Dijck è un signor pittore e questo suo dipinto ne è la testimonianza); e così come, in molte pagine dei libri storici dell’Antico Testamento, Filistei, Cananei e Amorrei vengono presentati come feroci invasori mentre non erano che gli strenui difensori della loro terra, contro l’invasione e la guerra di sterminio condotta ai loro danni dalle tribù israelite.

Il primo pensiero, infatti, del visitatore che s’imbatte in questa vasta tela, è che – finalmente -qualcuno, già quattro secoli fa, sentiva la necessità di fare i conti con una pagina oscura nella storia della Chiesa, caratterizzata da una vera e propria crociata bandita contro gli eretici e condotta con incredibile ferocia, fino allo sterminio di intere popolazioni. «Uccideteli tutti; Dio poi saprà riconoscere i suoi», pare dicesse Simone di Montfort a quanti gli chiedevano come dovessero regolarsi nei confronti della popolazione civile di Montségur appena conquistata, nella quale vivevano molti cattolici accanto agli Albigesi.

Istintivamente lo sguardo cerca una conferma di tale vaga supposizione: per esempio, che San Domenico, riconoscibile sulla destra della scena, raccolga intorno a sé e protegga contro le inutili violenze dei vincitori, quegli albigesi che si sono arresi. Ma ben presto si accorge che non è affatto così; che gli Albigesi, sulla sinistra della tela, imperversano e scoccano frecce contro un gruppo di cattolici indifesi, per giunta mentre sono raccolti davanti a una chiesa. Due donne, in basso al centro, sono inginocchiate e fanno il gesto di nascondersi o di chiedere clemenza; sono giovani e molto belle, e le loro vesti, dai colori sgargianti, non sembrano molto in sintonia con l’immagine che ci aspetteremmo di due pie fedeli in pericolo di morte. Più credibili appaiono le figure di uomini e donne che fuggono scompostamente, sulla destra del quadro, anche se la barbarica amputazione della tela, per adattarla – come abbiamo detto – al vano di una porta, ci impedisce di farci un’idea esatta di questa parte dell’opera.

Quel che è certo, gli albigesi non solo non ricevono protezione, ma subiscono una ulteriore falcidia; del resto, essi sono presentati come i feroci aggressori, con i cavalli slanciati a tutta corsa verso i cattolici indifesi; due di loro giacciono morti a terra, un terzo sta scivolando giù di sella; altri due, infine, spronano i cavalli nella fuga, e uno di essi scaglia un’ultima freccia all’indietro – come la freccia del Parto -, che s’infigge contro il crocifisso brandito da San Domenico, al quale esso fa da scudo soprannaturale. Ma si vede bene che le frecce scagliate dagli eretici tornano indietro e sono esse che stanno seminando la strage fra coloro che le avevano scoccate: siamo quindi in presenza di un evento soprannaturale, di un miracolo di tipo veterotestamentario (perché i miracoli del Vangelo sono miracoli di vita e non di morte). Per buona misura, gli Albigesi son rappresentati in perfetto equipaggiamento guerresco, con tanto di elmi ed armature scintillanti (armature del Seicento: ma questo è un anacronismo piuttosto diffuso nella pittura e nella scultura a soggetto religioso, non solo di quel secolo pur tanto fantasioso e anticonformista), e niente affatto come degli abitanti indifesi che subiscono una vera e propria guerra di sterminio in casa propria.

Queste, le riflessioni che lo sconcertato visitatore non può evitare di fare, tra sé e sé, allorquando si rende conto del vero significato della tela di Daniel van den Dijck, un artista fiammingo nato ad Anversa e morto a Mantova, dopo una lunga carriera artistica svolta soprattutto in Italia, ove fu attivo soprattutto nella Repubblica di San Marco, a Bergamo, a Venezia, e poi a Mantova, presso la corte dei Gonzaga; ma che, sul piano del linguaggio figurativo, fu influenzato soprattutto dalla pittura di Rubens.

Il tono enfatico della tela, non del tutto coerente con la drammaticità del soggetto — come abbiamo già rilevato -, si può ancora accettare, sia tenendo conto dell’intento edificante dell’opera, sia del gusto barocco allora imperante, sia, anche, la propensione di Daniel van den Dijck per i soggetti mitologici accanto a quelli religiosi, ovvero il suo amore per tutto ciò che poteva consentirgli di esaltare al massimo gli effetti delle figure in movimento, come i cavalli in corsa, la torsione dei corpi (l’arciere che scocca il dardo, ruotando il busto all’indietro sull’arcione), la prospettiva dal basso, il colore pastoso e i cieli tempestosi.

Ciò che riesce arduo da digerire, sul piano dei contenuti, è la deliberata inversione storica dei fatti in base a una pregiudiziale ideologica. Questo, almeno, al primo impatto; sopraggiunge poi, più pacata, una doverosa, ulteriore riflessione. Gli Albigesi non erano un nemico come un altro, e non erano nemmeno un nemico esterno, per quanto pericoloso e aggressivo: erano una setta cristiana con lontane radici gnostiche e manichee; e la versione ereticale del cristianesimo che essi avevano ampiamente diffuso in vaste regioni della Francia meridionale, esportandola anche con la violenza (celebre è rimasto l’assassinio di San Pietro Martire, nel 1252) rappresentava la più grave minaccia che la Chiesa abbia mai dovuto affrontare, dopo la sconfitta dell’Arianesimo, del Pelagianesimo e del Monofisismo, moltissimi secoli prima. Intere regioni erano già cadute in preda all’eresia catara e le violenze, per la verità, si commettevano da entrambe le parti; però la posta in gioco non era valutabile solo sul piano dei rapporti di forza, ma si trattava di una partita per la vita e per la morte dello stesso cristianesimo. Se gli Albigesi, che godevano la protezione dei signori occitani e che avevano fatto moltissimo proselitismo fra le popolazioni cattoliche, non fossero stati fermati, avrebbe finito per imporsi una nuova versione del cristianesimo, di tipo gnostico e manicheo, fondata su un radicale pessimismo circa la natura umana e tutto il mondo fisico. La creazione non è una bella opera di Dio, per i Catari, ma l’opera del Diavolo; così come dal Diavolo viene il Gesù storico, morto sulla croce, perché redimere un mondo maledetto non avrebbe avuto senso.

Sia come sia: non è certo il caso di giustificare, e tanto meno glorificare, lo sterminio degli Albigesi, bensì di inserirlo in un quadro storico realistico, in cui esistevano dei pro e dei contro, ed entrambe le parti in lotta avevano le loro ragioni ed i loro torti. Questo, sul piano storico. Ed è certamente triste, ma fa parte della natura umana, che anche un’idea giusta finisca per ricorrere a mezzi ingiusti per sopravvivere. Tuttavia, davanti a un’opera come quella della chiesa trevigiana di San Nicolò, il visitatore non dovrebbe chiedersi se l’artista sia stato fedele ai termini reali della vicenda storica che ha voluto rappresentare, ma se sia stato coerente, sul piano formale e sul piano sostanziale, con l’idea che lo animava: esaltare sia la pietà di San Domenico, sia la potenza divina, che soccorre i suoi fedeli e punisce l’empietà dei suoi nemici. Non altro si dovrebbe chiedere a un artista; e, a maggior ragione, all’autore di un’opera a soggetto religioso. In un tale contesto, ciò che conta non è la verità storica, ma la verità teologica. Non è legittimo chiedere a un artista, all’autore di un quadro a soggetto religioso, di essere uno storico imparziale; bensì domandargli se abbia saputo infondere nell’opera la propria fede, traducendola con mezzi adeguati, così da renderla accessibile a chiunque.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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