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Bartolomé e Gonzalo Garcia de Nodal, primi circumnavigatori della Terra del Fuoco

L’esistenza dell’Oceano Pacifico era nota agli Europei fin da prima che le loro navi si spingessero nelle sue acque: lo aveva avvistato, dall’alto di una collina del Darién, il coraggioso ma sfortunato "conquistador" Vasco Nuñez de Balboa, mentre stava attraversando a piedi l’Istmo di Panama, avendo saputo dagli indigeni dell’esistenza di un vasto mare "meridionale" (o che appariva tale rispetto all’ultima sezione dell’America centrale).

Era il 25 settembre del 1513 allorché egli fece la clamorosa scoperta. Era partito dalla costa orientale il 1° settembre, alla testa di 190 Spagnoli, inoltrandosi in un territorio inesplorato e ammantato dalla fittissima foresta tropicale, solcato da fiumi che essi dovettero attraversare e attraversato da montagne che dovettero superare. Balboa dovette combattere duramente contro gli Amerindi per aprirsi il passo e, benché non fosse un uomo particolarmente crudele per gli "standard" dell’epoca, anzi, tutto sommato uno dei "conquistadores" più umani, nondimeno macchiò irreparabilmente il suo nome facendo sbranare dai mastini un gruppo di uomini indossanti vesti femminili, che praticavano apertamente l’omosessualità: episodio che, quando venne conosciuto in Europa, il famoso illustratore fiammingo Theodor de Bry, di fede calvinista, volle immortalare in una delle sue incisioni ferocemente antispagnole (e anticattoliche), che nocquero alla reputazione del governo di Madrid — come avrebbe detto il buon cancelliere Metternich, se ci si perdona la forzatura cronologica — più d’una battaglia persa.

Allorché avvistò il mare, Balboa fece erigere una rozza piramide, mentre il cappellano della spedizione faceva intonare ai soldati un "Te Deum" di ringraziamento al Signore. Alcuni giorni più tardi la costa occidentale venne finalmente raggiunta e Balboa, con la corazza, impugnando fieramente il vessillo di Spagna nella sinistra e la spada nella destra, entrò nell’acqua fino alle anche, reclamando il possesso, a nome del suo sovrano Carlo V, del nuovo oceano, cui diede il nome di Mare del Sud.

Balboa era un semplice ufficiale di grado inferiore e non possedeva una cultura sofisticata; tuttavia, pur non potendo immaginare di aver scoperto l’oceano più vasto della Terra, ebbe l’intuizione che, a causa di quel mare, Cristoforo Colombo (morto pochi anni prima, nel 1506, a Valladolid) non avrebbe mai potuto realizzare il suo obiettivo originario, di raggiungere il Giappone e le Indie, perché sia il nuovo continente, sia la vasta distesa marina, da lui ora scoperta, si frapponevano fra l’Atlantico e l’Asia orientale; e, inoltre, perché la distanza complessiva fra l’Europa e l’Asia, navigando verso Ovest («buscar el Levante por el Poniente») doveva essere, evidentemente, molto maggiore di quella immaginata da Colombo; il quale, a sua volta, si era basato sui calcoli del matematico e astronomo fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli.

In ogni caso, Balboa non poté godere i frutti della sua scoperta, perché, entrato in conflitto con il primo governatore spagnolo di Panama, Pedro Arias Davila (o Pedrarias De Avila), uomo ambiziosissimo, tirannico e sanguinario, venne fatto da lui arrestare, processare e decapitare, benché, inizialmente, fosse stato da lui circuito con la promessa di sposare la sua stessa figlia, Maria de Peñalosa. Era il 1° dicembre 1519 allorché Balboa lasciò la testa sul patibolo dal suo ingrato e perfido superiore. In confronto a lui, Davila si comportò verso gli indigeni di Panama, di Costa Rica e del Nicaragua con una ferocia estrema, al punto che le notizie delle sue atrocità giunsero fino in Spagna e indussero Carlo V, nel 1528, a rimuoverlo dal comando e a richiamarlo in patria, ove si spense nel 1531. Alcuni storici hanno calcolato — anche se si tratta di una stima congetturale e difficilmente verificabile – che la sua politica di annientamento nei confronti degli Amerindi abbia fatto non meno vittime del genocidio nazista a danno degli Ebrei, durante la Seconda guerra mondiale.

Il Mare del Sud, poi chiamato Oceano Pacifico, venne effettivamente raggiunto dagli Spagnoli per merito del navigatore portoghese Magellano, passato al loro servizio, nel 1520. Egli scoprì lo stretto, assai tortuoso e lungo ben 500 km., che separa il continente sudamericano dalla Terra del Fuoco; la quale ultima, però, all’epoca non era conosciuta nella sua natura insulare, ma, al contrario, era considerata una propaggine del vastissimo continente meridionale di cui favoleggiavano cartografi e navigatori: la Terra Australis Incognita. Di fatto, nell’arco di quasi quattro secoli, fino al 1914, allorché verrà aperto il canale di Panama, lo Stretto di Magellano rimase la principale via di comunicazione marittima fra i due oceani, l’Atlantico e il Pacifico.

Mano a mano che gli Spagnoli costruivano e organizzavano il loro immenso impero coloniale, saldando le conquiste che, una dopo l’altra, avevano realizzato, o stavano completando, fra la California, a Nord, e il Cile, a Sud, lungo il lato occidentale del continente americano, diventava vitale, per essi, trovare il modo di tenere lontane le navi delle alte potenze europee, pericolose rivali in ambito commerciale; per non parlare delle navi corsare che, insediatesi in alcune isolette dei Caraibi, attaccavano i galeoni diretti in patria con il loro carico d’oro e d’argento, proveniente dalle miniere del Messico e del Perù.

Da parte loro, gli Spagnoli non erano molto interessati alla navigazione diretta verso il Pacifico. Per le "flotte dell’oro", si servivano del trasporto via terra, da Panama (fondata da Perdo Arias de Avila), sul Pacifico, a Porto Bello, sull’Atlantico, indi raccoglievano i galeoni all’Avana e li avviavano, scortati da navi da guerra, verso la Spagna. Da Acapulco, poi, fondata sulla costa occidentale messicana, a partire dal 1565 aprirono una regolar linea di navigazione attraverso il Pacifico meridionale, fino a Manila, nelle isole Filippine (ma il loro obiettivo originario erano le ricchissime "isole delle spezie", le Molucche, ove riuscirono a insediarsi a Ternate e Tidore; poi, però, dovettero riconoscere la precedenza dei Portoghesi, colà giunti fin dal 1513, e ai quali infine si sostituirono, dal 1599, i più combattivi e intraprendenti Olandesi).

L’importante, dunque, per il governo spagnolo, era che le indesiderate navi inglesi, francesi e olandesi non potessero aprirsi la strada verso il Pacifico dal lato dell’Atlantico. Con la sola eccezione del 1671, quando il pirata Henry Morgan ebbe l’incredibile audacia di attaccare e distruggere la città di Panama, attraversando l’istmo a piedi, nel complesso essi riuscirono nel loro intento: la "porta" dell’Istmo di Panama era saldamente nelle loro mani e la "porta di servizio", lo Stretto di Magellano, era difficilmente navigabile, a causa dei venti prevalenti occidentali, del clima assai freddo e burrascoso, della scarsità e precarietà degli ancoraggi, delle nebbie persistenti, delle rocce affioranti e dei ghiacci galleggianti.

Anche da questa parte vi fu qualche eccezione: nel 1578 il corsaro inglese Francis Drake riuscì a infilarsi nello Stretto di Magellano proveniente dall’Atlantico; e, benché si ritrovasse, alla fine, con una sola nave, su cinque che aveva all’inizio, con quell’unico vascello seminò il terrore sulla costa occidentale del Sud America, saccheggiò porti e catturò galeoni carichi di mercanzie, tornando in patria carico di onori e di ricchezze; e la regina Elisabetta, che ufficialmente aveva disapprovato la sua impresa (fu la seconda circumnavigazione del globo, dopo quella di Magellano, e prima di quella d’un altro corsaro inglese, Thomas Cavendish, nel 1588), in realtà ne fu estremamente lieta, vista la percentuale a lei spettante sull’oro e le altre mercanzie catturate da Drake, tanto è vero che si affrettò a nominarlo baronetto.

L’impresa di Drake fu notevole sotto il punto di vista nautico, ma ebbe dalla sua una buona dose di fortuna e difficilmente avrebbe potuto essere ripetuta: di fatto, si contano sulle dita delle mani le spedizioni navali delle altre potenze europee che riuscirono a replicarla e ad infliggere qualche danno ai porti spagnoli del Cile, del Perù e della Nuova Granada (Colombia). Gli Spagnoli, tuttavia, non vollero affidarsi soltanto alla fortuna e fecero quanto stava in loro per chiudere, col catenaccio, questa scomoda "porta di servizio". Essi erano in dubbio se Drake avesse lasciato una guarnigione sullo Stretto di Magellano; e, in verità, sapevano molto poco delle condizioni geografiche esistenti in quei luoghi, per cui concepirono il piano di fondare essi stessi una base militare, prima che altri li precedessero, mediante la quale assicurarsi, una volta per tutte, il controllo incontrastato di quella importantissima via d’acqua. Fu così che nacque la spedizione di Pedro Sarmiento de Gamboa, un audace navigatore che già aveva partecipato alla spedizione di Alvaro Mendana de Neira nel Pacifico (cfr. il nostro precedente saggio: «Mendana de Neira alla scoperta della Terra Australe», pubblicato sul numero 1, marzo 1990, de «Il Polo. Rivista trimestrale dell’Istituto Geografico Polare "Silvio Zavatti"», pp. 19-24).

Sarmiento partì nel 1581 e venne allontanato da una tempesta nel 1584, lasciando i coloni rimasti a terra in una posizione disperata, tanto che l’insediamento andò completamente distrutto per il freddo e la fame (cfr. il nostro precedente saggio «La tragica epopea di Sarmiento de Gamboa nello Stretto di Magellano», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 07/06/2007); dopo di allora, il governo spagnolo rinunciò al progetto di fortificare lo Stretto, confidando che le stesse difficoltà che gli avevano impedito di creare una base militare permanente a quelle latitudini, avrebbero reso estremamente arduo il transito anche ai velieri nemici.

Le cose stavano a questo punto allorché, nel 1616, si verificò un fatto nuovo e inaudito: una audacissima spedizione olandese aveva scoperto un’altra rotta per penetrare dall’Atlantico nel Pacifico: quella più meridionale, passante al largo di capo Horn. La spedizione di Jacob Le Maire e Willem Schouten era partita da Texel, nei Paesi Bassi, nel 1615, con un obiettivo estremamente ambizioso ed arrischiato: rompere il monopolio commerciale della Compagnia olandese delle Indie orientali, trovando una rotta per le "Isole delle Spezie", le Molucche appunto, che non fosse quella del Capo di Buona Speranza, né quella dello Stretto di Magellano. Fu così che, dopo aver scoperto il passaggio fra l’Isola degli Stati e la costa orientale della Terra del Fuoco, il 29 gennaio 1516 le due navi olandesi doppiarono Capo Horn, così denominato in onore della città olandese di Hoorn, luogo di nascita di Schouten.

La loro impresa apparve così straordinaria che, all’inizio, non vennero creduti dai loro stessi connazionali, secondo i quali era impossibile che avessero rispettato il monopolio della Compagnia delle Indie Orientali: per cui navi e carico furono sequestrati a Bantam, sull’isola di Giava, dagli agenti della detta compagnia. Solo in seguito fu appurata la verità del loro racconto; e, a quel punto, gli Spagnoli, come all’indomani dell’impresa di Drake, decisero di correre ai ripari, temendo che la rotta di Capo Horn, di cui non si conosceva ancora tutta la pericolosità (di fatto, essa sarebbe divenuta il cimitero di centinaia e centinaia di navi), non divenisse una nuova, sgradita porta d’accesso ai loro possedimenti sulla costa occidentale americana.

Così come la spedizione di Sarmiento ebbe origine da quella di Drake, la stessa cosa avvenne per la spedizione dei fratelli Garcia de Nodal, dopo che in Europa fu giunta la notizia – rimbalzata ben presto anche alla corte di Madrid – che una nuova rotta verso il Pacifico era stata scoperta a Sud della Terra del Fuoco. Bartolomé e Gonzalo Garcia de Nodal, due galiziani originari di Pontevedra (nati rispettivamente nel 1574 e nel 1569), erano due eccellenti uomini di mare: a loro fu affidato il compito di verificare se le cose stavano come avevano affermato Le Maire e Schouten; e, se sì, quali condizioni vi fossero affinché la Spagna potesse esercitare una qualche forma di sorveglianza sulla nuova rotta marittima.

Essi salparono da Lisbona (dal 1580 il Portogallo era stato annesso alla corona spagnola da Filippo II d’Asburgo, e tale situazione si protrasse fino al 1640) il 27 settembre del 1618 e, dopo aver attraversato il medio Atlantico ed essere scesi lungo la costa orientale sudamericana, entrarono nello Stretto di Le Maire, esplorarono le isole meridionali della Terra del Fuoco, riconobbero il Capo Horn (cui diedero il nome di Capo Sant’Ildefonso), scoprirono le Isole Diego Ramirez (l’arcipelago più meridionale del continente americano, a 56°30′ di latitudine Sud), giunsero alle soglie del Canale di Drake; indi entrarono nello Stretto di Magellano, e sboccarono nuovamente nel’Atlantico, il 13 marzo 1619, avendo definitivamente riconosciuto il carattere insulare della Terra del Fuoco ed escluso, con ciò, la sua appartenenza al supposto Continente Australe.

Il 7 luglio erano di nuovo in Spagna, al termine di una navigazione tanto abile quanto fortunata: e, fatto notevolissimo, non avevano perduto neppure un uomo. In compenso, avevano compilato una serie di carte nautiche estremamente accurate e preziosissime per i futuri navigatori di quelle remote latitudini australi. La Casa de Contratacion di Siviglia poté arricchire i propri archivi, grazie al loro viaggio e alla loro perizia, di una vera e propria messe di documenti di altissimo valore scientifico e pratico: purtroppo, non seppe fare di meglio che nasconderli in qualche armadio e metterli sotto chiave. L’importante, per essa, era che nessuna potenza straniera potesse avvalersi delle nuove scoperte per insidiare il suo monopolio commerciale nel Nuovo Mondo: e a quel fine puramente egoistico essa sacrificò ogni altra considerazione. Le osservazioni e i rilievi dei fratelli Nodal non vennero in alcun modo valorizzati, ma, al contrario, sepolti deliberatamente nell’oblio.

Così ricorda la loro impresa lo storico J. H. Parry nel suo bel volume «La scoperta del Sudamerica» (titolo originale: «The Discovery of South America», Paul Elkek Limited, 1979; traduzione dall’inglese di Gianni Guadalupi, Milano, Arnoldo Mondadiori Editore, 1981, pp. 348-354):

«Quella di Schouten fu un’impresa notevole, e un aspetto importante di essa fera stato il suo successo nel mantenere i suoi uomini in buone condizioni di spirito e di salute nel corso di un viaggio tanto lungo. Perse solo tre uomini, uno dei quali era Jakob Le Maire, il commissario di bordo. Per quei tempi, fera fu un primato notevole. Le notizie della scoperta di Capo Horn si diffusero ben presto, e in breve influenzarono la cartografia. Come per molte altre importanti scoperte, comunque, il suo risultato pratico non risultò subito evidente. lo stesso Schouten ci guadagnò poco. Quando giunse a Bantam, nessuna autorità accettò la sua storia di una nuova rotta. La sua nave fu confiscata dagli ufficiali della Compagnia delle Indie Orientali, il suo controvalore venne recuperato solo dopo lunghe dispute ad Amsterdam.

Appena il governo spagnolo ebbe notizia del viaggio di Schouten organizzò una spedizione per investigare. Essa fu comandata congiuntamente dai fratelli Bartolomé e Gonzalo Garcia de Nodal, ambedue esperti piloti galiziani. I Nodal lasciarono Lisbona nel settembre 1618 con due caravelle; si rifornirono di acqua e viveri a Rio de Janeiro in novembre, imboccarono lo Stretto di Le Maire nel gennaio 1619, aggirarono Capo Horn all’inizio di febbraio, scoprirono le isole Diego Ramirez, molto pericolose per la navigazione, entrarono nello Stretto di Magellano dalla parte del Pacifico alla fine di febbraio e rispuntarono nell’Atlantico a metà di marzo. Fu la prima circumnavigazione della Tierra del Fuego, e insieme un viaggio brillantemente riuscito. Le caravelle tornarono senza aver perso un solo uomo.

I risultati non furono migliori. Non ci fu alcun affollarsi di traffico sulla nuova rotta. Per quanto temibile potesse essere lo Stretto, molti navigatori, per centocinquant’anni dopo Schouten, pensarono che Capo Horn fosse peggio. Non era una scelta facile. La forza, e spesso la sconvolgente violenza, dei venti occidentali prevalenti poteva ritardare o impedire del tutto il passaggio da est a ovest su entrambe le rotte. Su entrambe le rotte, perché per la stessa ragione, il passaggio da ovest a est era di solito più facile, benché non ci si potesse far conto. Aprirsi a forza il passaggio nelle anguste acque dello Stretto con una tempesta contraria era impossibile; le navi dovevano aspettare, negli ancoraggi, che potevano trovare, un vento migliore; così che il passaggio verso ovest poteva durare mesi. La rotta di Capo Horn offriva più spazio, permettendo alle navi di manovrare a loro piacimento, e di avvantaggiarsi (come fece Schouten) dei cambiamenti dei venti prevalenti occidentali tra nord-ovest e sud-ovest. Le navi del XVII secolo, comunque, erano mal progettate e male attrezzate per un’impresa così ardua. I tentativi per doppiare Capo Horn potevano durare molte settimane, e su quella costa selvaggia non c’erano rifugi, e nessuna opportunità — che esisteva invece nello Stretto — di approvvigionare la nave con foche o pinguini salati.

All’inizio del XVIII secolo un certo numero di progressi tecnici vennero a migliorare la manovrabilità delle navi e le loro prestazioni rispetto al vento; le vele di taglio sostituirono le vecchie tarchie e vele di gabbia quadrate; la vela di randa rimpiazzò la poco maneggevole vela latina di mezzana; e la ruota sostituì la barra e la ghia come mezzi di controllo. Navi così attrezzate erano meglio equipaggiate per doppiare Capo Horn con venti contrari. Anche così, la discussione su quale delle due ritte fosse preferibile non fu risolta fin dopo la metà del XVIII secolo. Cook scrisse nel 1769 che "alcuni pensano che doppiare Capo Horn sia una cosa straordinaria, e altri fino a oggi hanno preferito lo Stretto di Magellano". Cook non era d’accordo con costoro. Il secolo e mezzo intercorso tra l’epoca di Cook e l’obsolescenza della navigazione a vela in alto mare nei primi anni del nostro secolo [cioè il Novecento; nota nostra] fu il periodo di maggior prosperità della rotta di Capo Horn. Oggi le acque intorno a Capo Horn sono deserte quasi come lo erano quando Schouten ci si avventurò per primo.

Gli spagnoli, dopo il viaggio dei Nodal, persero interesse ad ambedue le rotte. Commercio e comunicazione tra la Spagna e il vicereame proseguirono via Panamà legalmente o ufficialmente, e in maniera illecita, ma sempre più cospicua nel corso del XVII secolo, dal Rio de la Plata via Tucuman a Potosì. Il commercio transpacifico spagnolo, dell’argento nella parte occidentale e della seta nella parte orientale, veniva trasportato in una o due grandi navi all’anno, che salpavano da Acapulco per Manila navigando nella zona dei venti alisei di nord-est, e tornavano ad Acapulco nella zona dei venti occidentali, lungo la rotta che Urdaneta aveva scopeto nel 1575. Non ci furono ulteriori tentativi di fortificare l’estremo Sud; le autorità facevano affidamento sul tempo, sulla distanza e sui noti pericoli della navigazione meridionale, per tener lontani tutti gli scorridori, tranne i più arditi e fortunati.

Nel complesso, la fiducia spagnola era giustificata. Poche navi straniere visitarono il versante pacifico del Sudamerica nel XVII secolo; tra van Noort nel 1600 e Bartholomew Sharp nel 1681, nessuno di loro provocò seri danni…»

Finiva, così, l’epopea dello Stretto di Magellano; e anche quella di Capo Horn, divenuto ormai — dopo l’avvento delle navi a vapore — una sorta di palestra per l’abilità dei navigatori a vela in solitario.

Gli Spagnoli non avevano saputo fortificare lo Stretto, né interdire alle navi straniere il passaggio di Capo Horn; ma il loro impero coloniale nel continente americano non ne avrebbe sofferto, se non per qualche puntura di spillo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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