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Georg Trakl canta l’angoscia dell’anima che si sente straniera in una terra desolata

Ha appena ventisette anni, Georg Trakl (nato a Salisburgo, 3 febbraio 1887, morto a Cracovia il 3 novembre 1914), e il mondo non conosce il tesoro delle sue poesie, quando, allo scoppio della Prima guerra mondiale, viene richiamati nella riserva e parte per il fronte orientale, dove partecipa alle sanguinose battaglie in Galizia, preso Grodek.

Infermiere nelle immediate retrovie, si trova a dover assistere, senza medicinali e senza alcuna assistenza, un centinaio di feriti gravissimi: un’esperienza che sconvolgete anche per un animo meno sensibile del suo, tale da indurlo a tentare il suicidio. I commilitoni lo salvano ed egli viene inviato in osservazione nelle retrovie, presso l’ospedale militare di Cracovia: ed è lì che consegna le sue ultime poesie di guerra all’amico Ludwig von Ficker, venuto a trovarlo. Pochi giorni dopo, il giovane poeta austriaco riprova, questa volta con successo, a togliersi la vita, il 3 novembre 1914, mediante l’assunzione di una dose eccessiva di cocaina.

Una delle due ultime liriche che aveva appena composto è una poesia di guerra, simile, nei temi, a quelle de «L’allegria» di Ungaretti; si intitola «Grodek»:

«La sera risuonano i boschi autunnali

Di armi mortali, le dorate pianure

E gli azzurri laghi e in alto il sole

Più cupo precipita il corso; avvolge la notte

Guerrieri morenti, il selvaggio lamento

Delle loro bocche infrante.

Ma silenziosa raccogliesi nel saliceto

Rossa nuvola, dove un dio furente dimora,

il sangue versato, lunare frescura;

tutte le strade sboccano in nera putredine.

Sotto i rami dorati della notte e di stelle

Oscilla l’ombra della sorella per la selva che tace

A salutare gli spiriti degli eroi, i sanguinanti capi;

e sommessi risuonano nel canneto gli oscuri flauti dell’autunno.

O più fiero lutto! voi bronzei altari,

l’ardente fiamma dello spirito nutre oggi un possente dolore,

i nipoti non nati.»

La sorella Grete, amata dal poeta d’un amore incestuoso, intenso e disperato, morirà tre anni dopo, suicida anche lei: sparandosi un colpo di pistola. La sua ombra oscilla già nella foresta autunnale intrisa di sangue, in questa cupa e stralunata poesia del morituro; e ancora appare nell’altra poesia, «Lamento», composta negli stessi giorni e consegnata, anch’essa, all’amico von Ficker, nelle strazianti parole: «sorella di tempestosa tristezza».

Ma chi era, Georg Trakl? Da quale strano pianeta era venuto a cadere sulla terra questo giovane tormentato, angosciato, che sembra aver preso sulle proprie spalle tutto il dolore del mondo: di un mondo avviato al crepuscolo, senza più speranze né illusioni? Uno dei tanti intellettuali influenzati dalla filosofia di Nietzsche, un simbolista come Hofmannsthal e Maeterlinck? Eppure, in lui, si sente l’eco d’un pensiero molto più antico, più spirituale: si sente l’eco di Platone, della drammatica lacerazione fra il mondo di quaggiù e il mondo di Lassù, quello delle pure Idee, di cui le cose che popolano la nostra dimensione non sono che le pallide, sbiadite immagini riflesse, capovolte, deformate.

Georg Trakl è il cantore di una bruciante, struggente nostalgia: la nostalgia dell’eterno; la nostalgia dell’anima che sente di non appartenere a questo mondo, ma a quell’altro, di cui conserva, chi sa come, un vivo e incancellabile ricordo, un rimpianto segreto e febbrile.

Ha scritto Eugenio Borgna, a questo proposito, nel suo libro «L’arcipelago delle emozioni» (Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 59-60):

«L’anima straniera sulla terra mi sembra essere la cifra insondabile che sta alla radice di ogni nostalgia: di ogni dolore per la patria, la patria del cuore e la patria in carne e ossa, che si è allontanata e che sopravvive nella memoria.

La poesia di Georg Trakl ci porta in mondi che trascendono ogni esperienza e ogni cultura; facendoci cogliere il senso radicale e straziante dell’essere-stranieri e dell’essere-esiliati. La poesia di Georg Trakl, splendidamente rianalizzata da Ida Porena ["La verità dell’immagine. Una lettura di Georg Trakl"]che ne coglie le strutture profonde e la linfa vitale che scorre in essa sulla scia di una riconsiderazione di alcune grandi tesi junghiane:, ci avvicina ai mondi della vita che fanno parte di ogni umano destino e di ogni umana presenza: facendo riemergere qualcosa che non può essere perduto e cancellato.

In una sua poesia, "Frühling der Seele" ("Primavera dell’anima"), Trakl parla dell’anima straniera sulla terra; e Heidegger la commenta con radicale profondità: "La poesia di Trakl canta il canto dell’anima che, ‘straniera sulla terra’, peregrinando, conquista la terra come patria più quieta della stirpe che ad essa fa ritorno" ["In cammino verso il linguaggio"]; ma il discorso critico e archeologico di Martin Heidegger non si arresta qui: ulteriormente confrontandosi con i temi della poesia.

Così egli dice ancora: "Fantasticheria romantica, lontana dal mondo tecnico-economico della moderna civiltà di massa? O, piuttosto, lucido sapere del ‘folle’, il quale altro vede e pensa che non i cronisti dell’attualità che si esauriscono nella cronaca degli avvenimenti del presente, che conoscono solo un futuro oggetto di previsione di pianificazione, semplice prolungamento del momento attuale, un futuro in cui non si profila l’avvento di alcun destino — destinazione che riguarda l’uomo in ciò che rappresenta l’origine del suo vero essere?".

Nel discorso di Heidegger, in queste sue riflessioni su una delle poesie più sconvolgenti di Trakl (che, nella sua disperazione e nella sua angoscia mortale, non può non essere ascoltato con temeraria e attonita attenzione), ci è possibile cogliere la dimensione ultima di ogni stranierità: di ogni esperienza di estraneità e di inconoscibilità che sigillano l’esistenza di ciascuno di noi quando si sia perduta la propria patria: la patria concreta e la patria metaforica (la patria interiore) nelle loro segrete analogie e nelle loro misteriose affinità.

Nelle diverse articolazioni tematiche della nostalgia, in quelle (in particolare) che sgorgano dall’esilio, dal cambiamento, o dalla perdita, della propria casa, e dalla dissolvenza delle proprie radici, la connotazione psicopatologica e clinica può assumere dimensioni drasticamente evidenti.»

La patria dell’umanità, per Trakl, non è di questo mondo; ma egli si è trovato a vivere, come tutti quelli della sua generazione — e come, in parte, ed a maggior ragione, noi cittadini del terzo millennio — una ulteriore, bruciante contraddizione: perché la patria dell’Occidente si stava eclissando, stava svanendo, si stava dissolvendo, sia letteralmente e materialmente (l’Europa del 1918 resa irriconoscibile dalla guerra; il "mondo di ieri" di Stefan Zweig, stravolto e scomparso; la plurisecolare monarchia asburgica, cancellata dalla carta geografica dell’Europa), sia, ancor più, in senso metaforico e spirituale, avendo perso, forse per sempre, tutte le sue certezze, tutti i suoi modelli ideali e spirituali, tutti i suoi punti di riferimento.

Trakl, perciò, è un esiliato ancor prima che l’esilio si manifesti; è un reietto, un vagabondo, uno stranito ebreo errante, che si rifugia nel mondo delle visioni perché non sopporta la perdita della sua patria, ancor prima che la sua patria — quella terrena, la vecchia Austria-Ungheria – sia perduta, e prima che le sue bandiere vengano ammainate definitivamente, come racconterà Alexander Lernet-Holenia nel suo romanzo elegiaco «Die Standarte» («Lo stendardo»). È un "uomo senza qualità" e senza più un centro, uno scopo, un punto focale, come lo ha descritto Robert Musil («der Mann ohne Eigenschaften») e come lo sono divenuti ormai tanti, anzi, pressoché tutti, in una società massificata, che non ha tempo per curarsi della propria essenza spirituale.

E quando si vede scaraventato al fronte, e, in un ospedale da campo che sembra uscito da un incubo di mezzanotte, si trova alle prese con decine e decine di corpi devastati dalle schegge delle granate e dalle raffiche di mitragliatrice, con decine e decine di anime torturate e agonizzanti, che implorano morfina o chiedono il sollievo di un po’ d’acqua per spegnere la sete divorante della febbre, Trakl deve aver pensato che l’Inferno di Dante non era, dopotutto, l’allucinazione di un poeta medievale, ma la concreta e immediata realtà storica dell’autodistruzione dell’Europa, e che non valeva la pena di continuare a vivere in un simile orrore.

L’Inferno, peraltro, non consiste solo (si fa per dire) nello scatenamento della furia distruttiva, o auto-distruttiva, che, nella storia dell’Europa contemporanea, si è manifestata specialmente nelle due guerre mondiali; esso è anche nel deserto dei valori, nella perdita dell’idea del bene, nello smarrimento entro la selva oscura del relativismo, del nichilismo e del pessimismo radicale. Ed è un Inferno che produce il vuoto: un vuoto nel quale, per una legge inesorabile, finiscono per venire richiamate ed assorbite tutte le più pericolose follie, tutti i più sinistri pensieri, che l’anima perduta di un continente, di una civiltà, genera quali prodotti di rifiuto e di putrefazione della sua carne viva. I fondamentalismi politici e religiosi nascono da questo clima di disfacimento e si alimentano di queste filosofie del crepuscolo, bizzarro e mostruoso miscuglio di vitalismo e disperazione, sogni smisurati di grandezza e sentimenti brucianti d’impotenza e frustrazione.

Tutto questo, crediamo, vi è nei versi oscuri, balenanti, espressionistici di Georg Trakl: le convulsioni angosciose di un’anima che cerca la sua patria celeste e che si trova, invece, sempre più sprofondata nelle bolge dantesche ove infuriano, come belve feroci scatenate, la superbia, la lussuria e la cupidigia di ciascuno contro tutti, «bellum omnium contra omnes», poiché è venuto meno un principio superiore di verità e di giustizia e gli altri esseri umani sono diventati dei concorrenti e dei rivali da temere, da manipolare, perfino da eliminare.

Ma vi è anche un ulteriore, drammatico fattore di angoscia e di allarme, nei versi di «Grodek»: la presenza inquietante, indistinta, eppure estremamente viva e reale, di quella figura femminile, triste, senza pace, come lui angosciata per un amore impossibile, proibito, "maledetto": la sorella; e, con lei, il dolore per quei nipoti non nati (Grete, separata dal marito, aveva abortito): perché da un amore proibito, e quindi sterile, non può scaturire la vita. E, su tutto, la cappa opprimente di un doloroso, devastante, insopportabile senso di colpa: di una colpa oscura, ma implacabile, che grava come una maledizione biblica; quella colpa che opprime i personaggi di Kafka e gli "inetti" di Svevo, che schiaccia i dolenti anti-eroi pirandelliani, che nega la luce della redenzione agli ambigui, umbratili abitanti dei regni di Sodoma e Gomorra, nella «Recherche» proustiana.

Il mondo poetico di Georg Trakl è lo specchio fedele, impietoso, della nostra condizione di uomini della tarda modernità: un mondo votato alla dissoluzione e dominato dai fantasmi minacciosi di una colpa contro la quale non sembra esservi redenzione possibile, anche perché la colpa non è chiara, non è stata individuata, e forse non consiste in un atto preciso, in una esplicita trasgressione, ma ha piuttosto a che fare con tutto il modo di essere della civiltà moderna; e, inoltre, perché non può esservi redenzione alcuna per chi non ne riconosce la necessità vitale, o per chi non se ne ritiene meritevole. Ancora una volta, come aveva ben visto Kierkegaard, la "malattia mortale" non è l’angoscia — che, in se stessa, può anche rivelarsi salvifica -, ma la disperazione.

Il dramma dell’uomo moderno non è solo quello di essere disperato, ma anche quello di ritenersi immeritevole di perdono, ragion per cui non chiede, né vuole, consolazione. Nessuno, nemmeno un Dio, lo potrà mai consolare, e tanto meno salvare, fino a quando lui stesso non se ne riterrà degno…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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