
«Un paese ci vuole; un paese vuol dire non essere soli» (Cesare Pavese)
28 Luglio 2015
Nemico della mistica e dell’ascetismo, Abelardo è il precursore dei moderni “philosophes”
28 Luglio 2015Molti desiderano il successo, i soldi, il potere; altri, i piaceri del sesso; altri ancora dicono di cercare la felicità, senza avere un’idea ben precisa di che cosa ciò significhi. Gli intellettuali, o i pretesi tali, dicono di perseguire come scopo di vita il sapere, la conoscenza, o perfino la verità — anche se ciascuno di essi, poi, con estrema disinvoltura, se la dipinge a suo modo. Non sono in molti a porsi, come obiettivo della propria ricerca interiore, la pace del cuore; ancora meno sono quelli che arrivano a comprendere come la pace del cuore sia non già lo scopo, ma l’effetto di una vita bene orientata, sia sul piano materiale che su quello spirituale; di una vita ben spesa, bene impostata, e continuamente alimentata dalle vivande e dalle bevande che la possono arricchire, migliorare, perfezionare, evitando in maniera assoluta tutti quelle cose che potrebbero intossicarla, o perfino avvelenarla.
La pace del cuore… un concetto antico, antichissimo, ma oggi quasi dimenticato, in mezzo al chiasso continuo ed alle luci illusorie, ma abbaglianti, nelle quali sembra essere avvolta, e come imprigionata, la nostra esistenza. La pace del cuore: sembrerebbe quasi una cosa per vecchietti, adatta alla terza età, ma non alle persone che sono o si sentono ancora giovani, vigorose, piene di aspettative, di appetiti, di brame; e invece è vero il contrario: chi la possiede ritorna fresco e pieno di grazia e innocenza, quasi come un fanciullo; chi ne è lontano, cerca inutilmente di nascondere le rughe e i segni della stanchezza, dell’affaticamento, della pesantezza esistenziale. Chi raggiunge la pace del cuore, possiede anche tutto il resto; chi non arriva nemmeno a percepirne la mancanza, continua a inseguire beni ingannevoli, che lo portano sempre fuori strada.
Non solo. Chi ha raggiunto la pace del cuore, non è immune dalla sofferenza (perché nessuno lo è), ma è diventato sereno e non si turba nemmeno davanti alle prove più difficili; e il segreto meraviglioso di ciò risiede nel fatto che egli è arrivato finalmente a casa, il suo essere è centrato sull’Essere, la sua vita è fondata sulla Vita: ha costruito un edificio solido, capace di sopportare qualunque prova, una dimora che neanche i venti di tempesta riusciranno ad abbattere, per quanto si accaniscano contro di essa con rabbia demoniaca. Chi è lontano dalla pace, trema e rabbrividisce ad ogni soffio di vento, ad ogni sbalzo di temperatura: perché non è centrato su ciò che dà la forza, ma su cose effimere, che aumentano la debolezza e la vulnerabilità, che appesantiscono il cammino e che ritardano la consapevolezza di sé.
Esistono, peraltro, due maniere ben distinte per raggiungere la pace del cuore, che corrispondono a due diverse ed opposte prospettive esistenziali, e — forse — a due diverse e opposte nature umane. La prima maniera consiste in una sorta di tecnica per liberarsi dalle passioni e dalle emozioni, viste come l’elemento perturbatore per eccellenza dell’equilibrio interiore: è la maniera di molte filosofie antiche, in particolare lo stoicismo, e, fra i pensatori moderni, di Spinoza o di Kant, ma specialmente di Spinoza, che riduce la vita interiore a un manuale geometrico e che ritiene si possa impostarla e orientarla secondo i dettami della pura ragione, proprio come si farebbe per la risoluzione di un problema matematico. È una maniera che non ci piace, che non ci convince affatto, che non apprezziamo minimamente: la maniera dei castrati, che si strappano l’organo tentatore e che anestetizzano la vita dell’anima per esercitare su di essa il freddo dominio della ragione strumentale e calcolante.
Ora, è ben vero che le passioni, e le emozioni che ne derivano, sono, di per se stesse, un continuo attentato al nostro equilibrio interiore: ma ciò non significa che si debba considerale alla stregua di nemiche implacabili, che è necessario estirpare alla radice; anche perché l’equilibrio interiore non è affatto sinonimo di "pace dell’anima", ma semplicemente di assenza di passioni ed emozioni. E le passioni e le emozioni, anche se destabilizzanti, non rappresentano delle esperienze puramente negative: oseremmo anzi affermare che un’anima incapace di provare passioni ed emozioni, o esageratamente timorosa di esporsi al loro soffio, è un’anima rachitica, meschina, inaridita, che non sarà mai capace di concepire un’idea generosa, di protendersi verso le mete più alte del Vero, del Buono e del Bello.
La seconda maniera per cercare la pace del cuore segue tutt’altra strada: non la lotta contro le passioni e la neutralizzazione delle emozioni, ma la focalizzazione di tutta la vita interiore, passioni ed emozioni comprese, verso l’unica meta dalla quale la pace può sgorgare, come una fonte perenne di acqua freschissima che scaturisca dalla sommità del Monte Hermon, al di sopra dei cedri e delle nevi dell’Antilibano, là dove Cristo si è trasfigurato davanti ai tre apostoli prediletti: l’Amore divino, alfa e omega dell’universo, inizio e fine di tutte le cose che esistono, che sono esistite e che esisteranno.
Vale la pena di riprendere in mano un aureo libretto, scritto da una mano che volle rimanere ignota, il quale ha illuminato e rasserenato generazioni di uomini e donne durante il Medioevo: la «Imitazione di Cristo»; e rileggersi il capitolo XXV del libro terzo (titolo originale: «De imitatione Christi»; traduzione dal latino di Carlo Vitali, Milano, Rizzoli, 1958, pp. 227-228):
«IN CHE RISIEDA LA PACE STABILE DEL CUORE
1. CRISTO Figlio, io dissi: "Vi lascio la pace, vi dò la mia pace. Io non ve la dò come la dà il mondo… (Giovanni, XIV, 27).
Tutti desiderano la pace, ma non tutti si curano di ciò che conduce alla pace vera. La pace che do io è per gli umili e i mansueti di cuore. La pace tua sarà in una grande pazienza, . Ascoltando me e udendo la mia voce, potrai godere molta pace.
2. L’ANIMA Signore, che cosa dovrò fare?
3. CRISTO In ogni tuo atto stai bene attento a quello che fai e che dici; drizza sempre la tua attenzione al voler piacere a me: non desiderare né cercare altro all’infuori di me.
Inoltre non giudicare mai inconsultamente ciò che gli altri dicono o fanno, non impicciarti negli affari che non ti riguardano:e in tal modo sarà possibile che i turbamenti del tuo spirito siano di lieve entità o di breve durata.
Quanto poi al non privarne mai nessuno, al non soffrire mai molestia nell’animo o nel corpo, non è cosa di codesta vita, ma lo stato dell’eterno riposo. Non credere quindi di aver trovato la pace vera quando ti senti libero da ogni contrarietà, né che tutto proceda per il meglio quando nessuno ti critica, né che sia degno di perfezione se ogni cosa si svolge secondo i tuoi desideri.
E nemmeno devi formarti un eccessivo concetto di te e crederti un privilegiato, se ti trovi in momenti di grande e dolce devozione: non da questo si conosce il vero cultore della virtù, non in questo consiste il progresso e la perfezione dell’uomo.
4. L’ANIMA Ma allora, in che cosa, o Signore?
5. CRISTO Nell’offerta di te stesso alla volontà divina fatta con tutto il cuore,m nel non cercare tuoi vantaggi né nel poco né nel grande, né nel tempo né nell’eternità, in modo che, in inalterata disposizione di spirito, tu ti conservi ugualmente grato nella prosperità e nell’avversità, l’una e l’altra pesando con giusta bilancia.
Quando la speranza in te sarà così solida e costante da renderti pronto, anche nella privazione di ogbi interna consolazione, a tollerare prove più dure (senza andare a cercar ragioni che dovrebbero dispensarti da tanti patimenti, quando avrai saputo vedere la mia giustizia ed esaltare la mia santità in tutte le mie disposizioni), allora puoi dire di camminare nella giusta e vera via della pace e nutrire speranza certa di vedere il mio volto in santa allegrezza.
Che se poi arriverai al disprezzo di te stesso, stai sicuro di poter godere quella pienezza di pace che è compatibile con codesta condizione di esilio.»
Ora, è vero che la «Imitazione di Cristo» è un’opera che nasce da un contesto storico ben preciso, molto lontano, anzi quasi del tutto estraneo, da quello odierno: è il riflesso di una cultura che pone Dio al centro di tutto, e di una società che riconosce la superiorità dei valori monastici, prevalentemente contemplativi (prevalentemente e non unicamente; si pensi al motto benedettino: «Ora et labora»), rispetto alla dimensione secolare del fatto religioso (per non parlare della dimensione profana: ammesso che una netta linea di separazione fosse allora ritenuta possibile) secondo l’ammonimento di Gesù Cristo a Marta: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta» (Vangelo di Luca, 10, 38-42), laddove Maria è la sorella contemplativa, che si siede ad ascoltare le parole di Gesù e le beve avidamente, senza perderne una sola.
E tuttavia, sbaglierebbe chi giudicasse le riflessioni svolte dall’anonimo autore della «Imitazione di Cristo» come inadatte a trasmettere un contenuto di verità – non solo teorica, ma altresì pratica – all’uomo e alla donna odierni; perché la verità è una e non cambia: e la via indicata da quel libro per il raggiungimento della pace del cuore è la stessa che ieri, oggi o domani si può indicare alle persone di qualunque latitudine, purché di retto sentire e di buona volontà. Abbandonare il proprio ego; qualcuno dirà: «ma è la solita raccomandazione, non c’è nulla di nuovo»; tuttavia il punto è che non si tratta di una mera tecnica per disfarsi dal fardello ingombrante dell’io, bensì di una meta positiva da raggiungere: Dio; volti i pensieri verso tale meta, l’abbandono dell’io diventa cosa del tutto logica e naturale.
Il segreto è, appunto, la naturalezza e la semplicità della cosa: una volta compreso e accettato lo status di creatura, l’uomo comprende anche che la sua origine è da Dio, e che la sua meta è Dio; di conseguenza, che tutto ciò che avvicina a Dio porta alla pace del cuore, e tutto ciò che lo allontana, porta con sé l’inquietudine, l’amarezza e la disperazione. Quando ci dimentichiamo di essere creature, perdiamo di vista l’essenziale, o per eccesso, o per difetto: o perché ci illudiamo di essere qualche cosa di più, o perché ci avviliamo e pensiamo di essere qualche cosa di meno. Di più, come fossimo Dio noi stessi; di meno, come se fossimo schegge perdute nell’immensità dell’universo, come fossimo coriandoli smarriti nel caos del non-senso.
Fino a quando la creatura non cerca il vero Bene, ma solo dei piccoli beni transitori, non raggiunge la pace del cuore: quest’ultima scaturisce solo dall’unico Bene che non è condizionato e contingente, che non dipende dal capriccio di un’altra creatura, volubile e incostante, limitata e imperfetta come lo è ciascuna, nessuna esclusa; solo il Creatore è perfetto e in Lui soltanto vi è il Bene pieno, assoluto, luminoso, che non passa e che non lascia mai delusi. Ma, per capirlo, è necessario passare per la porta stretta della sofferenza: bisogna capire e accettare l’idea che la sofferenza è solo un aspetto, in parte misterioso, ma non capriccioso, né tanto meno assurdo, della creazione: e, dunque, un aspetto dell’Amore divino.
Lasciarsi andare in Dio, vuol dire lasciar andare il nostro giudizio su ciò che è bene o male, per noi stessi, da un punto di vista meramente umano, e assumere la prospettiva dell’assoluto e dell’eterno: perché in noi vi è una scintilla, e quindi una ardente nostalgia, dell’assoluto e dell’eterno. Solo quando ce ne scordiamo, scivoliamo nel fango e miseramente vi sprofondiamo; ma se ce ne ricordiamo, possiamo bensì soffrire, ma non mai perdere noi stessi, né perdere la speranza e neppure la pace del cuore: perché si può avere la pace del cuore anche nel corso di una grave malattia o di una pressante preoccupazione: essa, infatti, non è qualche cosa che noi possiamo darci da soli, ma un dono prezioso che ci viene elargito dall’Alto, in premio della nostra fedeltà e della nostra indefettibile speranza.
Anche l’accettazione della sofferenza è un dono che viene dall’Alto; a noi sta di trasformarlo in una offerta che ritorni verso l’Alto: perché da ciò, e solamente da ciò, si vede se davvero abbiamo imparato a dire «sì» a Dio e a morire a noi stessi, al nostro egoismo, alle nostre brame disordinate, o se, da persone irrisolte, incomplete, opportuniste, siamo capaci di dire soltanto: «sì, ma a condizione che…»; e la condizione che poniamo, guarda caso, è che le cose ci vadano sempre bene, come lo vorremmo noi, e non come lo vuole Colui che è il Bene. In altre parole: non ci fidiamo del suo Amore; non ci fidiamo abbastanza, se le cose prendono una piega diversa da ciò che vorremmo. Siamo gente di dura cervice. Eppure, c’è una cosa che possiamo ancora fare, qualora ci accorgiamo della nostra persistente diffidenza: confessare la nostra debolezza e chiedere aiuto a Chi può darlo…
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