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Gadda e Moravia, cattivi maestri che spargono pessimismo e confusione perché odiano la vita

Non è raro il caso che l’odiatore della vita si travesta da moralista; e non è raro il caso che costui, avendo raggiunto una posizione di visibilità e di (malintesa) autorevolezza come "intellettuale" — in fondo, questo è l’intellettuale: un signore che non si dedica alla cultura, ma usa la cultura per fare un discorso narcisista su se stesso -, riesca ad usurpare la fama di fustigatore dei costumi, magari della "squallida" e "decadente" borghesia, proprio rovistando fra la peggiore spazzatura di quello squallore e di quella decadenza, ad esempio spacciando la pornografia per analisi psicologica e sociologica della sessualità.

Questa recita a soggetto è stata, ed è tuttora, proficuamente interpretata da una quantità di sedicenti intellettuali italiani, cattivi maestri d nichilismo e di relativismo, che hanno saputo mascherare la loro ostilità verso il mondo, il loro rancore verso la vita, da ansia moralista, cioè da bene intenzionata ansia di rigenerazione e di purificazione dei costumi (quelli altrui, beninteso). E perché non avrebbero dovuto farlo, e sfruttare la gallina dalle uova d’oro, visto che esisteva un pubblico abbastanza stupido da acclamarli quali profeti di chissà quale palingenesi, e una critica abbastanza disonesta da salutare in loro niente di meno che dei maestri?

Spiccano, in questo ruolo di falsi moralisti — perché il moralista autentico è una persona seria, più severo con se stesso che con gli altri, e non viceversa — gli scrittori Carlo Emilio Gadda e Alberto Moravia. Del primo abbiamo già avuto occasione di dire qualcosa; e, che abbiamo colto nel segno, lo hanno dimostrato le immediate reazioni, indignate e veementi, di alcuni suoi ammiratori, i quali si sono affrettati a recitare devote giaculatorie per esorcizzare il misfatto (cfr. l’articolo «Nausea dell’esistenza e bassezza morale nell’opera di un falso ‘grande’ della letteratura: C. E. Gadda», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 12/05/2010). Sul secondo, cioè Alberto Moravia, vogliamo spendere ora qualche altra parola.

Innanzitutto, partiamo da ciò che li accomuna: il piacere di rotolarsi nel fango, di degradare la persona umana, di ritrarre l’uomo e la donna nella maniera più ignobile possibile, di presentare la vita come un qualcosa di orribile e di sordido; e, nello stesso tempo, un ipocrita atteggiamento censorio nei confronti delle debolezze altrui, un malsano compiacimento di infierire su quanto vi è di basso e di turpe nella nostra natura, non come reazione salutare di un’anima che aspira alla pulizia morale, ma come rivalsa di un’anima persa, che non crede, né ha mai creduto nella vita, che non ha mai voluto bene ad alcuno, neppure a se stessa, e che prova un’amara, aberrante soddisfazione nel mostrarsi impietosa contro tutto e contro tutti, fingendo un distacco e, forse, una superiorità morale, che non esistono, né avrebbero ragione di esistere: poiché chi più ha compreso, semmai, più impara a perdonare, e non a giudicare e condannare.

Cattiva coscienza, dunque, spacciata per buona; e furore iconoclasta che pare nascere da un ribollimento del senso etico, mentre è studiato a freddo e trasformato in merce di facile smercio, magari ammiccando ai gusti più corrivi del pubblico; infine, per Moravia specialmente, la desolante, perfino imbarazzante banalità di farsi forte delle due forme allora imperanti di psico-polizia, il marxismo e la psicanalisi freudiana, spacciando le loro formule da quattro soldi per l’ultima parola di verità sulla condizione umana. Avrebbe voluto essere il profeta della rivoluzione etica contro la corrotta e marcia borghesia; ma intanto faceva dei bei soldi smerciando i suoi libri pruriginosi proprio a quei borghesi marci e decadenti.

Ci piace riportare una pagina del critico e storico letterario Giulio Ferroni sul significato complessivo dell’opera di Moravia (da: G. Ferroni, «Storia della letteratura italiana», Torino, Einaudi, 1991, vol. 4, pp. 432-3):

«Come è evidente fin dalle sue prime opere, Moravia parte da un senso di estraneità verso la realtà, da un’aridità che impedisce ogni comunicazione autentica, da u’ostilità insuperabile verso le cose e le persone. Questo atteggiamento sembra non mutare mai, come suggerisce una famosa formula, con cui Luigi Russo definì Moravia "scrittore senza storia": in effetti l’inesauribile energia narrativa dello scrittore romano, pur cercando nel corso degli anni sempre nuove esperienze, resta in ogni momento ancorata a una specie di ostilità verso la realtà, come a un sordo rancore verso la vita. Lo scrivere di Moravia è un esercizio interminabile che permette di riempire questo astio, è un’incessante costruzione di sé, una difesa sistematica da una minaccia distruttiva che è alla radice del suo stesso essere. In questa costruzione di sé Moravia si incontra con la più svariata problematica della cultura contemporanea, con le forme del dibattito culturale, con i temi decisivi proposti dall’attualità: come a voler sfuggire ossessivamente a quel sotterraneo rancore verso la realtà, egli si immerge in tutto ciò con desiderio di partecipazione che lo porta spesso a generalizzare in modi fin tropo disinvolti. In ogni suo gesto egli assorbe e semplifica, qualche volta banalizza, le forme della realtà e della cultura contemporanea: ma da questa semplificazione, che pure ha radice in una tragica inquietudine, egli ha ricavato, nel corso degli anni, una sorta di modello intellettuale, che ha avuto grande risonanza presso il pubblico italiano.

Fin dall’inizio alcuni critici hanno riconosciuto, nel sordo rancore di Moravia verso le cose, il segno di una vocazione di ‘moralista’ e lo stesso scrittore si è convinto di questa definizione, costruendo sempre più la sua narrativa su schemi etici, quasi facendo di personaggi e situazioni l’incarnazione di categorie morali (da qui deriva la frequenza, nei titoli delle sue opere, di sostantivi astratti, come "disubbidienza", "disprezzo", "noia", "attenzione", ecc.). Al ‘moralista’, che ha fatto sue alcune delle essenziali tendenze critiche della cultura contemporanea (in primo luogo quelle del marxismo e della psicoanalisi freudiana), si è intrecciato l’intellettuale ‘impegnato’, sempre pronto a dare il so giudizio sulla realtà politica e sociale, sempre presente sulla scena del mondo, con una indipendenza politica che gli ha permesso di oscillare tra atteggiamenti antiborghesi e momenti di condiscendenza ai più collaudati schemi borghesi. Mettendo insieme tutte queste cose, Moravia ha fornito la sintesi più esemplare delle ideologie e dei comportamenti della borghesia intellettuale italiana nel lungo arco che conduce dal fascismo ai nostri anni.

D’altra parte egli ha ridotto alcuni grandi temi della cultura europea a moneta corrente, di facile consumazione; ha creato una letteratura capace di inserirsi nell’universo della comunicazione di massa, pur mantenendo atteggiamenti critici e problematici; presentandosi come ‘moralista’ e insistendo sul tema del sesso, ha contribuito a una specie di desacralizzazione, ma anche alla banalizzazione, dell’esperienza erotica.

Ma il valore della ininterrotta presenza di Moravia nella letteratura contemporanea va fatto risalire prima di tutto alle sue doti di grande artigiano della narrativa; esso risiede nella sua capacità veramente unica e inesauribile di inventare personaggi e situazioni partendo da categorie morali e astratte, di tradurre le più varie tematiche in gesti e movimenti, in complicazioni psicologiche, in comportamenti. Questa dimensione ‘artigianale’ si appoggia a una fondamentale riserva verso le cose, gli oggetti, le persone: ed è facile accorgersi che, quanto più sembra voler approfondire l’analisi morale e psicologica, tanto più Moravia guarda la realtà dall’esterno e in superficie, la concentra nel proprio sguardo personale, evita di interrogarne i significati più nascosti e difficili: la sua scrittura rifiuta ogni slancio, ogni vibrazione, è un flusso continuo e regolare in cui si prolunga il tempo di un mondo che per lui non può essere altro che come gli appare, "impuro" e "indifferente".»

Pur adoperando toni pacati e argomenti ben ponderati, Ferroni ci sembra aver colto nel segno: il segreto del successo commerciale di Moravia è tutto nella sua ambiguità, nel suo voler essere censore e, nel medesimo tempo, sobillatore e usufruttuario dei vizi , dei personaggi e dei ceti sociali che, nei suoi libri, mostra in tutto il loro desolante squallore. Ma lo squallore è prima di tutto il suo: di uno scrittore narcisista, autoreferenziale e claustrofobico, che scambia le sue fissazioni per verità rivelata, che vuol far rientrare il mondo nella misura del suo sguardo e che non si preoccupa affatto di purificare tale sguardo, di renderlo trasparente e comprensivo, anzi, si compiace del torbido che vi ristagna e del meschino che vi prolifera, come una vegetazione infestante.

In fondo, intellettuali come Alberto Moravia sono, alla lettera, dei parassiti sociali. Prendono senza dare; distruggono senza costruire; sporcano senza pulire. La società non sa che farsene di simili individui: non ne ha bisogno, semplicemente. Che poi costoro pretendano anche di ricevere attenzioni e onori, di aggiudicarsi premi letterari, di rilasciare interviste, di essere ascoltati come oracoli ogni volta che parlano e sproloquiano su qualsiasi argomento, questo può avvenire in una società che ha completamente perso l’orientamento spirituale, che ha smarrito i suoi valori, che soffre di tendenze masochiste e auto-distruttive: in breve, in un società malata. In una società sana, i parassiti e i seminatori di confusione e di pessimismo vengono riconosciuti per quello che realmente sono: persone dalle quali bisogna tenersi bene alla larga, per non essere contagiati dal loro odio per la vita e per non lasciarsi parassitare, come il tronco sano dall’edera selvatica.

Non hanno nemmeno il senso del ridicolo. Quando scoppiò l’effimera "rivoluzione" sessantottina, Alberto Moravia ebbe l’impudenza di presentarsi davanti agli studenti dell’università di Roma, convinto di essere accolto e applaudito come un profeta, o, almeno, di potersi ritagliare un ulteriore spazio di visibilità narcisista: venne cacciato a suon di fischi solenni dai giovani contestatori. In fondo, raccoglieva quel che aveva seminato per tutta la sua carriera di romanziere, fin dai tempi de «Gli indifferenti», nel lontanissimo 1929: il disprezzo ostentato per la borghesia decadente, lo svillaneggiamento dei suoi "valori" ipocriti e fasulli. Non si era accorto che la favola parlava proprio di lui.

Del resto, come si può pretendere di avere sempre ragione, di essere sempre dalla parte della storia, di essere dei profeti di successo, quando si dicono e si ripetono le stesse cose, dai primi anni del Fascismo all’era dello sbarco sulla Luna, ed oltre? Davanti a una tale arroganza, a un tale candore, c’è una sola spiegazione possibile: l’assoluta incapacità di vedere il mondo da una nuova prospettiva; la tetragona certezza che il proprio sguardo è infallibile, assoluto, definitivamente fisso nella verità; e che, in fondo, non c’è niente da capire, perché nulla di nuovo si muove sotto il Sole, ogni cosa ruota attorno a lui, al grande scrittore dallo sguardo disincantato e dalla piega amara sulle labbra: ora e sempre, nei secoli dei secoli; amen. Quando si scambia il proprio ombelico per il centro dell’universo, non resta altro da fare che sedersi e attendere che l’universo intero finisca per accorgersi di cotanto genio, e si prostri ad adorarlo.

Ma non basta ancora. Scrittori come Gadda e Moravia traboccano di rancore: e quel rancore chiede, esige, urla, affinché gli sia permesso di sfogarsi all’esterno, di potersi rovesciare su qualcosa e su qualcuno — possibilmente su tutto e su tutti. A scrittori come Gadda e Moravia non basta la devozione, l’ammirazione dei lettori e della critica; essi vogliono anche l’amarissimo piacere di prendere a calci la società, di sputare tutto il loro schifo e la loro nausea sull’essere umano in quanto tale. Il disgusto che li muove è troppo forte: se non schizzassero almeno una parte del veleno che hanno nell’anima, la loro salute ne soffrirebbe seriamente. Scrivere, per loro, è vomitare il rancore che li soffoca: una sorta di gargarismo salutare, di espettorazione necessaria; e il mondo è la loro collaudata e inesauribile sputacchiera.

Il pessimista di professione, il cinico, il nichilista, quando tutti costoro svolgono un ruolo pubblico, quando ricoprono — addirittura — il ruolo di "intellettuali", riconosciuti e apprezzati come tali, si assumono una responsabilità tremenda nei confronti dei loro simili. I casi sono due: o hanno ragione, o hanno torto. Se hanno ragione, non è una bella pretesa, la loro, quella di ricevere l’approvazione di coloro che disprezzano, e di farsi applaudire da quel mondo che detestano e che vorrebbero vedere incenerito? Se, viceversa, hanno torto, il male che fanno è incalcolabile, e, per di più, senza rimedio: sarebbe meglio se si gettassero in mare, legati a una macina da mulino. Chissà quante persone, quanti ragazzi inesperti, sono stati sedotti e traviati dalla loro Pessima Novella…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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