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28 Luglio 2015Il dilagare della pornografia quotidiana abolisce la distanza fra delirio erotico e realtà

Sono diventate le ammiccanti, silenziose compagne della nostra vita quotidiana e sono entrate ovunque, nelle case, nelle ditte, nei negozi, senza bussare né chiedere permesso, con assoluta naturalezza, più ancora che con prepotenza.
Da quando, durante la seconda guerra mondiale, i soldati americani andavano in estasi davanti alle foto delle "pin-up" (letteralmente: "da appendere") delle riviste a loro destinate per tenerli su di morale; e da quando, pochi anni dopo – precisamente, dal 1953 — sono comparse le "conigliette" ("playmates") della copertina delle rivista maschile per eccellenza, "Playboy", e anche il cinema si è messo sulla stessa lunghezza d’onda, per non parlare della pubblicità, dei fumetti, della letteratura più o meno di genere erotico, si può dire che è diventato praticamente impossibile evitare d’imbattersi nei loro corpi nudi e abbronzati, nei loro sorrisi torbidi o maliziosi, nelle loro pose apertamente provocanti, oppure da finte ingenue.
Naturalmente, grazie alle meraviglie della rivoluzione femminista, è stata raggiunta, anche qui, la perfetta parità di genere e non è certo difficile trovare l’equivalente maschile delle "playmates", specie nei locali di spogliarello per un pubblico femminile, benché nel genere della letteratura "rosa" resista ancora, non si sa per quanto, la vecchia immagine del seduttore fatale, tuttavia vestito e dignitoso; un mercato erotico a parte, poi, ma dai confini incerti e volutamente sfumati, è quello che si rivolge apertamente ad un pubblico specifico di omosessuali maschi.
La mercificazione esasperata del corpo femminile e la crescente, inarrestabile banalizzazione della sua nudità e del suo erotismo hanno suscitato la reazione indignata, ma non troppo, della cultura femminista: in fondo, anche il fenomeno delle "pin up", e, più in generale, della disinvolta esibizione del corpo femminile, spogliato o seminudo, è stata interpretata da molte donne, e specialmente alle dirette interessate — attrici o aspiranti attrici, soubrette televisive. Modelle di moda o per riviste di fotografia, eccetera — come una forma di potere o, almeno, come potenziale esercizio di un potere: il potere della bellezza, capace di sedurre, in maniera aggressiva e perciò più durevole, l’immaginario collettivo maschile, predisponendo gli uomini a una dipendenza psicologica sempre più evidente nei confronti delle donne che non temono di esporsi, non solo nell’intimità, ma anche per la strada e nelle occasioni della vita d’ogni giorno-.
È nato, così, un nuovo genere di erotismo, particolarmente pervasivo e suscettibile di introdursi, con sottile invadenza, anche nei luoghi, in apparenza, meglio "custoditi": non solo nelle cabine di guida dei camionisti, o negli armadietti degli operai e dei soldati, ma anche nella pubblicità stradale, o sulle pagine delle riviste, e perfino delle riviste di impostazione decisamente morigerata, ad esempio destinate ad un pubblico cattolico. Chi se lo sarebbe immaginato, fino a non troppi anni fa, che, per vedere la fotografia di una donna molto succintamente vestita, e dal viso particolarmente ammiccante, non sarebbe stato necessario addentrarsi nell’angolo più nascosto delle rivendite di giornali, ma sarebbe bastato sfogliare i giornali della "buona stampa" posti in vendita sui banchetti all’interno delle chiese; anzi, che delle donne in carne e ossa, semivestite e provocanti, si sarebbero potute vedere durante le sacre cerimonie, salire i gradini del presbiterio e accostarsi tranquillamente all’altare, senza che il sacerdote trovi nulla da eccepire?
Riportiamo il brano iniziale del romanzo di Gay Talese «La donna d’altri» (titolo originale: «Thy Neighbor’s Wife», 1980; traduzione dall’americano di Francesco Saba Sardi Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1980, p. 7):
«Era completamente nuda, sdraiata bocconi sulla sabbia del deserto, le gambe divaricate, i lunghi capelli ondeggianti al vento, la testa levata, gli occhi chiusi. Sembrava perduta in chissà quali pensieri, lontana dal mondo su quella duna spazzata dal vento, in California, vicino al confine con il Messico, adorna solo della sua naturale bellezza. Nessun gioiello, nessun fiore tra i capelli; sulla sabbia non c’erano impronte, e nulla che indicasse il giorno o che guastasse la perfezione della fotografia, a parte le dita umide dello studentello diciassettenne che la teneva tra le mani e la guardava con desiderio e brama adolescenziali.
L’immagine si trovava in una rivista fotografica che aveva appena comprato in un’edicola all’angolo di Cermak Road, nella Chicago di periferia. Era un crepuscolo del 1957, una sera fredda e ventosa, ma Harold Rubin sentiva il calore salirgli dentro mentre scrutava la fotografia alla luce del lampione sul marciapiede dietro l’edicola, indifferente ai rumori del traffico e ai passanti diretti a casa.
Sfogliò le pagine per guardare le altre donne nude, per costatare che effetto gli facessero. In passato, gli era capitato, dopo aver comprato in gran fretta una di quelle riviste che venivano vendite sottobanco e quindi non potevano essere esaminate per vedere se erano abbastanza erotiche, di restarne profondamente deluso. O le nudiste intente a giocare a pallavolo di "Sunshine & Health", l’unico periodico in cui, negli anni Cinquanta, comparissero i peli del pube, erano eccessivamente grasse, oppure le attricette sorridenti di "Modern Man" si davano troppo daffare per riuscire allettanti, o ancora le modelle di "Classic Photography" erano, per l’obiettivo, semplici oggetti perduti in artistiche ombre.
Vero, Harold Rubin riusciva comunque a ricavarne un solitario piacere, ma ben presto le riviste finivano relegate fra gli strati inferiori di quelle che andavano ammucchiandosi nell’armadio a muro della sua stanza da letto,. In cima stavano i prodotti più collaudati, quelle donne che ti davano una certa emozione oppure erano in pose tali da riuscire immediatamente stimolanti; e, cosa più importante ancora, l’effetto che producevano era duraturo. Gli capitava di dimenticarle per settimane, per mesi, nell’armadio a muro, mentre si dedicava a nuove scoperte; ma, se la ricerca era a vuoto, sapeva di poter tornare a casa e riannodare il rapporto con una delle preferite del suo harem di carta, assicurandosi gratificazioni che erano certamente diverse ma nient’affatto incompatibili con i rapporti che aveva con una ragazza da lui conosciuta alla Morton High School. In certo qual modo, le une si fondevano con gli altri. Quando faceva l’amore con lei sul divano, approfittando dell’assenza dei genitori della ragazza, a volte gli capitava di pensare alle donne più mature delle riviste. E altre volte, mentre era solo con queste, gli potevano venire alla mente ricordi dei momenti passati con la sua ragazza, e pensava a come appariva nuda, a che cosa era disponibile e a ciò che facevano assieme.
In quegli ultimi tempi, però, forse perché si sentiva inquieto e incerto, e meditava di piantare la scuola, di lasciar perdere la ragazza e di entrare in aviazione, Harold Rubin era più del solito staccato dalla vita della sua città, soprattutto quando aveva sott’occhio le immagini di una certa donna che, doveva ammetterlo, stava diventando un’ossessione.
E la donna era proprio quella di cui aveva visto la fotografia sulla rivista che sfogliava sul marciapiede, la donna nuda sulla sabbia. L’aveva notata per la prima volta mesi prima, in un trimestrale di fotografia, ed era apparsa anche in parecchi periodici per soli uomini e di avventure, oltre che su un calendario di nudi. Ad attrarlo non erano stati solo la bellezza della donna, le linee classiche del corpo, i tratti delicati del volto, bensì tutta l’atmosfera di ognuna di quelle immagini la sensazione che fosse completamente libera di fronte alla natura e a se stessa, che camminasse lungo la riva del mare, se ne stesse sotto una palma, sedesse su una roccia ai cui piedi si frangevano le onde. Se in certe fotografie sembrava remota ed eterea, probabilmente inavvicinabile, pure c’era in lei qualcosa di estremamente reale, e Harold Rubin se la sentiva vicina. Ne sapeva anche il nome, L’aveva letto in una didascalia, e sperava proprio che fosse il suo nome vero, non uno di quegli pseudonimi d’accatto usati da certe "playmates" e "pinups" che nascondevano la loro vera identità agli uomini che volevano eccitare.
Si chiamava Diane Webber. Abitava in una casa sulla spiaggia di Malibu. Dalla didascalia risultava che era ballerina, ciò che spiegava, agli occhi di Harold, gli atteggiamenti controllati, di perfetto equilibrio, che assumeva davanti all’obiettivo. In una delle fotografie della rivista che Harold guardava in quel momento, Diane Webber era in posa pressoché acrobatica, in aggraziato equilibrio sulla sabbia, le braccia tese, una gamba alzata più in alto della testa, il piede puntato verso un cielo senza nubi. Sulla pagina di fronte, appariva sdraiata di lato in modo da mettere in mostra i fianchi rotondi, una coscia leggermente sollevata a nasconderle appena il pube, i seni protesi, i capezzoli eretti.»
Ci siano ormai talmente abituati al dilagare della pornografia quotidiana — dalla letteratura al cinema, dalla pubblicità all’abbigliamento sfoggiato per strada, negli uffici, nelle scuole, e — come già detto — perfino nelle chiese, che ormai abbiamo finito per non percepirla nemmeno più come tale: il concetto stesso di pornografia si è spostato sempre un poco più avanti, in ragione delle superfici del corpo nudo esposte allo sguardo, fino a che essa si è praticamente dissolta, tanto è vero che non li sente più neanche nominar. Era l’ossessione degli studenti liceali fino agli anni ’70 del Novecento, poi, apparentemente, ha cessato di esserlo: è stata sconfitta e liquidata dalla sua stessa penetrazione capillare, irresistibile, in qualsiasi luogo e circostanza (perfino negli esami di stato, o nelle cerimonie religiose, o nelle fasi finali della gravidanza, grazie ad appositi vestiti "premaman" che lasciano scoperto il pancione), ovviamente senza dimenticare la stampa, i fumetti, la televisione, il cinema, i concerti pop e rock, le copertine dei dischi, i "videoclip" musicali e gli stessi giochi elettronici. Ieri la pornografia era guardata, oggi è interpretata in prima persona.
L’immagine erotica femminile è penetrata così negli strati semiconsci ed inconsci del pubblico, dall’interno dei quali, non vista né riconosciuta, influenza il modo di sentire, di pensare, di giudicare, di atteggiarsi, di parlare, e, naturalmente, di vestirsi, truccarsi, abbronzarsi, depilarsi, curare i muscoli mediante appositi esercizi e sedute di palestra: e ciò sia fra i maschi che fra le femmine, e sia fra i soggetti adulti, e perfino anziani, che fra quelli giovani e giovanissimi, e addirittura i bambini. Si pensi a certe bambole, a certi cartoni animati televisivi, a certi giochi elettronici basati su immagini anatomiche così perfezionate e realistiche, da abolire la distanza dal mondo reale e stimolare potentemente le componenti più torbide della psiche.
Il fatto che la pornografia sia penetrata ovunque, senza essere più percepita e riconosciuta come tale, perfino nell’abbigliamento di molte bambine (ovviamente per volontà delle loro care mamme, moderne ed emancipate), ha avuto l’effetto di accentuare la caduta della distinzione, già in atto in moltissimi aspetti della vita quotidiana, fra mondo reale e mondo virtuale o subliminale. Non diciamo fra mondo reale e immaginazione, perché immaginare qualcosa significa già operare una azione volontaria, che impegna, in qualche misura, la creatività individuale; mentre ai nostri giorni ci troviamo in presenza di un mondo parallelo a quello reale, fatto di vaghe somiglianze e di parodie allucinatorie di ciò che avviene nella dimensione reale. In altre parole, le persone tendono a vivere una sorta di sdoppiamento e sono, letteralmente, allucinate, perseguitate, ossessionate da immagini ricorrenti, molte delle quali di natura erotica e di provenienza pubblicitaria.
Scrittori e registi cinematografici hanno visto da tempo il fenomeno e ne hanno trattato: spesso, però, attenuando la sua carica potenzialmente destabilizzante per l’equilibrio della personalità, o, addirittura, scherzandoci sopra, in modo da ottundere la sensazione di allarme e di pericolo. E a ciò si è aggiunta la moda nefasta di realizzare programmi televisivi di "approfondimento" della cronaca nera, stuzzicando in maniera irresponsabile le tendenze morbose latenti nel pubblico, a proposito di efferati delitti a sfondo sessuale. Lo scrittore Irving Wallace, nel romanzo «Il club dei fan», e il regista Gene Wilder, nel film «La signora in rosso», hanno mostrato fin dove possa arrivare l’ossessione erotica innescata da conturbanti immagini femminili, continuamente esposte al pubblico; ma si trattava ancora di ossessioni, per così dire, personalizzate: ora stiamo assistendo alla fase delle ossessioni indistinte e indiscriminate, e, perciò, tanto più sottili e pericolose.
Anche in questo campo, l’uomo contemporaneo vive in uno stato di allucinazione permanente, di alienazione, di solitudine. Altro che erotismo: questa è solo la tristezza di un impalpabile delirio…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels