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28 Luglio 2015Quella del cardinale Giulio Alberoni, nato a Fiorenzuola d’Arda, nel Piacentino, il 30 maggio 1664 e morto a Piacenza il 26 giugno 1752, che fu primo ministro alla corte spagnola di Filippo V di Borbone e della sua seconda moglie, Elisabetta Farnese (essendo rimasto vedovo della prima, Maria Luisa di Savoia), è una figura tuttora assai controversa.
Gli storici discussero a lungo, e discutono tuttora, come del resto avevano fatto i suoi contemporanei, sulle sue reali capacità di governo e, soprattutto, su quali fossero le sue autentiche mire politiche; e non si può dire che i pareri si siano avvicinati e che la storiografia contemporanea sia giunta ad una valutazione sostanzialmente condivisa intorno a quest’uomo enigmatico, venuto su letteralmente dal nulla – era il figlio di un giardiniere e di una cucitrice -, ed affermatosi, ad un certo momento, quasi come l’ago della bilancia dell’intero sistema degli equilibri strategici sul continente europeo.
Di fatto, egli svolse, presso la corte di Madrid, un ruolo simile a quello che un altro cardinale italiano, Giulio Mazzarino, aveva svolto presso la corte di Parigi, svolgendo le funzioni di primo ministro durante la prima parte dei regno di Luigi XIV, così come il suo predecessore, il cardinale di Richelieu, aveva fatto durante il regno di Luigi XIII. La differenza principale tra loro fu che l’Alberoni non ebbe il tempo sufficiente per svolgere sino in fondo le riforme economiche e amministrative intraprese, a causa del fallimento del suo disegno politico-militare, che, culminato nella sconfitta spagnola al termine della Guerra della Quadruplice alleanza (1717-1720), ne causò il licenziamento e l’esilio, troncando così a mezzo la sua opera.
Ma qual era, precisamente, tale disegno? E perché esso fallì miseramente, provocando la sua caduta in disgrazia ed il suo allontanamento da parte di Filippo V?
Partiamo dalla prima domanda. La questione essenziale, intorno alla quale vertono tuttora le discussioni fra gli storici, è su quale potere effettivamente egli avesse deciso di servire; perché solo dopo aver chiarito tale questione preliminare — che, per la maggior parte dei grandi personaggi storici, è già abbastanza chiara da non dover richiedere ulteriori approfondimenti — si potrà capire anche quale fosse realmente il senso del suo grande disegno politico.
Sintetizzando al massimo le cose, si potrebbe affermare che Giulio Alberoni volle servire la Spagna per restituirle il ruolo di grande potenza, che essa aveva perduto con il lento declino nel XVII secolo, e, più ancora, con l’esito della Guerra di successione spagnola (1701-1713/14); e fu per questo che intraprese una serie di vaste e coraggiose riforme sul piano interno, intese essenzialmente a modernizzarla e dotarla di un sistema produttivo efficiente, simile a quello degli altri grandi Stati dell’Europa occidentale; nonché una politica estera alquanto intraprendente, per non dire aggressiva e quasi spericolata, sì da farle recuperare lo spazio internazionale che aveva perduto con le paci di Utrecht e Rastadt. Tuttavia, la domanda immediatamente successiva, che lo storico deve porsi per comprendere il senso della sua azione, è la seguente: egli desiderava rafforzare e rinnovare la Spagna per amore della Spagna soltanto, oppure intendeva servirsi della rinata potenza spagnola per scacciare gli Asburgo dall’Italia e per restaurare dei sovrani italiani sui troni minori della Penisola, magari con il lontano obiettivo di lavorare ad una più vasta aggregazione, in cui taluno potrebbe perfino vedere una certa quale intuizione della futura politica risorgimentale, svolta, in particolare, dai re di Savoia? Insomma: voleva una Spagna forte per se stessa, o per farne il braccio armato e il punto di partenza d’una politica autonomistica italiana?
Quest’ultima tesi è stata sostenuta con forza dallo storico milanese Ettore Rota (nato nel capoluogo lombardo nel 1883 e morto a Cannobio nel 1958), una interessante, ma oggi quasi dimenticata figura di studioso, che fu — dal 1924 — docente di Storia moderna presso l’Università di Pavia, e condirettore della «Nuova rivista storica». Grande conoscitore del Settecento, dei suoi movimenti culturali e della diplomazia internazionale, fu autore di monografie specialistiche di notevole originalità ed interesse, come traspare già dai titoli («Il Giansenismo in Lombardia e i prodromi del Risorgimento», del 1907). Tuttavia la sua fama resta legata soprattutto ad uno ampio studio su «Le origini del Risorgimento», pubblicato nel 1938, nel quale, scavando in profondità e mostrando una grande capacità di penetrare con lo sguardo nelle pieghe più nascoste della politica e della cultura settecentesca, risale assai più indietro nel tempo di quanto generalmente non si ammetta, nell’individuare le radici del movimento risorgimentale, che la maggior parte degli storici d’oggi colloca non prima del crollo del dominio napoleonico e del Congresso di Vienna, cioè non prima del 1815.
Inoltre, per lui, il Risorgimento è stato un fenomeno storico che si è sviluppato ampiamente nel solco di motivi originali ed autoctoni, e non tanto, ma certo non principalmente, come effetto di influenze straniere, soprattutto francesi; tanto è vero che egli ravvisa dei motivi "risorgimentali", nel senso più ampio del termine, anche nella concezione e nell’azione politica di Giulio Alberoni, ministro di Spagna, sì, ma ministro italiano, innamorato non già della Spagna, ma dell’Italia, e fierissimamente avverso agli Austriaci e all’Impero, che vuol fare leva sulla risorgente potenza spagnola appunto per spazzare via la presenza austriaca dalla Penisola ed installarvi dei principi italiani o italianizzati (come i figli di Elisabetta Farnese): in breve, vedendo in lui l’artefice di un "disegno" politico e diplomatico di amplissimo respiro, mirante a realizzare quegli obiettivi essenziali che stanno alla base del Risorgimento, così come lo conosciamo e lo vediamo affiorare nella mente, ed esplicitarsi negli scritti o nelle azioni, di uomini come Vincenzo Gioberti, Carlo Alberto di Savoia e Camillo Benso di Cavour. Insomma, per Ettore Rota le origini profonde del Risorgimento sono tutte settecentesche e tutte, o quasi tutte, italiane: due tesi che si pongono nella scia della storiografia nazionalista e fascista del periodo che va dai primi del Novecento alla Seconda guerra mondiale, e che, poi, è stata in gran parte corretta, rettificata, aggiustata, in base ai nuovi orientamenti della Vulgata storiografica e culturale emersa dalle macerie del 1945: politicamente corretta e cioè debitamente democratica, resistenziale, anti-nazionalista e anti-fascista.
Vuoi vedere che è stato per questo se uno storico originale e di grande spessore, come Ettore Rota, è stato condannato a una sorta di oblio programmatico e deliberato, dopo la caduta del Fascismo e l’avvento dell’Italia repubblicana e democratica: cioè per il delitto di lesa maestà nei confronti della versione addomesticata e ideologicamente rivisitata che, della nostra storia nazionale, hanno deciso di fare gli uomini del 1945, per mettere nel dimenticatoio tutto ciò che non si adattava con i loro assunti e postulati e per gonfiare ed enfatizzare al massimo, viceversa, tutto ciò che si prestava ad avvalorare e a corroborare le loro tesi, secondo le quali il nazionalismo, e, ancor più, il Fascismo, erano il "male assoluto" che andava esorcizzato per sempre, e che l’Italia era veramente se stessa solo a patto di abdicare al proprio ruolo di grande potenza e solo a condizione di lasciarsi strumentalizzare dalle mire altrui, rinfocolando, all’interno, le contrapposizioni e gli odî di parte, così come già era avvenuto, per secoli, nel passato, quando Guelfi e Ghibellini, per esempio, e poi le diverse corti signorili, avevano lacerato il tessuto della vita nazionale a tutto vantaggio di poteri forti d’Oltralpe, che di quelle divisioni si erano largamente serviti per penetrare ed inserirsi nei giochi politici della Penisola, fino ad asservirla e dominarla pressoché interamente?
Scriveva, dunque, Ettore Rota nella sua pregevole e ormai dimenticata opera «Le origini del Risorgimento», Milano, Vallardi, 1938, vol. 1, pp. 96-102 passim):
«A nostro avviso, nessuno fra gli uomini politici del Settecento, ha vissuto e sofferto con più acuta passionalità il problema italiano, contemplato nella sua compiutezza di problema interessante tutto un popolo, non solamente una provincia della Penisola. L’Alberoni non amò la Spagna. Suo pensiero fu di giovarsi della Spagna per liberare l’Italia dalle strette poderose dell’Austria; mentre questa tendeva a congiungere Milano e Napoli con il ducato di Parma e Piacenza e con la Toscana, profittando delle difficoltà di una successione diretta in questi Stati. La creazione di un più grande ducato farnesiano, egemonico, e la eliminazione graduale della stessa Spagna, mediante Stati autonomi da conferirsi ai figli di Elisabetta Farnese, erano i mezzi per risolvere il problema della libertà italica, contenuti nelle possibilità reali de tempo.
Fra i blasoni e le parrucche del Settecento, ancora per tre quarti feudalissimo e aristocratico, questo figlio del popolo, che si è acquistato i poteri di un Richelieu, figura come una ingiuriosa novità e suscita una istintiva avversione. La sua vera grandezza è nascosta; è nel pensiero di una nuova risistemazione dell’Italia, che sta chiuso nel suo cuore; è un pensiero gelosamente custodito come i piani che l’abate va meditando in segreto, intorno ad esso, per non disturbare con frastuoni e sospetti prematuri un’esecuzione fissata per un tempo lontano. […]
L’Alberoni odia i Tedeschi. Impreca contro di loro senza pietà: "Dio voglia che siano puniti di tutte le crudeltà che hanno commesso nel nostro povero paese". Sono la "razza infame", che tanti secoli di civiltà hanno lasciata intatta, nella sua forma primordiale di speculatori e di professionisti della guerra. Egli assorbì questo odio con gli umori della propria terra: lo trovò disseminato in ogni casolare delle campagne parmensi e piacentine; lo sentì vibrare nei discorsi dei proprietari e dei contadini; lo visse come soldato sotto la sua divisa di guerra al seguito del Vendôme, quale inviato del Parmense, per proteggere le frontiere del Ducato. Egli rese allora ai suoi concittadini un primo grande servigio, e per esso accettò di buon grado le durezze e gli stenti della vita da campo: e concepì la guerra con serietà, con disciplina, con amore, biasimando l’ufficialità francese che vi portava un senso di frivolezza e di utilitarismo.
Incominciarono così a trovarsi insieme, identificato in una perfetta armonia morale, l’uomo politico e il patriota, il rappresentante dei un interesse dinastico e l’Italiano: perciò l’odio ai Tedeschi si fuse con n progetto di guerra nazionale, liberatrice. […]
L’odio verso i Tedeschi cresce nell’Alberoni insieme con la pietà dell’Italia e con la previsione della dura sorte che la politica dell’Austria fa incombere sopra la Penisola. […]
Nell’animo del popolano di Piacenza ferve il tormento di una sacra passione e di una grande idea: l’Italia deve cessare di essere considerata dall’Europa il "paese di cuccagna", paese tanto caro ai Tedeschi, che vorrebbero continuarvi in eterno la guerra per continuare il loro pingue bottino; l’Italia non deve essere l’inviolabile privilegio politico dell’Impero. […]
L’abate trasmette al generale francese la propria passione: lo infervora della sua stessa idea; e il Vendôme, amico fedele, patrocina la causa d’Italia presso il Borbone che ha per le sue vittorie ricevuto la corona. Nei convegni di corte come nei conversari privati, il problema italiano acquista confidenza e notorietà sotto la spinta incessante dell’Alberoni; il quale, familiare del Vendôme, diviene anche il confidente di Filippo V e di Maria Luisa, la virtuosa e intelligente figlia di Vittorio Amedeo, la buona sabauda che intorno a sé raccoglie le speranze del partito italiano, già forte di uomini e di simpatie, per le aspirazioni che la Spagna conserva sopra a Penisola anche se passata in mano ai Tedeschi. […]
Madrid si sta italianizzando negli uffici maggiori del comando. Essa è la capitale di una monarchia in isfacelo. E sono uomini nostri che la stanno ricostituendo. Entro un mondo così pervaso di italianità, la sensazione di vivere in uno Stato stranero arriva al cuore dell’Alberoni molto attenuata. La sua fissazione, fare leva della Spagna per smuovere il macigno tedesco dalla Penisola, prende i colori italiani dell’ambiente, come se, ad effettuare questo sogno, egli contasse sopra le forze della stessa Italia. Curiosa situazione psicologica, che è avvertita dall’abate e lo costringe a chiarirne gli equivoci agli amici del suo paese, con aperta protesta di aver servito e di voler sempre servire il Duca e l’Italia, non altri, e di non poter considerare Filippo V, per i rapporti di cordialità con la propria persona, "un re straniero".
Volgono gli anni delle discussioni di Utrecht e di Rastadt; l’Alberoni assiste da Madrid alle nuove vicende della politica italiana, sempre disorganica e scismatica, e alle disfatte della diplomazia europea incapace di tenere a freno l’Impero. La sua passione patriottica non riceve altro che duri morsi da quegli eventi quotidiani.
Nel groviglio dell’Italia vede con la precisione dello stratega: a Mantova stanno riposte le chiavi della libertà italiana martoriata dai Tedeschi: "se questa infame razza esca da Mantova, si potrà ancora sperare di vederli snidati totalmente dall’Italia". Ma la fortezza del Mincio rimane all’Impero; l’Alberoni, sfiduciato verso le due grandi potenze occidentali, scrive: "credo che non dagli amici di oggi noi dobbiamo attendere la nostra liberazione"; e fa voti che dall’oriente balcanico venga la soluzione del vecchio problema italiano: "Dio faccia che questa maledetta trovi nel Turco chi le dà una occupazione". Era la speranza estrema dei principi d’Italia!
La pace conclusa nelle due tappe di Utrecht e di Rastadt suscita l’indignazione violenta del Piacentino, che d’ora innanzi confiderà non solo sul Turco, ma in se stesso e nel proprio sovrano.»
Certo, le tesi di Ettore Rota, e la sua interpretazione dei significati profondi dell’opera politica di Giulio Alberoni come primo ministro di Spagna, fra il 1715 e il 1720, sono estremamente intriganti e originali; nessun altro storico ha sottolineato in maniera così esplicita la componente filo-italiana, e, in senso lato, "risorgimentale", della sua azione politica presso la corte di Filippo V di Borbone ed Elisabetta Farnese.
Francamente, noi non siamo del tutto persuasi da una così audace e sottile interpretazione dell’opera del cardinale, pur riconoscendo che vi sono, in essa, elementi che fanno alquanto riflettere. Per noi, la figura di Giulio Alberoni conserva qualche cosa di misterioso, di arcano, quasi di indecifrabile; e, anche se la maggior parte degli storici di professione sembrano convinti del fatto che la storia, come una delle altre scienze "positive", può e deve, per il suo stesso statuto ontologico, sviscerare e chiarire quasi qualsiasi problema, e rischiarare e spiegare quasi qualunque situazione, per parte nostra non proviamo un particolare imbarazzo nel riconoscere che vi sono, al contrario, situazioni e problemi che lo storico, per quanto s’impegni, e a meno che non compaiano nuovi e decisivi documenti, finora rimasti sconosciuti, deve ammettere di non poter comprendere sino in fondo e sui quali, pertanto, deve conservare una posizione critica di estremo riserbo, astenendosi dall’emettere giudizi troppo netti e definitivi, dei quali potrebbe facilmente pentirsi, e, soprattutto, che non è in grado di motivare e di argomentare in maniera adeguata.
Ebbene, riteniamo che Giulio Alberoni rientri in questa categoria di personaggi storici: in lui vi è qualcosa di enigmatico, che si presta a troppe e diverse interpretazioni possibili, il che equivale a dire che egli è riuscito, nel corso dei secoli, a tenere per sé il suo segreto più profondo. Ci sfuggono le ragioni ultime del suo agire: tutto quel che possiamo fare, è constatare la sua notevole abilità e l’ampiezza della sua visione politica: di più non sarebbe giusto dire, perché equivarrebbe ad azzardare una chiave di lettura che, oggettivamente, siamo consapevoli di non possedere. Possiamo, viceversa, quanto meno sospettare che il limite della sua politica sia stato lo stesso di un conte-duca di Olivares (o anche, se si preferisce, di un Francesco Crispi): la sproporzione tra mezzi e fini, e quindi, in ultima analisi, la tendenza a perseguire una politica velleitaria e irrealistica, dominata da ambizioni sia pur generose, ma slegate dalla concreta dimensione del possibile. Un limite, evidentemente, assai grave per un personaggio politico, essendo la politica, per l’appunto, l’arte di operare la sintesi armoniosa di ideale e reale, nella ricerca del bene comune.
Ma qual era il bene politico perseguito da Giulio Alberoni? Se era quello dell’Italia, evidentemente l’odio anti-tedesco non era sufficiente allo scopo, perché la politica si fa innanzitutto con i fattori positivi e non già con quelli meramente negativi: ossia per qualcosa, e non soltanto contro qualcosa. A ciò, tuttavia, si potrebbe obiettare che l’Alberoni, individuando nella monarchia spagnola l’elemento suscettibile di perseguire una politica filo-italiana, fece qualcosa di simile a quel che avrebbe fatto, quasi un secolo e mezzo più tardi, il Cavour, servendosi dell’alleanza di Napoleone III per estromettere gli Austriaci dalla Penisola. Ma, a nostra volta, potremmo rispondere che, appunto come il limite della politica cavouriana fu quello di servirsi di forze straniere e di non fare appello a moti autoctoni del popolo italiano, quello di Alberoni fu di ignorare l’urgenza delle riforme sociali interne degli Stati italiani e di non aver agito in maniera incisiva per coinvolgere nel suo disegno né Venezia, lo Stato più antico e più forte, né il Piemonte, né lo stesso Pontefice: insomma, di aver trascurato o sottovalutato tutte quelle forze autenticamente italiane che avrebbero potuto essere coinvolte nel suo grande disegno. Insomma, non bastava scacciare gli Austriaci, se non esisteva un obiettivo positivo comune agli Italiani del tempo: obiettivo che doveva, per forza di cose, fare appello ad un certo sentimento nazionale, il quale appunto, ahimè, era allora carente, se non proprio del tutto assente, non solo nelle misere plebi rurali, ma anche nella nobiltà e nella borghesia "illuminate".
Tale il circolo vizioso in cui si muoveva la politica alberoniana, tali le premesse del suo fallimento finale: e, con ciò, crediamo di avere risposto, fino ad un certo punto, anche alla seconda domanda che ci eravamo posta al principio del nostro ragionamento, ossia per quali ragioni quel disegno sia fallito, e si sia concluso con il licenziamento e l’esilio di Alberoni dalla corte madrilena.
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