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16 Agosto 2011Ben prima che Giampaolo Pansa cavalcasse con tanto successo, di pubblico e di quattrini, il filone del revisionismo storico, c’è stato qualcuno che aveva scoperchiato i sepolcri imbiancati della storiografia ufficiale, debitamente democratica e antifascista, per rivelare di che lacrime e di che sangue grondassero in realtà le "radiose" giornate dell’aprile 1945.
Ci era stato raccontato, fin dai banchi di scuola, che quei giorni videro una specie di festa nazionale, una gioiosa insurrezione di popolo contro biechi individui in camicia nera, per lo più criminali di guerra, sadici e pervertiti, manutengoli di Hitler e, quindi, servi del tedesco invasore; ci era stato detto e ripetuto che, quel 25 aprile, l’Italia aveva ritrovato la concordia e la dignità nazionale.
Così, mentre i "liberatori" angloamericani venivano accolti con fiori e grida di gioia, i biechi aguzzini in camicia nera pagavano il fio dei loro delitti; ma insomma si trattò di poca cosa, qualche rapido processo, qualche scarica di mitra e poi via, come per il Duce e per l’esposizione del suo cadavere in Piazzale Loreto: l’Italia aveva fretta di voltare pagina, di dimenticare l’oppressione e la vergogna della ventennale dittatura.
E tutti ricominciarono felici e contenti, democratici e libertari; tutti, ma proprio tutti: anche quegli scrittori e quei giornalisti che fino quasi all’ultimo avevano sollecitato e ottenuto spazio nelle istituzioni culturali del regime, ma che poi, folgorati dalla luce della libertà sulla via di Damasco, fecero la cosa giusta ed entrarono a vele spiegate nella nuova vita nazionale, per la maggior parte intruppandosi nel Partito comunista che, come è noto, non sognava di veder giungere i carri armati del compagno Stalin, ma di veder sorgere un Paese libero e pluralista, ove ci fosse libertà per tutti e rispetto per qualsiasi opinione.
Che le cose non siano andate proprio così, ma in maniera ben diversa; che alla fine di aprile si sia scatenata, al termine di una feroce guerra civile durata quasi due anni, un’orgia di violenze indescrivibili, basate sulla giustizia sommaria, sulla sete di vendetta e sull’odio belluino, coinvolgendo anche numerosi innocenti o persone colpevoli soltanto di aver professato onestamente le proprie idee politiche e sociali, non lo si sapeva, non lo si ammetteva, non si voleva che fosse reso noto; lo si voleva semplicemente dimenticare.
Tanto, quei morti erano stati pochi, e poi si erano meritata la loro sorte: avevano militato dalla parte sbagliata ed era stato giusto che pagassero il loro debito con la storia.
Non si voleva riconoscere che, per la maggior parte, i "repubblichini" di Salò non erano i tronfi gerarchi del Ventennio e tutta la pletora dei profittatori di regime, ma dei giovani e dei meno giovani idealisti, che erano stati emarginati dai fasti del potere e, talvolta, persino perseguitati; che si erano fatti avanti nell’ora più buia, con la Patria doppiamente invasa, dai nemici diventati amici e dagli amici diventati nemici, per ridare onore all’Italia e per vedere realizzate le loro generose idee sociali.
Né si voleva ammettere che le uccisioni erano state numerosissime, selvagge, senza un’ombra di legalità e di giustizia; che moltissimi militi di Salò erano stati passati per le armi e gettati nei fiumi, dopo essersi arresi in cambio della promessa di ricevere il trattamento dovuto a dei prigionieri di guerra; che gli assassinii continuarono per mesi e mesi, fin oltre il 1946, assumendo non di rado la forma di miserabili vendette personali; che coinvolsero migliaia di persone che non c’entravano nulla con la politica e meno ancora col fascismo.
Allo stesso modo, per decenni si riuscì a far passare sotto silenzio, o quasi, il dramma degli Italiani infoibati dai partigiani slavi del maresciallo Tito, nelle grotte della Venezia Giulia: uccisi non in quanto fascisti, ma proprio in quanto Italiani; e, tra essi, perfino dei partigiani antifascisti che avevano avuto il torto di non ammettere che quelle terre dovessero venire annesse, "sic et simpliciter", alla nuova Repubblica jugoslava.
A raccontare tutte queste cose in maniera organica, con notevole coraggio civile, è stato uno studioso schivo e intellettualmente onesto, Antonio Serena, che, nel suo libro «I giorni di Caino», (1990) ha fornito una documentazione ricchissima e inoppugnabile di quella galleria di orrori, ivi compresa una consistente mole di materiale fotografico.
Non si tratta di screditare il valore morale della Resistenza (per coloro che ci credono); quello di Serena non era, in fondo, un discorso politico: la sua ricerca nasceva da una esigenza etica: ridare voce alle vittime, alle vittime innocenti, che furono tante, troppe. Perché il silenzio che era calato su di esse equivaleva ad averle assassinate una seconda volta. Voleva dire, anche, ridare dignità alla loro memoria e offrire un sia pur minimo risarcimento morale ai loro parenti: a quelle vedove, a quei figli, a quei nipoti.
No, «I giorni di Caino» non è un libro di odio, ma un libro di giustizia e di pietà: bisognava che qualcuno placasse i Mani delle vittime, offrisse un sacrificio di riparazione, raccontando la loro vera storia e liberandola dalle incrostazioni faziose e menzognere che la Vulgata democratico-resistenziale ci aveva costruito sopra.
Da quando l’ho letto, per poi passare alla lettura degli altri libri di Serena, tra i quali «La cartiera della morte» e «Oderzo 1945, storia di una strage», fino a quest’ultimo su «I fantasmi del Cansiglio»; e da quando, inoltre, ho avuto il privilegio di conoscerne personalmente l’Autore, un uomo di rara onestà intellettuale e di notevole coraggio civile, la visione del tragico biennio 1943-45 mi si è fatta più chiara, più completa e più veritiera; e credo che questo sia quanto hanno provato tutti i lettori di tali opere.
Fra i vari miti che essi hanno contribuito a sfatare vi è anche quello che, nella cosiddetta Liberazione, i preti fossero tutti schierati con la Resistenza; la verità è che a decine vennero raggiunti, pure loro, dalla "giustizia" comunista e trucidati. Ma anche questa è una di quelle verità scomode che, a guerra finita, tutti hanno voluto far dimenticare, a cominciare dalla Chiesa stessa; così come la borghesia industriale ha voluto far dimenticare i suoi ventennali intrallazzi col fascismo, che le avevano permesso di arricchirsi, talvolta persino incoraggiando i partigiani "rossi" a togliere di mezzo, con la scusa della "lotta di liberazione", quei podestà e quegli uomini del fascismo i quali avevano levato la voce contro i profittatori di guerra e denunciato gli scandali di un ceto di affaristi senza scrupoli che aveva speculato su tutto, perfino sulle suole di cartone dei nostri alpini in Russia.
Ma tutte queste bugie, tutte queste mezze verità e tutte queste versioni di comodo sono figlie di un’unica ipocrisia di fondo: aver voluto negare tenacemente, pervicacemente, per decenni, il carattere di guerra civile agli eventi italiani del 1943-45. Una volta rimossa questa verità, non restava altro da fare che eliminare anche i suoi corollari: ad esempio, che la Chiesa stessa si trovò spaccata fra una parte del clero che, nel Centro-Nord, simpatizzò più o meno apertamente con gli Alleati e collaborò con i Comitati di liberazione nazionale, e quella parte che, invece (formata specialmente da cappellani militari), rimase fedele agli ideali del Ventennio o che, semplicemente, dopo l’8 settembre 1943 ritenne che fosse il governo repubblicano a rappresentare la dignità della nazione e non quello di Badoglio; e che subì, al termine del conflitto, una dura repressione.
Abbastanza conosciuto è il caso di Don Tullio Calcagno, il prete che, prima di andare a morire con Mussolini, diresse il giornale più venduto del periodo di Salò, «Crociata italica» e che, ad un certo punto, agitò persino lo spauracchio di uno scisma all’interno della Chiesa, sostenendo che il Papa, come capo dell’intera cristianità, non poteva esserlo anche di una Chiesa cattolica nazionale, quella italiana; ma furono non meno di centotrenta i sacerdoti che caddero sotto il piombo dei "giustizieri" comunisti, non solo durate la guerra civile, ma anche nel biennio successivo, cioè fino al 1947.
E la stessa spaccatura si verificò nelle file stesse della Resistenza, tra partigiani comunisti e partigiani di orientamento moderato, specie in quelle regioni del confine orientale ove, per la presenza delle aggressive rivendicazioni dei "compagni" sloveni e croati, il contrasto ideologico nello stesso schieramento antifascista si fece talvolta incandescente, sino allo spargimento di sangue fraterno.
Valga per tutti il caso dell’eccidio di Porzûs, del febbraio 1945, nel quale si ebbe un sanguinoso regolamento di conti tra partigiani "osovani" e "garibaldini", con la strage premeditata e subitanea dei primi da parte dei secondi; eccidio nel corso del quale, fra gli altri, perse la vita il fratello maggiore del futuro scrittore Pier Paolo Pasolini. Ma, al di fuori del Friuli, ove poi il processo ai responsabili destò un certo clamore, quanti Italiani sapevano dei fatti di Porzûs, visto che i libri "canonici" sulla Resistenza non ne parlavano affatto, o ne cominciarono a parlare, ovviamente in chiave minimalista e giustificazionista, solo quando il revisionismo li portò nuovamente alla ribalta, in anni assai recenti?
Purtroppo l’Italia di oggi è figlia di questi miti e di queste versioni di comodo, nati dalla disfatta del 1943, dal tradimento e dalla vergogna. Avrebbe potuto essere una occasione preziosa per ripensare con onestà il nostro passato nazionale, a cominciare da quell’altro grande mito di cui siamo succubi, il Risorgimento; invece si è preferito fare finta di nulla e prendere per buona la versione più facile e comoda: che nel 1945 siamo stati tutti "liberati". Eppure basterebbe l’obbrobrioso articolo 16 del Trattato di pace di Parigi del 1847, il quale stabilisce che «l’Italia non incriminerà né molesterà i cittadini italiani, particolarmente i componenti delle Forze Armate, per il solo fatto di aver espresso simpatia per la causa delle Potenze Alleate e Associate o di aver svolto azioni a favore della causa stessa durante il periodo compreso tra il 10 giugno 1940 e la data di entrata in vigore del presente trattato", per mostrare ad abundantiam che il tradimento e il sabotaggio antinazionali, nel nostro Paese, ebbero cinicamente inizio fin dal primo giorno di guerra e non in seguito ad una nobile maturazione politica, dopo l’8 settembre del 1943.
Adesso Antonio Serena ci presenta un nuovo libro, frutto di lunghe e sudatissime ricerche, per mostrare il rovescio della medaglia di un altro mito resistenziale del Nordest: quello del Cansiglio, i cui "fantasmi" vagano ancora in cerca di giustizia, dopo che il loro dramma è stato ignorato, rimosso, cancellato e che, su di esso, si è costruita una leggenda a senso unico, secondo la quale questi luoghi non hanno conosciuto altro che l’eroica lotta dei "buoni", cioè i partigiani a maggioranza comunista, contro i "cattivi", cioè i fascisti e i Tedeschi; e nulla al grosso pubblico era mai giunto delle uccisioni e delle violenze, spesso gratuite, perpetrate in nome dei grandi ideali della libertà e della democrazia.
Ricerche estremamente scomode, politicamente e umanamente parlando: il lettore può solo immaginarsi quanti sospetti, quanti risentimenti, quante animosità può aver suscitato lo sforzo di ristabilire un minimo di verità storica, senza guardare in faccia a nessuno e senza sudditanze ideologiche verso la Vulgata culturale oggi dominante; e questo in una terra dove le ferite sono ancora recenti, dove uomini e donne che vissero quei mesi di barbarie e di terrore sono ancora vivi, o sono vivi i loro figli e i loro amici, con tutte le loro passioni e con tutto il loro dolore; ma anche, in certi casi, con qualche ingombrante scheletro da nascondere nell’armadio, magari di consistente rilevanza penale.
«I fantasmi del Cansiglio» non è un libro d’odio, né libro fazioso, come non lo sono stati i precedenti di questo scrittore; al contrario: il suo scopo non è quello di gettare fango sulla Resistenza, in cui, senza dubbio, militarono anche persone idealiste e in perfetta buona fede; ma squarciare il velo dell’ipocrisia e restituire visibilità e dignità alle vittime di una "giustizia" che, in moltissimi casi, fu solo vendetta o peggio, scatenamento dei peggiori istinti sanguinari o regolamento di conti privati. Ma l’amnistia Togliatti ha cancellato tutto….
Era ora che qualcuno raccontasse quelle cose, che rompesse il muro di omertà e di silenzio, a costo di attirarsi ogni sorta di denigrazioni.
Ed è quello che è avvenuto.
Oggi, finalmente, il velo è stato definitivamente squarciato e si comincia a guardare a quella stagione con maggiore verità storica e senso della giustizia. Si ammette che da entrambe le parti combattenti vi furono persone oneste e vi furono dei criminali; e si ammette che, negli ultimi giorni di guerra e nel periodo successivo, vi fu un bagno di sangue raccapricciante e ingiustificato, che nulla ebbe a che fare con la giustizia.
Anche se è giusto dire che Pansa non ha "scoperto" niente, ma che ha solo proseguito, senza dargliene doverosamente atto, il lavoro intrapreso da Antonio Serena, pioniere solitario.
Chi vive al Nordest ha sempre saputo queste cose; però non le si poteva dire, pena la scomunica e una sorta di gogna civile.
Chi scrive, ad esempio, da ragazzo si trovò a partecipare, in quanto speleologo presso la sezione C.A. I. di Vittorio Veneto, al recupero dei poveri resti di alcuni fascisti infoibati in una grotta delle Prealpi Bellunesi, sopra Revine Lago, per conto della locale stazione dei Carabinieri, affinché si potesse dare loro cristiana sepoltura. Vi erano anche le ossa di una donna e, forse, di un feto.
Finalmente, di queste cose si può parlare un po’ più liberamente, anche se ciò continua a dar fastidio a qualcuno.
Perciò grazie, Toni, per il tuo coraggio e per la tua onestà intellettuale.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels