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Il malgoverno spagnolo nel Regno di Napoli è stato davvero tale?

Scriveva Benedetto Croce, a questo proposito, nella sua «Storia del Regno di Napoli» (Laterza, Bari, 1944, p.145-47):

«Tra la riottosità o immaturità delle varie classi sociali a indirizzare le sorti del paese, quale fu l’opera del potere che effettivamente governava e dirigeva, della monarchia spagnola e dei suoi viceré? "Pessima, rovinosa, depauperatrice, corruttrice", si risponde a coro da una turba di storici e di pubblicisti; e nondimeno anche in questa parte bisogna stare in guardia contro l’acquiescenza a giudizi convenzionali e perciò comodi, e contro quella sorta di mitigamento storico che pone sempre una testa di turco su cui battere, designandola autrice d tutti i mali. Strano è anzitutto che si sia preso, e si prenda ancora, grande scandalo del fatto che l’Italia meridionale desse uomini e denaro pei fini della politica spagnola, come se questa politica non fosse poi la sua politica, come se essa non ne godesse i vantaggi, quali che fossero (e quello dell’essere stata preservata da invasioni, e anzi addirittura da guerre combattute sulle sue terre era certamente non piccolo), e potesse non sostenerle le gravezze o rigettarle intere sulle spalle del popolo spagnolo, non donna di province, ma "femme entretenue" di quella monarchia: che non sarebbe poi stata condizione dignitosa. "È mestiere – scriveva il viceré conte di Monterey -, nella relazione al suo successore — che la città e il regno di Napoli sopportino le spese della guerra, e ne sentano le molestie; le quali sono lievissime paragonate a quelle che tutte le altre province patiscono; e questo si è fatto loro intendere in molte occasioni, e che per assicurar loro la libertà, lì’onore, le vite e le facoltà è necessario che aiutino e soccorrano, facendo sforzi comuni." E ciò, in questione di principio, era irreprensibile. In questione di fatto, che i pesi fossero più o meno gravi, e talora eccessivi e quasi insopportabili, dipese dal corso degli avvenimenti; e l’Italia meridionale pagò poco al tempo di Ferdinando il Cattolico, alquanto più con Carlo V e dopo le riforme di Pietro di Toledo, e toccò il punto massimo così nell’invio di soldatesche (cinquemilacinquecento cavalli e quarantottomila pedoni), come nei tributi di denaro, al tempo della guerra dei Tent’anni, col viceré conte di Monterey, al quale non sena ragione appartiene il ferovrino sopra riferito. Allora, per quelle esasperate richieste della decadente potenza militare spagnola, parve che Napoli, ricca per l’innanzi, fosse dall’opera del governo, ridotta alla fame. Si susseguirono per due o tre decenni inasprimenti di gabelle, sul sale, sulla farina, sul vino, gravezze d’alloggiamenti militari, alterazione della moneta, estorsione di donativi volontari; finché al tempo del viceré duca d’Arcos, la nuova gabella della frutta accese la scintilla della rivolta. Nella seconda metà del Seicento, e dopo i tumulti e la pace, il Regno di Napoli dette di nuovo dette assai poco e di uomini e di danaro. È anche difficile dire se questi contribuiti riuscissero in generale proporzionati alle condizioni del paese e alla sua potenzialità rispetto agli altri dominî della monarchia; ma è pure chiaro che questa proporzione di equità doveva esser garantita dal senno e dall’eventuale resistenza delle popolazioni stesse del Regno e dagli ordini che le rappresentavano, ai quali sarebbe d riconoscere, nella perpetua lotta col fisco, il merito o il demerito della tutela bene o male esercitata, della moderazione fatta o no osservare. L’elenco dei donativi, che dal 1504 al 1664 ascesero (e il calcolo è forse esagerato) a ottanta milioni di ducati, e ad altri cinque milioni e mezzo dal1664 al 1733, per sé stesso dice assai poco. Che poi il Regno di Napoli fosse la rendita più pingue della Spagna, era generalmente ritenuto nel paese stesso e in tutta Europa, e si ripeteva l’affermazione che "la Spagna aveva cavato le maggiori spese da essa fatte nelle sue guerre dalla fedelissima città di Napoli, e anche più numero di gente da questa sola città che da tutti gli altri paesi della monarchia", e il duca di Guisa non altro si proponeva nella sua avventura [ossia il tentativo di staccare Napoli dalla Spagna e farne un regno autonomo, nel 1647] che di "dépouiller la monarchie d’Espagne d’un si beau royaume, dont elle tiroit ses principales forces". Ma è probabile che questa credenza nascesse dalla leggenda dell’Italia meridionale, terra ferace e sovrabbondante, atta a nutrire molti popoli. E il sospetto si converte in quasi certezza, quando si legge in un contemporaneo, che fu uno dei primi e più acuti economisti, Antonio Serra, l’opposta affermazione che in Napoli (almeno fino al 1613, che è l’anno in cui il Serra scriveva) "le entrate che vi ha la Maestà Cattolica si spendon tutte e moreno nel medesimo Regno, che non se ne incascia parte alcuna, e più volte vi manda milioni di contanti, se bene poche se ne potria inca sciare, per esser quasi tutte vendute e convertite in soldo d’avantagiati e milizia, per il Regno"; e ciò il medesimo scrittore ridice più oltre, confermando che il re di Spagna "non estrae l’entrate fuora Regno, anzi ve ne rimette più volte argento". In ogni caso, è codesta un’indagine che non è stata finora criticamente condotta, preferendosi in tale materia le declamazioni e le invettive; e non è escluso che se fosse criticamente condotta, potrebbe giungere alla conclusione che il possesso del regno di Napoli fu per la Spagna un accrescimento di potenza politica e di prestigio, e un punto d’appoggio militare, ma, tutto sommato, una passività economica.»

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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