
Il possibile e il probabile nella filosofia di Rodolfo Quadrelli
10 Settembre 2008
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11 Settembre 2008Viviamo in tempi strani.
La filosofia del liberalismo che, iniziata con Locke e culminata nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 26 agosto 1789, ha fatto delle libertà dell’individuo (delle libertà, si badi, non della libertà) la sua bandiera, è divenuta l’ideologia ufficiale di tutti i sistemi democratici. Però, nello stesso tempo, non è certo un segreto che in essi la sovranità reale risiede in ristretti circoli finanziari che controllano ogni forma della vita pubblica, a cominciare dalla politica, dall’economia e dall’informazione.
Di conseguenza, la modernità si basa su un sistema ideologico misto: quello ufficiale, che proclama solennemente i diritti e le libertà del cittadino; e quello ufficioso, che considera il cittadino nient’altro che un docile consumatore-elettore-contribuente, al quale è possibile far fare tutto quel che si vuole, purché siano salve – anzi, siano proclamate con il massimo clamore – le forme solenni e codificate di una cultura e di un sistema politico-sociale super individualista.
Si proclama a gran voce, ad esempio, che ciascuno deve imparare a «pensare con la propria testa»; si plaude alla pluralità, alla diversità, alla multiculturalità; si incoraggia la manifestazione del dissenso (su ciò che è secondario), dell’anticonformismo (di maniera), perfino della contestazione (attraverso l’industria a ciò deputata). Insomma, il sistema ufficioso si regge su una colossale menzogna: che la massima libertà dell’individuo sia tutelata e incentivata senza posa, mentre è vero esattamente il contrario: che esso pone in opera tutte le sue risorse, morali e materiali, per cancellare l’individualità e per modellare a suo piacere una massa anonima, docile e soddisfatta.
Se vi fossero in circolazione dei veri intellettuali, e non un esercito di servi prezzolati o di idioti congeniti, balzerebbe evidente l’impossibilità di coniugare l’individualismo con i miti e i riti della società di massa; e la grottesca caricatura umana che ne risulta, ossia il conformista che si crede trasgressivo, l’integrato che gioca a fare il ribelle, l’uomo-standard che si atteggia a superuomo, sarebbe stato da tempo smascherato per quel buffone che è. In altri termini, la menzogna sarebbe apparsa evidente: il regno della quantità che usurpa i modi del regno della qualità; il banale, il volgare, il kitsch, che cercano pietosamente di contraffare l’originale, il profondo, l’aristocratico (nel senso positivo del termine: cfr. il nostro precedente articolo È necessario recuperare il giusto concetto di «aristocrazia», sempre sul sito di Arianna).
Si tratta, da parte del sistema ufficioso di potere, di un gioco talmente scoperto e plateale, che basterebbe la santa innocenza di un bambino per proclamare che il re è in mutande; ma il fatto significativo è, appunto, che non si trova in circolazione nemmeno quel tanto di innocenza che si richiede per un gesto così minimo. Nella società dei consumi, dove tutto si compra e si vende, essa è divenuta una merce pressoché introvabile.
L’essere umano, per quanto abbrutito da un edonismo tanto banale quanto grossolano, conserva pur sempre, in fondo all’anima, una segreta aspirazione a realizzarsi come persona; e la pratica di una egolatria anarcoide, cui si vede costantemente incoraggiato e quasi sospinto, funge appunto da narcotico per cancellare in lui quell’ultimo barlume di consapevolezza della propria dignità e del proprio destino trascendente.
Egli è libero di dire e fare qualsiasi cosa, a meno che sia esplicitamente proibita dalla legge; ma le maglie della legge si fanno sempre più larghe, sempre più larghe; le possibilità di aggirarla o di evitarne le sanzioni, poi, sempre più frequenti; e la legge medesima evolve talmente in fretta, che essa non pare più credere in se stessa, e dà l’impressione di vergognarsi di quel che appena ieri aveva solennemente proclamato.
È bello, del resto, assaporare il gusto di recitare la parte del rivoluzionario, quando la rivoluzione è ammessa e consentita, per non dire finanziata, da chi dovrebbe temerla; e ancora più divertente è indossare i panni dell’individuo autentico e coerente che, dall’alto della propria eccelsa postazione, scaglia le folgori di una critica implacabile e demolitrice contro tutto e contro tutti: specialmente se si è generosamente pagati per farlo.
Bello sentirsi dei lord Byron sulla prua della nave lanciata verso lidi ignoti, con il vento che scompiglia i capelli come accadeva agli eroi romantici, soli contro il mondo intero, nobili e puri in mezzo a una società di vili filistei… E, ancor più bello, se ci si può abbandonare a questi sogni inebrianti con i soldi, i consigli e le protezioni del potere, dall’alto delle cattedre appositamente create per la bisogna, e con uno stuolo di avvocati pronti a difendere l’intrepido paladino o, meglio, a intentare causa a chiunque osi criticarlo.
Grazie alla volonterosa prestazione d’opera di uno stuolo di intellettuali leccapiedi stipendiati per tenere in piedi l’enorme menzogna, milioni di uomini-massa si identificano con questi discutibili Sandokan del pensiero e con questi dubbi Robin Hood della politica; trovando poi, nella pratica quotidiana di un consumismo becero e irresponsabile, il premio di consolazione per avere abdicato al proprio statuto ontologico di individui, ossia di persone.
Perché delle due, l’una: o si è individualisti, o si è un numero nella massa; l’individualismo di massa è una contraddizione in termini. Pure, l’individualismo di massa è la dottrina politica oggi di gran lunga prevalente nelle società liberal-democratiche e, comunque, la loro dottrina ufficiale. Quella ufficiosa, è un altro paio di maniche; del resto, è chiaro che una società che fosse realmente basata sull’individualismo di massa non durerebbe nemmeno qualche settimana.
L’individualismo di massa, pertanto (a proposito, la felice espressione è dello scrittore cattolico inglese G. K. Chesterton, l’autore de I racconti di padre Brown), per potersi sostenere, ha bisogno di un correttivo, e non occorre andare tanto lontano per trovarlo.
I re di un tempo governavano con i servigi del buffone e del carnefice: il buffone per mostrare il volto allegro del potere, il boia per incutere terrore con il suo volto spietato. Ebbene, la stessa cosa accade ora: l’individualista di massa non giunge mai allo stadio di individuo, resta sempre una quantità manipolabile a piacere; per farlo rigare dritto, bisogna che egli deleghi volontariamente la sua facoltà decisionale (si pensi alla servitù volontaria di Etienne de La Boëtie o, se si preferisce, alla fuga dalla libertà di Erich Fromm) a un potere autocratico e reazionario, nemico per sua essenza di ogni vero cambiamento.
Oggi, il buffone è il popolo stesso, che recita da sé – e con quale convinzione! – la propria miserabile commedia; e il boia è, di solito, il sistema psichiatrico e l’industria degli psicofarmaci che lo tiene in piedi; perché, nella nostra liberissima e contentissima società dei consumi, mostrare segni d’insofferenza è cosa da pazzi, più che da criminali. Come ammettere, infatti, che una società tanto eccellente produca un così gran numero di insoddisfatti? Bisogna che si tratti di soggetti mentalmente disturbati, incapaci di apprezzare tutto il bene che viene offerto loro.
In realtà, l’individualismo non è e non può essere altro che un atteggiamento, appunto, individuale ed eccezionale; se divenisse un fenomeno abituale e collettivo, la società si sfascerebbe in un tempo brevissimo.
Anche l’uomo-massa non è, e non può essere altro, che un soggetto artificiale, creato dalle condizioni proprie della società tecnologica (forse non erano così stupidi i luddisti, dopotutto, a voler distruggere i primi telai meccanici, come ce li hanno sempre presentati), in funzione delle cose e, precisamente, delle macchine. Di conseguenza, l’uomo-massa può sopravvivere solo in quanto parte di un tutto omogeneo; tratto fuori dalla massa, di dissolverebbe addirittura (ossia finirebbe, lui sì, in manicomio, oppure dovrebbe assumersi la non piccola fatica di ridiventare una persona). La società di massa, pertanto, può sussistere solo a condizione che i suoi membri rimangano dei numeri anonimi al servizio della tecnica; se essi pretendessero di uscire dalla massa, la società crollerebbe immediatamente.
Siamo arrivati così alla constatazione che l’individualismo di massa, realtà intimamente contraddittoria e schizofrenica, è costituita, in effetti, dall’unione di due componenti egualmente contraddittorie e schizofreniche, che si reggono a vicenda l’una con l’altra, correggendo, per così dire, e puntellando l’una le debolezze e le antinomie dell’altra; così come, talvolta, nella risoluzione di un problema matematico, la somma di due errori può dare il risultato esatto. La tendenza volontaristica (e tendenzialmente distruttiva) dell’individualismo tiene in piedi la massa flaccida e amorfa, così come la struttura quantitativamente forte della massa sorregge la fragilità velleitaria dell’individualismo.
Si può dire, pertanto, che la società odierna, basata sulla codificazione ufficiale dell’individualismo di massa, è riuscita nell’impresa eccezionale e quasi miracolosa di coniugare due debolezze, facendone una (relativa) forza; impresa che, dal punto di vista estetico, si caratterizza per la sua straordinaria volgarità e bruttezza. Non c’è niente di più brutto e di più volgare dello spirito reazionario che si traveste da anarchismo, e della cialtroneria impenitente che si camuffa da autenticità e spontaneità.
Le prove di quanto abbiamo affermato?
Dall’architettura delle nostre case, all’urbanistica delle nostre città; dalla letteratura alla musica leggera; dalla moda all’alimentazione; dalla politica all’economia; dalla cultura all’informazione; dallo spettacolo al tempo libero: ovunque si mostrano nel modo più vistoso, tale è l’assuefazione alla grande menzogna e la certezza che essa verrà creduta ciecamente, da questi poveri individualisti di massa, senza alcun limite di assuefazione o di ribellione del buon senso (e del buon gusto).
È un quadro troppo fosco e pessimistico, quello che abbiamo rapidamente delineato?
Forse.
Ma quando la malattia è seria, bisogna che qualcuno (se non si decide a farlo il medico) parli al paziente in modo franco e leale. È inutile, anzi dannoso, ingannarlo sulle sue reali condizioni di salute: finché esiste una possibilità di guarigione, è necessario che egli sappia come stanno realmente le cose.
Del resto, la via d’uscita ci sarebbe, e non è nemmeno troppo difficile vederla.
Ma, per vederla, occorre un minimo di onestà intellettuale, anzitutto nei confronti di se stessi: perché un sistema assurdo, come quello che ci siamo ritagliati addosso, non potrebbe durare senza il nostro consenso e, quindi, senza una nostra precisa corresponsabilità.
Ora, il «vantaggio» di essere un numero nella massa è proprio quello di vedersi sollevare da ogni responsabilità. Nella massa non ci sono mai responsabili, perché nella massa non ci sono individui; e solo l’individuo può essere ritenuto responsabile del male o del bene che sceglie di fare.
Anzi, il «vantaggio» si spinge ancora più in là: perché alla massa è consentito anche ciò che all’individuo non lo sarebbe mai: quello di voltare bandiera, di cambiare casacca così, da un giorno all’altro, continuando a rimanere dalla parte «giusta». Perché la massa ha sempre ragione: ha ragione quando applaude entusiasticamente un dittatore che, dal balcone del suo palazzo, dà l’annuncio dell’entrata in guerra della nazione; e ha ragione anche quando poi lo uccide, ne appende per i piedi il cadavere a un distributore di benzina, lo irride e lo sputacchia.
Certo – lo abbiamo visto – la massa non è mai un autentico soggetto; essa è sempre eterodiretta, non è che lo strumento di un sistema di potere ufficioso, ma estremamente reale, di cui non si vedono mai i burattinai (salvo in rari casi, come quando fu «scoperta» la Loggia P2). Anche perché, di solito, non sono soggetti fisici, ma banche, anonime società per azioni, gruppi finanziari a capitale misto, dai nomi fantasiosi e dalle esotiche (e «paradisiache», in senso fiscale) sedi legali.
E non solo questo.
Fa parte del sistema di potere occulto anche quella rete diffusa e capillare costituita da milioni di uomini-massa rispettabili ed onesti cittadini, i quali – più o meno inconsapevolmente – lo servono di buon grado e a tempo pieno: dallo scienziato che collabora al brevetto dell’ultimo gingillo tecnologico, tanto inutile quanto socialmente irrinunciabile; allo psicologo che mette il suo ingegno al servizio della campagna vendite, sfruttando ogni debolezza dell’anima umana; al grafico pubblicitario che elabora la maniera più accattivante di persuadere il pubblico che, di quell’oggetto, non si può proprio fare a meno.
Questa, forse, è la ragione più profonda per cui così poche sono le voci realmente libere che si levano a denunciare la grande menzogna: perché di essa siamo tutti, o quasi tutti, corresponsabili, in diverso grado e misura; tutti, o quasi tutti, collaboriamo a perpetuarla; e tutti, o quasi tutti, ne ricaviamo qualche beneficio, per quanto misero e illusorio esso sia.
E questa, per chi non è abituato a fare i conti con se stesso, è – probabilmente – la cosa più difficile da ammettere.
Finché si tratta di denunciare le colpe e le vergogne altrui, non c’è nessuno che si tirerebbe indietro; ma puntare il dito contro se stessi: ebbene, questa è una cosa completamente diversa.
C’è bisogno di una impennata di orgoglio, per uscire dalla palude in cui siamo sprofondati; altrimenti, sarebbe più onesto smetterla di lamentarsi, e godersi in santa pace la propria bella razione di fango quotidiano.
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