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Grozio vuol fondare un diritto naturale laico e antiteologico: una contraddizione in termini

La natura non riconosce e non ammette alcun "diritto": questa è la legge naturale numero uno; qualunque idea di diritto non proviene dalla natura, ma dalla cultura: dunque, parlare di un "diritto naturale", cioè secondo natura, è una contraddizione in termini.

Pure, a partire dalla fine del XVI e soprattutto dal principio del XVII secolo, si fece strada una nuova corrente di pensiero, filosofica e giuridica, fondata appunto sulla "scoperta" che il "diritto naturale" esiste, ed esiste anteriormente e indipendentemente da qualsiasi altra cosa: nemmeno Dio in persona lo potrebbe cancellare dalla mente e dal cuore degli uomini; e se, per caso, Dio non esistesse, come audacemente arriva ad ipotizzare Grozio (Uig van Groot, 1583-1645), nondimeno codesto diritto naturale continuerebbe a sussistere, incrollabile sulle sue basi.

È stato allora che si è consumata la rottura fra il diritto e l’etica cristiana; così come era stato con Machiavelli, un secolo prima, che si era consumata la rottura fra l’erica cristiana e la politica. Si è trattato di due strappi epocali, traumatici: Machiavelli proclama che la politica è il regno esclusivo dell’uomo, che Dio non c’entra nulla (così come non c’entra nel divenire della storia) e che gli uomini dal potere possono e devono ergersi ad arbitri supremi di ciò che è bene e di ciò che è male per lo stato, staccando completamente queste due categorie da quello che sono il Bene e il Male in se stessi, cioè dall’etica; e arriva a stravolgerne il significato, affermando che, per il potere, è bene qualsiasi cosa serva a conquistarlo e a rafforzarlo, male qualsiasi cosa minacci di indebolirlo o di fa perdere il controllo su di esso: da ultimo, che il fine giustifica i mezzi. Grozio, che si pone come un pensatore pieno di umanità e di buone intenzioni, desideroso del pubblico bene e alieno da qualunque violenza inutile e da qualsiasi sopraffazione arbitraria — precorrendo tanti altri pensatori politici filantropi e bene intenzionati, i quali hanno aperto la strada ai più esecrandi orrori della storia moderna, cerca di dare un fondamenti laico e puramente razionale alla teoria del diritto naturale, in modo da sottrarla alla pretesa di questa o quella confessione religiosa di impadronirsi della morale e di rivolgerla come un’arma contro le coscienze.

Oh, per carità: sono tutti bene intenzionati: Grozio, Altusio, Pufendorf e tutti i giusnaturalisti; anche Hobbes, che aveva teorizzato lo Stato-Leviatano per combattere e reprimere la malvagità originaria dell’uomo, la sua aggressività perenne contro i suoi simili; anche Machiavelli, che, in fondo, desiderava un principe forte allo scopo di far vivere in ordine e in pace i suoi sudditi, con qualsiasi mezzo, sia pure col tradimento, col pugnale e col veleno: tutti bene intenzionati. Senza contare che, nel caso di Grozio e dei giusnaturalisti, lo spettacolo atroce delle lotte senza quartiere fra cattolici e protestanti, ha suggerito loro che è meglio staccare l’etica dalla religione, perché la religione, se impazzita, è capace di farne un pessimo uso. E allora ecco il tentativo di creare un’etica laica: ma un’etica, laica o non laica, ha bisogno di un fondamento oggettivo, che la sottragga alle logiche interessate di questo o quel punto di vista, e la renda un sistema di valori condiviso e universale. È un tentativo estremamente arduo, quasi disperato: perché un’etica religiosa si fonda su Dio, cioè su una sostanza che, per definizione, si pone al di sopra delle umane incertezze e delle verità parziali; ma un’etica laica, su quale principio universale e necessario può fondarsi?

L’idea di un "diritto naturale" scaturisce da qui, da questa necessità, logica e pratica: non è una deduzione filosofica, non scaturisce da un ragionamento, ma da un bisogno: non si può costruire una casa senza fondamenta, e tale sarebbe un’etica senza un principio universale e necessario.

Ha scritto il filosofo e giurista italiano Guido Fassò (nato a Bologna nel 1915 e morto nella stessa città nel 1974) nel suo libro «Storia della filosofia del diritto» (Bologna, Società Editrice Il Mulino, 1968, vol. II, pp. 99-101):

«I "Prolegomeni" al De iure belli ac pacis" si aprono con l’affermazione dell’esistenza di principi universalmente validi di giustizia, in polemica con il relativismo utilitaristico, che Grozio personifica in Carneade. Contro la tesi scettica Grozio fa valere l’argomento aristotelico e ciceroniano della naturale socievolezza ("appetitus societatis") dell’uomo, che lo spinge ad associarsi con i suoi simili: in un’associazione non qualsiasi, bensì "pro sui intellectus modo ordinata" (parole che sono state interpretate variamente, ma che in ogni caso esprimono l’idea di una naturale convivenza RAZIONALE fra gli uomini).

Questa natura RAZIONALE e SOCIALE dell’uomo è per Grozio la fonte del diritto propriamente detto, , che è appunto il diritto NATURALE in quanto discende dai caratteri essenziali e specifici della natura umana, alla cui attuazione e conservazione è rivolto. I suoi princìpi fondamentali sono il rispetto delle cose altrui, la restituzione della proprietà altrui e del lucro derivatone, l’obbligo di mantenere le promesse e la responsabilità pensale; ma, come abbiamo detto, al di sopra di questi princìpi specifici sta quello generale, fonte di tutti gli obblighi giuridici, che impone di "stare pactis".

Immanente dunque alla natura umana, essenza dell’uomo, il diritto naturale non potrebbe essere in alcun caso, da nessuna volontà, modificato: "Tutto ciò che abbiamo detto finora" scrive a questo punto Grozio con parole che sono divenute celeberrime, "sussisterebbe in qualche modo ugualmente anche se ammettessimo – cosa che non può farsi senza empietà grandissima — che Dio non esistesse o che non si occupasse dell’umanità ("etiamsi daremus, quod sine summo scelere dari nequit, non esset Deum, aut non curari ab eo negotia humana"): proposizione in cui fu scorta già dai contemporanei un’audacia giungente addirittura all’empietà, in quanto essa appare, affermando l’indipendenza del diritto naturale da Dio, distruggere ogni presupposto trascendenti stico, teologico, religioso della moralità e, fondando questa sulla sola natura umana, proclamarne il carattere assolutamente immanentistico, razionalistico, laico

Effettivamente, questo paragrafo 11 dei "Prolegomena" col quale sostanzialmente si conclude la parte filosofica di essi, sembrerebbe doversi interpretare in tale senso: perché una concezione antiteologica e laica del diritti naturale appare espressa da Grozio anche in alcuni passi – infatti divenuti altrettanto celebri – del I libro del "De iure belli ac pacis". In questi, con i quali si inizia a vera e propria trattazione del diritto delle genti con la discussione circa la liceità della guerra e il concetto di guerra giusta, il diritto naturale è detto "una norma della retta ragione, la quale ci fa conoscere che una determinata azione, secondo che sia conforme o no alla natura razionale, è moralmente necessaria oppure immorale , e che per conseguenza tale azione è da Dio, autore della natura, prescritta oppure vietata"; ed è affermato che "le azioni a cui tale norma si riferisce sono obbligatorie od illecite per sede stesse, e perciò s’intendono necessariamente prescritte o vietate da Dio" e che "il diritto naturale è immodificabile, al punto che non può essere modificato neppure da Dio… Come neppure da Dio può far sì che due per due non faccia quattro, così non può far sì che ciò che per intrinseca essenza è male non sia male"

Vedremo più oltre quale significato e quale portata Grozio intendesse dare a tali proposizioni. Certo esse apparvero subito audacissime e innovatrici; e, mentre valsero al "De iure belli ac pacis"la condanna da parte della Chiesa cattolica, fecero pronunciare già ai contemporanei, come il Pufendorf, o a scrittori di non molto posteriori, come Tomasio e il Barbeyrac, il giudizio, rimasto poi tradizionale, secondo il quale la teoria moderna del diritto naturale comincia con Grozio.»

La buona intenzione di Grozio, dunque, è fuori di ogni dubbio: sta di fatto, tuttavia, che egli, al pari del ben più spregiudicato Machiavelli, ha assestato, di fatto, un altro colpo durissimo al sistema di pensiero e di morale che aveva regolato la convivenza sociale per secoli e secoli, e che era basato, appunto, sulla religione cristiana.

Nel XVI secolo, però, la religione cristiana si spacca, va in frantumi, e le schegge volano ovunque, fino in America, fino nelle colonie europee dell’Estremo Oriente: le innumerevoli chiese separate, scaturite dal principio luterano della libera interpretazione delle Scritture (e, cosa non meno importante, anche se generalmente sottaciuta o sottovalutata, dalla volontà luterana di desacralizzare la Tradizione), non solo si scatenano in lotte feroci le une contro le altre, e di tutte contro il cattolicesimo, ma pretendono, ciascuna, di rivendicare per se stessa, e per sé sola, il principio universale e necessario dell’etica: che, a quel punto, cessa ovviamente di essere sia universale, che necessario.

Ed ecco allora i bene intenzionati giusnaturalisti, amanti della pace e disgustati dalle guerre religiose, che scendono in campo per rifondare l’etica e, con essa, il diritto delle genti; e che ritengono di aver trovato un "nuovo" principio morale, universale e necessario, nell’idea del diritto naturale, ossia di un diritto connaturato alla persona umana, anteriore a qualsiasi appartenenza sociale, professione di fede o cittadinanza: perenne, inalienabile, e tale che neppure Dio in persona lo potrebbe revocare o modificare, così come Dio stesso non potrebbe fare in modo che due per due non faccia quattro (e qui viene in mente l’affermazione di Galilei, secondo il quale Dio stesso non potrebbe possedere delle conoscenze matematiche diverse o più perfette di quelle di un matematico che non sbaglia i suoi calcoli: si veda la sua distinzione fra sapere "extensive" e sapere "intensive" contenuta nel «Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo»).

Eppure, non occorre un ragionamento troppo complicato per vedere come il tentativo di Grozio di fondare un’etica laica, e un ordine giuridico internazionale che sia universalmente riconosciuto e riconoscibile, si risolva in un tentativo puramente velleitario: come abbiamo già visto, la natura non riconosce diritti di sorta, per il semplice fatto che la natura è amorale. Dire "diritto", significa dire una creazione del pensiero umano: pertanto, un "diritto naturale" non esiste e non può esistere, si tratta di una vera e propria contraddizione in termini. Affermare che qualcuno ha "diritto" a qualcosa, per esempio alla vita, significa affermare un principio etico, che è anche razionale: ma né l’etica, né la ragione scaturiscono dalla natura: la natura, di per sé, non saprebbe che farsene, anzi, non potrebbe sussistere, se le venisse imposta una regola morale. Da questa contraddizione non c’è modo di uscire, date le premesse: e Grozio non è un vero filosofo, perché non cerca di desumere i princìpi del reale partendo dai fatti, ma un velleitario bene intenzionato, e null’altro, perché vorrebbe dare torto ai fatti onde poterli piegare ai suoi princìpi (il che è una pessima filosofia).

L’etica cristiana aveva retto per secoli, e così pure il diritto fondato su di essa, perché poggiava su un fondamento trascendente e riconosciuto da tutti (anche da coloro i quali, nella sfera pratica, andavano contro di essa); inoltre aveva avuto un valido sostegno nel principio della "legge morale naturale", data a tutti gli uomini in quanto uomini, universale e necessaria, perché infusa in loro, anch’essa, da Dio (indipendentemente dalla Rivelazione). Perché dunque, Grozio, non volendo contare più sul fondamento religioso dell’etica e del diritto, non ha pensato di servirsi nemmeno del principio della legge morale naturale? Appunto perché anch’essa viene da Dio: è bensì "naturale", nel senso che fa parte della natura umana; ma è "morale", nel senso che Dio la ha infusa negli uomini perché essi vivano una vita buona, astenendosi dal male.

Vi è una profonda differenza fra l’idea cristiana della legge naturale e l’idea laica e anti-teologica, propria dei giusnaturalisti (e, dopo di essi, di quasi tutto il pensiero moderno, fino ai nostri giorni), del diritto naturale. La "legge" è anteriore all’uomo, ma gli è stata data dall’alto; il "diritto" è anch’esso anteriore, ma non si capisce donde venga. Dalla natura stessa? Impossibile: la natura non ne sa nulla. Per la natura, l’istinto di conservazione viene prima di tutto, prima di qualsiasi codice morale: e i naufraghi della «Medusa» che uccidono i loro compagni di sventura, per nutrirsi dei loro corpi e dissetarsi del loro sangue, non sono colpevoli di nulla, perché hanno seguito un istinto naturale. E allora: cos’è, donde viene il "diritto naturale" di cui parla Grozio? Da dove venga, lo si capisce anche troppo bene: dalla disperata necessità di evitare che gli esseri umani, in circostanze più o meno problematiche, si mettano a uccidersi e divorarsi fra loro. Secondo Grozio, il diritto naturale dovrebbe inibire l’omicidio e il cannibalismo, perché tali azioni non sono naturali, né ragionevoli. Pover’uomo bene intenzionato: se solo avesse potuto vedere Auschwitz, o Hiroshima…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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