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Altro che voce del sesso “liberato”: Henry Miller è l’implacabile accusatore dell’Inferno americano

Che grande, immenso, sciocco equivoco.

Per la maggior parte dei lettori, specialmente europei, Henry Miller (New York, 1891-Pacific Palisades, 1980) è il cantore del sesso "liberato": una specie di profeta della rivoluzione sessuale, un po’ in anticipo sui tempi del ’68; una bandiera "ante litteram" della sessualità scatenata, anarcoide, oltre la stessa pornografia. Roba buona per un pubblico pruriginoso, piuttosto frustrato anziché no, ma con velleità progressiste a tutto campo, dunque anche in ambito sessuale.

Povero Henry Miller e poveri i suoi romanzi «Tropic of Cancer» (1934) e «Tropic of Capricorn» (1939): lui si starà rivoltando nella tomba, quelli si continua a leggerli nella maniera più banale e conformista, come da copione, con la sempre più stanca benedizione delle case editrici, più che paghe di poter sfruttare all’infinito la gallina dalle uova d’oro. In fondo, bisogna capirle: non capita tutti i giorni di avere per le mani un Eldorado che non si esaurisce mai.

Peccato che Henry Miller — che, sia detto fra parentesi, è stato uno scrittore intellettualmente onesto, ma tutt’altro che un grande artista, e meno ancora un pensatore: sempre infinitamente meglio, peraltro, dei suoi miserevoli epigoni, a cominciare dalla sua sedicente erede femminile, Erica Jong — non sia stato affatto quel tipo di scrittore. Il sesso, sì, lo interessava, e specialmente quello libero e sregolato; ma rinchiuderlo entro un simile cliché significa fargli un torto immeritato.

Nossignori, bisogna farsene una ragione: Henry Miller è stato — con pochi altri, fra i quali spicca, a distanza siderali, il poeta Ezra Pound — un americano che aveva scelto l’Europa perché aveva visto e compreso, con la massima lucidità e chiarezza possibili, che la sua patria, gli Stati Uniti, aveva prodotto un tipo di società e un modo di vita che erano quanto di più simile all’Inferno sia dato immaginare ad una mente umana.

L’Europa, e specialmente Parigi, rappresentavano per Miller non solo la cultura, ma la bellezza, la gioia di vivere, l’amore per tutto ciò che rende bella e desiderabile la vita; mentre gli Stati Uniti erano diventati il luogo di una cultura di morte, fondata sulla bruttezza, frutto avvelenato di un utilitarismo sfrenato e di un economicismo senz’anima, disumano: un luogo orribile, invivibile, tragicamente assurdo. Egli era un uomo in fuga per salvarsi la vita, né più, né meno: esattamente il contrario di un gaudente o di un libertino. E, quanto al sesso, non possedeva la decima parte della sensualità di D. H. Lawrence, la cui «Amante di Lady Chatterley», oltre ad anticipare il discorso sul sesso come liberazione (infatti è del 1928), è molto più vivo psicologicamente e delinea un ritratto femminile molto più intenso e convincente delle donne descritte da Miller.

Per aver fatto un discorso simile, ma con molta più finezza, cultura e poesia, Pound è stato messo letteralmente in gabbia, come un criminale, e poi rinchiuso in manicomio; mentre Poe, l’altro grande accusatore dell’avanzare di un’America deforme, irriconoscibile, alienata, è morto — sconosciuto – in un letto d’ospedale, vittima del "delirium tremens", povero corpo squassato dalle convulsioni e povera anima negletta, incompresa, abbandonata a se stessa e ai suoi atroci fantasmi di tenebra, di angoscia e di morte. Gli Stati Uniti non sopportano che qualcuno metta a nudo il deserto della loro civiltà, specialmente se questo qualcuno è un loro concittadino.

Rileggere Henry Miller può essere utile, se non altro, in questo senso: aiuta a capire fino a che punto il concetto di "Occidente" sia una grossolana mistificazione, una espressione senza contenuto, perché la civiltà americana, anche se discende — storicamente — da quella europea, ha imboccato, però, e quasi fin dall’inizio, una strada totalmente diversa, tutta sua, accentuando a dismisura l’aspetto faustiano e demoniaco già presente in quella, e discostandosi sempre più, sino a perderlo di vista, da quel che essa aveva di più vivo e di migliore. Culturalmente, socialmente, politicamente, spiritualmente, intellettualmente, religiosamente, economicamente, finanziariamente, militarmente, psicologicamente, artisticamente, tecnologicamente, gli Stati Uniti non sono né i continuatori, né i legittimi eredi dell’Europa: ne sono la brutale contraffazione e la radicale negazione. Un Europeo intelligente, conscio e fiero di essere quel che è, non può che arrossire nel vedersi equiparato, in tante parti del mondo, a un Nordamericano: la sua visione del mondo, il suo senso della vita e della morte, il suo rapporto con se stesso e con i propri simili, il suo modo di porsi verso la natura e verso Dio, verso la storia, l’arte, la scienza, il diritto, la legge, la morale, il commercio, l’industria, l’urbanistica, la scuola, l’università, l’alimentazione, l’abbigliamento, il tempo libero, lo sport, il cinema, la televisione, la musica, il teatro, il passato, il presente, il futuro, la terra, il cielo, la Luna, le stelle: è tutto completamente diverso sulle due opposte rive dell’Atlantico settentrionale. Non c’è nessuna parentela, assolutamente nessuna.

Ora, è ben vero che la cosiddetta civiltà americana sta assimilando a se stessa l’Europa (e, nel suo appetito formidabile, anche il resto del mondo): ma non è ancora detto che il boccone non le resti in gola e non la soffochi. L’Europa non è una preda inerme: essa ha la Grecia e Roma; il cristianesimo e la teologia; Francesco e Dante; Michelangelo e Dürer; Monteverdi e Bach; Cervantes e Shakespeare; ha millenni di storia, di civiltà, di pensiero, di arte, di scienza, di sentimento religioso, di misticismo, di spiritualità; l’Europa è un piccolo continente – anzi, una modesta appendice dell’Asia – che ha dato all’umanità alcune cose pessime, molte cose utili e sensate, e una quantità incredibile di cose ammirevoli, stupefacenti, bellissime. Gli Stati Uniti, a parte la schiavitù dei neri e il genocidio degli indiani, e a parte la distruzione di una delle regioni naturali più belle del mondo, per fare spazio ad una cerealicoltura estensiva che ha messo in ginocchio il resto della produzione agricola mondiale, e ad una industria della bistecca che, dopo avere sterminato decine di milioni di bisonti, sacrifica ogni anno decine di milioni di bovini e di suini, a parte tutto questo, non hanno prodotto quasi nulla che non sia meramente quantitativo, che non abbia un prezzo e non dia un profitto materiale: dai viaggi nello spazio alla manipolazione genetica.

Ma torniamo a Henry Miller e al suo fin troppo celebre «Tropico del Cancro», che ebbe, come «I fiori del male» di Baudelaire e come «Madame Bovary» di Flaubert, l’onore — e la pubblicità — di una causa penale, intentata da un giudice tropo stupido o troppo zelante, o entrambe le cose insieme: cosa tanto più assurda, in quanto si verificò circa trent’anni dopo l’uscita del romanzo, e quindi in un momento storico che faceva apparire quel romanzo come un libro per scolarette e collegiali, o quasi, vista l’ondata di libertà — e di promiscuità – sessuale che stava attraversando allora, e squassando, gli Stati Uniti d’America.

Ha scritto il critico letterario Guido Davico Bonino nel suo saggio introduttivo a «Tropico del Cancro», nella traduzione italiana di Luciano Bianciardi (Milano, Feltrinelli, 1984, pp. IX-XII):

«Da dove nasce questo "scandalo"? Per capirlo, bisogna spostarsi dalla Parigi degli anni Trenta agli Stati Uniti degli anni Sessanta, anzi a San Francisco sul finire del 1961. Miller, che ha ormai settant’anni, e ha scritto nel frattempo qualcosa come venti libri, se ne abita a Big Sur, in California ("la mia prima vera casa in America"). Un editore di punta americano, Barney Rosset di Grove Press, ha appena pubblicato a New York "Tropico del Cancro" in una doppia edizione, rilegata e tascabile (sin’allora di questo romanzo esisteva, infatti, soltanto l’edizione originale, ad opera di un altro editore preveggente, Jack Kahane di Obelisk Press di Parigi). L’edizione di Grove non fa in tempo ad arrivare in libreria che un giudice zelante, Patrick Garety, procuratore distrettuale della contea di Marin ("a San Rafael, venti chilometri a nord di San Francisco), passato il Golden Gate) intenta contro il "Tropico del Cancro", "a nome del popolo della California" un processo per oscenità, sostenendo che esso conduce i lettori "ad un tour, speculativo ed osceno, attraverso tutti i bordelli, le bettole, le latrine e i rigagnoli di Parigi, in compagnia di ninfomani, libertini, lesbiche, psicopatici e mascalzoni tout-court". È l’inizio di una colossale campagna di stampa pro o contro il romanzo, ma anche di una disseminazione a raggiera di processi, che l’anno dopo, soltanto negli Stati Uniti, sono una cinquantina, e tutti con la stessa accusa: oscenità. Se Miller non sembra dare la minima importanza a questi strascichi giudiziari ("Proprio quell’anno ho fatto un bellissimo viaggio in Europa e in Italia ho chiesto a Marino Marini di scolpire la mia testa in bronzo"), il suo editore italiano, Feltrinelli, deve pubblicare il "Tropico del Cancro" (e il suo seguito, il "Tropico del Capricorno") in Svizzera per mettersi al riparo da analoghe persecuzioni, visto che il suo collega in lingua ebraica ha patito il sequestro, in tutto Israele, dei due volumi.

Ma proprio la persecuzione del "Tropico", assurda ed ingiusta, vale a farci penetrare il segreto di questo romanzo, un indubbio capolavoro del Novecento americano. "Quando noi americani facciamo il processo a Miller, in realtà lo facciamo anche a noi stessi: anzi, a quelle che dentro di noi sono le creature della paura, del pregiudizio, della vergogna, del desiderio insoddisfatto", ha scritto all’epoca un giornalista di classe, Donovan Bess del "San Francisco Chronicle".

In realtà, Miller concepiva l’universo americano (quello che noi ora siamo soliti chiamare il mondo tecnologico-industriale) come l’universo della Morte (così si intitola un saggio, coevo al "Tropico" su Proust e Joyce): "La vita, su questo tipo di terra, sarà sempre un inferno: e l’antidoto non consiste in un Aldilà chiamato Cielo, ma in una vita nuova scaturita da un’accettazione totale della vita". Egli sentiva, in altre parole, l’urgenza imperiosa di uscire dal lungo "incubo ad aria condizionata" (n altro titolo, un’altra formula a lui cara) dell’alienazione e della massificazione contemporanea attraverso una riappropriazione ed una nuova esaltazione della pienezza dell’esistenza del singolo. Totalmente scettico nei confronti delle filosofie ("L’assurdo vero si maschera dotto nomi altisonanti: scienza, religione, filosofia, storia, civiltà, cultura, eccetera eccetera"), Miller era, invece, sostanzialmente ottimista sulle possibilità libertarie e "rivoluzionarie" (in senso non politico, s’intende) dell’individuo, come lo erano stati, ognuno in un’accezione diversa, i suoi "maestri" indiretti l’anarchica Goldman, gli utopisti Fourier e Proudhon, il supero mista Nietzsche. L’uomo doveva trovare in sé, nella propria indipendenza ribelle, nella propria vitalità gioiosa, la forza per sottrarsi alla stretta mortale della socialità. Questa socialità, la socialità borghese, esaltava i propri miti come valori ben saldi della spiritualità: occorreva opporre a questa pretesa e vana spiritualità la riaffermazione, perentoria e polemica, della propri sessualità, come il codice comportamentale più libero secondo cui l’uomo potesse ancora sublimarsi.

Ecco allora nascere, articolarsi, proliferare, il "Tropico del Cancro" come un grande, fluviale poema della libertà nella sessualità (in questa idea di romanzo-poema e di romanzo-fiume ben più saldamente ancorato alla tradizione letteraria americana, da Melville a Whitman, di quanto non sembri. Eccolo allora dipanarsi, secondo quel particolarissimo "ductus" della scrittura milleriana, per pause inattese e improvvise divagazioni i un allegro e incompiuto disordine, non alieno da ripetizioni e cesure: una scrittura a gomitolo, la cui intenzione ultima, la cui tonalità più segreta è poi quella francamente comica).

Nonostante che l’ostinazione dei giudici avesse contribuito a mantenere a lungo Miller tra gli scrittori di "élite"(ci volle un presidente cattolico, John Fitzgerald Kennedy, per sbloccare clamorosamente la situazione). Miller scrisse infatti "Tropico del Capricorno" nel particolare stile di cui s’è detto perché ambiva proporsi come uno scrittore "popolare" e "comico": "popolare" non nel senso di ingenuo o istintivo (quella prosa in apparente disordine è sempre sotto il controllo della sua penna), ma nel senso di chi si rivolge a larghi tratti della collettività ("al cinquanta per cento della popolazione degli Stati Uniti" — ha scritto anni fa un eccellente critico, Kenneth Rexroth — "ch non vuole essere preso in mezzo in una società organizzata") e sceglie come personaggio ideale del proprio racconto un "eroe" popolare, nel caso specifico uno "spiv", un tipo qualunque, che campa di espedienti, ma possiede appieno il geloso tesoro della propria libertà; "comico" nel senso che la sua visione della realtà è come scossa a tratti da un’agghiacciante risata: "Non sono molti i ti come Miller nella letteratura di tutti i tempi. Gli unici che mi vengono in mente sono Petronio, Casanova e Restif de la Bretonne. Tentarono tutti e tre di essere assolutamente onesti. I loro libri danno un soffocante senso di verità –, è sempre Rexroth che scrive — "di essere nient’altro che la realtà cruda. Tutti e tre furono scrittori intensamente maschili. Sono tutti e tre grandi scrittori comici. Comunicano tutti, e tutti con molta forza, un costante senso della profonda tragicità della vita.»

Ma forse, dopotutto, quel giudice californiano che volle far mettere sotto accusa «Tropico del Cancro» non era poi così stupido; forse aveva compreso, o almeno intuito, che quel romanzo, più che esaltare il sesso senza freni, era un tremendo atto d’accusa contro il modo di vivere americano, contro la società americana e contro i cosiddetti valori americani.

Non siano sicuri che si possa dire la stessa cosa dell’intelligenza — pur tanto magnificata dal nostro Bonino — di Kenneth Rexroth: il quale, dopo aver visto il senso tragico della vita che si nasconde dietro l’apparente pornografia di Miller, non ha poi saputo far di meglio che mettere lo scrittore americano in compagnia del veneziano Casanova e del francese Restif de la Bretonne, entrambi del XVIII secolo, coi quali possiede solo delle somiglianze esteriori, e proprio nel senso, banalissimo, del libertinismo.

Quanto al fatto che uno scrittore con ambizioni popolari si rivolga alla metà dei propri concittadini, a noi pare una contraddizione in termini: uno scrittore autenticamente popolare si rivolge alla totalità dei propri concittadini, non al cinquanta per cento. Che ne faremo, dunque, di quell’altra metà? Li cacceremo tutti nell’inferno dell’oscurantismo e della superstizione, sempre in nome del progresso, magari a colpi di baionetta e di ghigliottina? Un populista timido diviene sempre, per forza di cose, un giacobino.

Infine, i contenuti. Secondo Bonino, Henry Miller rifiuta l’inferno della modernità, «l’incubo ad aria condizionata», ma anche il ritorno alla «falsa spiritualità borghese», in nome di un ritorno nietzschiano alla pienezza esistenziale, ad una accettazione integrale della vita. Eppure non esiste una spiritualità "borghese". È una contraddizione in termini; e l’accettazione integrale della vita era già roba vecchia e sepolta quando il giudice Patrick Garety lanciava la sua crociata contro il «Tropico del Cancro».

Henry Miller, dunque, se è stato un profeta, lo è stato a metà — come è giusto per uno che si rivolge alla metà dei suoi simili. Ha previsto la sregolatezza sessuale, ma non ha saputo indicare nessuna alternativa alla cultura di morte statunitense, ossia alla cultura di morte della modernità. Non basta rifugiarsi a Montmartre per fermare la marcia dei barbari: bisogna avere delle idee. Qualcosa di più che una galleria di posizioni sessuali copiate da un Kamasutra popolaresco.

In fondo, a ben guardare, Henry Miller, più che il Casanova, è stato il Pietro Aretino del Novecento: il lucido testimone di una gravissima crisi morale, culturale, spirituale, crisi sulla quale ha costruito la propria carriera e il proprio successo di scandalo. Ma di idee, di idee sode e corpose, per indicare una alternativa, neanche l’ombra. Anche il suo disprezzo per la filosofia era molto, fin troppo moderno: tutte le epoche di decadenza hanno conosciuto la moda dell’anti-intellettualismo. Ma la verità è che, quando i barbari battono alle porte della città, ci vuole qualcosa di serio e di sostanzioso da opporre al modello di vita che essi rappresentano, altrimenti la città è destinata a cadere.

E uomini come Henry Miller hanno poco o niente da offrire, oltre al grido d’allarme che non si stancano di ripetere: un grido forse sincero, ma perfettamente inutile, visto che sono, essi per primi, i coerenti prodotti della crisi che incombe.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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