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Ed ecco, nella luce dell’alba, una grandiosa città di pietra appare in mezzo alla foresta…

Nell’America Meridionale, per lo spazio di circa quattro secoli, gli Europei hanno cercato, fra le valli della catena andina, nella giungla e lungo i fiumi amazzonici, e perfino laggiù, verso le nevi e i ghiacci dello Stretto di Magellano, una serie di mitiche città, di cui si diceva che fossero favolosamente ricche, con i tetti scintillanti d’oro e d’argento, o presso le quali si aprivano delle miniere che custodivano tesori pressoché inesauribili di metalli preziosi e di pietre dal valore incalcolabile.

I loro nomi erano seducenti, come i miraggi di splendore ch’esse evocavano. La più universalmente conosciuta, posta in qualche luogo ai margini occidentali della foresta amazzonica, era sicuramente l’El Dorado (in origine: "el hombre dorado", "l’uomo dorato": un sovrano che s’immergeva nelle acque d’un lago, per riemergere con il corpo tutto ricoperto di polvere d’oro, tanto esse ne erano dense), una città posta a capo d’un regno immensamente ricco, civile, sfarzoso, ove perfino le strade erano lastricate di lingotti d’oro. La sua ubicazione era, ovviamente, quanto mai elusiva; l’avevano cercata ovunque, e ancora al principio del XX secolo continuavano a succedersi le spedizioni, generalmente provenienti dalle Ande, come se la visione dei suoi tesori avesse letteralmente stregato generazioni e generazioni di sognatori, di avventurieri, di maniaci, di spostati, di avanzi di galera, ma, qualche volta, anche di studiosi seri: geografi, archeologi, antropologi; tutti dominati e spronati senza tregua dallo stesso pensiero fisso, tutti bramosi di fare fortuna o di legare il proprio nome ad una scoperta assolutamente straordinaria. Tutti disposti ad affrontare l’ignoto, ad uscire dai limiti del mondo conosciuto, a vedersela con giaguari e anaconde, con caimani e "piranhas", con eserciti d’insetti molesti, con malattie sconosciute, con la fame e la sete, con il caldo insopportabile e l’umidità malsana e opprimente; tutti disposti a sfidare la fatica, la tensione, il senso d’incertezza, lo scoraggiamento, il morso dei ragni velenosi, le infezioni batteriche, i fantasmi, la febbre, il delirio, la follia; e, come se non bastasse, gli agguati delle tribù ostili; le frecce al curaro degli "indios bravos", degli indiani selvaggi; le clave con cui costoro fracassavano la testa ai nemici; i trabocchetti disseminati lungo i sentieri; la magia nera degli stregoni; la prospettiva di finire uccisi e divorati dalle tribù più isolate e feroci, quelle dei cannibali, oppure decapitati dalle tribù (come i Jivaros della selva peruviana) che poi conservavano le teste delle loro vittime, dopo averle rimpicciolite mediante un procedimento segreto e raccapricciante, per poi adornarsene.

Tutto venne tentato, ogni genere di prova e di esperimento venne posto in opera, nel corso del tempo, dagli avidi ricercatori, per venire a capo del mistero e per costringere quei luoghi inospitali e tenebrosi a rivelare il loro segreto, a restituire i tesori accumulati e nascosti da qualche popolazione sconosciuta, da qualche sovrano prudente e beffardo: basti dire che un lago intero della Colombia, il Lago di Guatavita, è stato perfino svuotato delle sue acque, ai primi del Novecento, nella vana speranza di trovare, in fondo ad esso, ciò che invano era stato cercato in superficie, lungo le sue rive e nelle buie profondità della selva. Alla fine, il valore degli oggetti preziosi recuperati non superava le 500 sterline; bisogna dire, però, che molti di essi erano stati recuperati e spediti alla corte di Filippo II di Spagna, nella seconda metà del XVI secolo. Nel 1801 anche il grande geografo-esploratore tedesco Alexander von Humboldt si era spinto fino alle sponde del lago e aveva stimato che i tesori accumulati sul fondo dovessero ammontare a qualcosa come l’equivalente di trecento milioni di dollari: calcolo che fece sulla base di quanto, a sua volta, aveva affermato uno dei precedenti cercatori del tesoro, tale Antonio de Sepulveda, originario di Bogotà.

C’erano poi altre città, altri regni, altre miniere. Alcune voci parlavano di una sorprendente Città dei Cesari, situata in qualche valle andina dell’estremo Sud, laggiù, verso la remota Terra del Fuoco (cfr. il nostro precedente articolo: «Alla ricerca della città dei Cesari, nelle estreme regioni magellaniche», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 06/06/2007). Talvolta queste voci erano alimentate dalla scoperta di regioni realmente favolose, come la valle del Lago Nahuel Huapì, che sembrava fatta apposta per accendere la fantasia degli uomini bianchi, tanto la natura vi appariva incantevole, suggestiva, quasi progettata e apparecchiata da un mago potente e benevolo, simile al Prospero de «La Tempesta» di Shakespeare (cfr. il nostro articolo «Come il gesuita Mascardi giunse in riva al lago più bello del mondo: il Nahuel Huapì», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 28/03/2012).

Del resto, gli Spagnoli non avevano forse incontrato, durante la conquista del regno degli Aztechi e dell’impero degli Incas, grandiose città di pietra, con templi imponenti, impreziosite da abbondanti arredi d’oro e d’argento: città come Tenochtitlàn e Cuzco, dalle architetture armoniose e colossali, erette con pietre squadrate così perfettamente, che nemmeno un foglio di carta poteva essere inserito fra di esse? Oppure città ancora più antiche e misteriose, come Tiahuanaco, con la sua ciclopica ed enigmatica "porta del Sole", delle quali gli stessi indigeni non sapevano dire nulla di preciso, e che, con le dimensioni impressionanti dei loro edifici e con il peso spropositato dei blocchi con cui erano state edificate, rappresentavano una vera e propria sfida all’intelligenza dei "conquistadores", un autentico rompicapo per tutti gli uomini bianchi, compresi i più colti e valenti studiosi, giunti appositamente per esaminarle e cercar di strappare loro l’arcano segreto di cui erano gelose custodi. Perché, dunque, l’El Dorado non avrebbe potuto esistere davvero? Di che cosa avrebbero potuto ancora stupirsi, gli Europei, dopo avere incontrato tante e tali meraviglie, le quali, se non le avessero viste con i loro occhi e toccate con le loro mani, essi per primi si sarebbero rifiutati di crederle vere, e perfino possibili?

Ma non solo la fascia andina, compresa nei possedimenti coloniali spagnoli, pullulava di leggende e racconti relativi alle mitiche città perdute; simili storie venivano raccontate anche relativamente ai territori portoghesi, nella parte orientale del continente sudamericano, non nel fitto della selva amazzonica, ma più ad Est, nelle boscaglie del Mato Grosso o, addirittura, lungo i fiumi e nelle distese semi-aride del Brasile settentrionale, non lungi dalle coste dell’oceano, lungo le quali — ancora un secolo fa — si estendeva, immensa e lussureggiante, la "mata atlantica", la foresta primigenia dell’Atlantico, che in seguito è caduta in buona parte sotto la scure dei colonizzatori o è stata divorata dal fuoco degli allevatori e dei piantatori dello zucchero. Fra tutte, spiccava la tradizione relativa alla città e alle miniere di Muribeca, così chiamate dal nome di un meticcio, discendente di Pedro Alvarez, un portoghese adottato dai Tupi-Guaranì e sposatosi con una ragazza indigena, nel XVI secolo, dopo che aveva fatto naufragio sulla costa del Brasile.

Di questa favolosa Muribeca esiste — ed è un caso alquanto interessante, per non dire quasi unico nel suo genere — una precisa e avvincente relazione scritta, contenuta in un manoscritto del Settecento, conservato tuttora presso la Biblioteca Nazionale di Rio de Janeiro, con il nome di Manoscritto 512: esso fu redatto da un religioso, J. Barbosa, e inviato al viceré portoghese, Luis Peregrino de Carvalho Menesez. Vi si parla di una vera e propria "cidade perdida", una città perduta, che sembra uscire dalle pagine d’un romanzo avventuroso di Henry Rider-Haggard, la quale sarebbe stata scoperta da una spedizione guidata da Francisco Raposo e da João Silva Guimaraes, fra il 1743 e il 1753. I due uomini — due esploratori non altrimenti noti, o forse, semplicemente, due "bandeirantes", colonizzatori e cacciatori di schiavi – vi giunsero dopo essersi inoltrati nel territorio di due tribù fortemente ostili ai bianchi, gli Aymoré e i Pataxò, stanziati nell’interno dell’attuale Stato di Bahia, che, come abbiamo detto, era allora ricoperto, in gran parte, da una densa foresta tropicale. E il mito di Muribeca è stato così forte e longevo, che, ancora al principio del secolo ora trascorso, c’era ancora chi si ostinava a cercarne le vestigia e le ipotetiche ricchezze: fra gli altri, il leggendario colonnello-esploratore britannico Percy H. Fawcett, il quale, appunto, scomparve misteriosamente nel 1925, insieme al figlio e ad un amico (pur essendo molto esperto di quelle zone) mentre cercava Muribeca, da lui denominata "città di Z".

Così lo stesso Fawcett ha rievocato la scoperta della mitica città di Muribeca da parte della spedizione di Francisco Raposo, partita nel 1743 dal Minas Gerais, alla ricerca delle leggendarie miniere perdute (da: Percy H. Fawcett, «Esplorazione Fawcett»; titolo originale: «Exploration Fawcett», 1953 [reprint Phoenix Press, 2001]; traduzione dall’inglese di paolo Gobetti, Milano, Bompiani, 1958, pp. 18-23):

«…Poi, dopo aver ancora camminato attraverso paludi e foreste, si trovarono di fronte a montagne erte di punte frastagliate, all’estremità d’una pianura erbosa interrotta da una sottile fascia di foresta verde. Raposo dice che quelle cime "sembravano toccare le regioni eteree e servire da trono al vento e alle stelle". Ma quelle non erano montagne comuni. A misura che il gruppo vi si avvicinava, ne vedeva i fianchi accendersi, infocati. Aveva appena smesso di piovere e il sole al tramonto veniva riflesso dalle rocce ricche di cristalli e di quel quarzo leggermente opaco così comune in questa parte del Brasile. Agli occhi degli avidi esploratori esse parvero tempestate di gemme. C’eran cascate che precipitavano da una roccia all’altra e al di sopra della cresta della catena s’era formato un arcobaleno, come a indicare un tesoro nascosto ai suoi piedi.

"Questo è un segno!", gridò Raposo. "Guardate! Abbiamo trovato il tesoro del grande Muribeca!".

Scese la notte e li costrinse ad accamparsi prima d’aver raggiunto la base di quelle meravigliose montagne; e il mattino seguente, quando il sole sorse dietro di esse, le rocce scoscese apparvero scure e minacciose. L’entusiasmo svanì; ma c’è pur sempre nelle montagne qualcosa che affascina l’esploratore. Che cosa si vedrà dalla vetta più alta? […]

Era una marcia difficile, ma qua e là si trovavan le tracce di quel che pareva un vecchio selciato e in certi punti le pareti verticali della fessura sembravano portare i segni quasi del tutto cancellati di utensili e di lavoro umano. Grappoli di cristalli di rocca e spumeggianti blocchi di quarzo davan loro l’impressione d’essere entrati in un paese incantato e nella luce opaca che filtrava attraverso la fitta massa dei rampicanti sopra di loro si sentirono ripresi dalla magia della prima impressione. La salita era così difficile che per emergere, laceri e senza fiato, su una specie di terrapieno alto sulla pianura circostante, impiegarono tre ore. Nessun ostacolo li separava più dalla vetta e ben presto s’affollarono sulla cima, guardando, ammutoliti dallo stupore, l’ampia visione che s’apriva sotto di loro. Ai loro piedi, a circa quattro miglia di distanza, sorgeva una enorme città.[…]

[Raposo] vide la continuazione della strada rocciosa seguita nella scalata, che scendendo lungo il fianco del monte scompariva poi, coperta dalla montagna, per riapparire ancora, serpeggiando, nella pianura fino a perdersi nella vegetazione attorno alle mura della città. Ma non vide il menomo segno dio vita. Né fumo s’innalzava nell’aria, né suono spezzava il profondissimo silenzio. […] Quella notte non si accesero fuochi e gli uomini parlarono bisbigliando. Erano terrorizzati dalla vista della civiltà dopo tanti lunghi anni passati in luoghi selvaggi, e non si sentivano per niente tranquilli. […]

Quando furono vicini alle mura ricoperte di vegetazione gl’Indiani insistettero a dire che la città era deserta; andarono perciò avanti con minori precauzioni fino a un’entrata fatta di tre archi costruiti con enormi lastroni di pietra. Così impressionante era questa costruzione ciclopica — simile, probabilmente, a quanto ancora si può vedere a Sacsahuaman nel Perù — che nessuno osò parlare, e, rapidi e furtivi, come gatti, oltrepassarono le pietre annerite dal tempo. Al di sopra dell’arco centrale dei caratteri erano profondamente incisi nella pietra consumata dalle intemperie. Raposo, nonostante la sua ignoranza, riuscì a capire che non si trattava di scrittura moderna. Un’atmosfera di straordinaria vecchiezza regnava su tutto ed egli dovette fare un vero sforzo per dare, con voce rauca e innaturale, l’ordine di procedere innanzi. Gli archi erano ancora in buono stato di conservazione, ma due o tre dei colossali pilastri apparivano leggermente spostati alla base. Attraversandoli, gli uomini entrarono in quella che era stata una volta un’ampia strada, ora tutta cosparsa di pilastri spezzati e di frammenti di muro su cui era cresciuta la vegetazione parassita dei tropici. Su entrambi i lati si elevavano case di due piani costruite con grandi blocchi messi insieme senza calce, ma con precisione quasi incredibile, sui cui porticati, stretti in basso e larghi in alto, erano incise elaborate figure ch’essi presero per demoni. […]

Ammassati come un gregge di pecore spaurite, gli uomini procedettero lungo la strada fino a una vasta piazza. Si levava al centro un’enorme colonna di pietra nera, su cui si scorgeva la figura, perfettamente conservata, di un uomo con una mano sul fianco e l’altra puntata verso il Nord. La maestà della statua colpì profondamente i Portoghesi, che si fecero con reverenza il segno della croce. Obelischi con incisioni, della medesima pietra nera, parzialmente in rovina, si ergevamo ad ogni angolo della piazza, mentre sulla lunghezza d’un intero lato si levava un edificio magnifico per costruzione e decorazione che doveva essere stato un palazzo. Le mura e il tetto erano crollati in molti punti, ma le grandi colonne quadrate erano ancora intatte. Un’ampia scalinata di gradini di pietra in rovina conduceva a una vasta sala, dove tracce di colore apparivano ancora sugli affreschi e sulle sculture. Pipistrelli innumerevoli, a migliaia, volavano ruotando per le tetre stanze rese soffocanti dalle acri esalazioni dei loro escrementi.

Fu con piacere che gli esploratori uscirono all’aria aperta. La figura d’un giovane era scolpita su quello che pareva l’ingresso principale. Era una figura senza barba, nuda dalla cintola in su, con uno scudo in mano e una fascia attorno a una spalla. Portava in testa qualcosa che parve loro una ghirlanda di alloro, a giudicare dalle statue romane che avevano visto in Portogallo. In basso erano incisi caratteri straordinariamente simili a quelli dell’antica Grecia. Raposo li ricopiò su una tavoletta e li riprodusse poi nel suo racconto.

Di fronte al palazzo c’eran le rovine di un altro gigantesco edificio, evidentemente un tempio. Corrose figure scolpite di animali e uccelli ricoprivano i tratti di muro rimasti, e al di sopra del portale c’erano altri caratteri che furono anch’essi ricopiati con la massima fedeltà possibile da Raposo o da uno dei suoi compagni.

Oltre la piazza e la via principale, la città si presentava come una completa rovina, in alcuni punti letteralmente seppellita sotto monticelli di terra su cui non cresceva né un filo d’erba né altro. Qua e là s’aprivano abissi, e quando gli esploratori vi gettarono dentro delle pietre nessun suono venne a indicare che avessero toccato il fondo. La causa della distruzione era evidente. I Portoghesi conoscevano i terremoti e le loro terribili conseguenze. Interi edifici erano stati inghiottiti, lasciando forse solo alcuni frammenti scolpiti a mostrare dove si ergevano un tempo. Non era difficile immaginare lo spaventoso cataclisma che doveva aver devastato quello splendido luogo, facendo crollare colonne e blocchi dl peso di cinquanta e forse più tonnellate, e distruggendo nello spazio di pochi minuti il faticoso lavoro di migliaia d’anni!»

La descrizione della città perduta, come si vede, è fatta con cura e precisione; non è affatto generica o confusa: colpisce specialmente il particolare di Francisco Raposo che trascrive i caratteri della misteriosa scrittura incisa sui monumenti. Pur non essendo un uomo colto, capisce l’importanza di portare delle prove di quanto asserisce d’aver visto. La sua relazione, però, non serve a smuovere il viceré del Brasile e cade, anzi, nel dimenticatoio: verrà riscoperta solamente nel 1839, dando inizio a tutta una serie di spedizioni per il ritrovamento della sfuggente Muribeca.

Quel che afferma la tradizione, è che ai primi del Seicento il figlio del meticcio Muribeca, tale Roberto Dias, dopo avere effettuato un viaggio in Portogallo, si mise in testa di ottenere dal re Pedro II il titolo di marchese, in cambio della concessione alla monarchia lusitana dello sfruttamento di quelle favolose miniere — ricche d’oro, argento, smeraldi, rubini e diamanti — che erano tuttora in suo possesso, come eredità paterna, e delle quali egli solo conosceva il segreto dell’esatta ubicazione. Ma in seguito, tornato in Brasile, le trattative con i funzionarti portoghesi fallirono; e Dias, sentendosi ingannato, decise di non tener fede alla promessa e di conservare il più assoluto riserbo intorno alle miniere che, infatti, non vennero più ritrovate… fino all’arrivo di Francisco Raposo e João Silva Guimaraes, centocinquanta anni dopo.

I Paesi leggendari… Scriveva il saggista e romanziere francese René Thévenin (1877-1967), in un libro del 1946 («Les Pays légendaires»), che se ne trova il ricordo fin dall’alba dei tempi — nel mito del Giardino delle Esperidi, ad esempio – e li si continua a cercare anche ai nostri giorni, nell’era della televisione e degli aerei a reazione: come dubitare, dunque, che vivranno fino a quando vivrà l’essere umano, poiché è nel profondo della nostra anima che hanno la loro dimora?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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