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Esistono utopie buone o l’utopia è sempre cattiva? L’utopia è buona o cattiva?

L’utopia è buona o cattiva?

A questo proposito sono illuminanti le riflessioni del giornalista Beniamino Placido contenute nel breve saggio «L’avvenire dell’utopia» (in: AA.VV., «Verso il Duemila», Bari, Laterza, 1984, pp. 174-183):

«… In quella stessa Barcellona, in quella stessa Catalogna dove Orwell aveva imparato quanto crudele e spietata e inumana può diventare un’utopia politica, Camillo Berneri apprende la medesima lezione. Non può narrarla solo perché viene ucciso dalla polizia segreta staliniana durante le giornate sanguinose, di guerra civile nella guerra civile, del maggio 1937. Un utopista assassinato da altri utopisti. Per lui lo farà la figlia. E difatti in questo libro, in questo "viaggio attraverso l’utopia" […] Marie Louise Berneri non fa un solo accenno alla vita e alle vicende politiche e alla morte del padre. Nessun riferimento alla guerra di Spagna e agli anarchici, ai comunisti, agli stalinisti. Ma fa una rilettura della tradizione utopica occidentale, da Platone a Wells, per concludere: tutte le utopie (meno poche eccezioni) sono totalitarie. Tutte le utopie sono illiberali. Tute le utopie rassomigliano a "1984". Lo dice — e questa è una coincidenza singolare — senza citare "1984" di Orwell. […] Ma — cosa tanto più singolare se i due non si sono mai incontrati né conosciuti — Orwell e la Berneri espongono la stessa tesi, l’uno in forma di romanzo "distopico", l’altra in forma di saggio di storia delle idee. Dicono che delle utopie, ormai, c’è da aver paura. […]

Primo: le utopie si possono realizzare, si vanno realizzando, si sono in parte già realizzate. Questo è vero soprattutto per le proiezioni — più o meno utopiche — di tipo scientifico. Sulla Luna ci si è arrivati, il sommergibile lo si è inventato. E la televisione anche. E così pure il "robot" e così anche — ahimé — la bomba atomica. Non c’è invenzione prevista da Verne o da Wells o da "utopisti" come loro, che non si sia realizzata, che non possa realizzarsi […]. Secondo: abbiamo visto alcune utopie realizzate, e non ci piacciono affatto. Eppure sono proprio le Utopie classiche disegnate da Platone o da Tommaso Moro. Eppure sono state realizzate proprio a puntino. Come mai (si chiede Orwell, si chiede la Berneri), come mai non funzionano? Ci dev’essere evidentemente qualcosa di sbagliato nello stesso meccanismo di produzione (e proiezione) utopica. E ancora, terzo punto: la Berneri ha un tocco di felice intelligenza quando dice che l’Utopia è la tomba dell’Utopia. In uno stato utopico, infatti, tutto va bene, tutto funziona perfettamente. Non c’è più nulla da desiderare, nulla da sognare, nulla da proiettare nel futuro. L’Utopia è la sterilizzazione del futuro: non è questo forse il suo maggior difetto? In un certo senso, la Berneri smaschera — per quel che concerne l’Utopia — un paradosso analogo a quello che è stato individuato e smascherato per la Rivoluzione. Che è (scriveva la Arendt) la peggiore nemica di se stessa., della sua stabilità, dei risultati — rivoluzionari — raggiunti. Se una generazione ha fatto una rivoluzione, e se ne vanta deve aspettarsi che la generazione successiva voglia fare una Rivoluzione a sua volta (se la Rivoluzione è una cosa così bella…). Se tu hai fatto la Resistenza (e te ne vanti) devi tollerare che tuo figlio voglia fare il ’68, il ’77, e magari anche qualcosa di più… L’Utopia come negazione di ogni altra possibile Utopia: l’Utopia come intrinsecamente statica, autoritaria, reazionaria: è la conclusione cui giunge Marie Louise Berneri. È sola in questa conclusione? No, non è sola. Le stesse cose hanno scritto l’"inglese" Karl Popper nel 1947 ("Utopia and Violence"), il francese R. Ruyer nel 1950 ("L’utopie et les utopies"), il tedesco Dahrendorf nel 1967 ("Pfade aus Utopia"). […] Come diavolo è possibile che la gente parli allegramente della "Repubblica" di Platonee come se si trattasse di un modello di stato illuminato, laddove tutta l’utopia politica platonica (distribuita fra il "Timeo", il "Crizia", la "Repubblica" e "Le leggi") è un’utopia coerentemente reazionaria? […] Com’è possibile? C’è evidentemente una spiegazione: gli ammiratori della "Repubblica" di Platone si sono ben guardati dal leggerla. Ma è — evidentemente — una spiegazione tropo semplice. Ce ne deve essere un’altra. Forse questa: tutti abbiamo voglia di credere che le "utopie" (quelle che conosciamo per averle lette, quelle che riteniamo di conoscere per averne sentito parlare) siano costruzioni solari, aperte, flessibili. Sono invece costrizioni chiuse, ostili, ferrigne. La mentalità "utopica" è una mentalità severa, costrittiva, autoritaria. […] Le utopie che conosciamo sono manifestazioni di "wishful thinking"; e va bene: come sarebbe bello se le cose stessero così. Il guaio è che questo piano "precettivo" cede il passo a un piano "descrittivo". Non si dice: vorrei (vorremmo) che le cose stessero così. Si dice, nelle utopie: le cose stanno già così. Questo slittamento di piani, questa forzatura del discorso si avverte all’interno delle utopie stesse, che sono costrette a escogitare dei "macchiavelli" perché i meccanismi predisposti funzionino. È per questo (anche per questo) che i luoghi dell’utopia sono segregati, isolati (spesso sono proprio delle isole), difficilmente accessibili. Tipico — e paradossale insieme — il caso del’Utopia di Tommaso Moro. Che non è originariamente un’isola. Lo divenne dopo che il leggendario suo fondatore, Utopo, fece tagliare la lingua di terra che la congiungeva al continente. […]

Di tutto questo una spiegazione si può forse azzardare. Le utopie classiche sono state pensate quando l’umanità non aveva ancora risolto il problema dei problemi: quello della fame. O, per porla in altro modo, della sussistenza fisiologica. Forse tendiamo a dimenticare che cosa è stata una civiltà, una cultura, uja storia dominata dalla questione del cibo. Evidentemente quella umanità (che è poi la nostra: di ieri) deve aver pensato, deve aver sperato che una volta assicurato a ognuno il sostentamento minimo indispensabile tutto (o quasi tutto) sarebbe stato risolto. Deve aver sognato l’utopia come quel luogo dove si assicura (e si impone anche, peraltro) a tutti u rande pranzo in comune (proprio come nella Sparta di Licurgo), sicché tutti abbiano da mangiare. E nessuno al tempo stesso mangi troppo. Una volta assicurata agli uomini l’uguaglianza delle cose essenziali — nelle cose essenziali -, essi non avranno più bisogno di invidiarsi o di competere esibendo ricchezze. Così si trova scritto in "Cristianopoli" di Valentin Andreae (e in innumerevoli altri luoghi utopici). Naturalmente, un’idea del genere la si può avere solo prima che Veblen abbia scritto la sua "Teoria della classe agiata" e scoperto lo "spreco opulento". Naturalmente, un0idea del genere non la si può più accarezzare dopo che Veblen ha mostrato (nel 1899) che una classe agiata — o comunque soddisfatta, o comunque pervenuta al soddisfacimento dei bisogni primari — non per questo se ne sta buona tranquilla., libera da stimoli esibizionistici e competitivi. Al contrario: investe tutto il sovrappiù di ricchezza, di benessere di cui dispone per competere "esibizionisticamente" con gli altri. […] Le utopie classiche sono rudimentali, spartane, perché hanno un concetto rudimentale, spartaneggiante dell’umana natura. Che è molto più irrequieta, molto più imprevedibile, molto più difficile da soddisfare e al tempo stesso molto più tenacemente "sempre la stessa" (la stessa nei suoi impulsi competitivi e distruttivi) di quanto quelle utopie non pensassero.»

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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