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28 Luglio 2015
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28 Luglio 2015Inizialmente, Flaubert aveva immaginato la protagonista del suo romanzo più celebre come una vergine, anzi come una beghina, e avrebbe voluto ambientarlo nelle Fiandre, terra di beghine e di celebri mistiche: voleva colpire al cuore il misticismo e l’idea stessa della verginità femminile, rappresentando una vergine mistica che si consuma e muore per una ferita d’amore (idea non troppo originale, per la verità, e più tardo-romantica che naturalistica: si faccia il confronto con la «Storia di una capinera» del nostro Giovanni Verga).
In seguito, l’idea si è modificata: alla figura della vergine, anche per influsso di Balzac, è subentrata quella di una donna infelicemente sposata; e alle Fiandre si è sostituita la profonda provincia francese, in ciò che essa ha di più caratteristico, o in ciò che di più caratteristico la identifica agli occhi dei parigini: la noia, il vuoto esistenziale, una specie di cancro della volontà, che inghiotte ogni cosa e ogni possibile gioia, sprofondando l’anima in una tetra, invincibile tristezza e malinconia: versione narrativa del poetico "spleen" di Baudelaire e versione francese della "chandrà" russa, magistralmente descritta da Gončarov nel personaggio di Oblomov.
Si obietterà che Flaubert non voleva colpire nessuno, ma soltanto rappresentare una certa dimensione psicologica e sociale; nossignori: sarebbe ora che gli intellettuali "progressisti" e "moderni" la smettessero di scagliare il sasso e nascondere la mano. La "rappresentazione" pura non esiste, come non esiste la fotografia "pura", nel senso di totalmente obiettiva e distaccata (e questo appunto è l’errore di fondo, o l’inganno di fondo, di ogni "naturalismo"). Se uno scrittore sceglie di rappresentare una certa storia o di delineare un certo personaggio, per il solo fatto di averli scelti, a preferenza di mille altri, significa che su di essi egli intende fare leva per rappresentare il reale, o piuttosto, la sua idea del reale: in effetti, uno scrittore scrive sempre un unico libro e rielabora sempre un unico personaggio; quello che conta, per lui, non sono i casi particolari, ma il senso complessivo del reale, che in quelli si riflette.
Ha scritto Claudine Gothot-Mersch nella sua ampia, dotta e pregevole introduzione al capolavoro di Flaubert (da: G. Flaubert, «La signora Bovary»; titolo originale: «Madame Bovary», intr. E note di C. Gothot-Mersch, Psris, Garnier Frères, 1971; traduzione dal francese di Giuseppe Achilli, Milano, Rizzoli, 1997, pp. 19-22):
«[…] Emma fa pare di quelle donne che, "essendosi esagerata la felicità coniugale, si dicono: come! Tutto qui!… quando appartengono ad un marito" (Balzac, "Fisiologia del matrimonio"). L’eroina di Flaubert cercherà questa passione che le manca prima nei libri; sognando l’amore invece di viverlo passerà le giornate nel torpore, "a far arrossare le molle, o guardare cadere la pioggia"; poi passerà dal sogno all’azione. Anche la "Physiologie du mariage" descrive questa evoluzione: ; lettura di romanzi, pigrizia, e poi il soprassalto che porta all’adulterio… […] È chiaro che Flaubert ha messo a profitto la lezione di Balzac.
"Madame Bovary" deve d’altronde anche qualcos’altro all’autore della "Comédie humaine". Pommier — il suo nome figura ad ogni pagina della critica flaubertiana – ha messo in luce le concordanze tra il romanzo di Flaubert e "L Muse du département", una delle "Scene della vita di provincia"; ricordiamo il sottotitolo di "Madame Bovary": "Costumi di provincia". Il dramma dell’eroina di Balzac, Dinah Piédefer, è l’essersi impantanata in una cittadina spenta e grigia — uno dei motivi principali della noia bovariana. Emma, come Dinah, sognerà di Parigi. Come Dinah si crederà superiore al suo destino e passerà per tale agli occhi dei suoi concittadini. Ma l’eroina di Balzac è d’altra tempra. Realizza il suo sogno, raggiunge a Parigi il giornalista che l’ha sedotta, cresce due figli, prende in mano le redini della casa… Emma e Dinah hanno ricevuto entrambe un’educazione accurata, i loro sogni romantici sono gli stessi, ma i loro caratteri differiscono nettamente. Il punto comune più importante è che in entrambi i romanzi svolge il tema della vita di provincia: l’ambiente geografico e sociale appare alle due eroine come il colpevole della loro insoddisfazione; è attorno a questa situazione che convergono le delusioni, le frustrazioni, i rancori. parentela più profonda delle somiglianze di dettaglio, che potrebbero essere tratti d’epoca o coincidenze dovute all’identità del tema.
Ben prima di "Madame Bovary", Flaubert aveva pensato alle possibilità letterarie del tema della provincia e, anche qui, riferendosi esplicitamente a Balzac. Nel 1947, passando per Blois, scrive:
"Le vie a Blois sono vuote, l’erba cresce sul selciato; da una parte e dall’altra lunghi muri grigi si stendono a chiudere grandi giardini, bucati da piccole porte discrete che non si aprono, sembra, che di notte, al visitatore misterioso. Si sente che tutti i giorni devono passare simili, che devono essere, in questa tranquilla monotonia, dolce tuttavia come il suono dell’orologio delle chiese, pieni di malinconia saporita e di languori conturbanti. Ci si compiace a sognare, in queste case tranquille, qualche profonda e grande storia intima, una passione morbosa che dura fino alla morte, amore infinito di zitella devota o di donna virtuosa. […]"
È evidente qui la priorità dell’influenza letteraria sull’esperienza vissuta: è Balzac che ha portato Flaubert a notare l’interesse della provincia come quadro d’un romanzo. È vero che nella "Éducation sentimentale" del 1845 Jules alzava già amari lamenti per la mala sorte che l’allontanava da Parigi: "Jules iniziava una tirata contro la vita che conduceva in provincia,, vita mediocre e comune, occupazioni meschine, ambiente borghese". Ma se il "male della provincia" è già delineato in questo primo romanzo, il soggiorno in Touraine segna una nuova tappa: Flaubert si mette a pensare a tipi di racconto in accordo con il clima provinciale.»
La provincia e il matrimonio, dunque, sono le due prigioni che angosciano la donna "moderna", così come la rappresenta Flaubert in Emma Bovary.
Quanto al matrimonio, non c’è molto da dire: è chiaro che, quando le aspettative sono sconfinate e irrealistiche, non può che subentrare la delusione. Nel caso di Emma, il responsabile di tali aspettative esagerate sembra essere l’educazione e, più ancora, la lettura di romanzi romantici. Ma questo significa confondere l’occasione con la causa, come fanno tutti i deterministi. Sarebbe come dire che imparare ad usare un fucile, magari per andare a caccia o al tiro a segno, è l’evento responsabile del fatto che si diventi assassini (e, in fondo, è proprio quello che pensano i positivisti e i naturalisti, dei quali Flaubert è uno dei maggiori precursori). La volontà è annientata, contano solo i fattori storici, ambientali e biologici. La volontà di Emma è la grande assente del romanzo: prima ancora di scivolare nell’adulterio, ella si fa risucchiare nel vortice della delusione, della noia, di un cupo risentimento contro la vita reale.
E qui veniamo alla provincia, la grande protagonista, in negativo, del romanzo di Flaubert. Emma odia la provincia, la vita di provincia, con tutte le sue forze e con tutto il suo cuore. Si noti che la provincia non è la campagna: sia per Emma Bovary, sia per Dinah Piédefer (l’eroina di Balzac), si tratta di cittadine abbastanza grandi da farsi raggiungere dai riflessi di Parigi, ad esempio nella persona di un sarto aggiornato sull’ultimo grido della moda femminile. Che cosa hanno di tanto uggioso, di tanto insopportabile, queste cittadine di provincia? Niente di diverso da quello che hanno, come mariti, uomini come monsieur Bovary, il povero Charles, che ha il torto di amare sua moglie come succede nella vita reale e non nei romanzi sentimentali. Cos’hanno da rimproverargli, dopotutto, Emma Bovary e Gustave Flaubert? Lo trovano goffo, maldestro; e, naturalmente, noioso. Oddio, trovare "noioso" il proprio compagno o la propria compagna di vita, a letto e fuori del letto, è cosa molto, molto personale; ma né Emma, né Flaubert, si prendono la briga di approfondire tale aspetto, vale a dire la soggettività del giudizio: entrambi hanno bisogno di un marito "noioso" per poter mettere in scena il loro dramma, lei come eroina, lui come autore.
La stessa cosa si può dire per l’aborrita e abominevole vita di provincia. Trovare noiosa la vita di provincia è questione di gusti: diciamo che la noia, lo "spleen", la "chandrà", diviene, nel XIX secolo, soprattutto un fatto culturale: è la nuova malattia borghese. Ed è il risultato di una vita oziosa o, quanto meno, poco attiva. Emma si annoia, perché ha molto tempo libero, forse troppo, che non sa come utilizzare: ha una figlia, ma la maternità non le riempie la vita; la casa non la impegna più di tanto e il marito, medico, è quasi sempre occupato coi suoi pazienti. Quando la gente lavora, e lavora soda, non ha tempo di annoiarsi. Le donne del popolo non si annoiano e, di conseguenza, neppure fantasticano pericolosamente: la loro giornata è troppo piena di cose da fare. Flaubert, il "parigino" (era nato a Rouen), vede le cose dal punto di vista della metropoli; inoltre, mentre scrive il romanzo, tutta la sua famiglia, la madre, la servitù, ruotano attorno a lui, gli creano un nido super-protetto, assecondano ogni suo estro e anche i suoi orari bizzarri.
Le vie di Blois, allo scrittore cittadino — come si è visto — appaiono vuote, ed i loro giardini, malinconici. Eppure quei bei giardini, così grandi, così verdi, potrebbero ispirare altri pensieri: di amore per la natura, ad esempio; o di calore della famiglia, non appena si rifletta al lavoro che è stato necessario per realizzarli e per curarli costantemente. Ma Flaubert vede in quelle vie, in quei giardini, solo noia e tristezza: «quid quid recipitur, ad modum recipientis recipitur». Preferisce fantasticare di incontri amorosi segreti, di vite consumate fra castità e desiderio, di fremiti segreti; afferma che, percorrendo quelle strade, non si può non pensare a simili cose: ma lo dice lui solo. Non gli viene in mente che siano solo le sue morbose fantasticherie di cittadino ozioso, che proietta sugli altri le sue ossessioni. Non ha dubbi che quei giardini, quei muri, siano la quintessenza della noia e della tristezza: ma non lo sfiora l’idea che si tratti solo e unicamente del suo punto di vista, che è un punto di vista estraneo a quei luoghi, e, per giunta, incapace di guardare ad essi con un po’ di calore umano. Il suo è l’occhio freddo del collezionista, dell’impagliatore di animali: non vede il fremito della vita reale e non sa, né desidera, uscire dal cerchio stregato ed asfittico della sua immaginazione prevenuta, carica d’idee preconcette.
Ci si potrebbe chiedere se sia quello il giusto modo di porsi di fronte alla realtà, per uno scrittore: senza un minimo di simpatia umana, senza un minimo di amore o di gratitudine per la bellezza della natura. Flaubert si aggira per le vie come un ladro, spia le case, le finestre, osserva i giardini; s’immagina storie che mettano a nudo lo squallore, il vuoto della vita di provincia. Chi gliene dà il diritto? Forse il fatto di essere un grand’uomo di città, un signore al cui lavoro e al cui riposo sovrintendono parecchie persone, mentre un uomo come Charles Bovary deve lavorare duramente, per offrire alla moglie quel decoro borghese del quale, peraltro, ella non gli è nemmeno grata, perché gli sembra penosamente insufficiente?
È questa la funzione dell’intellettuale: trasmettere agli altri il suo disamore per la vita, per le cose belle e buone, il suo cinismo, il suo senso di vuoto esistenziale — e farsi anche pagare per tutto ciò? Il processo per immoralità al suo romanzo è stato, per Flaubert, l’equivalente del processo ecclesiastico contro Galilei, quanto agli effetti a lunga durata: un regalo alla sua celebrità e una promozione definitiva della sua visione del reale. Possiamo anche spingerci oltre e domandarci se davvero «Madame Bovary» sia un libro così eccellente, come tutti dicono. Un classico? Ma chi ha decretato che lo sia? Paradossalmente, proprio il processo. Esso è diventato il simbolo della coraggiosa crociata degli animi progressisti contro il bigottismo e l’oscurantismo; e, in quanto simbolo, è stato promosso al rango di classico. Forse che il romanzo di Balzac citato da Claudine Gothot-Mersch, «La Muse du département», lo è di meno? Sì, perché non è un simbolo: la sua eroina agisce, prende la vita per i capelli, lotta per conquistare quel che voleva; e non si uccide. Insomma, non è vittima: e la cultura moderna, il femminismo moderno, hanno bisogno di qualche eroina che sia anche vittima, di qualche Emma Bovary, di qualche Anna Karenina, se non altro per sfruttare il senso di colpa della società, ottusa e maschilista.
Chi vive davvero in provincia, forse, vede le cose in un altro modo. I francesi non amano troppo Parigi, o almeno non la amavano troppo. Per loro, la capitale è un luogo equivoco, e i Parigini sono persone inaffidabili, verso i quali si deve stare in guardia. La provincia era anche il luogo del conservatorismo politico, nonché l’ultima roccaforte del cattolicesimo, che, nelle città, e specialmente nella capitale, era ovunque in ritirata davanti all’avanzata minacciosa del mondo moderno, della fabbrica, del libero pensiero, del materialismo ateo e del radicalismo. Esisteva, dunque, una reciproca antipatia, fra Parigi e la provincia (attestata ancora, in pieno XX secolo, fra gli altri, dai romanzi di Simenon: basta vedere con quanta istintiva ostilità i provinciali accolgono l’arrivo di Maigret, l’ispettore parigino): politica, religiosa, culturale e, si direbbe, antropologica, come se si trattasse di due tipi differenti di umanità.
Emma Bovary si "sente" parigina e non sopporta i suoi vicini e concittadini, né suo marito, i quali, nella conversazione, sono «piatti come marciapiedi». Ecco cosa manca loro: il brio, l’eleganza, lo stile inimitabile della metropoli. Per quelli come Emma, non importa che gli esseri umani siano profondi: basta che lo sembrino. Per non annoiarsi, ella ha bisogno di non sentirsi banale, sperduta in mezzo a persone banali, che parlano — goffamente e rozzamente — di cose semplici, quotidiane, cioè banali. Banali per lei, s’intende, che sogna solo cose eccezionali. La sua è la malattia dell’aspettativa esagerata e compulsiva: non accetta la vita com’è, ma non è nemmeno capace di impegnarsi per renderla diversa: vorrebbe che una vita diversa venisse a lei, come il principe azzurro giunge a bussare alla porta di Cenerentola. Emma, infatti, non è semplicemente una sognatrice: è anche una pigra, una voluttuosa che non conosce il significato dello sforzo, tanto meno quello del sacrificio. Pensa che le cose migliori le siano dovute, ma non saprebbe dire perché: lo presuppone, e basta. Tutto il suo atteggiamento verso la vita scaturisce da questa pretesa.
La società odierna è popolata da innumerevoli madame Bovary (femmine e maschi; "eroine" in sedicesimo e intellettuali, o sedicenti tali, per esempio scrittori), che con lei condividono sia la presunzione di non essere banali, di essere speciali – merce speciale all’ingrosso: il paradosso dell’individualismo di massa -, sia la pretesa immotivata, e perciò paranoica, di ricevere dagli altri, dalla vita, le cose più belle, come fossero loro dovute. Se, poi, quelle cose non arrivano — e non possono arrivare, dato che niente è mai abbastanza bello, per un simile tipo umano — allora queste nipotine e nipotini di madame Bovary diventano amari, rancorosi, vendicativi: qualche volta fanno del male a se stessi, qualche volta agli altri.
Di certo, non sono mai capaci di fare del bene ad alcuno.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels