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Altro che bardo ottimista del progresso: Jules Verne mise in guardia da una scienza diabolica

L’immagine di Jules Verne comunemente accreditata presso il vasto pubblico dei suoi lettori e ammiratori, e anche presso gran parte della critica letteraria, è quella di un cantore ottimista e bonario, forse appena un po’ ingenuo, ma sostanzialmente fiducioso, del progresso scientifico e tecnologico, perfettamente a suo agio nel clima del trionfante positivismo, quando ferrovie e navi a vapore, telegrafo e persino ipotesi di viaggi spaziali accedevano la fantasia e davano alla borghesia di fine Ottocento una meravigliosa sensazione di sicurezza e quasi di onnipotenza, quasi che il segreto della pace universale e del benessere per tutti fossero ormai a portata di mano.

Il fatto è che a pensarla così sono quanti hanno letto solamente alcuni libri del Nostro, certo i più famosi, ma non necessariamente i più significativi del suo itinerario narrativo e della sua personale riflessione sul significato e sulla direzione della scienza moderna; invece chi abbia letto anche alcuni romanzi meno conosciuti, specialmente quelli scritti negli ultimi anni (ma anche alcuni del primo periodo, a testimonianza di una sostanziale coerenza di fondo), inevitabilmente non può ritrovarsi in questa immagine-cartolina dello scrittore francese.

Sorge il sospetto che un così grosso equivoco non sia frutto soltanto della naturale tendenza dei lettori (e della critica) a inquadrare, etichettare e "normalizzare" un autore entro uno stampo più o meno definitivo, più o meno rassicurante (non tanto nel senso del suo messaggio, quanto nel senso di credere d’averlo compreso una volta per tutte), ma che vi sia dell’altro: una vera e propria operazione mirata, da parte dell’editoria, ma anche della critica, e in generale dell’establishment culturale, volta a fare di Verne, "bon gré, mal gré", una icona irrinunciabile dell’ottimismo scientista, un pilastro fondamentale di quel processo di penetrazione della mentalità scientista nell’opinione pubblica, nella scuola, nell’informazione, nell’università, che è uno dei tratti più caratteristici — e, a nostro parere, dei più inquietanti, anche per il suo carattere subdolo – della fase storica che stiamo vivendo.

Eppure, Verne è stato chiaro. Basta leggersi uno dei romanzi considerati, a torto, "minori", «Les 500 millions de la Bégum», pubblicato nel 1879, e che si può considerare come il suo testamento spirituale, per vedere quanto il candido cantore del progresso tecnico e scientifico si fosse ricreduto e fino a che punto si fosse letteralmente spaventato per la piega che quello sviluppo, nella realtà dei fatti, stava prendendo, minacciando l’integrità umana sia dall’esterno, sia, per così dire, dall’interno, cioè modificando la sfera etica e spirituale dell’uomo; e come la sua principale preoccupazione, ormai, fosse divenuta quella di mettere in guardia, di allertare le sentinelle, di lanciare un grido d’allarme contro le possibili conseguenze di uno sviluppo sempre più incontrollato della grande macchina tecno-scientifica, cui l’Europa e il mondo – molto, troppo fiduciosamente – avevano demandato il compito di redimere l’umanità da ogni suo male e di assicurare un futuro di pace e di sempre maggiore benessere.

Sorge inevitabile la domanda: è lecito fraintendere e manipolare un autore fino a tal segno? Per fare un paragone, sarebbe come sostenere che l’"autentico" Verga non è quello verista, quello del ciclo dei vinti, ma quello dei romanzi precedenti, romantico-sentimentali. Nel caso di Verne la forzatura, se possibile, è ancora più grave e, forse, fraudolenta: perché mentre in Verga vi è stata una evoluzione interna, dal pre-verismo al verismo (e anche al post-verismo, se è per questo: ma anche ciò, sovente, vien passato sotto silenzio, o messo fra parentesi), in Verne vi è stata una disillusione, una retromarcia, un implicito "mea culpa": «non credete a quel che dicevo nei miei primi romanzi, credete a quel che dico adesso, perché il velo mi è caduto dagli occhi». Pertanto, minimizzare e quasi cercar di nascondere il "secondo Jules Verne" rappresenta un vero e proprio tradimento nei suoi confronti: equivale ad imporgli una maschera di comodo, al solo scopo di preservare l’immagine del fiducioso cantore delle "magnifiche sorti e progressive" della tecno-scienza.

Uno dei più convinti sostenitori della falsità del cliché comunemente accreditato di Jules Verne è stato il poeta, scrittore e saggista francese Michel Butor, classe 1926, fautore della necessità di rovesciare in maniera radicale il senso dell’opera e del messaggio del grande pioniere della letteratura fantascientifica. La cosa è parsa eccessiva ad alcuni critici, fra i quali l’italiano Giansiro Ferrata (il quale, nel 1926, era stato uno dei fondatori della rivista «Solaria»), che, recependo, ma solo in parte, l’interpretazione di Butor, preferisce parlare di una "profonda ambivalenza" del pensiero di Verne e del suo atteggiamento verso il progresso tecnico e scientifico.

La cosa, a nostro avviso, somiglia pericolosamente a un gioco di parole: quel che importa, al di là delle espressioni che si vogliono adoperare, è stabilire se sia giusto continuare a leggere solo certe opere di Verne, e interpretarlo solo, o principalmente, alla maniera tradizionale, cioè in chiave di ottimismo positivista; oppure se questa interpretazione debba essere pressoché radicalmente rivista e modificata, nel senso che sopra abbiamo detto. Ora, secondo il nostro parere, è giusta la seconda alternativa: per cui, con buona pace della prudenza, che rischia di essere eccessiva, e dell’esagerato rispetto nei confronti di quanto detto in precedenza sul senso complessivo dell’opera di Verne dalla maggior parte dei critici e degli storici della letteratura, e di quanto è stato recepito dal grosso pubblico dei suoi lettori, ci sembra doveroso proclamare chiaro e forte che Verne non è stato il bardo acritico e fiducioso di una scienza illimitata, o lo è stato — se pure lo è stato — solo in una fase iniziale; per poi rendersi conto di quanto quella scienza stesse diventando pericolosa, perfino diabolica, e si sia fatto interprete di un disagio, anzi, di uno spavento sempre più esplicito e sempre più forte verso di essa.

Ha scritto, dunque, Giansiro Ferrata nella sua «Introduzione a Verne» (in: J. Verne, «Michele Strogoff», Milano, Mondadori, 1971, pp. XIII-XVI):

«Ma non è incauto vedervi oggi [nei romanzi di Verne] singolari pregi moderni?Non è cosa d’altri tempi l’umanesimo tra positivistico e romantico-idealista, cui lo scrittore pare dar tante volte la rappresentanza conclusiva di un suo spirito amico delle scienze, alle nuove risorse della tecnica e alla "ragione ragionante" in ogni campo, ma assai più fiducioso nei buoni sentimenti, nelle vere energie morali, nella lealtà verso gli altri e se stessi? Fino al punto, Verne, da risolvere quasi tutte le proprie ampie costruzioni narrative in vittorie finali dei Personaggi Buoni, con aspetti fortunosi da un lato e che, da altri, lascerebbero credere all’intervento in extremis di qualche Provvidenza.

Nel ciclo di romanzi da cui è meglio rappresentato come artista ("I figli del capitano Grant", "Ventimila leghe sotto i mari" e "l’isola misteriosa") egli dà anche la maggior chiarezza al senso positivo di tutto questo. Bisogna dunque riconoscere, nelle sue opere principali e in molte altre, la "presenza" di un messaggio ottimistico, di una visione infine "bonariamente ottocentesca", pur fra le drammatiche o spesso tragiche  peripezie da lui immaginate? Saremmo tutt’altro che vicini alle esperienze aspre ed amare della storia del ‘900, ai criteri, alle ideologie che sentiamo oggi far parte necessaria della realtà moderna.

Ecco De Amicis, infatti, il buon Edmondo De Amicis  definire a questo modo l’arte di Verne, in un articolo-intervista del 1895 subito notissimo in Italia:

"… Facile ed amabile, colorita d’un raggio mite di poesia, che lascia nell’animo un sentimento sano della vita, un ardor di moto e di lavoro, un amore studioso della vita e l’ammirazione della scienza combattente e intrepida e un concetto alto e consolante dei destini dell’uomo."

In parte, si può essere d’accordo. Ma aggiungo senza intervallo che la questione è molto meno semplice, pochissimo "consolante"alla maniera deamicisiana.

Sentiamo, per esempio, Michel Butor […] Percorrendo, dice Butor, "l’itinerario che va dall’"Isola misteriosa" all’"Eterno Adamo" (un racconto che uscì  nel volume "Hier et demain" – "Ieri e domani", del 1910), "si rimane colpiti dall’incupimento progressivo che lo caratterizza". Vi si scorge fra l’altro che per l’ultimo Verne "la scienza rappresenta un pericolo demoniaco. E nel già accennato "I 500 milioni della ‘Begum’, apparso nel 1879, cinque anni dopo "L’isola misteriosa", Butor può identificare facilmente i sintomi di quanto poi vede aver estremo rilievo. Ben chiaramente li offre "Stahlstadt", costruita dal tedesco professor Schultze per distruggere France-Ville, illuministico e umanitario prodotto del coerede dei milioni della ‘Begum’, dottor Sarrasin, in un’attigua località americana… Città del Cannone ovvero "labirinto attorno a un cannone", Butor chiama l’accennato capolavoro industriale-criminale di herr Schultze: il cannone è quella specie preliminare di Grosse Bertha (dell’arma puntata non solo idealmente nel 1918 su Parigi) che dovrebbe appunto nei "500 milioni della Begum" distruggere France-Ville, in base ai furori teutonici dell’eccellente scienziato e tecnologo Schultze. La faccenda interpretata da Butor come un primo segno del !"terrore" intimo, da un certo punto in là, al pensiero di Verne sulla scienza moderna. Ed è facile darne altri esempi progressivi "in atrocità e pessimismo" (incalza Butor) non strettamente a livello delle nuove risorse tecnico-scientifiche, quanto invece di un futuro in generale: dove la Scienza, la Tecnica, modificando profondamente con il loro sviluppo i vecchi rapporti umani di tipo etico-religioso e affettivo contribuiscano a far esplodere gli istinti più violenti Le "città del delitto", i "superuomini" scatenati in orridi tentativi di egemonia mondiale, altre vicende risolte in terrorismo o massacro impegnano, effettivamente, da ultimo la fantasia del romanziere. Fin quando nell’"Eterno Adamo", è la Terra stessa a farsi strumento naturale di un delitto quasi plenario contro l’umanità, obbligando i pochi scampati da un enorme cataclisma a rifugiarsi su un’isola che il mare circonda da ogni parte", su tutto il globo. C’è come un rovescio dell’"Isola misteriosa", in questo estremo racconto di Verne, nel quale la segregazione su un ultimo territorio libero dalle acque degrada, abbrutisce via via i sopravvissuti, talmente che una civiltà risorga solo dopo migliaia di anni. Nel racconto lo scrittore ha messo un buon numero di richiami al testo del suo vecchio capolavoro, facendone la disperata eco di un mondo perduto, fin o alle argomentazioni conclusive del personaggio narrante su "un eterno ricominciare delle cose". Non solo Edgar Poe — una tra le favorite letture di Verne – ma indubbiamente anche Nietzsche prendeva parte alle sue tragiche ispirazioni finali. (Che ne avrebbe detto De Amicis, se informato da qualcuno?)

Stando a Butor, sarebbe questa spietata tragicità il messaggio in cui davvero si concludono i "Viaggi straordinari"…»

Va detto, comunque, che i furori dell’eccellente scienziato e tecnologo herr Schultze non sono soltanto furori nazionalisti, come del resto non li avevano solo i Tedeschi, ma anche gli altri popoli, Francesi compresi, anzi, Francesi in prima fila; e il punto non è, o non è solo, stabilire se i cannoni della città dell’acciaio costruita nel romanzo di Verne, avvolta in una nube di vapori sulfurei, siano o no i legittimi precursori della Grande Bertha che, nel 1918, fece piovere i suoi proiettili sulla capitale francese (disturbando, fra gli altri, i circoli di pederasti così ben descritti da uno che li conosceva bene: il Proust della «Recherche»). Verne non era anti-tedesco, o non lo era più della maggioranza dei suoi connazionali, semmai di meno, tanto è vero che ha fatto di due tedeschi, il dottori Lindebrock e suo nipote, i simpatici protagonisti di uno dei suoi libri più avvincenti e giustamente famosi, «Viaggio al centro della terra»; e il problema della scienza distruttiva non era una questione di nazionalismo, perché il nazionalismo esasperato e aggressivo non era, per lui, che una delle forme in cui si esprimevano l’eterna aggressività e distruttività umane, le quali, paradossalmente, proprio nella scienza incontrollata e "mostruosa" – perché non sorretta, né accompagnata da un vero sviluppo etico e spirituale — trovavano un potentissimo accumulatore.

Questo, per Verne, era il pericolo: che una scienza cosiffatta, sottratta al dominio dell’etica (come già, da Machiavelli almeno, lo era divenuta la politica), potesse fungere da cassa di risonanza e da amplificatore alla naturale violenza e all’istintiva distruttività dell’uomo. Questo timore nasceva in lui, evidentemente, da un certo grado di pessimismo antropologico e rivela, in controluce, la dimensione "religiosa" del suo animo (e della sua scrittura): infatti, a differenza degli scientisti di allora e di sempre, sentiva sia il senso del limite umano, sia quello del mistero profondo del reale…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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