Giovani sotto attacco
8 Luglio 2012
Paolo Silenziario, Branduardi, Vecchioni: ogni epoca ha le sue (in)coerenze
11 Luglio 2012
Giovani sotto attacco
8 Luglio 2012
Paolo Silenziario, Branduardi, Vecchioni: ogni epoca ha le sue (in)coerenze
11 Luglio 2012
Mostra tutto

Fantasmi di amore e morte dominano il sogno di bellezza di Renée Vivien

Nella poesia di Renée Vivien, al secolo Pauline Mary Tarn, si intrecciano, si accavallano e si sovraccaricano l’un l’altro parecchi filoni tipici della letteratura di fine Ottocento e dei primi anni del Novecento: il languore decadentista, l’esasperazione estetizzante, il misticismo fremente e sovente capovolto, l’allusività simbolista, una vena più o meno scoperta di perversione sessuale alla Sacher-Masoch, una cupa attrazione per il notturno, il morboso, il funereo, l’inestricabile connubio di Eros e Thanatos, Amore e Morte.

Ci siamo già occupati di questa strana poetessa che unisce toni straordinariamente leggeri e delicati a brusche inflessioni macabre e non di rado kitsch (cfr. l’articolo «Cenere e polvere negli amori impossibili di Renée Vivien», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 27/12/07) e che divenne ben presto leggendaria presso un pubblico non solo di élite, tanto da vedersi dedicata una piccola piazza di Parigi, per la sua celebrazione esplicita dell’amore omosessuale, nonché per la sua stessa vita "scandalosa" eppure stranamente elusiva, conclusa nell’arco di un trentennio come una meteora fiammeggiante(1877-1909).

Fra i suoi amori saffici spicca quello per Nathalie Clifford Barney, ammiratissima da entrambi i sessi e tipica incarnazione della "femme fatale", che per bellezza e stravaganza dominò letteralmente certi ambienti "floreali" della capitale francese nella "Belle époque" e le cui serate artistiche per sole donne, nella sua casa di Neuilly, paiono uscite dalle pagine della «Recherche» proustiana: quando la vita supera e ispira la letteratura e non viceversa.

Oltre ad avere ispirato numerosi personaggi femminili al fascino magnetico e ambiguo in tutta una serie di opere dell’area decadentista, la Barney – femminista, pacifista, neopagana, lesbica dichiarata -, che sarebbe poi stata per cinquantenni la compagna infedele della celebre pittrice Romaine Brooks (ancora a ottant’anni la tradiva impenitente con qualche bella donna di passaggio) – è anche la protagonista dell’unico romanzo di Renée Vivien, il cui titolo dantesco si ispira alla Beatrice del XXX canto del «Purgatorio»: «Donna m’apparve».

L’aspetto più singolare, a nostro avviso, della caratterizzazione dell’Eros in quest’opera, scritta dalla poetessa quattro anni prima di morire di congestione polmonare, ma dopo che la rottura fra le due, causata dalle continue infedeltà della Barney, si era consumata, al termine di una girandola di separazioni e riavvicinamenti, va ricercato, a nostro avviso, non tanto nelle prolisse e manierate descrizioni dei continui, repentini sbalzi di affettività, ma nel sottofondo sadico e necrofilo che talvolta emerge in piena luce, per poi subito rituffarsi nelle tenebre, come un fiume carsico, spaventato dalla sua stessa forza distruttiva.

Sono i momenti di fantasticheria nei quali l’amante, straziata dall’impossibilità di avere il controllo totale sull’amata (un po’ come Marcel nei confronti di Albertine nelle pagine de «La prigioniera») e ossessionata non tanto dall’oggetto della sua passione, ma dal delirio di essa che si direbbe divenuto essenzialmente un fatto cerebrale, sogna di strangolare la bella con mano ferma e inesorabile, assistendo impassibile alle sue invocazioni di pietà, per poi ricomporne la salma e perdersi nella sua contemplazione e nel suo amore, con una intensità tale da oltrepassare le barriere dell’umano, in un titanico slancio di assoluto – e sia pure demoniaco.

Così, dunque, Renée Vivien mescola la fantasticheria omicida e il delirio necrofilo alla sua sete bruciante di pace perfetta e di Bellezza assoluta, nel suo romanzo breve «Donna m’apparve» (titolo originale: «Une femme m’apparut», traduzione italiana di Teresa Campi, Roma, Lucarini Editore, 1989, pp. 64-66):

«I minuti passarono, più pesantemente di quelli che precedono una tempesta. La porta finalmente si aprì. Vally sarebbe entrata da lì a pochi istanti fremente in un0aura di profumi. Vestita di chiaro di luna, il collo cinto da una collana di perverse opaline, le maniche leggiadre avrebbero lasciato intravedere le braccia nude che tanto adoravo.

Lei sarebbe entrata, sorridendomi. Quali parole avrei trovato per esprimere l’odio del mio amore? Come l’avrei accolta al suo apparire? […]

… Non le avrei detto niente. Le sarei andata incontro, per contemplare nel fondo dei suo occhi la sua crudele anima bionda. Si sarebbe spaventata del mio silenzio e della mia calma. Poi, freddamente, risolutamente, l’avrei strangolata…

L’avrei strangolata. Laido, brutale, selvaggio, ma almeno sarebbe stato un incubo breve, e, nella gioia di quel delitto mistico, l’avrei stesa sul divano di stoffa verde che somigliava ad un sedile di pietra ricoperto di muschio. Avrei ricomposto sulla sua fronte la pallida aureola dei suoi capelli. Avrei poso sulle sue mani dei gigli espiatori, sul corpo avrei sfogliato le rose che lei preferiva, le rose bianche dai riflessi verdastri. Addormentata con un sonno più pallido del solito, l’avrei amata in quell’ora sovrumana, più di quanto essere umano abbia mai osato amare. Sarebbe stata una follia, con le sue esaltazioni, i suoi terrori, i suoi segni dell’al di là.

E poi avrei vegliato presso di lei fino all’alba guardando i ceri languire, colmi dell’ombra azzurra della notte… Le palpebre di Vally si sarebbero tinte di uno strano lividore. E avrei esclamato ad alta voce, come un uomo che parla in stato di ebbrezza:

"L’Ho uccisa!"

Per sempre destinata d essere la mia virginale Sacerdotessa. Avrebbe dato ai miei sogni la bianchezza dell’Inaccessibile e dell’Inoffuscabile.

L’avrei salvata, salvando me stessa. L’avrei rapita per contemplarla all’infinito. Avrei conservato per l’eternità il suo grido di terrore- il solo grido sincero mai accolto su quelle labbra menzognere — e la sua vana preghiera. Non avrebbe conosciuto il rimorso del fallimento di fronte a se stessa. Non avrebbe conosciuto il futuro di grazia maturata, tracce della caricatura che il tempo imprime sulle statue umane. sarebbe stata la bellezza che la morte rende eterna in un sorriso. Non avrebbe potuto piangere né su se stessa né sugli altri. E forse sarebbe arrivata a provare una sorta di gratitudine comprensiva per l’essere che l’aveva amata in modo tanto nobile da ucciderla.

La porta si dischiuse lentamente… Stava per apparire, il mio sogno di sarebbe realizzato… Mi avvicinai, con le mani contratte in un gesto fatale… Sarebbe successo tutto così in fretta, e dopo… dopo..»

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.