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La disperazione di Esenin nasce dal veder distrutta dalle macchine la cara Russia di legno

Così Giacomo Spadafora nel suo breve ma incisivo saggio introduttivo alla poesia di Esenin (in: G. Spadafora, «Cento scrittori del mondo moderno e contemporaneo», Palermo, Palumbo Editore, 1962, pp. 551-54):

«Tragica e contraddittoria è la figura di Esenin come uomo e come poeta. Per certi aspetti egli appare un entusiasta, per altri una vittima del bolscevismo. Dagli eventi rivoluzionari di quel regime che travagliarono la Russia attorno al 1920, fu nutrita infatti e intossicata buona parte della sua esistenza e della sua poesia. […]

Nell’avvento di essa [della rivoluzione di Febbraio 1917] egli vide soprattutto la redenzione della sua gente, un sogno così a lungo sospirato da fare adesso intontire di felicità, che questa terra così sofferta eppure adorata diventasse il "paradiso dei suoi contadini", senza padroni, senza più angherie, campo della propria fatica e della propria gioia.

Egli non aveva una precisa ideologia né il senso politico delle cose, non fece mai un esame lucido e razionale dei tempi e delle strutture che gli franavano intorno, aderì d’impulso ai primi moti rivoluzionari, anzi fu tra le file più avanzate degli "intellettuali" e per le tendenze della più accesa sinistra.

Ma, raggiunto il potere, Lenin volle mettere in atto un comunismo integrale a carattere prevalentemente operaio. Soppresse perciò la proprietà privata, distribuì le terre solo in uso collettivo, avvantaggiò politicamente gli uomini delle fabbriche in confronto a quelli dei campi, concedendo, ad esempio, ai primi un voto quintuplo dei secondi.

Crollava così il mondo degli ideali eseniani, la festosa rinascita dei vecchi villaggi patriarcali, la idilliaca fatica agreste goduta nella piena libertà dell’individuo, la sconfinata Russia delle isbe, che metteva nel cuore la melodia di un religioso sgomento. A che egli aveva profetato, nel poemetto "Inonia", il suo mistico "paradiso" campestre, da cui "voleva scacciare Dio" perché vi vivesse intatta "la divinità" degli uomini finalmente vivi? Perché s’era dunque scagliato contro l’America, il paese delle macchine e dei grattacieli, additando nel lavoro dei campi il vero, più profondo senso della vita?

La ricostruzione sovietica ambiva proprio a quella civiltà meccanica e industriale che intanto schiantava e rivolgeva senza pietà, ed avanzava rapidamente. Il poeta ne ha il presagio.

"O care foreste di betulle!… Russia, Russia di legno!… Tu terra! E voi, sabbie delle pianure… (dove) non si vede principio né fine, ma un’azzurrità che sugge gli occhi… O Russia, campagna coloro di lampone… io sono il tuo ultimo araldo e cantore." Verrà la macchina a rompere la pace dei tuoi campi, "l’ospite di ferro" che col "pugno nero" coglierà, senza sudore e in vece dell’uomo, i morbidi frutti della tua terra. A me non resta ormai che dirti il mio addio. "Amo sino alla gioia e al dolore – la tua tristezza di lago… A non amarti, a non crederti – io non posso imparare…Ma ora è deciso. Irrevocabilmente – ho abbandonato i campi nativi… Nelle strade tortuose di Mosca – Dio mi avrà condannato a morire".

Ecco narrata dalle sue calde parole e dalle sue liriche immagini la dolorosa vicenda del contadino sconfitto, che smette gli "stivali di marocchino e l’azzurra camicia russa" per apparire, tra le vie di città, "in cilindro e con le scarpe lucide". Bisogna correre coi tempi e che tutto sia fatto per bene e sino in fondo. […]

Esenin, che frattanto non aveva perduto il suo tempo e s’era fatto il più assiduo frequentatore di tutte le bettole di Mosca, creandosi attorno una losca fama di poeta-teppista e dando luogo ad una specie di moda cinica e scandalistica che da lui si disse appunto "eseninismo".

Egli ora se la prendeva contro tutto e tutti.

"Mosca bettoliera" è la raccolta di versi che testimonia di questa sua orgia amara e senza rimedio. "quando di notte splende la luna – a testa china per un vicolo vado – verso una bettola nota… tutta la notte finché spunta l’alba".

E in tale stato poteva benissimo fa dire, nel suo poema drammatico "Il paese delle canaglie", al bandito Momach: "Io sono cittadino del mondo, e vivo come mi pare e piace… Pensiero inutile è lo Stato, e tutta una combutta – una congrega di animali di colori diversi – l’uguaglianza è una trappola per gi imbecilli – come del resto in politica le idee…".

Una smania lesionistica e profanatrice lo spingeva verso ulteriori e fatali peripezie. […]

Roso dal senso della solitudine e dalla nostalgia del paesggio nativo, cercò il poeta di riprendersi recandosi nel Caucaso, nell’incanto pittoresco e musicale di quei luoghi. Volle rifarsi una vita e per la terza volta si sposò: era una giovinetta, Sofia Andreina Tolstoj, una nipote del grande Tolstoj.

A Bakù scrisse i "Motivi persiani", delicati e preziosi, ma esalati da un’anima esausta e perduta. È un’anima che non sa più guardare avanti a sé, che si sente incapace di vivere, come chi, durante la marcia, abbia perduto il passo e sia uscito di fila, e rimanga sul ciglio della strada, dimenticato e disperso.

"… Io sono qui per tutti un pellegrino tetro – Dio sa di quale remota contrada – … nel mio paese sono un forestiero… altri giovani cantano altre canzoni… ormai non il villaggio, ma la terra tutta è la loro madre". Aveva gridato un giorno: "Non mi occorre il paradiso – datemi la mia patria". Ora si chiede smarrito: "Cos’è la patria? Forse vuoti sogni?"E la perdita d’ogni fede significa il ritorno all’alcool e l’inizio delle allucinazioni. L’ambiente gli si affolla di immagini non più care ed amiche. Aveva cantato la luna, come una dolce sorella. "Rischiara, o mezzanotte, la brocca della luna – per attingere latte di betulle!" E altrove: "La luna come una rana dorata s’è distesa sulle acque tranquille".

Ora, nel poemetto "Anna Snegina": "La luna ride come un pagliaccio…". E nell’ultimo canto: "L’uomo nero" l’angoscia lo stringe senza più mollare la presa: "Un uomo nero – nero, nero – un uomo nero — non mi dà tregua tutta la notte". […]

Ad Esenin, entrare nella nuova realtà collettivizzata, e in serie, avrebbe forse fatto l’effetto di sentirsi come calare entro una tomba".»

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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