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La canonizzazione di Pio X disturba molto i cattolici “progressisti”

Pio X – al secolo Melchiorre Giuseppe Sarto, nato a Riese, in provincia di Treviso, il 2 giugno 1935 e morto a Roma il 20 agosto 1914, mentre scoppiava la prima guerra mondiale – come è noto, è stato canonizzato il 29 maggio del 1954 da Pio XII.

Pio X, d’altra parte, è il papa che ha combattuto il modernismo a muso duro, in particolare con l’enciclica «Pascendi Dominici gregis» dell’8 settembre 1907: la sua canonizzazione, pertanto, ha dato e continua a dare molto fastidio a tutti quei cattolici "progressisti" che vedono in lui un crociato fuori tempo, un ex parroco di campagna ignorante e fanatico — come lo giudicò, infatti, Ernesto Buonaiuti nell’anonimo «Diario di un prete modernista», nonché un nemico della scienza e del progresso; ipocriti, del resto, quanto serve per dissimulare il loro rancore, il loro risentimento, dietro il velo d’un falsa oggettività storiografica e d’una altrettanto falsa "superiore" comprensione per l’indubbia buona fede del pontefice, mal consigliato, a loro avviso, dai suoi più stretti collaboratori.

I cattolici modernisti, del resto, si son presi la rivincita, in apparenza definitiva, dopo il Concilio Vaticano II, e oggi costituiscono una vera e propria Chiesa modernista dentro la Chiesa cattolica, di cui tendono a occupare le posizioni più in vista, anche se, forse, non in posizione di maggioranza, e della quale cercano di prendere la guida, presentando se stessi come gli unici "veri" cattolici, i soli che hanno a cuore il "dialogo" con il mondo moderno e che possiedono cultura e sensibilità in misura sufficiente per portarlo avanti con reciproco vantaggio.

A tutti costoro, evidentemente, sfugge l’essenza del fenomeno modernista: vale a dire l’ascesa sociale e politica di una borghesia che, pur essendo tradizionalmente cattolica, non voleva e non vuole, ancor oggi, passare per retrograda; che ostenta d’essere aggiornata riguardo alle ultime novità in campo scientifico, fra le quali, ovviamente, metteva e mette la ricerca biblica e la speculazione teologica; e che, in poche parole, detestava e detesta l’idea di dover condividere la stessa fede, semplice ed umile, ma non per questo anti-razionale o anti-intellettuale (come l’esempio di giganti del pensiero, quali S. Agostino e S. Tommaso d’Aquino, dimostra); e che, dunque, per distinguersi dalla plebe incolta, dai contadini, dalle vecchiette, dai bambini, desiderava costruirsi un cattolicesimo sulla sua misura, colto, filosofico, aperto alle novità e anche, in fondo, al relativismo culturale venuto di moda, insomma una religione per signori e per intellettuali, ben distinta da quella del popolo ignorante, ancora irretito nelle forme semi-superstiziose di una devozione popolare che la cultura illuminista, dalla quale lorsignori provengono, disprezza ed aborrisce di tutto il cuore.

Un buon esempio della storiografia cattolica "progressista", che trova imbarazzante, se non proprio sconveniente, la canonizzazione di Pio X, è offerto dalla ponderosa monografia di Carlo Snider sull’episcopato del cardinale di Milano, Andrea Ferrari (di cui finora sono usciti due volumi), personaggio che fu in odore di modernismo, o di connivenze con il modernismo, e che ebbe un rapporto difficile, appunto, con Pio X: il che basta a giustificare il durissimo giudizio dell’autore nei confronti di papa Sarto. Oh, ma attenzione: il giudizio è, sì, durissimo, impietoso, vorremmo dire irriverente, anche nei confronti di Pio XII e di quanti hanno lavorato alla sua canonizzazione, benché ispirati, in qualche modo – come crede qualunque cristiano – dallo Spirito Santo: però non è mai netto, non è mai univoco, non è mai franco; è sempre dosato con tortuosi giri di frase, ammantato con apparenti scrupoli di equanimità, addolcito da frequenti attestati di stima per la sua integrità, e di comprensione per il pericolo reale che egli dovette fronteggiare con la crisi modernista. Insomma la prosa di Carlo Snider è un autentico capolavoro di tortuosità gesuitica, di untuosità democristiana, di ambiguità sapientemente dosata: un colpo al cerchio ed uno alla botte, un passo avanti e due indietro: "adelante Pedro", come direbbe il buon Alessandro Manzoni; però, mi raccomando, sempre "con juicio".

Ne riportiamo un brano a titolo di esempio, là dove l’autore traccia un ritratto complessivo di Pio X ed esprime il proprio punto di vista sulla sua canonizzazione; un ritratto ed un giudizio ove, si badi, il costante punto di riferimento, la pietra del paragone, l’alfa e l’omega teologica e pastorale, è, guarda caso, il Concilio Vaticano II (da: C. Snider, «L’episcopato del cardinale Andrea Ferrari», volume secondo, «I tempi di Pio X», Vicenza, Neri Pozza Editore, 1982, pp. 191-93):

«Lo scarso ricorso del Concilio Vaticano II a Pio X sembra confermare l’espressione [sic], assai diffusa, che con il suo magistero e la sua regola pastorale egli sia rimasto estraneo a questo processo [quello, cioè, di "entrare nel movimento della storia", anzi abbia voluto opporvisi.

Da un certo punto di vista, nessun pontificato dell’età contemporanea appare così lontano dalla sensibilità spirituale, dagli interessi culturali, dalla problematica complessa che ci assilla e ci sprona fino all’angoscia, a volte fino allo smarrimento, come quello di Pio X. La canonizzazione di questo papa, preparata e proclamata in un momento particolare della vita religiosa contemporanea, esaltò e consacrò il valore simbolico e spirituale del suo magistero e della sua azione pontificale. Orbene, il contrasto tra il significato attribuito allora a quell’atto e le interpretazioni odierne non potrebbe essere più profondo e più ovvio [sic; forse voleva dire: palese]. La sollecitudine pastorale di papa Sarto si manifestò con delle preoccupazioni, con delle convinzioni, con una azione pratica troppo diversa da quelle che la realtà del nostro tempo, la disposizione morale e spirituale dell’uomo d’oggi, anche quella del più ponderato e religioso, fanno riconoscere come le sole valide ed opportune. L’impressione di un limite notevole posto all’efficacia del magistero di Pio X dalle vicende che stanno conducendo la Chiesa verso la sua terza età [?] sembra confermata dagli stessi atti del Concilio Vaticano II. Vi ritroviamo i temi salienti del magistero di quel papa; vi risentiamo le stesse ansie e gli stessi propositi; tuttavia essi rivelano l’esiguità quantitativa, ed in un certo senso anche qualitativa, del contenuto dottrinale recato al concilio dal papa che più dei suoi predecessori sentì la necessità di un totale rinnovamento spirituale della Chiesa, facendone la ragione del suo pontificato.

Sarebbe meschino attribuire un fatto così notevole all’abile prevalere di una corrente lontana dall’intransigenza dottrinale e pratica di Pio X; peggio ancora vedervi una sopraffazione perpetrata da pochi mestatori ai danni dell’assemblea conciliare ed in opposizione al sentire e al volere della maggior parte del clero e del popolo cristiano. Dobbiamo concedere almeno una parvenza di fondamento all’opinione di chi nel distacco dell’anima e della cultura religiosa del nostro tempo dallo spirito e dal metodo pastorale di Pio X vede le conseguenze di un pontificato troppo condizionati oda una visione pessimistica del suo tempo; di un magistero ispirato ad una interpretazione prevalentemente negativa del nuovo contenuto della storia; di un regime praticamente repressivo di istanze propizie, persino essenziali, per una profonda e vigorosa animazione cristiana della sempre più rapida ed inesorabile trasformazione sociale e culturale in atto.

L’odierna storiografia tende ad attribuire questo atteggiamento di Pio X ad una formazione mentale e pastorale che non lo dispose a ritenere possibile e spiritualmente valida la fondazione di una storia fondata sui nuovi valori emersi durante il secolo liberale, ed a riconoscere una intenzione retta alle attività rivolte a quel fine. La critica non ha atteso le indicazioni del Vaticano II pere farsi più precisa. Pio X avrebbe mantenuto nella Chiesa la dannosa staticità che Leone XIII aveva cercato di interrompere; e così, affermano oggi alcuni censori persuasi di non emettere un giudizio appassionato e frettoloso, egli non ha saputo preparare validamente il clero ed il laicato cattolico del suo tempo ad inserirsi con cosciente e ampio impegno nel processo evolutivo di tutto il mondo contemporaneo.»

È davvero un capolavoro di abilità avvocatesca rovesciare così abilmente e così impercettibilmente i reali termini della questione, facendo passare gli aggrediti per aggressori, e scaricando sui sostenitori di Pio X la responsabilità di vedere complotti e tranelli un po’ dovunque, proprio mentre l’autore non si perita di sostenere, pur con tutte le attenuazioni del caso, che la canonizzazione di Pio X sarebbe stata, a suo parere, quanto meno inopportuna, e che insomma il suo pontificato fu tutto un errore e, anzi, una somma di errori, sia teologici, sia pastorali. E con quanto perizia insinuante viene presentata, questa condanna irrevocabile, come un atto di ragionevole e ponderata analisti storica, addebitando a chi ne dubitasse un atteggiamento "meschino", perché incapace di vedere le cose nella giusta luce!

E che dire di quella trasformazione sociale, ovvero quella della modernità, definita "inesorabile", come a suggerire che l’unico atteggiamento sensato del cristiano deve essere quello di accettarla o, al massimo, di cavalcarla, venendo a patti con le sue istanze essenziali e mettendosi, così, sul suo stesso terreno? Proviamo ad immaginarci un simile concetto nelle lettere di San Paolo: i cristiani che vengono esortati a giudicare come " inesorabile" l’orientamento morale, spirituale e culturale del loro tempo, ossia della società pagana! Questa è la differenza fra i cristiani di un tempo e quelli di oggi: i primi avevano la volontà e la piena consapevolezza di fare la storia, anche andando controcorrente e anche a costo della loro vita, i secondi pensano, al massimo, di dover salire sul treno giusto, prima che sia troppo tardi.

Ma il punto, in verità, è proprio questo: i cattolici che si autodefiniscono "aperti" e "progressisti", e che vogliono dialogare con tutti: con gli ebrei, con gli islamici, con i buddisti, con gli atei, con i marxisti, con il femminismo, con i movimenti di "liberazione" gay, proprio con tutti, tranne che con i loro confratelli che essi giudicano ottusi e reazionari, e ai quali riservano un sovrano disprezzo, non si accorgono di aver perso l’essenziale: la fede; e, con essa, il senso del mistero e il senso del limite; in una parola: la dimensione del soprannaturale. Non se ne accorgono, non vogliono vederlo; si sentono al passo coi tempi — tempi di scienza, di tecnica, di economia rampante, altro che storie — e si auto-rappresentano come la vera Chiesa, come una Chiesa in cammino verso le magnifiche sorti e progressive, nelle quali, sarà possibile mettere a tacere gli ultimi scrupoli e servire insieme due padroni, Dio e Mammona.

Non parlano più del Vangelo; non parlano più di Gesù Cristo; non parlano più della preghiera; non parlano più della Grazia; non parlano più dello Spirito Santo, che spira e va dove vuole, che può entrare nel mistero di ogni anima, e che non si cura della loro superbia intellettuale, della loro pretesa di voler salvare il mondo, qui e ora, in senso economico, politico e sociale. Si riempiono la bocca (e riempiono le pagine dei loro giornali, spacciati per "cattolici"), ma hanno perso l’essenziale, hanno perso la fede: e non lo sanno.

Dei Novissimi, infatti, non vogliono più sentir parlare; non vogliono nemmeno sentir parlare degli angeli e dei diavoli — di questi soprattutto (vi sono vescovi che ne ridono apertamente e che non vogliono, ma proprio non vogliono, avere dei preti esorcisti nelle "loro" diocesi, quasi che queste fossero altrettanti feudi di loro investitura); non parlano quasi più dell’Aldilà, parlano sempre di questo mondo, della giustizia sociale, dei diritti di tutti e di ciascuno, delle lotte per la libertà delle minoranze. Vogliono fare del Cristianesimo la religione dell’Al di qua, dove Dio è, al massimo, una mera ipotesi di lavoro, e dove la vita dopo la morte è questione di opinioni personali. Il tutto, però, senza la franchezza, senza il coraggio di chiamar le cose con il loro nome; anzi, presentando se stessi come i "veri" (ed unici) depositari della fede cristiana, e denigrando sistematicamente quanti non la pensano allo stesso modo. Quanto a quest’ultimo aspetto, ossia alla mancanza di coraggio e di franchezza, si noti, nel brano sopra citato, l’astuzia di attribuire ai "censori" di Pio X il giudizio negativo su quel pontificato, fingendo neutralità e imparzialità; mentre, in effetti, l’autore condivide pienamente quel giudizio, ma non vuole scottarsi le dita affermandolo a chiare note. Preferisce lanciare il sasso e nascondere la mano: il tutto con untuosa, falsa mitezza e pacatezza, e con ostentata prudenza di linguaggio e di concetti.

Non di questo ha bisogno un dialogo franco e leale con il mondo moderno: ma di fede e vera umiltà.

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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