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Gli interessi degli industriali inglesi dietro gli orrori della Guerra del Pacifico

La storia dell’America Latina dopo la conquista dell’indipendenza è una storia di guerre continue, a volte sanguinosissime.

Tre conflitti, in particolare, hanno lasciato un profondo solco di sangue: quello della Triplice Alleanza, in cui il Brasile, l’Argentina e l’Uruguay combatterono contro il Paraguay, dal 1865 al 1870, in una vera e propria guerra di sterminio a danno del popolo Guaranì; quello del Pacifico, combattuto fra il Cile da una parte, la Bolivia e il Perù dall’altra, fra il 1879 e il 1884; e quello del Chaco, combattuto fra la Bolivia e il Paraguay per il possesso di una vasta superficie semidesertica, dal 1932 al 1935. Ciascuno di essi ha provocato immense distruzioni materiali e perdite umane pesantissime (in Paraguay, dopo il 1870, venne autorizzata la poligamia per ricostituire la decimata popolazione maschile) e si è lasciato alle spalle una scia di esacerbati rancori nazionalistici. Parlare a un Peruviano delle perdute province di Tacna e Arica, dopo che la pace di Ancon ebbe posto termine alla Guerra del Pacifico, sarebbe stato come parlare ad un Francese dell’Alsazia e della Lorena dopo la forzata cessione di queste due province alla Germania dopo la guerra del 1870-71, cioè rivoltare spietatamente il coltello in una piaga sempre aperta.

Il Cile, dopo la conquista della propria indipendenza, conobbe una fase spettacolare di espansione economica e politica, grazie ad una maggiore coesione dello spirito nazionale e ad una maggiore saldezza ed efficienza delle istituzioni statali e amministrative. La Guerra del Pacifico, da esso scatenata per impadronirsi della provincia costiera boliviana di Antofagasta e di quella peruviana di Tarapacà, fu detta anche "del salnitro", perché la posta in gioco, nell’aridissimo deserto di Atacama, che ne fu il teatro, era, appunto, il possesso dei giacimenti di salnitro che, fino alla scoperta del salnitro sintetico, da parte dei Tedeschi, nel 1917, assicurò ai loro proprietari il possesso di un settore chiave dell’economia mondiale. Le miniere in questione erano in gran parte di proprietà di compagnie anglo-cilene, a prevalente capitale britannico; e, benché gli storici discutano tuttora circa le prove materiali del ruolo svolto dal governo di Londra nello scoppio del conflitto, esistono pochi dubbi che tale ruolo effettivamente vi fu, per quanto sia difficile, se non impossibile, determinarne pienamente il peso e le precise responsabilità.

Il continente sud-americano, fra XIX e XX secolo, presentava immense potenzialità di sfruttamento economico, quantunque le sue risorse non fossero state ancora perfettamente individuate. Altri due conflitti ebbero il nome della materia prima per cui furono combattuti: la cosiddetta guerra del caucciù, che nel 1903 contrappose il Brasile alla Bolivia, nella provincia di Acre; e la già ricordata Guerra del Chaco, che si può definire guerra del petrolio, benché le compagnie di prospezione che manovravano dietro le quinte, l’anglo-olandese Royal Dutch Shell e l’americana Standard Oil, non fossero giunte neppure a riconoscere con sicurezza la presenza e l’effettiva consistenza dei giacimenti petroliferi della regione contesa fra Bolivia e Paraguay. A queste guerre si potrebbe aggiungere quella del 1866 fra la Spagna e il Perù, per il possesso dei ricchissimi depositi di guano delle isole Chinacas, un materiale allora assai richiesto sul mercato agricolo internazionale per il suo impiego come fertilizzante naturale (cfr. il nostro precedente articolo: «La guerra ispano-peruviana del 1865-66», pubblicato sul sito IT.CULTURA.STORIA.MILITARE).

Nella Guerra del Pacifico il Perù e la Bolivia, alleati senza fortuna, dovettero fronteggiare una impetuosa offensiva cilena che non si arrestò se non dopo lo sbarco a Callao e la conquista della stessa capitale peruviana, Lima, da parte dell’esercito invasore, dopo una serie di asperrime battaglie nelle quali fu pesantemente coinvolta la popolazione civile.

Poiché il teatro di operazioni al principio della campagna, nel 1879, era una delle regioni più aride del globo, fu necessario organizzare un grosso sforzo logistico per il trasporto dei materiali da guerra, delle vettovaglie e perfino dell’acqua potabile. In simili condizioni, il vantaggio stava dalla parte di chi fosse stato capace di assicurarsi la padronanza dei trasporti marittimi: e il Cile, che possedeva una flotta decisamente più moderna e agguerrita di quella dei suoi avversari, partiva nettamente avvantaggiato. Per certi aspetti, la campagna cilena nel desolato Deserto di Atacama richiama la campagna sudafricana nel Deserto del Namib nel 1915, contro i difensori dell’Africa Sudoccidentale tedesca: le condizioni fisiche erano molto simili e anche in quel caso la vittoria toccò alla parte che disponeva della superiorità navale e, dunque del controllo delle linee di rifornimento marittime (cfr. il nostro precedente saggio: «Le colonie tedesche in Africa nella Prima Guerra Mondiale», pubblicato nel sito IT.CULTURA.STORIA.MILITARE). Nel corso della campagna cilena contro i Boliviani e i Peruviani le battaglie, estremamente sanguinose, furono condizionate in maniera determinante dai complessi fattori logistici, e la migliore organizzazione dell’esercito cileno, insieme al predominio navale e al controllo delle coste, finì per determinare l’esito della lotta.

Vi furono singoli fati d’armi, come la battaglia di Tarapacà (27 novembre 1879), in cui gli alleati Peruviani e Boliviani — i quali, per una volta, erano superiori numericamente – furono in grado di strappare un significativo successo locale, ma non riuscirono a sfruttarlo per mancanza di cavalleria con cui premere sull’avversario e trasformare il suo ordinato ripiegamento in una rotta. Perché un successo tattico diventi una vittoria strategica, è necessario che l’esercito attaccante disponga di riserve adeguate e sufficientemente vicine per poter intervenire al momento opportuno; di trasporti efficienti, terrestri, fluviali o marittimi che siano; di scorte d’armi e di munizioni con cui sostituire i materiali consumati o distrutti, e, naturalmente, vettovaglie: tutte cose delle quali le valorose, però mal comandate truppe peruviano-boliviane, non potevano disporre. Era perciò inevitabile che le due nazioni andine andassero incontro alla sconfitta totale: era solo questione di tempo, fino a che la flotta cilena, dopo aver spazzato via la coraggiosa, ma minuscola flotta avversaria — decisivo fu l’affondamento del monitore peruviano «Huascar», comandato dal leggendario capitano Miguel Grau Seminario, dopo sei mesi di alterne vicende – organizzasse il trasporto di un esercito presso la capitale peruviana, per infliggere a quella nazione, dopo che la Bolivia era stata costretta a ritirarsi dalla lotta (perdendo per sempre lo sbocco al mare), il colpo definitivo.

Così la scrittrice cilena Isabel Allende ha rievocato quelle vicende, con sostanziale rispetto della verità storica, nel romanzo «Ritratto in seppia» (titolo originale: «Retrato en sepia», 2000; traduzione dallo spagnolo di Elena Liverani, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 97-8; 106; 108-9):

«La Guerra del Pacifico iniziò per mare e proseguì per terra, con combattimenti corpo a corpo, baionette inastate e coltelli curvi, nei più aridi e spietati deserti del mondo, nelle province che attualmente costituiscono il Nord del Cile, ma che prima della guerra appartenevano al Perù e alla Bolivia. Gli eserciti di questo due paesi non erano sufficientemente preparati per simili scontri, erano numericamente scarsi, male armati e il sistema di rifornimento era talmente inadeguato che diverse battaglie e scaramucce si decisero per mancanza d’acqua o perché le ruote dei carri carichi di casse di munizioni si erano arenate nella sabbia. Il Cile era un paese espansionista, con una solida economia, dotato della miglior flotta dell’America del Sud e di un esercito di più di settantamila uomini. Godeva della reputazione di paese dal forte senso civico in un continente di rozzi cacicchi, corruzione sistematica e sanguinose rivoluzioni. L’austerità del carattere cileno e la saldezza delle sue istituzioni erano l’invidia delle nazioni vicine; le sue scuole e le università attiravano professori e studenti stranieri. L’influsso degli immigrati inglesi, tedeschi e spagnoli era riuscito a temperare lì’impulsiva natura creola. L’esercito riceveva un addestramento prussiano e non conosceva pace, in quanto negli anni precedenti la Guerra del Pacifico si era mantenuto in esercizio combattendo nel Sud del paese gli indigeni di quella zona che veniva chiamata La Frontera perché il braccio civilizzatore era giunto solo fino a lì, e oltre si dispiegava l’ignoto territorio indigeno in cui, fino a poco prima, si erano avventurati solamente i missionari gesuiti. Gli eccezionali guerrieri araucani, che continuavano a lottare senza tregua dai tempi della conquista, non venivano piegati né dai proiettili né dalle peggiori atrocità, ma stavano iniziando a cadere uno a uno sotto i colpi dell’alcol. Combattendo contro di loro, i soldati si erano allenati alle crudeltà. Per presto peruviani e boliviani cominciarono a tenere i cileni, quei nemici sanguinari capaci di passare a fil di spada e pallottole feriti e prigionieri. Al loro passaggio, i cileni suscitavano tale odio e timore da scatenare violente antipatie internazionali e la conseguente serie interminabile di reclami e contese diplomatiche, ed esacerbarono negli avversari la determinazione di combattere fino alla morte, visto che la resa a poco o nulla serviva. Le truppe peruviane e boliviane erano composte da una manciata di ufficiali, contingenti di soldati mal equipaggiati e masse di indigeni reclutati a forza che a malapena sapevano per quale motivo combattessero e disertavano alla prima occasione. Invece le fila [sic] cilene erano formate per la maggior parte da civili, spietati quanto i militari in battaglia, che combattevano per amor di patria e quindi non facili alla resa. Spesso le condizioni erano infernali. Nel corso delle marce nel deserto si trascinavano in una nube di polvere salmastra, morti di sete, con la sabbia fino a mezza coscia, un sole spietato che si rifletteva sulle loro teste e il peso degli zaini e delle munizioni a tracolla, aggrappati ai fucili, disperati. Il vaiolo, il tifo e le febbri terzane li decimavano; negli ospedali militari erano più i malati che i feriti in battaglia. […]

Nei giorni successivi alla battaglia, le truppe cilene entrarono a Lima. Stando ai bollettini ufficiali pubblicato sui giornali cileni, tutto si svolse in modo ordinato; quel che registrò la memoria dei limegni fu invece una carneficina che andò a sommarsi alle angherie dei soldati peruviani sconfitti e furiosi che si erano sentiti traditi dai loro capi. Una parte della popolazione civile era fuggita e le famiglie che potevano permetterselo avevano trovato rifugio nelle imbarcazioni del porto, nei consolati e in una spiaggia protetta dalla marina straniera dove il corpo diplomatico aveva montato alcune tende in cui accogliere i rifugiati sotto bandiere neutrali. Quanti rimasero a difendere i propri beni avrebbero ricordato per il resto della loro vita le scene infernali di quella soldatesca ubriaca e ottenebrata dalla violenza. Saccheggiarono e bruciarono case,m violentarono, colpirono e assassinarono chiunque gli si parasse davanti donne, bambini e anziani compresi. Alla fine, una parte dei reggimenti peruviani depose le armi e si arrese, ma molti soldati fuggirono allo sbando verso le montagne. Due giorni dopo il generale peruviano Andrés Caceres usciva dalla città occupata con una gamba a pezzi, aiutato dalla moglie e da un paio di fedeli ufficiali, per andare a disperdersi nelle impervietà della montagna. Aveva giurato che fino a quando gli fosse rimasto un soffio di vita avrebbe continuato a combattere. […]

I reggimenti cileni entrarono trionfalmente a Lima nel gennaio del 1881 e da quel momento cercarono di imporre al Perù la pace forzata della sconfitta. Una volta sedato il barbaro scompiglio delle prime settimane, i superbi vincitori lasciarono un contingente di diecimila uomini a controllare la nazione occupata, mentre gli altri intrapresero il viaggio verso sud per andare a ricevere i ben meritati allori, ignorando bellamente le migliaia di soldato sconfitti che erano riusciti a scappare sulle montagne e che da lì pensavano di continuare a combattere. La vittoria era stata talmente schiacciante che i generali non potevano pensare che i peruviani avrebbero continuato a osteggiarli per tre lunghi anni. L’anima di quella caparbia resistenza fu il leggendario generale Caceres, che sfuggì miracolosamente alla morte e partì, nonostante una ferita spaventosa, verso le montagne per far resuscitare il seme pertinace dell’eroismo in un esercito straccione di soldati fantasma e di leve indios, grazie al quale portò a termine una cruenta contesa di guerriglie, imboscate e scaramucce. I soldati di Caceres, con le divise a brandelli, spesso scalzi, denutriti e disperati, combattevano con coltelli, lance, bastoni, pietre e uno scarso numero di fucili antiquati, ma con il vantaggio di conoscere il territorio. Avevano scelto bene il campo di battaglia su cui affrontare un nemico disciplinato e armato, anche se non sempre dotato delle sufficienti provvigioni, perché l’accesso a quei ripidi pendii era un compito da condor. Si nascondevano tra i picchi innevati, in grotte e gole, su alti ghiacciai, dove l’atmosfera era talmente rarefatta e la solitudine così immensa che solo loro, uomini di montagna, potevano sopravvivere. I soldati cileni si trovavano con le orecchie scoppiate e insanguinate, svenivano per la mancanza d’ossigeno e si congelavano nelle gole ghiacciate delle Ande. Mentre questi ultimi riuscivano a malapena a salire perché il cuore non consentiva loro un tale sforzo, gli indios dell’altopiano si arrampicavano come lama con un carico equivalente al loro stesso peso sulle spalle, senz’altro nutrimento che la carne amara delle aquile e una pallottola verde di foglie di coca secche da rigirarsi in bocca. Furono tre anni di guerra senza tregua né prigionieri, con migliaia di morti…»

Come abbiamo detto, oggi gli storici non hanno dubbi sul fatto che le oscure manovre degli industriali inglesi, nonché della City londinese, abbiano svolto un ruolo significativo nel precipitare la Guerra del Pacifico, la quale, con una certa dose di realismo e di buona volontà da parte degli statisti interessati, avrebbe potuto essere evitata; così come pochi dubbi vi sono che la finanza e l’industria inglese abbiano spinto le nazioni della Triplice Alleanza a muovere la guerra più sanguinosa dell’intera storia sudamericana contro il Paraguay del dittatore Francisco Solano Lopez, nel 1865 (anche se, formalmente, fu quest’ultimo a dichiarare la guerra per primo, nei confronti del Brasile), la cui colpa era essenzialmente quella di avere avviato un commercio internazionale indipendente dal controllo britannico.

Da quando le deboli e disorganizzate repubbliche dell’America Latina erano nate sulle macerie dell’antico impero coloniale spagnolo (e, nel caso del Brasile, dell’impero coloniale portoghese), il commercio e l’industria britannici avevano posto i loro avidi sguardi su di esse e sulle loro immense ricchezze naturali: la Guerra del Pacifico non fu che un episodio di questa offensiva neo-coloniale, che, silenziosamente, senza tropo clamore, sostituì Londra a Madrid e a Lisbona nel controllo economico di quel sub-continente. Ma gli Stati Uniti facevano buona guardia, e, forti della dottrina Monroe, e soprattutto del loro tumultuoso, formidabile sviluppo industriale e finanziario, vigilavano attentamente per evitare che una potenza europea (dopo la parentesi francese nel Messico, al tempo di Massimiliano d’Asburgo) riuscisse ad introdursi in quell’area del mondo, il cui controllo essi giudicavano essenziale per la tutela dei loro interessi (basti pensare alla disinvoltura con cui Washington finanziò l’insurrezione della Repubblica di Panama contro il governo della Colombia, al solo scopo di farsi poi cedere da essa il territorio ove intendevano realizzare la costruzione del canale inter-oceanico).

A complicare ulteriormente le cose, per circa un cinquantennio (cioè fino allo scoppio della Prima guerra mondiale), sia la Gran Bretagna, sia gli Stati Uniti, dovettero vedersela anche con un nuovo, temibilissimo rivale: il Reich germanico, recentemente riunificato dalla mano abile e ferma del cancelliere Bismarck, e che, durante il regno del Kaiser Guglielmo II, si avviava a contendere alle potenze anglosassoni lo scettro del potere mondiale, inserendosi prepotentemente nel loro gioco, quale terzo incomodo, anche nello scacchiere latino-americano, specialmente là dove esisteva una non trascurabile presenza di coloni di origine tedesca e di capitali tedeschi: ossia nel Brasile, in Argentina, in Cile e nel Paraguay. Nel 1902, Gran Bretagna, Germania e Italia condussero perfino una spedizione militare contro il Venezuela, con il pretesto di proteggere i propri crediti finanziari e gli interessi dei loro concittadini (il presidente venezuelano, Cipriano Castro, si era rifiutato di pagare il debito estero), e fu necessaria una ferma presa di posizione statunitense per indurre le tre potenze europee a fare marcia indietro. Con la guerra del 1914, però, la Germania verrà eliminata dalla contesa; e, un po’ alla volta, anche la Gran Bretagna dovrà accontentarsi di recitare una parte sempre più secondaria, rispetto agli Stati Uniti.

Si può dire che, a partire dagli anni Venti e Trenta del XX secolo, l’intera America Latina entrò quasi completamente nell’orbita finanziaria, economica e politica di Washington, ad esclusione di quasi tutte le altre potenze (Giappone compreso); cosa che non impedì al governo statunitense, all’occorrenza, di sostenere gli interessi politici britannici, come si vedrà ancora nel 1982, in occasione del conflitto anglo-argentino per il controllo delle isole Falkland/Malvine, allorché il presidente Ronald Reagan, dopo qualche esitazione iniziale, deciderà di schierarsi fermamente a sostegno di quello di Margaret Thatcher.

Ma questa è un’altra storia…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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