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Le feste paesane del santo patrono, momenti di aggregazione sociale e spirituale

Così rievoca la festa di San Rocco, nel paesino bellunese di Vas, Dario Terribile (nel mensile: «La voce del Piave», Valdobbiadene, marzo 1995):

«C’erano le mele di San Piero, l’uva della madonna, le susine di Sant’Anna. Il tempo era scandito da quaresime, novene, avventi, settimane sante, tridui, vigilie, primi venerdì del mese e primi sabati. Si viveva all’ombra del campanile, trascorrendo lunghe giornate scandite da scampanii e rintocchi… […]

Già nel primo pomeriggio [della festa di San Rocco, il 16 agosto] i devoti cominciarono ad affluire alla chiesetta. Giungevano a gruppi: intere famiglie; sfaccendati; sciami di ragazzi che allungavano il percorso girando tra i prati che fiancheggiavano la strada, cercando nidi di uccelli, serpi e more; bambine con le ginocchia sbucciate e con il nastro sui capelli; ragazze da marito che parlottavano tra loro lanciando occhiate ai giovanotti che le importunavano; vecchie con il velo in testa che mescolavano la recita del santo Rosario con i consueti pettegolezzi; vecchi con il passo lento, che ogni tanto si fermavano a riprender fiato e puntavano il dito verso il Grappa per indicare dove avevano combattuto nella Grande Guerra.

Poi c’era la lunga sosta attorno alla chiesetta. La gente prendeva posto lungo i muretti o sedendosi sull’erba; altri, a turno, entravano per pregare sotto la statua di San Rocco che se ne stava un po’ chino e, sorreggendosi col suo vincastro, sollevava la misera veste per mostrare le ginocchia piagate al cane che stava accucciato ai suoi piedi.

Calate e prime ombre della sera, dopo la recita del Rosario, la gente si raggruppava ed aveva inizio la processione. In testa c’era la Croce, poi le donne col velo nero, poi le giovani col velo bianco, poi i cappàti con i cerri e le lampade. Il parroco e i chierichetti scortavano da vicino la statua del Santo con il suo cane, che veniva portato a spalle da quattro baldi giovanotti e avanzava dondolando, accompagnata da preghiere e canti stonati che giungevano fievoli fino alla coda della colonna, ove il fervore religioso veniva meno e alcuni camminavano addirittura con le mani in tasca parlando del tempo e del raccolto…

Passarono pochi anni. La storica chiesetta, con gesto vandalico, venne abbattuta per far posto allo svincolo per il nuovo ponte. Le statue di san Rocco e della Madonna del Rosario vennero sistemate in una nicchia di dubbia qualità artistica, , ove qualche mano pia continuò per qualche anno a deporre un fiore che poi, non annaffiato, sviliva, mentre le statue , esposte al sole, si deterioravano sempre più scrostandosi e mostrando profonde crepe. Infine, anche la nicchia, dopo essere stata più volte profanata, scomparve per sempre.

Erano gli ultimi anni di un tempo che ricordiamo con profonda nostalgia: un mondo piccolo, semplice, genuino, quando la pioggia arrivava dalla Valle di Schievenìn e non … dal Golfo di Guascogna!

Finiva un mondo sano", senza "divi", senza presentatori da applaudire appena aprono bocca. Non eravamo spettatori passivi di un mondo sciocco e vanesio, ma ognuno, nel suo piccolo e seppur povero, era protagonista della propria esistenza. La gente amava stare insieme: gioie e dolori erano condivisi con gli altri e il fardello della vita era più leggero.»

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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