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Swinburne e il suicidio di Martin Eden, ovvero la responsabilità morale dello scrivere

Fin dove arriva la responsabilità di ciò che si dice agli altri, dell’influenza che le nostre parole possono avere sul prossimo; e, più in particolare, fin dove può giunmgere la responsabilità di un intellettuale, di uno scrittore, di un poeta, i quali, godendo di un certo prestigio e venendo presi come punti di riferimento dagli uomini comuni, sono in grado di esercitare un forte ascendente sui pensieri, sulle emozioni, perfino sulle scelte di vita del pubblico?

Chi ha letto il romanzo di Jack London «Martin Eden» – pubblicato nel 1980 su una rivista e l’anno successivo in volume — sa che esso si conclude con il suicidio del protagonista, uno scrittore autodidatta che, dopo aver scalato, partendo dal nulla, la vetta del successo, per una serie di delusioni sentimentali ed esistenziali decide di togliersi la vita, durante una crociera, lasciandosi cadere in mare dalla nave su cui sta viaggiando.

Non tutti, però, forse ricordano qual è l’immediato antefatto di quella tragica decisione, che, pur se andava maturando da tempo nell’anima del protagonista, prende consistenza improvvisa e lo spinge a una vera frenesia autodistruttiva, tanto da rinunciare a scri9vere anche solo poche righe di spiegazione e di commiato, non volendo indugiare nemmeno un istante prima di correre incontro alla "liberazione" della morte: si tratta della lettura di una poesia del poeta decadentista inglese Algernon Swinburne.

Questi era famoso per i suoi atteggiamenti esasperatamente anticonformisti e per aver ostentato le sue sregolatezze, che andavano dall’omosessualità all’abuso di droghe: lo scrittore francese Guy de Maupassant, che pure non era un moralista, né uno sprovveduto, allorché andò a visitarlo nel 1868, durante un soggiorno di quegli ad Ètretat, rimase scioccato da quel che vide: ossa umane posate sul tavolo, inquietanti pitture sui muri e una scimmia vestita come un essere umano; e perfino Oscar Wilde, altro "esteta" scandaloso dell’età vittoriana, trovava discutibile la maniera in cui Swinburne faceva di tutto per apparire più stravagante e trasgressivo di quel che realmente era.

Sia come sia, indipendentemente dall’esibizionismo e dalla eccentricità del personaggio — che aveva avuto, del resto, un celebre precursore in George Byron -, dalle poesie di Swinburne trasudava una concezione della vita estremamente negativa e pessimistica: un pessimismo assai distante da quello leopardiano, perché non fondato su alcun ragionamento filosofico, ma viscerale, istintivo e, per così dire, anch’esso estetizzante, quasi una ostentazione del nichilismo esistenziale e del "cupio dissolvi" che sono il rovescio della medaglia di una società, come quella vittoriana, apparentemente pervasa da un dinamismo e un ottimismo borghesi di matrice positivistica e culminanti nella celebrazione della "missione" imperiale britannica ai quattro angoli dell’orbe terracqueo.

Rileggiamo, dunque, la pagina in cui Martin Eden, leggendo Swinburne, decide di farla finita (da: Jack London, «Martin Eden», traduzione dall’americano di Amy Coopmans de Yoldi, Milano, Longanesi & C., 1972, cap. XLVI, pp. 365-6):

«Si tratteneva fin tardi sul ponte, la sera; ma quando si ritirava nella sua cabina non poteva dormire. Una volta, a letto, si mise a leggere con la speranza di stancare la vista e di prender sonno così. Uno dei volumi che sfogliava, leggiucchiando qua e là, era di Swinburne, e a un tratto, scorrendone i versi, si accorse stupito che si interessava a ciò che leggeva. Lesse e rilesse una strofa, tentò di proseguire, ripeté mentalmente i versi….Depose il libro, si mise a riflettere. Ecco. Aveva finalmente la soluzione, ed era strano che non l’avesse trovata prima. Swinburne ora gli indicava il mezzo, la soluzione del problema., la via. Voleva riposare, e il riposo era a portata di mano. Guardò il finestrino spalancato. Sì, era largo abbastanza. Per la prima volta, dopo settimane e settimane di depressione, provò un senso meraviglioso di euforia. La cura per la sua malattia esisteva, ed egli l’aveva scoperta. Riprese il volume, lesse i versi a voce alta.

"Nulla respira in terra eternamente, / ogni sogno tramonta, ogni dolore; / le fantasie segrete della mente, / le lacrime che mute piange il cuore. / Due volte non ritorna chi ha sofferto / in questo triste mondo lacrimoso… / Fra tante cose incerte questa è certa: / per chi ha vissuto giungerà il riposo!"

Guardò di nuovo l’oblò aperto. Swinburne gli aveva fornito la chiave, la soluzione. La vita era una eterna catena di delusioni, una prova troppo dura da sopportare; era un incubo, talvolta, era una sorgente continua di amarezze. Ma il riposo e l’oblio giungevano per tutto ciò che aveva vissuto sotto il sole: era l’unico vero dono che la vita serbava, il fatto che la morte fosse sempre pronta, a portata di mano per chi voleva gettarsi nelle sue braccia. Quando la sofferenza diventava uno spasimo troppo acuto, si poteva liberasene. Ma perché perdeva tempo? Che cosa aspettava? Era l’ora di andare.

Si levò dal letto, infilò la testa attraverso il finestrino, guardando il ribollire dell’acqua che frusciava contro il fianco della nave. Poteva calarsi senza che nessuno si accorgesse di nulla, perché la nave, assai carica, "pescava" profondamente e se si fosse sospeso con le mani ai bordi dell’oblò i suoi piedi avrebbero toccato il pelo dell’acqua. Una sventagliata di spruzzi salì fino a lui, bagnandogli il viso. Sentì il sapore del sale sulle labbra e lo gustò con delizia. Si chiese se avesse dovuto lasciare scritta una parola, ma respinse quell’idea. Non voleva perder tempo, era impaziente di tuffarsi…»

Si potrebbe obiettare che Martin Eden, che decide di suicidarsi dopo aver avuto dalla lettura di Swinburne il "suggerimento" di suicidarsi, non è un personaggio reale, ma una creazione letteraria: eppure alcuni pensano che il suo autore, Jack London, sia morto suicida. Anche se la cosa non è provata, si sa che egli faceva uso di morfina per alleviare i dolori della sua malattia e può averne assunto una dose rivelatasi fatale. Ad ogni modo, tornando al romanzo, non è senza significato che il suicidio di Martin sia preceduto, e, in qualche misura, preparato, dal suicidio di un altro importante personaggio: Russ Brissenden, l’unica figura interamente positiva del romanzo (mentre non lo è di certo la fidanzata Ruth Morse, viziata ed egoista, né la famiglia di lei, né, in genere, alcun membro delle classi superiori): il migliore amico di Martin e il suo Mecenate, quello che lo aveva sempre sostenuto e che aveva creduto in lui quando era solo un perfetto sconosciuto. Quindi, il suo suicidio diventa un gesto emblematico: è il maestro che cede di fronte alle difficoltà della vita, pertanto la forza negativa del suo esempio travolge le certezze e le speranze dell’allievo. Esistono maestri positivi e maestri negativi. Quando il regista Mario Monicelli, alcuni anni, si è suicidato in maniera clamorosa, gettandosi dalla finestra del quinto piano dell’ospedale in cui era ricoverato, non pochi, ricordando le sue convinzioni atee e comuniste, l’hanno celebrata come l’ultima "lezione" di un vero maestro di vita. Ebbene, nulla di più sbagliato: se il suicidio di qualunque essere umano merita silenzio e rispetto, non fosse altro per il dramma morale che sicuramente lo ha preceduto e determinato, è totalmente fuor di luogo presentarlo come un esempio positivo: e Leopardi, che pure di pessimismo se ne intendeva parecchio, nel «Dialogo di Plotino e Porfirio» si guarda bene dal fare l’elogio della morte volontaria, anzi, la critica apertamente, fra l’altro proprio per l’effetto disastroso che un tale gesto ha nei confronti degli altri.

Si potrebbe anche obiettare che Martin Eden interpreta la poesia di Swinburne in un senso particolare, come una sorta di invito a togliersi la vita quando i mali che la affliggono divengano insopportabili, mentre, in Swinburne, si tratta solo di una costatazione relativa alla ineluttabilità della morte; eppure, una riflessione anche superficiale rivela che la conclusione estrema, ricavata da Martin, non è che il naturale e logico sviluppo delle premesse: che la vita sia solo e unicamente un cumulo di mali, e che l’unica maniera di interrompere la catena del soffrire sia cessar di vivere. Che poi questa cessazione possa essere il frutto di un atto volontario, certo Swinburne non lo dice: però negare che un tale suggerimento vi sia, anche se implicito, sarebbe come nascondere la mano che ha scagliato il sasso. Piaccia o non piaccia, bisogna avere il coraggio di assumersi la responsabilità di quel che si dice, comprese le conseguenze di determinate affermazioni.

Certo, non è solo Swinburne ad aver insegnato che la vita è male e che la morte è il solo luogo in cui essa è costretta a desistere dal perseguitarci; concetti analoghi ricorrono in gran parte della letteratura moderna. Nelle riflessioni finali di Alfonso Nitti, il protagonista de «Una vita» di Italo Svevo, prima di suicidarsi, vi è appunto l’idea che, per trovare la pace, egli deve distruggere lo strumento del proprio corpo, quell’organismo così inadatto a vivere e che lo ha così male assistito nelle faticose vicende della vita. Si potrebbe anche elencare la lunga lista di scrittori e poeti moderni che hanno scelto di uscire dalla vita con un atto volontario, e sarebbe un elenco assai lungo: da Kleist a Nerval, da Esenin a Hemingway, a Ganivet, a Pavese, a Michelstaedter, a Virginia Woolf, a Majakovskij, a Walter Benjamin, a Stefan Zweig, per non citare innumerevoli altri; e perfino più numerosi, se possibile, i personaggi letterari che hanno scelto la "soluzione" del suicidio, a cominciare da quel Jacopo Ortis il cui apparire, nelle pagine del romanzo di Ugo Foscolo, provocò fra i giovani lettori una vera strage per imitazione.

Tutto questo, però, se testimonia, da un lato, che il "male di vivere" si è enormemente diffuso nella evoluzione della cultura moderna, evidentemente come riflesso di un disagio esistenziale legato alle condizioni morali di esistenza dell’uomo contemporaneo, dall’altro non attenua sostanzialmente, crediamo, la responsabilità del singolo scrittore, saggista o filosofo, i quali, a dir poco, hanno attivamente contribuito a diffondere il clima di cupo pessimismo e di radicale sfiducia nella bontà della vita, mostrando al pubblico, dall’alto del loro sapere e della loro prestigiosa posizione sociale o intellettuale, che nessuno deve attendersi nulla di buono e che la vita è una beffa assurda, una incomprensibile ironia, nata peraltro dal caso e destinata a finire dopo essere stata gravata da inutili e incessanti delusioni e sofferenze.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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