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Come i teologi “progressisti” hanno eroso la credibilità del cristianesimo

La forza di persuasione di una religione si misura dai suoi contenuti e dall’esempio concreto di quanti la praticano.

Ora, è assolutamente fuor di dubbio — lo riconoscono amici e nemici — che la credibilità della proposta cristiana ha toccato, nei nostri anni, il suo punto più basso, il suo minimo storico: e questo perché i suoi contenuti sono stati sostanzialmente alterati dallo spadroneggiare dei teologi che si autodefiniscono "progressisti", nonché dall’esempio esiziale che essi, e i credenti da loro incoraggiati e "formati", danno di sé e dei propri comportamenti, relativizzando la fede e adottando stili e modelli di vita che, di realmente cristiano, hanno ormai poco o nulla.

Ci si potrebbe domandare come, quando e perché si è manifestato questo strapotere dei sedicenti teologi, i quali si sono arrogati la guida normativa della Chiesa cattolica in una misura che non si era mai vista nei primi duemila anni di storia del cristianesimo e che mai nessun papa e nessun concilio avevano concesso loro prima del Vaticano II; ma questo ci porterebbe troppo lontano. Qui ci basti rilevare il fatto e la sua evidente anomalia: non sono o non dovrebbero essere i teologi, e specialmente i teologi laici, a fissare i contenuti dell’etica religiosa, bensì, al massimo, essi dovrebbero esplorare la natura, i limiti e soprattutto i significati di quei contenuti. I teologi dovrebbero essere degli studiosi che affiancano lo sforzo pastorale della Chiesa e la sua opera di evangelizzazione: non coloro che prendono la guida culturale della Chiesa né, tanto meno, che si assumono il diritto di cambiare, e perfino stravolgere – con la scusa di aggiornare e interpretare – il senso del Vangelo. Altrimenti si crea, come in effetti si è creata, una situazione ambigua, contraddittoria e pericolosa: con i sacerdoti che leggono il Vangelo in un modo e i teologi "progressisti" che lo leggono in altro, come se si trattasse di un’altra Scrittura e come se si rivolgessero ad altri fedeli, non agli stessi ai quali, finora, le verità cristiane sono state insegnate secondo la duplice sorgente della Scrittura e della Tradizione, in modo completamente diverso, non solo nelle forme liturgiche, ma anche nei contenuti dogmatici e morali.

Purtroppo, codesti teologi "progressisti", i quali, con il pretesto di aggiornare e rinnovare, magari perfino di vivificare la fede, hanno messo a soqquadro l’intero assetto delle verità cristiane, generando una enorme confusione e suscitando, per imitazione, nei fedeli, tutta una tendenza diffusa alla libera lettura e interpretazione delle Scritture (elemento qualificante del protestantesimo, non certo del cattolicesimo; oltre che cavallo di battaglia del modernismo, movimento condannato e scomunicato come eretico da san Pio X, nel 1907), hanno letteralmente sgretolato e sempre più relativizzato l’insieme della dottrina cristiana, della sua prospettiva antropologica e metafisica, delle sue proposte e finalità etiche e morali. Questi signori si sono assunti una responsabilità enorme: quella di manomettere un patrimonio di dottrina e di saggezza che, per i credenti, non è creazione umana, ma di origine soprannaturale; e di riformularlo in termini tali, da lasciare in dubbio se si tratti ancora della stessa dottrina e della stessa fede.

Nella loro resistibile e strana ascesa, presentata come inevitabile, secondo lo schema dell’ideologia illuminista fondata sul mito del Progresso (tutto ciò che è nuovo è bene, tutto ciò che è vecchio è male), i teologi "progressisti" hanno raccolto il sostegno e goduto dell’appoggio di una parte crescente delle istituzioni cattoliche, ivi compresa la stampa e l’editoria, con il risultato che, pur rappresentando, verosimilmente, una tendenza minoritaria in seno al cattolicesimo, di fatto si sono impadroniti della direzione spirituale dei fedeli e hanno preso, in un certo senso, il controllo della stessa gerarchia ecclesiastica, dal livello episcopale fino alle soglie del Vaticano.

Lasciamo perdere la stampa periodica e limitiamoci a un cenno all’editoria cattolica. Prendiamo, a titolo di esempio, il caso delle Edizioni Paoline, una casa editrice che, fino alla metà degli anni Sessanta, ha svolto un ruolo encomiabile nella diffusione della cultura cristiana: fra le altre cose, ristampando in edizioni economiche le opere complete dei Padri della Chiesa, e, nello stesso tempo, traducendo dalle lingue straniere e pubblicando libri di narrativa per la gioventù, non solo di ispirazione religiosa, ma anche classici di ogni tempo e Paese (in certi casi, come per la narrativa romena, svolgendo un’opera pionieristica e presentando testi importanti, per la prima volta, al pubblico italiano). Sia la saggistica, e specialmente quella di argomento teologico e religioso, sia la narrativa, a sua volta suddivisa in collane destinate a un pubblico adulto e in collane destinate a un pubblico giovanile, erano particolarmente curate, e ogni testo aveva una precisa giustificazione sul piano della coerenza con la visione del mondo cristiana; anche se, lo ripetiamo, non si trattava di opere scritte necessariamente da autori cattolici o cristiani, e neanche necessariamente credenti. Il risultato era che, entrando nelle librerie paoline, sia gli adulti, sia i bambini, potevano trovare, senza fallo e senza alcuna ambiguità, proposte di lettura perfettamente aggiornate, ben curate (anche nella veste esteriore) e conformi agli ideali della vita cristiana.

Dalla fine degli anni Sessanta la musica è cambiata. Poco alla volta, il settore destinato alla gioventù ha subito una specie di restringimento e una perdita di originalità e di freschezza; mentre il settore destinato al pubblico adulto, specialmente nell’ambito saggistico e teologico, ha incominciato a farsi portavoce delle istanze dei teologi "progressisti", presentando i contenuti del messaggio cristiano in maniera radicalmente diversa — non solo nella forma, si badi — rispetto a come era stato fatto sino a pochissimo tempo prima, quasi che tutto quanto era stato detto e scritto anteriormente al Concilio Vaticano II fosse da considerarsi come irreparabilmente obsoleto, e meritevole di finire in qualche dimenticata soffitta.

Ma, per non proceder in maniera che può sembrare generica, vogliamo fare un esempio specifico: e prendiamo, a caso fra i molti, il «Dizionario enciclopedico di teologia morale», a cura di Leandro Rossi e Ambrogio Valsecchi, edito dalle Paoline (con tanto di "imprimatur" ecclesiastico) nel 1973. Come si vede, sono passati solo pochi anni dalla fine del Concilio: eppure, scorrere questo volume di quasi 1.200 pagine, è quasi come avventurarsi in su di un pianeta nuovo e sconosciuto, completamente diverso da tutto ciò che finora il lettore sapeva, o credeva di sapere, in fatto di teologia cattolica. Invano il lettore cercherà, sfogliando e risfogliando il volume, "voci" come "Grazia", "Risurrezione", "Male", "Angeli", "Demoni: gli Autori lasciano che, ad occuparsi di simili quisquilie, siano dei vecchi barbogi come San Tommaso d’Aquino e le loro preistoriche «Summae theologicae».

No, per carità: niente anticaglie, niente metafisica. Il dizionario della coppia Rossi e Valsecchi non ha tempo da dedicare a simili inezie ed è troppo serio per perdersi in questioni meramente astratte: preferiscono restare sul solido terreno dei fatti, costoro, e andare incontro alla vita "vera", al mondo moderno, alle "sfide" della società secolarizzata. Pertanto, si occupano di sottili e delicatissime questioni "teologiche", quali, per esempio, "Masturbazione" (per ben dodici pagine e 24 colonne di testo, bibliografia compresa), "Fecondazione artificiale" (11 pagine, su 22 colonne), "Contraccezione" (6 pagine, su 11 colonne), "Prostituzione e Travestitismo" (12 pagine, su 24 colonne), "Sciopero" (11 pagine, su 21 colonne), "Turismo e tempo libero" (10 pagine su circa 21 colonne). Alla "Sessualità" è dedicata una "voce" di circa 20 pagine, su 40 colonne. Crediamo di aver reso l’idea di quale sia l’impostazione generale dell’opera.

Se, poi, si va a leggere, una per una, le "voci" che la compongono, ci si imbatte, ad esempio, nell’affermazione di Adriana Zarri (la quale figura tra i collaboratori), alla voce "Donna" – che sembra tratta, di peso, da uno dei tanti libelli femministi degli anni ’70 – secondo cui la donna «sembra essere il luogo privilegiato della verginità» (p. 255), il che è una «angustia», che si spiega con il maschilismo teologico della Chiesa: infatti, dice l’autrice, i teologi cattolici erano «uomini e celibi», secondo i quali «da un lato, la donna attira per la sua femminilità [sic], dall’altro viene come desessuata per purificarne l’attrazione e consentirne il culto»… Che sia, tutto questo, e nonostante la smania di apparire "nuovo", cosa vecchia e pochissimo originale, già detta, e molto meglio, dalla teologia protestante e liberale, e dunque inutilmente ripetuto da certi cattolici che hanno il complesso d’inferiorità rispetto ai loro colleghi luterani e calvinisti (per non dire dei sociologi e degli storici delle religioni di impostazione apertamente atea e materialista), evidentemente non passa per la testa della Zarri: né è passato per la testa dei curatori del volume, e della stessa casa editrice, o di chi ha firmato l’"imprimatur" (monsignor Leonello Razza).

Ma chi erano, codesti curatori? Leandro Rossi (1933-2003) era un teologo specializzato, per così dire, nel dialogo con i credenti omosessuali, con i quali tenne una serie di memorabili (e contestati) incontri nel 1999, e che fu definito, dalla stessa Zarri («asinus asinum fricat»): «costruttore di una Chiesa che sa amare», come dire che la Chiesa "ufficiale", quella così bigotta e arretrata da considerare l’omosessualità un peccato, evidentemente non sa amare e non ha mai saputo farlo. Ambrogio Valesecchi (1930-1983), anche lui uomo di punta della teologia "progressista" (e peggio per quelli che non sapevano che la "teologia", in quanto tale, è passata di moda; ora ci sono due teologie: quella buona, che è progressista, e quella brutta e cattiva, che è quella di Agostino, Tommaso, del Concilio di Trento, e di tutti i papi che si sono succeduti sino al fatidico Vaticano II), già insegnante di Teologia morale presso il Seminario arcivescovile di Milano, poi, dal 1971, fu prete operaio, ma per soli due anni, a causa di problemi di salute; quindi fu al centro di una polemica sull’etica sessuale, e rispose alle critiche dei vescovi della Lombardia, che avevano definito pericolose le sue teorie in materia, perché relativiste, con la premessa al libro «Giudicare da sé» (1973), che, come già dice il titolo, è un nuovo inno al relativismo e al soggettivismo etico; infine, a dispetto del voto di obbedienza, chiese e ottenne di essere ridotto allo stato laicale e si sposò, nel 1975, aprendo uno studio di psicologo analista e di consulente matrimoniale. Insomma, dalla teologia cattolica alla psicanalisi, in nome della "libertà di coscienza" e senza avere l’onestà di buttare alle ortiche, insieme alla tonaca da prete, anche l’etica cristiana, ma, anzi, sempre con la pretesa di "aggiornare" quest’ultima, e di renderla adatta ai magnifici tempi moderni.

La confusione che simili personaggi hanno ingenerato nei credenti, lo scandalo che hanno dato alle anime semplici, il disprezzo che hanno mostrato nei confronti della gerarchia cattolica, ma soprattutto, e quel che è peggio, nei confronti della sensibilità e della formazione religiosa delle persone dalla fede semplice, cresciute nei valori della Tradizione, e con il buon catechismo di Pio X quale norma fondamentale – si capisce, dopo il Vangelo: crediamo che tutto ciò abbia provocato danni immensi, macerie spirituali che ancora oggi non sono state interamente sgombrate e che ancora oggi rendono arduo e difficile il cammino di fede a tanti cristiani di buona volontà, ma anche di sano buon senso e di autentico timor di Dio.

Diciamo soltanto che una persona che prenda in mano un libro come il «Dizionario di teologia morale» sopra citato, una persona la quale, pur non conoscendo i due curatori e gli altri collaboratori dell’opera, nondimeno "si fidi" della garanzia offerta dal nome della casa editrice e dall’"imprimatur" ecclesiastico, cercando in quelle pagine una risposta ai propri dubbi e un aiuto al proprio percorso di ricerca spirituale, viene a trovarsi nella situazione di colui che, durante una dura escursione in montagna, vedendo un bel ramo, caduto dall’albero ai piedi del sentiero, e chinandosi a raccoglierlo, per farsene un bastone nel faticoso cammino, d’un tratto si accorga, con infinito stupore misto a raccapriccio, che non d’un pezzo di legno si trattava, ma di un serpente: di una vipera pronta a mordere la sua mano, con la bocca spalancata e la bifida lingua protesa in una inequivocabile attitudine di minaccia.

Codesti teologi "progressisti", insomma, sono lupi travestiti da agnelli: dovrebbero custodire il gregge, proteggerlo, assicurargli la pastura e l’abbeverata; invece si danno un gran daffare per portarlo fuori dalla retta via e per condurlo in luoghi aridi e selvaggi, dove parte delle pecore moriranno di sete e di fame, altre moriranno per aver brucato dell’erba velenosa, altre ancora impazziranno e finiranno per gettarsi da se stesse nei dirupi e nelle voragini rocciose, incontro alla morte, o annegheranno nella rapida corrente del fiume. Ne ha fatti, di danni, la teologia "progressista" dell’epoca post-conciliare: tradendo, oltretutto, l’autentico spirito del Vaticano II…

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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