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Jacqueline Vincent, o dell’eroismo coniugale

Se si va su E-Bay, si scopre che almeno uno dei suoi oltre venti libri non è stato ingoiato, come gli altri e come la sua stessa figura, dal pozzo dell’oblio, ma è ancora reperibile; che ne vennero stampate diverse traduzioni nelle principali lingue europee; e che, in Italia, le Edizioni Paoline ne curarono parecchie edizioni, continuando a riproporle ai lettori fin verso la fine degli anni ’70: poi, in omaggio alle nuove tendenze della spiritualità e della catechesi, nonché del gusto letterario, anche quell’unico libro venne lasciato cadere.

La scrittrice di cui stiamo discorrendo è la francese Jacqueline Vincent, della quale invano si cercherebbero, nella cultura odierna, tracce o ricordi, quasi fosse calato su di lei una tacita consegna del silenzio, quasi che non fosse mai esistita: eppure, nella prima metà del Novecento, il suo nome non era affatto sconosciuto, né alla massa dei lettori, né alle giurie dei premi letterari: aveva pubblicato la bellezza di ventiquattro libri, sia per bambini che per adulti, più una voluminosa, sofferta e commovente autobiografia spirituale; e aveva anche vinto il prestigioso Premio della Rosa, entrando, così, di diretto, nei quartieri nobili della cultura francese.

L’autobiografia, intitolata «Libro dell’amore» (sottotitolo: «Della fedeltà coniugale») è una lettura che avrebbe ancora qualcosa da dire, crediamo, agli smaliziati lettori del terzo millennio, compresi gli smaliziati cattolici "progressisti" (e "progrediti") i quali, di certo, non lo leggerebbero con la devota ammirazione dei loro correligionari di due, tre o quattro generazioni fa, ma che, nondimeno, potrebbero trovare, in questa donna semplice dal cuore nobile e nella sua vicenda esemplare, degli spunti di riflessione non certo insignificanti, anche e specialmente nelle difficoltà familiari e nelle incomprensioni coniugali.

In breve, si tratta di questo: la vita di Jacqueline Vincent, sposa per amore di un uomo arido ed egoista, impossibilitata ad avere figli e dunque frustrata nel suo profondo desiderio di maternità, insomma delusa e respinta in se stessa su tutta la linea, sia come moglie innamorata, sia come madre mancata, fu, dal punto di vista degli affetti familiari, qualche cosa di molto simile all’inferno; eppure ella rifiutò sempre di prendere in considerazione la soluzione che molte altre avrebbero scelto al suo posto, e che oggi, per difficoltà immensamente minori, tanto spesso decidono di prendere: rimase, cioè, eroicamente, al suo posto, sino alla fine, sino alla malattia terminale, dolorosa, prolungata, del marito, seguitando ad offrirgli il proprio amore, senza cedere alla tentazione del rancore, con umiltà e dedizione assolute, come un giardiniere che continua ad innaffiare, a curare e a concimare il proprio giardino, anche se tutte le sue cure sembrano vane e anche se nemmeno una pianta sembra trarne il benché minino giovamento, ma tutte presentano lo stesso desolato aspetto di malattia e morte.

La vita di Jacqueline Vincent, esteriormente così desolata, così squallidamente tradita nelle sue più belle speranze e nella sua generosa disponibilità all’amore, tutta intessuta di spirito di sacrificio, di abnegazione, di annullamento di sé, di dedizione e colui che non la meritava, che non la capiva, che non lo ricambiava, e che la fece soffrire per anni ed anni con la sua brutalità e la sua insensibilità, è stata l’esatta antitesi della filosofia di vita oggi divenuta corrente, non solo — come dicevamo — fra le persone prive di spiritualità e di senso religioso, ma anche fra molti cosiddetti credenti e cosiddetti praticanti: non fu, pertanto, solo un monumento alla fedeltà coniugale, ma anche — possiamo affermarlo senza tema di esagerare – un monumento all’eroismo coniugale.

La mentalità moderna, figlia di Nietzsche e di Freud, si fa beffe di un tale eroismo: nega che sia stato eroismo, scorge in esso la mala pianta del rancore dissimulato, il rancore dei deboli che non osano ribellarsi; oppure sostiene che un amore così grande si spiega solo come la volontà di imporsi una maschera, la maschera del super-io, per nascondere i propri impulsi inconfessabili: di odio e di desiderio di vendetta. Insomma la mentalità moderna non crede che si possa amare così tanto, che ci si possa sacrificare fino a quel punto: e non ci crede perché nessuno, o pochissimi, ne sarebbero oggi capaci; pertanto è più facile dichiarare che una cosa non esiste, che è falsità, ipocrisia, dissimulazione, piuttosto che riconoscere che di vera forza d’animo si tratta, ma una forza che solo virtù eroiche permettono di trovare, e che ha la sua sorgente non nelle risorse dell’individuo, ma in quell’Amore al quale si può attingere quando si è arrivati allo stremo, e dal quale si può ricevere sostegno e conforto, se si è abbastanza umili da chiederlo.

Ci piace riportare una sintesi della vita di Jacqueline Vincent, così come è narrata da un Autore anonimo in una pubblicazione periodica non commerciabile, d’ispirazione cattolica («In Ascolto. Messalino GAM», Calvi, Benevento, settembre 2014, pp. 2-6):

«Il 17 dicembre 1954 moriva una scrittrice francese, Jacqueline Vincent. Uno slogan potente dominò tutta la sua vita: "Qualunque cosa mi capiti, tutto è degno di amore, perché Dio è Padre".A vent’anni si era sposta, ma aveva scoperto in suo marito un carattere impossibile; era un uomo che si presentava fisicamente attraente, ma aveva un cuore di ghiaccio. Per 24 anni, fino alla morte del marito, il quadro della sua vita matrimoniale fu sconvolgente: fu la compagna fedele e dedita di un alcolizzato violento, fu vittima della sua brutalità, frustrata in tutti i più legittimi desideri, ridotta al rango di serva e di bestia. L’unico rifugio era Dio; ma spesso egli taceva e lei si ritrovava in una solitudine rabbrividente. Col matrimonio aveva contratto una malattia contagiosa che le fece decidere di non avere figli, lei che era partita con l’idea di averne dodici, ed era tutta maternità. Allo scoppio della prima guerra mondiale, mentre cercava di dedicare qualche tempo della sua giornata alla cura dei feriti, incontra Pierino, un bimbo abbandonato di pochi anni. Lo tiene con sé. Pochi anni dopo, Pierino muore di meningite. Quel bimbo era l’unico raggio di sole nella sua squallida esistenza. Il marito muore e allora il suo sogno di gioventù riaffiora: andare in convento, diventare claustrale. Viene rifiutata perché ha una salute delicatissima, non ce la fa. Il suo direttore spirituale le dice: "Jacqueline, il tuo chiostro sarà il tuo cuore, come la Madonna". Veste l’abito di terziaria carmelitana e si mette a scrivere. Scrive 24 libri per fanciulli, adolescenti e adulti, con una finezza e uno stile fresco e incisivo. Il tema dominante è l’amore che nel crogiuolo ci purifica con la sofferenza. Suo marito le aveva spesso detto quando si scagliava contro di lei: "Ma perché i tuoi occhi sono così luminosi?" Nel ’49 riceve l’onorificenza della Rosa, un premio letterario ambitissimo. Ne è felice, ma la sera stessa lei sente che cala la tela. La festa della Risa assume il valore di una sepoltura solenne. Poco prima di morire scrisse: "La mia solitudine è totale"

Descrive nella sua autobiografia in maniera traumatizzante la fine di suo marito. Dio è Padre, anche nei momenti di massimo silenzio. "Ecco — annota – , muovo a fatica quel suo corpo magro; occorre far presto. Il moribondo si lamenta. Non sei contenta che ti curi?" gli dico.

"Oh, no! — replica lui — sarei molto più contento se lo facesse un’estranea, un’0infermiera a pagamento; almeno non dovrei gratitudine e riconoscenza a nessuno."

Nella cucina piena di medicinali e di bende medito sul da farsi. Gli dico:; "Sei veramente rassegnato?". E lui con tutta sincerità mi risponde: "A dire la verità, mi secca proprio di morire; ma in definitiva, poiché è inevitabile, mi metterai accanto al piccino, a Pierino".

Io rispondo: "Essere sepolto accanto al piccino? Credi forse che si tratti semplicemente di mettere sottoterra l’una accanto all’altra due spoglie mortali? Credi forse che tutto si riduca a porre due croci così vivine da toccarsi o quasi? Credi forse che significhi dormire sotto la stessa aiuola di fiori? Essere sepolto accanto al piccino, vuol dire ritrovare l’innocenza di un angelo, poiché Pierino era veramente un angelo che sfiorò appena questa terra dove gli uomini si macchiano di tante brutture. È però sempre possibile avvicinarsi agli angeli". E qui gli suggerisco un invito di conversione, di confessione.

"Potrai allora riposare accanto ad un bimbo, ma non dipende da ,e, dipende da te, soltanto da te, se tu lo volessi sarebbe una cosa così bella e così sublime, sentiresti una tale pace. Non oso dirti quale consolazione sarebbe per me., poiché io per te non rappresento nulla. I miei 24 anni di vita matrimoniale non sono stati che un ininterrotto desiderio del tuo ritorno a Dio. Con quanta tenerezza, ne sono certa, Pierino si chinerebbe su di te". "Se insisti, mi rispose, ciò non avverrà mai. Se tu invece non mi chiedi nulla, lo farò quando sarà giunta la mia ora". Dinanzi a questo rifiuto sono stata costretta a mandar via il sacerdote al quale avevo fatto chiedere di venire. Poi improvvisamente mio marito muore senza una parola. Accarezzavo il suo volto, appena morto, contratto da una orribile smorfia, cercando con le mie carezze di distendere i lineamenti e mi sentivo sprofondare in un abisso senza fondo. Gli dicevo: T’ho fatto dono del fiore dei miei vent’anni, era fra le mie mani candide come un bocciolo di rosa che stesse per schiudersi, te l’offrivo con tutta la sincerità e tutta l’innocenza dell’anima mia; ti portavo non soltanto la verginità del mio corpo, ma quella del mio cuore e della mia anima ed era tale il desiderio di farti felice da soffocare il pensiero della mia stessa felicità. Povero caro, se almeno questo ripiegarmi dolorosamente su me stessa m’avesse consentito di vederti pienamente contento, il mio dolore sarebbe quasi scomparso. Ma tu amavi la terra e la vita e, se anche t’ho nascosto la mia ripugnanza, ho sempre cercato di farti volgere lo sguardo verso altri orizzonti. Tu invece ti compiacevi del mio disgusto, povero caro. Io mi preoccupavo perché non mancasse nulla ad ogni animale che vivesse sotto il nostro tetto, mi preoccupavo perché non mancasse a ogni pianta della mia casa la sua goccia di acqua fresca; soltanto tu non hai sentito e hai voluto ignorare quale dono meraviglioso e assoluto io ti facessi di tutta me stessa. Tu non vedevi che il tuo piacere, io mi donavo all’infinito. Tu riducevi tutto all’attimo presente; io conferivo a ciò che era fuggevole un contenuto splendidamente eterno."

"Dio è Padre e qualsiasi cosa mi capiti, tutto è degno di amore", aveva scritto Jacqueline nel suo diario. Voleva imitare la Madonna ed essere, come lei, tutta abbandonata alla Provvidenza del Padre.»

Vi sono spose (e, naturalmente, mariti) che alla prima incomprensione, alla prima difficoltà, decidono di rompere il vincolo del matrimonio, in nome della propria libertà e del proprio diritto alla felicità; vi sono donne — poiché oggi quasi non ci si sposa più — che, pur vivendo insieme a un uomo, senza vincoli, né legali, né religiosi, non esitano ad abbandonarlo se si accorgono che egli non è quale se l’erano figurato, se vedono che le loro aspettative son rimaste deluse. La presenza eventuale di figli non è sufficiente a trattenerle, anzi, spesso diviene un alibi morale e psicologico per affrettare la separazione: lo fanno per il bene dei piccoli, per la loro serenità. Ma questo è vero in un numero relativamente piccolo di casi. Molto più spesso, il trauma della separazione dei genitori è, per i bambini, molto più doloroso di alcune incomprensioni ed asprezze in famiglie, specie se queste vengono controbilanciate da uno sforzo costante e sincero di ristabilire il dialogo, di tenere aperta la fiducia nell’altro. Tutto, anche la vita coniugale, sembra ormai fondato su una concezione rigidamente, avaramente contrattualistica: tanto ho dato, almeno altrettanto mi spetta di ricevere; si è smarrita l’idea della gratuità del dono, dell’offerta d’amore.

Non si vuol dire, con questo, che una donna (o un uomo, ovviamente) deve sopportare all’infinito i maltrattamenti, le umiliazioni, le offese; le virtù di Jacqueline Vincent erano, evidentemente, eroiche, cioè assolutamente fuori della norma: ma non è proprio questa l’essenza dell’amore vero, il saper donare senza misura, disinteressatamente, senza nulla chiedere in cambio? E chi può dire che quelle umiliazioni, quelle sofferenze, vissute con spirito religioso e trasformate in una quotidiana offerta d’amore, siano rimaste senza frutto? Probabilmente, se si fosse rivolta a un sacerdote, a suo vescovo, una donna come la Vincent avrebbe potuto ottenere l’annullamento del matrimonio e rifarsi una vit. Ma ella sentiva che ciò non sarebbe stato giusto: l’impegno che aveva preso non era solo di tipo formale; era sostanziale: era una promessa di condivisione totale, nella buona e nella cattiva sorte. E una promessa è una cosa seria, sempre, terribilmente seria: specie se è stata presa al cospetto di Dio.

Il suo sacrificio fu reso ancor più sublime dalla rinuncia alla maternità, cui tanto ella si sentiva chiamata, perché non volle esporre alle conseguenze della sifilide le creature incolpevoli che sarebbero nate, dopo che lei stessa era stata contagiata dall’indegno marito. Aveva adottato, in tempo di guerra, un piccolo orfano: il Signore si era preso anche lui. Era rimasta totalmente sola, come un’anima smarrita in mezzo al deserto più arido e bruciante.

Eppure, non perse mai la tenerezza. Non si fece forte dei suoi meriti neppure quando il marito, malato e moribondo, era ormai totalmente inerme, affidato alle sue cure. Non lo lasciò mai solo; lo assisté e lo curò come avrebbe fatto un bimbo, quel bimbo che non aveva mai avuto; fece di tutto, ma senza diventare invadente, per ricondurre i suoi sentimenti e i suoi pensieri sulla via del pentimento e della riconciliazione con se stesso e con Dio. Chi può dire che non vi sia riuscita? È Quello della conversione è un immenso mistero, davanti al quale noi siamo troppo piccoli; il Vangelo ci ricorda che a Dio tutto è possibile; e Dante, nel terzo canto del «Purgatorio», ci ammonisce che il pentimento è possibile fino all’ultimo istante di vita, e che Dio, che è Padre, aspetta fino a quell’ultimo istante per accogliere un’anima nelle sue braccia pietose.

Le persone come Jacqueline Vincent sono gli umili, silenziosi operai ella vigna, la cui forza tenace ed eroica sorregge il mondo intero, lo preserva e lo incoraggia nei momenti più bui, quando l’egoismo, la superbia, l’avarizia sembrano impadronirsi completamente del cuore umano e pare che non vi sia possibilità di redenzione e di salvezza per alcuno. Sono come dei fari luminosi che brillano nel buio, indicando la strada ai naviganti che rischiano di fare naufragio sulle scogliere della costa. A prezzo di sacrifici inenarrabili.

Ci riescono, perché non sono sole: hanno compreso il grande segreto e si sono aperte all’azione della Grazia, facendosi docili strumenti dell’Amore infinito, che bussa al cuore di ogni singolo uomo e di ogni singola donna. Solo così si spiega la domanda, tra incredulo e confuso, che il marito di Jacqueline le rivolgeva, proprio mentre si avventava su di lei per maltrattarla, per batterla: «Ma perché i tuoi occhi sono così luminosi?».

Già: perché? Da dove le veniva quella luce, sempre, incredibilmente, perfino in quelle drammatiche circostanze?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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