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Apuleio e Luciano di Samosata, i Dioscuri della dissoluzione

Ogni epoca di decadenza e di dissoluzione ha i suoi Dioscuri intellettuali: nel caso del mondo greco-romano del II secolo dopo Cristo, possiamo prendere lo scrittore latino Apuleio e lo scrittore greco Luciano di Samosata come esempi quasi perfetti di questa affermazione.

Scriveva, dunque, lo storico e filosofo Aldo Ferrabino nel suo libro «Lo spirito della conquista romana» (Padova, Zanocco Editore, 1946, pp. 424-425 e 428-429):

«Africano da Madaura, e vissuto oltre la metà del II secolo d. C., Apuleio fu filosofo platonico: ma cultore di tutte e nove le Muse: ma costretto finanche a scolparsi dall’accusa di magia: e autore d’un romanzo d’avventure.

Il romanzo fioriva allora come nelle età eroiche il poema. 

Imitate da modello greco, le "Metamorfosi" d’Apuleio sono scruitte in un latino patetico, figurato, fantasioso, variegato d’arcaismi e di neologismi, d’artifizi squisiti e di sprezzature triviali; un latino che sente l’Africa negli elementi e nella esuberanza, che sente il secolo negli accorgimenti e nella stravaganza; più tumultuoso che copioso; perfido come un coro di Sirene.

Vi è ritratta la società? Non i veri costumi, non il vero animo. Della società d’allora è ritratta una sola ma epidemica passione: la passione in cui le altre tutte s’andavano sommergendo o diluendo, e che convertiva a sé i gusti dei Britanni e dei Galli, degli Iberi e degli Afri, degli Egiziani e dei Greci, dei Pannoni e dei Traci, e finalmente degl’Italici: -l’asianesimo.

Di tutti gli apporti provinciali alla vita dell’impero, quest’era il più ambiguo, per non dire il più putrido; e però col tempo finì a contaminarli tutti quanti.

Era una miscela inebbriante di superstizione primordiale e di sovracultura decadente; aveva i lezi di una letteratura decrepita e la credulità atavica degli stregoni selvaggi; – lussuria e magia.

Ragione, sentimento, volere, sembrava che ne fossero esaltati e rafforzati, quand’invece erano imbastarditi e incestuosamente frammischiati.

L’asianesimo erompeva allora anche fuor di romanzo in molte disparate forme di religiosità. Asianesimo farcito di simboli e di riti e di segreti; amalgama di credenze mesopotamiche e iraniche, travasato in Anatolia e in Egitto: misto d’invenzioni stravaganti.

Di conto a tali dottrine, che serpeggiavano nel mondo greco-romano durante i primi secoli dell’èra, fu opposta la rivelazione cristiana nella forma che stava in quei decenni diventando cattolica; onde, dopo alcuni autori greci, s’illustrò autore latino un altro africano, Tertulliano.

Sorse egli come una antitesi all’asianesimo, come un richiamo alla latinità, alla chiarezza e temperanza che splendevano nel giure civile di Roma. Avversò la Gnosi, difese il pensiero cattolico, fedele al dogma della Redenzione per cui il Redentore  aveva persona storica e insieme eterna, umana e insieme divina, con tutti i triboli terreni e con tutte le glorie celesti; Dio fatto creatura ma creatura scevra di peccato.

Tertulliano fu davvero il primo che significasse in lingua italica l’affinità recondita del romanesimo col cristianesimo. […]

Lasciamo che passino centocinquant’anni [dopo Filone Giudeo]; Luciano, un altro semita, m della Siria Commagene sulla riva occidentale dell’Alto Eufrate, ci indicherà la meta estrema a cui quegli uomini erano arrivati: – la dissoluzione di tutt’e due le "civitates", sia la terrena e naturale, sia la celeste e sovrannaturale.

Luciano s’appropriò con rara perizia lo schietto stile degli Attici vissuti nei secoli prima di lui. S’appropriò con rara felicità la gioconda forza comica d’un Aristofane e anche la vigorosa forza oratoria d’un Demostene: ma ne armò l’acredine del suo scetticismo "bestemmiatore" (come fu detto).

La materia che Luciano tratta tiene del suo tempo: è cultura scaduta a vanità, religione a magia, divino eroico umano conversi e confusi, equivoco di vero con falso. E la forma in cui Luciano cola questa materia è la forma perenne dello smarrimento morale, è un riso scriteriato, che non riesce a farsi pago neanche di se stesso.

La satira di Luciano non è che critica imputridita dalla licenza.

La sua beffa, irriverente a Zeus, irriverente a Gesù, sembra essere la rivincita della saggezza attica contro la superstizione asiatica; ma non è se non questa medesima superstizione lasciata a brancolare nel vuoto.

Luciano e Apuleio sono opposti per origine, per stile; ma mettono due maschere sopra un volto solo: l’aberrazione che crede a tutto, e che non crede a nulla.

È la catastrofe dell’IO; il quale, a furia di esercitare la sua ingenita facoltà di mentirsi, è arrivato a vedere nella vita ora il giuoco futile degli arbitrii umani ora il capriccio misterioso di arbitrii divini; a rifiutare il certo per correre all’incerto; a ripudiare in se medesimo la potenza del discernimento, la evidenza della ragione, la sicurezza della conoscenza, la efficacia dell’azione — la dignità del riscatto.»

Nel caso di Apuleio, Il Ferrabino adopera il termine "asianesimo" non solo nel significato stretto di un particolare stile letterario, diverso e opposto alla sobrietà dell’atticismo, ma, evidentemente, in quello molto più ampio della influenza culturale e spirituale esercitata dalle province orientali dell’Impero romano sopra quelle occidentali, e specialmente sull’Italia: influenza che egli giudica non solo negativa, ma pessima, addirittura putrida. Lussuria e magia ne sono i frutti velenosi; decadenza e artificiosità, le manifestazioni più appariscenti, non solo dal punto di vista letterario e artistico, ma anche in senso politico e morale.

Ferrabino, cioè, vede nella dilagante moda delle religioni e delle culture orientali, diffusasi in Roma nei due secoli che vanno da Cicerone a Marco Aurelio, il segno più evidente, se non addirittura la causa, della decadenza morale del genio romano: l’affermarsi del dispotismo asiatico in luogo dello spirito repubblicano, che un tempo era stato la fierezza dei Romani, nonché la ricerca di una esuberanza culturale indubbiamente ingegnosa e, per certi aspetti, affascinante, ma priva di sostanza, di serietà, di rigore, degradata a gioco della mente, a capriccio vizioso dei sensi.

A suo parere, uno scrittore come Apuleio, non che rappresentare lo stato reale della società romana del suo tempo, si è compiaciuto di ritrarne un quadro oltremodo dissoluto, riflettendo su di essa una propensione al vizio e un disordine morale che era innanzitutto suo; simile in questo, aggiungiamo noi, all’autore del «Satyricon». Con una importante differenza, tuttavia: che, mentre Petronio rappresenta un mondo sprofondato nella lussuria cieca e in una totale opacità morale, dominato da un edonismo brutale, cinico, disincantato, Apuleio traveste una analoga rappresentazione sotto le apparenze di una conversione religiosa; ma la sua non è che una mascherata di dubbio gusto. Lucio, il protagonista delle «Metamorfosi», trasmutato in asino per un uso sconsiderato della magia, dopo essere ritornato uomo, si vota al culto di Iside e se ne fa banditore zelante e appassionato: con quanta serietà e sincerità, è tutto da vedere.

Sembra quasi incredibile che alcuni studiosi abbiano creduto a quella conversione e, più ancora, alle intenzioni serie, e perfino religiose, del romanzo di Apuleio, quando non si tratta che di una goffa parodia di ciò che dovrebbe essere un autentico percorso di ricerca spirituale e religiosa, adatta per spiriti smaliziati e increduli, com’erano i suoi lettori, e per intellettuali senza alcuna sostanza etica e serietà di vita, come lo era Apuleio stesso: un sofista buono per tutte le cause e per tutte le stagioni, innamorato soprattutto di se stesso, mai profondo, mai sincero, mai affidabile. Eppure, a ben guardare, non è poi così strano che certi studiosi moderni siano caduti in un tale fraintendimento, dal momento che anche quella in cui noi viviamo è un’epoca di profonda decadenza. Il simile chiama il suo simile: e così come Apuleio scimmiotta la ricerca della verità da parte dell’anima, ma in fondo non crede a niente e a nessuno, tranne che al proprio Ego narcisista e debordante, così quei signori trovano in lui qualche cosa di molto simile a ciò che è in loro stessi: ambizione smodata e superficialità; confusione morale che non osa guardarsi in faccia e riconoscersi; compiacimento di sé ed esaltazione dell’egotismo più sfrenato.

In fondo, Apuleio piace a tutti quegli intellettuali moderni — e il loro numero è legione — i quali si specchiano nella sua vanità, nella sua vuota boria intellettuale, nei suoi artefatti slanci pseudo-mistici; come Hegel e come Rudolf Steiner, costoro pensano di possedere qualche cosa in più della "semplice" fede, per cui non si confessano indigenti, ma pretendono d’aver trovato la "vera" sapienza, la Gnosi; in cuor loro, però, sono pieni di amarezza, perché sentono di non aver trovato proprio nulla, e traducono tale amarezza in astio anti-cristiano e, in ultima analisi, anti-religioso. Per esempio, corteggiano e prendono sul serio tutte le credenze spirituali, anche le più strampalate, purché fondate sulla "ragione" e sulla "natura", purché in armonia con "l’uomo"; si cincischiano con le parole e amoreggiano con le forme più basse della credulità e della superstizione, pur se, in cuor loro, le disprezzano, perché ritengono di poterle adoperare come strumenti per completare la scristianizzazione del mondo. Il cristianesimo li offende e li disturba, perché riconosce la limitatezza e l’infelicità dell’uomo, quando è lontano da Dio o quando pretende di farsi Dio; e loro non vogliono ammettere né la limitatezza, né l’infelicità, anche se sperimentano entrambe; per cui la loro rivincita consiste nel rivalutare tutto ciò che abbia anche solo una certa apparenza di autosufficienza antropologica, da Nietzsche a Giuliano l’Apostata, dal buddismo al neoplatonismo. L’importante, per essi, è far vedere che possiedono una loro proposta intellettuale, che hanno una strada da seguire, diversa e opposta a quella cristiana: ma la verità è che non hanno nulla di nulla, e che sono intellettualmente disonesti, perché spacciano fumo e vuote chiacchiere per ragionamenti e per sostanza. Sono scettici che non credono a niente, ma che non vogliono ammetterlo: in quanto intellettuali, sono letteralmente dei parassiti, perché non possiedono una ragione al mondo che giustifichi la loro condizione d’intellettuali, il privilegio (ammesso che sia tale) di sentirsi tali e di essere considerati tali.

La società, infatti, si aspetta che gli intellettuali possiedano le idee più chiare dell’uomo della strada; che essi siano, se non proprio le guide, quanto meno dei soggetti capaci di elaborare una propria proposta riguardo ai problemi del conoscere, del volere, del comprendere; se la società si rendesse conto fino a che punto quei signori usurpano la loro fama e millantano una funzione sociale che non sanno, né possono svolgere, li coprirebbe di disprezzo: e allora chi stamperebbe più i loro libri? Chi li inviterebbe più nei salotti televisivi? Quali riviste ospiterebbero ancora i loro articoli brillanti, ma inconsistenti, una volta che tale inconsistenza fosse visibile a tutti, e la loro nudità intellettuale, la loro miseria spirituale, fossero evidenti anche all’uomo della strada? Meglio, dunque, per essi, accompagnarsi a scrittori come Apuleio e Luciano; ce ne sono tanti, oggi; tantissimi; è per costoro che si scrivono le recensioni, che si organizzano conferenze e dibattiti; che si portano ad ascoltarli i giovani, gli studenti, e tutti coloro i quali, bazzicando nei paraggi di quegli intellettuali che vanno per la maggiore, si sentono un poco "intellettuali" pur essi. «Asinus asinum fricat»: gli asini godono a farsi strofinare e vezzeggiare dai loro simili.

Quanto a Luciano, la sua personalità di scrittore è ancora più misera e contorta di quella di Apuleio. Apuleio, almeno, crede in se stesso: si vanta, si pavoneggia; se deve difendersi da un’accusa di magia, mossagli dai parenti di sua moglie per ragioni d’interesse economico, ne approfitta per fare la propria apologia, per lasciarsi ammirare e invidiare sotto ogni punto di vista; finge noncuranza per ciò che gli altri pensano e dicono di lui, ma darebbe un braccio, o dieci anni di vita, pur di fare colpo, di piacere, di suscitare una forte impressione sul pubblico. È solo un piccolo narciso, banale e dozzinale, come ce ne sono tanti e sempre ce ne saranno. Luciano, invece, è maligno: oltre a non credere in niente e in nessuno, si compiace della propria miscredenza, irride a qualunque fede, denigra qualunque verità, sbeffeggia qualsiasi cosa che vada al di là della soddisfazione dei bisogni materiali e immediati della vita.

Luciano, peraltro, sa essere simpatico e perfino seducente: quando scherza, quando inventa, quando improvvisa ogni sorta di fanfaronata e di stramberia; ma poi, in certi momenti, lascia cadere la maschera e appare il suo volto feroce, disumano: come quando irride la morte e scherza sul suicidio del filosofo Peregrino; perché se è lecito scherzare sulla morte in astratto, è semplicemente abietto scherzare sulla morte concreta di un essere umano. Luciano è l’intellettuale ozioso e raffinato, curioso e superficiale, che ha spinto fino all’estremo limite la sua inutilità, il suo parassitismo intellettuale: non solo non ha alcuna verità da cercare o da indicare, ma odia tutte le verità; scherza sugli uomini e sugli dei, perché detesta l’idea stessa di verità. Non possiede, però, la franchezza di dichiararlo apertamente: preferisce nascondersi dietro i veli d’un elegante scetticismo, d’un sorriso ironico che rende impossibile qualunque discussione seria, ma che previene — o almeno così egli crede — qualunque critica nei suoi confronti. È come se dicesse: vedete, io non ho alcuna verità da offrire; se critico coloro che lo fanno, è perché sono solo dei cialtroni; ma io non sono come loro, io non prendo in giro nessuno; anzi, dovreste ringraziarmi, perché almeno vi faccio ridere. Ma un tale atteggiamento, per un uomo di cultura, è l’espressione della massima degradazione cui la sua categoria possa giungere; più onesto sarebbe fare come farà Arthur Rimbaud: deporre la penna per sempre e mettersi a fare qualcos’altro, fosse pure il mercante d’armi in Africa, fosse pure il mercante di schiavi.

Chi lo dice che un intellettuale deve continuare a scrivere, anche dopo aver scoperto che non vi è nulla di serio da dire, anzi, che non esiste nulla di serio al mondo? E che dire di un intellettuale che, dopo essere giunto a una simile conclusione, non solo continua a scrivere su qualunque argomento, sia serio che faceto, ma avvolge il suo pensiero in una nube di mille artifizi, di mille lazzi, di mille sberleffi, boccacce e battute sacrileghe, solo per non dover confessare di essere più nudo, più smarrito, più desolato di tutti quelli che prende in giro, siano essi uomini o dei, in cielo e sulla terra? Chi facesse così, toccherebbe il fondo dell’abiezione: diventerebbe un pagliaccio, una caricatura di ciò che pretende di essere; non sarebbe altro che un impostore, che usurpa il titolo d’intellettuale di cui pure ama fregiarsi. La società non sa che farsene di tipi come lui; ed ecco perché egli si guarda bene dal rivelare il suo vero volto: preferisce stare sempre a mezza via tra la parola seria e la risata, in modo da potersi sempre ritirare sul terreno dell’ironia, e spuntare così ogni eventuale critica. Ma, per quanto abbia molto studiato e conosca molte cose; per quanto sappia scrivere bene, o comunque in modo vario e interessante; per quanto sia capace di attrarre un grosso pubblico e d’intrattenerlo a suo piacere, è soltanto un pover’uomo. Meriterebbe compassione, più che disprezzo. E nondimeno, quel che egli fa è estremamente deleterio: avvelena il corpo, forse ancora sano, o parzialmente sano, della società; lo avvelena con il dubbio sistematico, con l’attitudine maligna, con l’abuso della propria notorietà, che gi permette di traviare tante menti giovani e inesperte…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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