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I poli nella letteratura: Verne, Salgari, Serrano

Prosegue il nostro viaggio attraverso la presenza del tema polare nella storia della letteratura occidentale. Questa volta ci occupiamo di Jules Verne, Emilio Salgari e Miguel Serrano e di tre loro opere dedicate ai Poli: rispettivamente "La sfinge dei ghiacci", "Al Polo Australe" e "L’Antartide e altri miti".

d) JULES VERNE E "LA SFINGE DEI GHIACCI".

Nato a Nantes nel 1828 da un avvocato che lo avvia agli studi di diritto, fin da giovane Jules Verne comincia a manifestare un prepotente interesse per la letteratura e per il teatro. Verso quest’ultimo sembrano orientarsi i suoi esordi di scrittore: nel 1850 viene portata sulle scene (con successo) la sua commedia Le paglie rotte, che gli apre l’assunzione quale segretario al Théâtre Lirique, per il quale scrive i libretti di diverse operette. Ma in quegli anni prende in lui il sopravvento la passione per un nuovo genere letterario, misto di viaggi, avventure, ritrovati tecno-scientifici, humour e spirito filantropico; ed è con questi ingredienti che scrive il romanzo che lo proietta decisamente nei favori del pubblico francese – e mondiale -: Cinq semaines en ballon [Cinque settimane in pallone]. Apparso a puntate, nel 1863, sul Magasin d’éducation et de récreation dell’editore Hetzel, viene ripubblicato in volume in quello stesso anno e segna praticamente la nascita di quel tipo di narrativa che in lingua francese si chiama roman de la science e in quella inglese – ove ha ricevuto un impulso fondamentale da Herbert George Wells – science-fiction (e si noti che la traduzione italiana "fantascienza" sembra ispirarsi a quest’ultima; ma, in inglese, fiction significa semplicemente romanzo e non cosa fantastica). Da allora e fino al 1911 (cioè sei anni dopo la morte dell’autore), Verne "sforna" a ritmo febbrile un libro dopo l’altro: 62 romanzi e 17 racconti, per un totale di 79 opere, che formano la serie ciclopica dei Voyages extraordinaires à travers les mondes connus et inconnus (Viaggi straordinari attraverso i mondi conosciuti e sconosciuti). Ricordiamo almeno i più famosi, e cioè Voyage au centre de la Terre (Viaggio al centro della Terra), del 1864; De la Terre à la Lune (Dalla Terra alla Luna), del 1865; Aventures du capitaine Hatteras (Avventure del capitano Hatteras) del 1866; Les enfants du capitaine Grant (I figli del capitano Grant), una trilogia apparsa fra il 1867 e il 1868; Vingt mille lieues sous les mers (Ventimila leghe sotto i mari), due volumi del 1869-70; Autour de la Lune ( Intorno alla Luna), del 1870; L’ile mystérieuse (L’isola misteriosa), in tre volumi, del 1874; Le tour du monde en quatre-vingts jours (Il giro del mondo in ottanta giorni), del 1873; Michel Strogoff (Michele Strogoff), in due volumi, del 1876; Mathias Sandorf (Mattia Sandorf), del 1885; Les naufragés du "Johnatan" (I naufraghi del "Johnatan"), uscito postumo nel 1909; L’éternel Adam (L’eterno Adamo), del 1910; L’étonnante aventure de la mission Barsac (La strabiliante avventura della missione Barsac), uscito solo nel 1920. A questi bisogna aggiungere almeno Arcipelago in fiamme (L’Archipel en feu), dedicato alla lotta d’indipendenza dei Greci contro i Turchi; Disavventure di un Cinese in Cina; La sfinge dei ghiacci; Robur il conquistatore; Il faro in capo al mondo (ambientato nell’Isola degli Stati, nella Terra del Fuoco); Le chateau des Carpathes (Il castello dei Carpazi), struggente vicenda di un uomo che non si rassegna alla morte della sposa adorata e la fa "rivivere" mdiante i prodigi di quella che oggi chiameremmo "realtà virtuale"; un romanzo che ha il pathos del mito di Orfeo ed Euridice, la cupa ambientazione transilvanica di Dracula il vampiro e il colpo di scena basato sulla tecnologia più sofisticata; e Un capitano di quindici anni, tipico romanzo di formazione sul modello del Robinson Crusoe, ma più avventuroso e drammatico.

Nel campo della narrativa in cui Verne è divenuto più famoso, cioè la fantascienza, le sue intuizoni sono state veramente notevoli. Nel romanzo Dalla Terra alla Luna ha anticipato la storica missione dell’Apollo del luglio 1969; in Ventimila leghe sotto i mari, il sottomarino atomico Nautilus, che traversò in immersione il mar Glaciale Artico, passando per il Polo Nord, nel 1958; in Roburr il conquistatore, ha creato un antenato dell’elicottero (il cui primo esemplare fu realizzato in Germania nel 1936); sempre in Robur, ha ideato un sistema di comunicazioni via satellite (che verrà realizzato nel 1960 con il nome di Telestar I; ne Il castello dei Carpazi, infine, ha praticamente "inventato" la televisione.

Ma Verne è stato anche un grande creatore di caratteri. Il più affascinante di essi è senza dubbio il mitico capitano Nemo, che è stato definito una estrema incarnazione del perfetto eroe romantico, il quale vaga eternamente per gli oceani nella duplice veste di pietoso soccorritore dei naufraghi e di implacabile persecutore dei malvagi; alla fine de L’isola misteriosa si scoprirà che egli è un nobile indiano e che il suo odio è rivolto principalmente contro gli Inglesi, oppressori della sua patria e distruttori della sua felicità. Ma egli è anche uno scienziato dall’inventiva inesauribile, che ha saputo costruire un sottomarino praticamente indistruttibile, dotato di ogni comodità e capace di autonomia pressoché illimitata, poiché non dipende da fonti di energia tradizionale, bensì da quella elettrica. Egli indaga i misteri della natura con lo spirito di un filosofo positivista, che considera il mistero soltanto come quella parte del reale che non è stata ancora illuminata dalla ragione; eppure il suo animo è percorso da possenti moti interiori che smentiscono la gelida apparenza del tecnico perfettamente sicuro di sé e lo avvicinano, piuttosto, al tipico eroe faustiano. Un’altra creazione straordinaria di Verne è la coppia formata dal gentiluomo inglese Phileas Fogg, vera incarnazione della flemma britannica e della razionalità alla Conan Doyle, e del suo devotissimo servitore francese chiamato significativamente Passepartout. Essa è entrata nell’immaginario collettivo dei lettori occidentali con una forza paragonabile a quella della coppia don Chisciotte-Sancho Panza o, più modestamente, di quella Sherlock Holmes-dottor Watson: poiché incarna, a suo modo, valori profondamente sentiti quali la lealtà, l’abnegazione, il coraggio e la gratitudine.

È giusto, comunque, ricordare che non tutta la produzione "maggiore" di Verne si esaurisce nella fantascienza. Nella sua opera trovano posto romanzi di avventura "pura", come I figli del capitano Grant o Un capitano di quindici anni; romanzi a sfondo politico-sociale, non privi di sottintesi libertari e saint-simoniani, come Mathias Sandorf (da cui si aspettava, ma invano, un riconoscimento della critica accademica) e I naufraghi del Johnatan; romanzi in cui l’avventura si coniuga con la vicenda sentimentale, come Michel Strogoff; e altri di soggetto interamente patriottico e risorgimentale, come Arcipelago in fiamme. Un posto a parte merita il bel romanzo Viaggio al centro della Terra, ove non compaiono elementi fantascientifici ma il mistero della natura. Il professor Lidenbrock, di Amburgo, ha trovato una pergamena con un messaggio in caratteri runici che, decifrato, descrive il modo di raggiungere il centro della Terra; talché si mette in viaggio col nipote Axel (l’io narrante della storia) per raggiungere l’Islanda. Infatti, secondo il messaggio misterioso – opera di un alchimista danese del 1500, Arne Saknussen – il cratere del vulcano Vatna Jökull sarebbe l’imbocco della via in questione. Con la guida di un fedele islandese, Hans, zio e nipote iniziano un viaggio avventurosissimo nelle profondità della Terra, scoprendo un favoloso mondo preistorico popolato da animali impressionanti; raggiungeranno la superficie, in seguito a un’eruzione vulcanica, dalla bocca dello Stromboli, nelle isole Eolie.

Amico di personaggi significativi della cultura e dell’arte, Verne risente del clima politicamente "pesante" instaurato a Parigi dal presidente Thiers dopo la sanguinosa repressione della Comune e, dal 1872, decide di stabilirsi definitivamente in provincia – ad Amiens – quella provincia rurale, pacifica e un po’ conservatrice che non ama il clima agitato della capitale. Il suo carattere, già portato alla solitudine e alla misantropia, si fa sempre più chiuso, nonostante il matrimonio con una bella vedova, Honorine Devianne – che però, come risulta dai diari, non ne comprende la vocazione di scrittore e non è per lui una compagna di pensiero. Evade, di tanto in tanto, per dei viaggi a bordo dello yacht che ha acquistato coi suoi guadagni di scrittore: Gran Bretagna, Scandinavia, Nord America sono alcune delle sue méte. Nel 1886 un oscuro episodio segna la sua vita, già assai ritirata: un nipote, affetto da disturbi mentali, gli spara un colpo di pistola, ferendolo. Negli ultimi anni il suo pessimismo penetra via via nelle sue opere e ne emerge una visione del mondo, e della scienza, molto più problematica e carica di rischi di quella che caratterizza i primi romanzi. Adesso il cattivo uso che l’uomo può fare della scienza e della tecnica costituisce un grosso interrogativo; dopo aver raggiunto, per mezzo di esse, un dominio sempre più completo sulle forze della natura, l’uomo comincia a rivolgere le sue invenzioni contro se stesso, costruendo armi micidiali che possono mettere in pericolo il suo futuro. Emblematico di questa fase della riflessione di Verne sui risvolti del progresso scientifico è il romanzo Les cinq cents millions dela Bégum (I cinquecento milioni della Bégum), apparso nel 1879.

La nobile indiana Bégum Gokool, morendo, ha lasciato una immensa fortuna in eredità a due scienziati, il francese Sarrasin e il tedesco Schulze. Il primo usa la sua quota per realizzare un sogno utopistico: Franceville, una grande città ove la scienza sia utilizzata per assicurare pace e benessere ai suoi abitanti e un rapporto equilibrato e armonioso con la natura; il secondo, invece, edifica Stahlstadt, la Città dell’Acciaio, ove una delirante tecnologia militare consente di costruire armi strapotenti, in grado di distruggere la sua rivale, Franceville appunto. Il dottor Schulze, vero genio della chimica, progetta e costruisce dei giganteschi cannoni (veri precursori della "Grande Bertha" che, nel 1914 e nel 1918, per due volte terranno sotto il loro tiro Parigi, distante oltre 50 km. dal fronte), caricati con proiettili ad anidride carbonica, capaci di ghiacciare e soffocare ogni essere umano; nonché dei razzi (antenati delle V1 e delle V2 che, verso la fine della seconda guerra mondiale, colpiranno Londra) che provocano incendi a catena. Il fatto che il romanzo si concluda con un lieto fine non deve oscurare il pessimismo implicito nella tesi: si tratta di un apologo agrodolce sul cattivo uso che può esser fatto della tecnologia. Le sue premesse ideologiche erano già implicite nei primi romanzi, quelli permeati da un positivismo fiducioso e ottimistico: basti pensare che Barbicane, il protagonista de Dalla Terra alla Luna, per vincere la forza di gravità terrestre e spedire un’astronave verso il nostro satellite, si serve di un gigantesco cannone la cui carica esplosiva è data dal fulmicotone. Anche nell’intreccio di tecnologia spaziale e militare, dunque, Verne è stato un buon profeta: è noto, infatti, che i Lunik sovietici e gli Apollo statunitensi altro non erano che delle V2 di seconda generazione.

L’opera più esplicita circa le ambivalenze del progresso è anche una delle meno note, L’ile à hélice (L’isola a elica), del 1895. "Il diaciannovesimo secolo venerava le grandi dimensioni proprio come noi oggi veneriamo le alte voleocità. Gli ingegneri famosi costruivano le più gigantesche navi (la Great Eastern), le più alte strutture (la torre Eiffel), i canali più lunghi (quello di Suez), e i più enormi palazzi per uffici (il grattacielo americano). Così Verne concepì una grande isola di cinque miglia, completamente meccanizzata e in grado di essere guidata intorno al Pacifico. […]

"Verne dotò la sua isola di due porti, di larghe distese di terreno coltivabile, e della popolazione di una fiorente città. La meccanizzata arca di Noé non aveva timoni ed era guidata regolando la velocità delle eliche poppiere e laterali. Si muoveva per il vasto Pacifico per sfruttare al meglio le condizioni climatiche. Qui si presentava l’occasione di realizzare un’utopia cara al suo cuore. L’uomo primitivo aveva vagabondato sulla crosta terrestre più di un milione di anni prima di diventare sedentario. Sulla sua isola a elica Verne poteva essere insieme sedentario e vagabondo.

"L’isola possiede tutte le comodità che l’uomo può desiderare. Agricoltura elettrificata, marciapiedi mobili, televisione, centri culturali e fondi illimitati. Ma la felice colonia di milionari, facoltosi agricoltori, provetti commercianti, scienziati ed artisti, che vivono nel delizioso clima del Paradiso terrestre è infestata da un serpente… la vanità umana.

"I due magnati più ricchi lottano l’uno contro l’altro per essere in cima alla scala sociale. Il sindaco, uomo di buona volontà, cerca, con un matrimonio tra i figli, di riconciliarli, ma come ringraziamento incontrerà solo la morte.

"Nessun uomo moderato riesce a placare l’animosità fra i due rivali che si fa sempre più violenta. La passione che spacca in due fazioni nemiche i cittadini di Amiens [la città ove Verne si era ritirato a vivere] infonde lo stesso veleno nell’isola utopica di Verne fabbricata dagli uomini. La popolazione si divide in due campi avversi e scoppia la guerra civile.

"I due rivali mandano ordini agli ingegneri e predispongono rotte contrastanti senza consultarsi l’uno con l’altro. Le caldaie di dritta scoppiano. Azionata da un motore della forza di 6.000.000 di cavalli l’isola prende a girare su sé stessa e infine va in pezzi. Neppure un ciclone costringe i nemici ad una tregua. Onde martellano l’isola, incrinandone le basi metalliche. Le opere d’ingegneria del porto di Poppea cadono in mare. Lo scafo si frantuma. I sopravvissuti allacciano la sezione rimasta a galla ad un motore ancora funzionante e riprendono frustrati la via del ritorno verso la civiltà, la trappola per topi dalla quale avevano sperato di sfuggire.

"Verne addossa la responsabilità del crollo della sua ‘perfetta’ utopia alla ‘vanità dei turbolenti nababbi di Millard City’. Egli trasse la conclusione che nessuna comunità pianificata e bene organizzata può vincere le perversità della natura umana. Gli uomini di buona volontà non possono nulla di fronte alla pazzia di quelli in malafede impegnati nella fanatica corsa verso il comando. Egli dava così sfogo alla propria amara disillusione. C’è un grido di disperazione in una lettera da lui scritta al fratello: ‘Ogni fonte di gioia mi è diventata insopportabile. Ho ricevuto colpi dai quali non ni riprenderò mai più.’ "(1)

Dal punto di vista ideologico, accanto al Verne simpatizzante con la gauche (2) e ammiratore dell’anarchismo (ne I naufraghi del Johnatan compare un seguace di Pëtr Kropotkin, una delle teste pensanti del movimento anarchico di fine Ottocento), esiste anche un Verne che presenta caratteristiche un po’ rozze della droite: il razzismo, come in Cinque settimane in pallone, ove si esprimono giudizi poco lusinghieri sui neri (3); antisemitismo, sia in Hector Servadac che in Martin Paz (4); colonialismo, sebbene in questo caso il suo atteggiamento appaia ambivalente.(5) E anche queste sono puntualizzazioni che hanno un preciso significato, riferendosi a uno di quegli scrittori che ogni lettore crede di aver compreso a fondo.

Un ultimo aspetto originale dell’opera di Verne, anch’esso poco visibile a una prima lettura, è quello iniziatico. Abbiamo visto che il meccanismo narrativo di Viaggio al centro della Terra prende le mosse da un antico manoscritto cifrato di un alchimista rinascimentale, il quale schiude uno spazio segreto e originale che rimanda ad assi e orientamenti di una geografia occulta (e c’è bisogno di ricordare che l’Islanda, luogo di partenza del viaggio, era probabilmente quell’ultima Thule che tanta parte ha svolto nel mito della genesi del sapere tradizionale, da René Guénon a talune cerchie del cosiddetto "nazismo magico"?). Ebbene queste caratteristiche ricorrono anche in parecchie altre opere del Nostro, tanto da fornire ad esse la fondamentale struttura narrativa. Un piccolo gruppo di uomini (quasi sempre senza donne) si riuniscono per intraprendere un viaggio, sulle orme di un predecessore più o meno misterioso; tutto ciò si può leggere in chiave psicanaltica, come edipica ricerca del Padre (tema che diviene esplicito ne I figli del capitano Grant), ma anche, forse, in chiave alchemico-iniziatica ed esoterica.

Verne si è rivolto in particolare al tema polare nel romanzo giovanile Un hivernage dans les glaces (Un inverno fra i ghiacci), del 1855, ripubblicato nel 1874-75 in appendice a Le docteur Ox, che la critica tende a considerare come un’opera "minore" ed è ambientato fra i ghiacci dell’Artide; e un romanzo della piena maturità, La Sphinx des glaces (La sfinge dei ghiacci), che vuol essere una esplicita continuazione del Gordon Pym di Edgar Allan Poe e che, quindi, si svolge nelle estreme regioni antartiche. Ad essi potremmo aggiungere – come già accennato – Le phare du bout du monde (Il faro in capo al mondo) che, uscito nel 1905, è stato l’ultimo romanzo pubblicato in vita dall’autore. In verità, esso è ambientato nell’Isola degli Stati che si trova al largo della punta orientale della Terra del Fuoco; tuttavia, se geograficamente essa appartiene al Sud America, la sua natura aspra e selvaggia e la sua posizione al centro dei "cinquanta urlanti" (la latitudine più temuta dai marinai a vela) ne fanno in pratica un avamposto del continente antartico. Fra parentesi, notiamo che l’Isola degli Stati era stata esplorata dal nostro Giacomo Bove, nel 1883, con la nave Vega, ed è possibile che Verne, lettore appassionato ed autore di testi di geografia, ne abbia letta la relazione; così come è possibile che questo estremo romanzo di Verne abbia potuto ispirare, sia nel titolo che nell’ambientazione (non nella collocazione, poiché si tratta dell’isola Amsterdam, nell’Oceano Indiano) un altro scrittore francese del Novecento: L’Ile du bout du monde (L’isola in capo al mondo), opera d’esordio di Henry Crouzat (1954).

Ma torniamo a La sfinge dei ghiacci che, fra i tre romanzi citati, si può considerare senz’altro il migliore e certamente il più rappresentativo della capacità di Verne di svolgere le peculiari tematiche polari. Innanzitutto va notato che Verne aveva per l’opera di Edgar Allan Poe un interesse più che contingente: lo ammirava, ne aveva studiato i romanzi e i racconti, se n’era ispirato in varie circostanze (ad esempio, per Cinque settimane in pallone si era ispirato a The ballon Hoax, mentre per Mathias Sandorf aveva tratto spunto da The facts in the case of Mr. Valdemar); infine, gli aveva dedicato alcune traduzioni e un breve saggio critico, peraltro rimasto inedito. (6) Aveva anche riflettuto sull’interpretazione di Charles Baudelaire che, come è noto, in Francia era stato il primo intellettuale a "scoprirne" l’opera di Poe e a divulgarla in Europa, e ne aveva preso le distanze: secondo lui, essa era troppo "strana" e soggettiva. Quel che di Poe aveva colto Verne, invece, erano stati soprattutto i temi dell’avventura, dell’eroismo, dell’amicizia, della lealtà; insomma i temi romantici che più si avvicinavano al suo temperamento; e non si era accorto che gli sfuggiva, in tal modo, la dimensione peculiare e segreta dello scrittore americano (mentre bene l’aveva colta Baudelaire), ossia la dimensione dell’inquietudine, del mistero, del pessimismo e dell’angoscia esistenziale.Scrive in proposito Gianfranco de Turris: "In uno ei suoi "viaggi straordinari" per così dire minori, La Sphinx des glaces (1897), Jules Verne offre una spiegazione razionale e ‘scientifica’ dell’immensa misteriosa ‘figura avvolta in un sudario’, dal ‘perfetto biancore della neve’ che il naufrago intravede prima della conclusione della sua odissea marina: è, appunto, la sfinge dei ghiacci dove vengono trovati i resti dell’imbarcazione e addirittura lo scheletro di Pym (il che contraddice quanto aveva scritto Poe, secondo cui quest’ultimo si salva." (7)

Il suo modo di accostare il Gordon Pym è la logica conseguenza di una tale interpretazione. Già il fatto che egli abbia considerato il romanzo come "incompiuto" la dice lunga sul fraintendimento in cui era caduto: non si era reso conto che esso era stato lasciato volutamente incompiuto, e che non poteva avere conclusione. Non che ci sia qualcosa di sbagliato nell’idea di voler "completare" l’opera di un altro scrittore rimasta incompiuta: è noto, ad esempio, che Lodovico Ariosto concepì il disegno iniziale dell’Orlando Furioso come una semplice "gionta", ossia una aggiunta, all’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo, che la morte improvvisa aveva impedito a quest’ultimo di proseguire. Ma bisogna distinguere fra un’opera rimasta incompiuta per motivi accidentali, com’è il caso di Boiardo (il cui animo non resse al crollo del suo mondo caavalleresco e ideale, quando Carlo VIII scese in Italia nel 1494); ed altre che sono state lasciate deliberatamente "aperte". Che cosa penseremmo di uno scultore che volesse "completare" imirabili Prigioni di Michelangelo, capolavoro assoluto di tutto ciò che è arte incompiuta? Ad ogni modo, per circa trent’anni Verne rimugina l’idea di "riparare" alla svista (o alla sfortuna) di Poe e di dare un seguito all’opera, in modo da portarla a conclusione: ripugna, alla sua mentalità positiva e razionalista, quel mistero finale che invece di essere una imperfezione del Gordn Pym ne è, piuttosto, la profonda ragione intrinseca. Nasce così La sfinge dei ghiacci, che vede la luce nel 1897 e appartiene, quindi, all’ultimo perido della produzione di Verne.

Nel suo romanzo, si racconta come undici anni dopo la scompasa di William Guy, comandante della goletta Jane (su cui si era imbarcato Gordon Pym), suo fratello Len decide di mettersi alla ricerca del congiunto con la nave Halbrane. La rotta di quest’ultima alla volta dell’Antartico è la stessa di quella già descritta da Poe, solo che questa volta la navigazione verso il Polo Sud viene bloccata da una gigantesca montagna a forma di sfinge, che attrae la Halbrane con la sua forza magnetica e la porta a fare naufragio sulle sue rocce. Il narratore del romanzo, lo scienziato Jeorling, giunge all’isola di Tristan da Cunha, nell’Atlantico meridionale, dove il governatore Glass gli fornisce l’ultimo tassello del mosaico. Undici anni prima, difatti, la goletta Jane era passata di lì e lo stesso Glass ricorda di aver consigliato William Guy di mettersi alla ricerca delle elusive isole Auroras, della cui esistenza era stato informato da alcuni balenieri. (8) Da parte sua, Jeorling riferisce a Glass che la Jane ha fatto naufragio e che l’intera vicenda è stata definitivamente chiarita dalla pubblicazione del resoconto di Gordon Pym per opera di Edgar Allan Poe. Una grossa incongruenza con il romanzo dello scrittore americano, però, è che in quello di Verne Gordon Pym muore nel naufragio della sua barca, mentre scondo Poe egli riesce a salvarsi e a raccontare la sua avventura.

A parte l’introduzione dello stesso Poe fra i personaggi del romanzo, che vuol essere un ulteriore atto di omaggio verso il narratore americano (di cui Verne si riconosce in qualche modo seguace), si può dire che la struttura narrativa segue lo schema "classico" dei Viaggi straordinari. C’è una traccia da seguire, una traccia misteriosa di qualcuno che è partito prima e che poi non ha più dato notizie di sé; c’è un gruppo di personaggi che si mettono alla ricerca di qualcosa e che vogliono chiarire il mistero; c’è, alla fine, una spiegazione razionale, scientifica che chiarisce le cose. A nostro giudizio, non si può dire che la montagna magnetica – anche se ingegnosa come trovata – fornisca una degno scioglimento dell’aspettativa creata dal grande fantasma bianco che chiude il Gordon Pym, se non altro perché il fascino di quel fantasma consisteva proprio nella sua indeterminatezza. Poe sa che c’è un mistero, al fondo delle cose, che non può essere svelato: proprio da tale impossibilità nasce l’angoscia, caratteristica dei suoi personaggi allucinati e nevrotici. Verne, spirito pensoso ma niente affatto "metafisico", non avverte l’impossibilità di tale disvelamento, anzi è convinto che la missione dell’uomo sia proprio quella di gettare un fascio di luce sui lati nascosti della realtà. Peciò, mentre è possibile una lettura iniziatica, se non esoterica, dell’opera di Poe, ciò si colloca, per Verne, prevalentemente sul terreno psicanalitico (quasi esplicito per Viaggio al centro della Terra, come regressio al ventre materno) e molto meno sul piano del sapere occulto e "tradizionale".

Citiamo, ad titolo di esempio dello ‘scientismo’ di Verne che riduce il misterioso all’ambito del ‘non ancora esperito’, escludendo ogni dimensione ‘altra’ e trascendente le facoltà della logica razionale, la pagina conclusiva del penultimo capitolo de La sfinge dei ghiacci. In tale episodio la nota comico-grottesca, introdotta dal personaggio di Hurliguerly, che impreca contro la montagna magnetica, chiamandola "ladra maledetta" perché non vuole restituirgli il suo coltello, calamitato irreparabilmente contro le sue rocce, risulta piuttosto fuori tono, perché sdrammatizza una situazione in cui il disvelamento dell’enigma finale (legato alla tragica scomparsa di Gordon Pym) aveva già creato un effetto di disincanto nel lettore, distruggendo le sue aspettative circa un mistero che, per definizione, non si lascia ingabbiare entro l’angusto recinto del sapere oggettivo.

"Fu allora che, a un quarto di miglio, si profilò una massa che dominava la pianura di una cinquantina di tese, su una circonferenza di due o trecento. Quella massa, per la sua forma strana, somigliava a un’enorme sfinge, con il torso eretto, le zampe stese in avanti, accoccolata nell’attitudine del mostro alato che la mitologia greca ha posto sulla via di Tebe.

"Era un animale vivo, un mostro gigantescoo, un mastodonte di dimensioni mille volte superori a quelle enormi degli elefanti delle regioni polari, i cui resti si ritrovano ancora?… Nella disposizione di spirito in cui eravamo lo avremmo potuto credere, e credere anche, che il mastodonte stesse per precipitarsi sulla nostra imbarcazione e stritolarla sotto i suoi artigli.

"Dopo un primo moto di paura illogica e irragionevole, riconoscemmo che là vi era soltanto una roccia di conformazione singolare, la cui sommità stava liberandosi dalle nebbie.

"Ah! Quella sfinge!… Mi ricordai allora che nella notte durante la quale si era verificato il rovresciamento dell’iceberge e il sollevamento dell’Halbrane, avevo sognato un animale favoloso di quel genere, seduto al polo del mondo, a cui solo Edgar Poe, col suo genio intuitivo avrebbe potuto strappare il segreto!…

"Ma più strani fenomeni dovevano attrarre la nostra attenzione, suscitare la nostra soprersa e il nostro spavento!…" […]

"Il mostro ingrandiva a mano a mano che ci avvicinavamo, senza perdere niente delle sue forme mitologiche. Non saprei descrivere l’effetto che produceva, isolato sulla superficie di quell’immensa pianura. Vi sono impressioni chela penna e la parola non possono rendere… E (anche se era solo un’illusione dei nostri sensi) pareva che fossimo attratti verso di lui dalla forza della sua attrazione magnetica…

"Quando fummo giunti alla sua base, ritrovammo i vari oggetti di ferro sui quali si era esercitata la sua potenza. Armi, utensili, l’ancora del Paracuta erano attaccati ai suoi fianchi. Là si vedevano anche quelli provenienti dalla barca dell’Halbrane, e anche le chiodature, le caviglie, le piastre della chiglia, gli scalmi, la ferramenta del timone.

"Non vi era dunque più alcun dubbio possibile sulla causa di distruzione dell’imbarcazione che aveva portato Hearne e i suoi compagni. Violentemente sfasciata, essa era venuta a spezzarsi contro le rocce, e tale sarebbe stata pure la sorte del Paracuta se, per la sua stessa costruzione, non fosse sfuggito all’irresistibile attrazione magnetica…

"Quanto al rientrare in possesso degli oggetti attaccati ai fianchi del masso, fucili, pistole, utensili, bisognò rinunciarvi tanto era forte la loro aderenza. E Hurliguerly, furioso di non poter riprendere il suo coltello appiccicato a una cinquantina di piedi d’altezza, si mise a gridare mostrando il pugno all’impassibile mostro:

"- Ladra d’una sfinge!

"Non ci si deve stupire se in quel luogo non vi fossero altri oggetti all’infuori di quelli che venivano dal Paracuta, o dalla barca dell’Halbrane. Sicuramente nessuna nave si era mai spinta sino a quella latitudine del mare antartico. Hearne e i suoi complici prima, il capitano Leon Guy e i suoi compagni dopo, erano stati i primi a calpestare quel punto del continente australe. Per concludere, dunque, qualcunque bastimento si fosse avvicinato a quella calamita colossale sarebbe andato incontro alla distruzione completa, e la nostra goletta avrebbe avuto la stessa sorte della sua barca, della quale non rimanevano ora che alcuni rottami informi.

"Frattanto Jem West ci ricordò che era imprudente prolungare la nostra fermata su quella Terra della Sfinge, nome che essa doveva conservare. Il tempo passava e un ritardo di qualche giorno ci avrebbe obbligati a svernare all’inizio della banchisa.

"Era già stato dato l’ordine di tornare verso la riva, allorché la voce del meticcio risuonò ancora, e queste tre parole ovvero queste tre grida furono di nuovo gettate da Dirk Peters:

"La!… là!… là!…

"Dopo aver aggirato l’altro lato della zampa destra del mostro, scorgemmo Dirk Peters inginocchiato, con le mani tese davanti a un corpo o piuttosto uno scheletro rivestito di pelle, che il freddo di quelle regioni aveva conservato intatto e che era di una rigidità cadaverica. Aveva la testa inclinata, una barba bianca che gli arrivava alla cintura, mani e piedi armati di unghie lunghe come artigli…

"Come quel corpo era attaccato contro il masso a due tese al disopra del suolo?

"Attraverso il torace, trattenuto dalla bretella di cuoio, vedemmo la canna di un fucile contorta, mezzo corrosa dalla ruggine…

"- Pym… mio povero Pym! – ripeteva Dirk Peters con voce straziante. Poi cercò di rialzarsi per avvicinarsi… per baciare gli avanzi scheletriti del suo povero Pym…

"Le ginocchia gli si piegarono… un singhiozzo gli chiuse la gola… uno spasimo gli fece scoppiare il cuore… e cadde all’indietro… morto…

"Così dunque, dopo la separazione, il canotto aveva trascinato Arthur Pym attraverso quelle regioni dell’Antartide!… Come noi, anch’esso, dopo aver oltrepassato il polo australe, era caduto nella zona di attrazione del mostro!… E là, mentre la sua imbracazione se ne andava con la corrente del Nord, egli, afferrato dal fluido magnetico, prima d’essersi potuto liberare dell’arma che portava a bandoliera era stato scagliato contro il masso…

""Ora il fedele meticcio riposa sulla Terrra della Sfinge, accanto ad Arthur Gordon Pym, l’eroe le cui stravaganti avventure hanno trovato nel grande poeta americano un non meno strano narratore." (9)

e) EMILIO SALGARI E "AL POLO AUSTRALE".

Ad Emilio Salgari (Verona, 1862- Val San Martino (Torino), 1911) è toccata una sorte per certi versi analoga a quella di Jules Verne, nel senso che quasi ogni suo connazionale ha letto almeno qualcuno dei suoi libri o, nel peggiore dei casi, ha visto le versioni cinematografiche e televisive tratte da essi, e probabilmente non ce n’è uno che non pensi di averlo capito – magari di aver capito che non c’è proprio niente da capire. Salgari è l’avventura allo stato puro; o no? Prima di rispondere a una tale domanda, notiamo però subito un’altra analogia con lo scrittore francese. I suoi romanzi furono stampati in tirature favolose, tuttavia (a parte il fatto che egli non ne ebbe alcun vantaggio economico e questo, probabilmente, contribuì alla depressione che lo spinse al suicidio) la critica "ufficiale" non lo prese mai in considerazione. Era toccato anche ad altri, più grandi di lui (come Carlo Collodi) oppure più "piccoli" – se è lecito istituire tali confronti – (come, qualche decennio dopo, sarà il caso di Liala), che come lui hanno venduto libri in quantità molto superiore alla media. Ma non è questa la sede per addentrarci in una discussione sui rispettivi meriti e sui limiti della letteratura "colta" e della narrativa popolare; ci limiteremo solo a notare – di sfuggita – che la divaricazione fra le due "culture" è in Italia più forte che in Francia (e in altri Paesi); e non solo nel campo della letteratura ma anche, per esempio, in quello della canzone d’autore.

Emilio Salgari ha scritto moltissimo (si disse, con un amaro gioco di parole, che scriveva per la fame e non per la fama), polverizzando perfino il record di Balzac, Verne ed Émile Zola, tutti scrittori estremamente prolifici: qualche cosa come 80 romanzi e 150 racconti, suddivisi in alcuni grandi cicli, il più noto dei quali è quello dei corsari: le "tigri di Mompracem", capeggiate dal leggendario principe indiano Sandokan e dal suo fido braccio destro, il portoghese Yanez. Tra i suoi libri più famosi ricordiamo almeno I misteri della jungla nera, del 1895; I pirati della Malesia, del 1896; Il Corsaro Nero, del 1899; Le tigri di Mompracem, del 1901; Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, del 1905; Sandokan alla riscossa, del 1907. E ancora: Le stragi delle Filippine; Il raggio dell’Atlante; La scotennatrice; Le selve ardenti; I naufragatori dell’Oregon; Il re dell’aria; La favorita del Mahdi; Gli ultimi filibustieri; la stella dell’Araucania; Il Corsaro Rosso; Il Corsaro Verde; Il re del mare; Alla conquista di un impero; Le due tigri; la rivincita di Yanez; la vendetta dei Thugs; Gli scorridori del mare; Le tigri del Borneo; la figlia del Cacicco; I pescatori di Trepang; La montagna di fuoco; le pantere di Algeri; Il tesoro del presidente del Paraguay; Duemila leghe sotto l’America.

Nella sterminata produzione narrativa di Salgari, l’ambiente polare occupa un posto ragguardevole. Silvio Zavatti, in una sua monografia dedicata a tale argomento (10), ha ricordato ed esaminato brevemente nove romanzi di argomento polare, e cioè: Al Polo Australe; I naufraghi dello Spitzberg; Una sfida al Polo; Il deserto di ghiaccio; I cacciatori di foche; Al Polo Nord; I pescatori di balene; Padre Crespel nel Labrador; Verso l’Artide colla "Stella Polare". A tale monografia rimandiamo il lettore (augurandoci che essa possa venire ristampata al più presto); noi ci limitiamo ad aggiungervi un decimo romanzo, fra l’altro uno dei migliori – a nostro giudizio – di Salgari, La Stella dell’Araucania, ambientato nelle acque dello Stretto di Magellano e fra le isole e i ghiacci della Terra del Fuoco; perché, se è vero che quelle regioni non appartengono, strictu senso, alla geografia polare, lo stesso dovrebbe valere per il romanzo Padre Crespel nel Labrador (che potrebbe aver ispirato, a nostro avviso, il celebre Mabel fra gli Eschimesi di Ginevra Pelizzari, del 1961); ma, d’altra parte, entrambi hanno un’ambientazione polare (o, quantomeno, sub-polare), quindi la loro inclusione in questo elenco appare pienamente giustificata.

La vicenda di Al Polo Australe prende l’avvio da una discussione che si accende, al circolo della Società Geografica Americana di Baltimora, fra lo statunitense Wilkye e l’inglese Linderman e che sfocia in una vera e propria scommessa, nello stile di tante situazioni analoghe di stampo verniano (a cominciare dalla più celebre di tutte, quella che fa da preambolo a Il giro del mondo in ottanta giorni). Il primo sostiene che sarà in grado di raggiungere il Polo Sud servendosi di un mezzo assolutamente innovativo: il velocipede; il secondo, invece, è sicuro di poterci arrivare per primo a bordo della sua nave moderna e ultraveloce, la Stella Polare. Nel perfetto stile degli sportsmen anglosassoni (o, almeno, nel perfetto stile della loro immagine pubblica: la realtà era un po’ diversa, come provano le penose vicende Cook-Peary per l’attribuzione del primato nella conquista del Polo Nord) decidono di partire insieme, a bordo della nave dell’inglese.

Scrive Silvio Zavatti: "Nelle vecchie edizioni il titolo era Al Polo Australe in velocipede e non si capiscono le ragioni che hanno consigliato poi a mutarlo. La trama è abbastanza semplice: due soci della Società Geografica Americana di Baltimora, uno inglese e l’altro americano, hanno una disputa originata dal fallimento delle spedizioni artiche della Jeannette di De Long e dell’Eira di Leigh Smith e l’amor di patria si muta in incontrollato e acre spirito campanilistico. L’americano, Wilkye, sfida l’inglese, Linderman, a raggiungere il Polo Sud: il primo farà il tentativo servendosi di velocipedi appositamente studiati e costruiti e il secondo di una nave molto veloce. Attraverso avventure di ogni genere, Wilkye raggiunge la meta e, al ritorno, salva Linderman la cui nave è affondata e riesce a riportarlo in America nonostante la pazzia che lo ha assalito. Nel libro i riferimenti storici sono esatti, la terminologia glaciologica polare appare perfetta e l’informazione generale segue fino allo scrupolo le conoscenze dell’epoca. Inoltre lo speciale velocipede usato da Wylkie e dai suoi compagni (fra cui un oriundo italiano) è l’immaginario prototipo dei moderni ‘gatti della neve’." (11)

La partenza avviene solo pochi giorni dopo la scommessa; il viaggio per nave è caratterizzato da burrasche e incidenti imprevedibili, come un duello a dir poco improbabile fra la Stella polare e una balena, che ricorda quasi una corrida o, meglio, un torneo medioevale, con i due contendenti impegnati a scagliarsi l’un contro l’altro con tutte le loro forze.

L’elemento decisamente umoristico, che dà il tono un po’ a tutto il romanzo, è qui rappresentato da un grasso commerciante di carni salate che si aggrega alla spedizione americana allo scopo – in verità piuttosto incongruo – di ingrassare ulteriormente e poter così essere eletto, al ritorno negli Stati Uniti, presidente del Club dei Grassi. Ed è proprio Bisby, il grassone, che durante lo speronamento della balena da parte della nave viene scagliato fuori bordo e cade sul dorso del cetaceo; poi, dopo che questo – mortalmente ferito – è andato a fondo, si ritrova in balìa delle onde sul gelido mare, e deve anche subire l’attacco di un albatro. Quest’ultimo episodio è meno fantasioso del precedente, anzi proprio in quelle acque si vedrà, dopo la battaglia navale delle Isole Falkland, l’8 dicembre 1914, stormi di albatri assalire i naufraghi tedeschi, facendone strage come di inermi prede. (12) Comunque, alla fine Brisby viene salvato dai marinai della Stella Polare, che si erano finalmente accorti della sua scomparsa e avevano invertito la rotta per venirlo a cercare (meno realistica, però, è la prolungata permanenza dell’uomo nelle acque sub-antariche, che avrebbero dovuto provocarne la morte per assideramento in pochi minuti).

Il viaggio verso l’Antartide offre inolte a Salgari la possibilità di sfoggiare le sue conoscenze in fatto di storia e geografia, ad esempio mettendo in bocca ai due protagonisti, Wilkye e Linderman, una dotta conversazione sulla reale statura dei Patagoni, che, secondo Pigafetta, erano così alti che un marinaio europeo giungeva sì e no all’altezza della loro cintura. (13)

"È laggiù che vivono gli uomini più alti del globo? – chiese Bisby a Wilkye e a Linderman che osservavano la costa coi cannocchiali.

"- Sì – rispose l’americano.

" Ma che sia vero che sono di statura colossale? Mi hanno detto che gli uomini più alti della razza bianca non giungono alla loro cintola.

" – Frottole – disse Linderman. – I primi navigatori che li hanno veduti hanno affermato questo, ma hanno solennemente mentito.

"- E perché, signor Linderman? – chiese Wilkye.

" – Perché si è positivamente constatato chela statura dei Patagoni di rado supera i due metri. È bensì vero che taluni navigatori ne hanno veduti di quelli molto alti, come Falkner che nel 1740 ne misurò uno che era alto metri 2,33 e Mayne e Cunningham che videro un capo alto metri 2,88; ma queste sono eccezioni.

" – Eppure, signor Linderman, io credo che i Patagoni un tempo siano stati assai più giganteschi ed anche altre tribù indiane dovevano avere stature eccezionali. I navigatori Lemaire e Schouten, che visitarono la Patagonia nel 1615, asserirono di aver trovato degli scheletri umani che avevano 11 piedi d’altezza, circa tre metri e mezzo.

" – Ci credete?

" – Oh, non sono essi soli che hanno veduto scheletri così mostruosi. Halmas, che percorse il Perù nel 1515, vide delle ossa umane di una lunghezza eccessiva, ma che, secondo lui, dovevano rimontare ad epoche assai remote: Gnetil vide quelle ossa nel 1715 e ne accertò l’esistenza; Acosta, che fu nel Messico nel 1588, trovò pure degli scheletri giganti ed i Messicani presentarono a Cortez delle tibie e dei teschi enormi.

" – Dunque, se si deve credere a queste cose – disse l’inglese, – deve essere stata popolata da tribù di giganti. […]

" – Ma quei giganti americani, come sono scomparsi?

" -Non si sa, ma forse l’antica razza a poco a poco è deperita. Tuttavia, nei Patagoni, conserva ancora dei campioni notevoli.

" – Ed anche di quelli straordinariamente deperiti.

" – Che cosa volete dire, signor Linderman?

" – Che se in Patagonia vi sono ancora dei giganti, a poche centinaia di metri da loro vivono dei pigmei o quasi

" – Infatti ciò è vero. Al di là dello Stretto di Magellano, che in tali punti misura una così breve larghezza che si potrebbe attraversarlo scagliando un ciottolo, vivono i Fuegiani, che si possono considerare gli indiani più piccoli della razza americana. La loro statura non supera i quattro piedi e cinque pollici, ossia neanche un metro e mezzo.

" – E come mai questa diversità di statura a una distanza così breve? – chiese Bisby che prestava somma attenzione a quel dialogo.

" – Forse per una naturale deformazione causata dal clima, che è più freddo e dai patimenti, vivendo i Fuegiani come bestie selvagge sempre alle prese con la fame – rispose Wilkye…" (14)

Questo brano rispecchia la tipica metodologia con cui Salgari si accingeva a scrivere i suoi romanzi di ambientazione esotica. Innanzitutto si documentava, consultando tutti i testi disponibili sul Paese in cui era ambientata la vicenda, sui loro abitanti, sul clima, la flora e la fauna, ecc. – e, come giustamente osserva Silvio Zavatti, si documentava in modo serio e rigoroso: una sorpresa, forse, per quanti s’immaginavano questo scrittore "improvvisare" esotiche avventure con il solo aiuto dell’immaginazione. Poi, dopo aver costruito un contesto ambientale verosimile attorno alla vicenda ed ai protagonisti di essa (un po’ come il padre del romanzo storico italiano, Manzoni, aveva fatto per ricreare il "clima" del XVII secolo in Lombardia), amava inserire parte di quei dati direttamente nel tessuto narrativo, facendo sfoggio della sua erudizione per mezzo dei dialoghi fra i suoi personaggi – talvolta, bisogna pur dirlo, a scapito del criterio della verosimiglianza e dello stesso ritmo narrativo. Ad ogni modo, questa tecnica conferisce ai suoi romanzi una dimensione di storicità, e quasi di scientificità, che non dispiace ai lettori e specialmente al pubblico adulto, dal momento che costituisce un utile contrappeso ai voli della fantasia, talvolta scatenati, là dove Salgari mette in scena situazioni puramente d’immaginazione: come quando, in Le due tigri, fa lanciare un rinoceronte indiano alla carica del muretto dietro il quale hanno cercato riparo Sandokan e Yanez, distruggendolo come un castello di carte. (15)

Sempre ne Al Polo Australe, dopo che la nave ha superato una burrasca al largo di Capo Horn, Salgari ci offre una chiara e persuasiva spiegazione astronomica del fenomeno della notte polare, sempre servendosi di un dialogo fra i personaggi della vicenda, in questo caso l’audace Wilkye e il buffo ma simpatico Bisby.

" – Fra mezz’ora la campana ci radunerà a cena.

" – A cena?… – esclamò Bisy stupito. – A pranzo, vorrete dire.

"- No, amico mio: avete dormito dodici ore e sono quasi le nove di sera.

" – Ma voi siete pazzo o volete scherzare, Wilkye. Non vedete che splende ancora il sole?

" – E che cosa vuol dire ciò?

" – Che in nessun paese del globo, alle 9 di sera, si vede il sole. Guardate com’è ancora lontano dall’orizzonte!

" Questa regione, mio caro Bisby, è diversa dalle altre, e l’astro diurno, per ora, non tramonterà che alle undici; fra pochi giorni a mezzanotte e fra qualche settimana non si nasconderà più. Ci illuminerà per ventiquattro ore continue, anzi per tre o quattro mesi, se continueremo a scendere al sud e per sei se toccheremo il Polo.

" – Ma che storie strabilianti mi narrate, Wilkye? Volete scherzare, approfittando della mia ignoranza?

" – No, vi do la mia parola! Guardate il mio orologio: segna le 8 e 50 minuti ed il sole non accenna a tramontare.

" – e anche il mio! – esclamò Bisby, che cadeva di sorpresa in sorpresa. – ma che paese è mai questo?… C’è da impazzire, Wilkye.

" – E perché, amco mio?

" – Perché non comprendo questo fenomeno.

" – Non è un fenomeno e la spiegazione è semplicissima, mio caro Bisby. Nelle regioni settentrionali, sapete perché le giornate d’inverno si accorciano?

" – Non ve lo sparei dire; non m’intendo che di carni salate.

" – Semplicemente pel fatto che allora il sole volge i suoi raggi più diretti verso le regioni meridionali, situate al di là dell’Equatore, le quali appunto allora godono l’estate. Il Polo Nord, essendo il più lontano dall’Equatore e quindi anche dal sole che si trova nell’emisfero australe, a causa della rotondità della terra non può ricevere alcun raggio solare. Infatti se Baltimora, e per conseguenza tutte le regioni situate sullo stesso parallelo, all’inverno godono di dieci ore di luce, quelle più al nord ne godranno solamente nove, le altre più lontane otto, sette e via via finché talune non ne avranno affatto. La stessa cosa avviene nelle regioni australi. Il sole ha passato l’Equatore e si allotana sempre più dall’emisfero settentrionale, scendendo verso sud. I paesi situati al di là del circolo antartico avranno sempre il giorno ela notte, poiché la terra gira, ma il Polo che può considerarsene come il perno, rimane quasi fisso, quindi laggiù il sole durante l’estate non tramonta mai. Quando però si allontana e risale nell’emisfero settentrionale, piomba laggiù una notte orrenda che ha la stessa durata. Aspettate che sopraggiunga l’autunno, e in queste regioni vedrete il sole allontanarsi rapidamente, le giornate scorciarsi presto, finché regnerà un’oscurità così profonda che né le stelle né la luna riesciranno a rompere.

" – Brrr! Mi fate venire freddo, Wilkye.

"- Ne avrete allora, Bisby, e molto. Queste regioni si copriranno di nevi e di ghiacci e la temperatura discenderà a 40° e perfino a 50° sotto zero…" (16)

Non c’è dubbio che questo dialogo potrebbe ben figurare in un testo didattico per la scuola primaria; e questo è un aspetto della narrativa di Salgari che andrebbe, a nostro avviso, approfondito, se non altro per rivedere l’atteggiamento di malcelata diffidenza con il quale la pedagogia "ufficiale" accolse la straordinaria diffusione dell’opera salgariana fra la gioventù. Scrivono infatti Guido Armellini e Adriano Colombo: "Un altro scrittore per ragazzi di grande successo non ebbe intenti educativi [a differenza di Collodi], anzi fu a lungo avversato dagli educatori quanto amato dal suo pubblico. Emilio Salgari (veronese, 1862-1911) amò presentarsi come un capitano di mare a riposo ricco di ricordi; in realtà aveva seguito studi nautici in gioventù, ma non aveva compiuto più di qualche viaggio nell’Adriatico. […] Le sue storie di avventure in mari esotici […] offrono alla fantasia del lettore situazioni drammatiche , intrecci movimentati, colori accesi: lo stile è enfatico e sommario, ma il ritmo narrativo è avvincente." (17)

Ma se è vero che Salgari rifiuta di fare esplicitamente della morale con i suoi romanzi (come se la lealtà, il coraggio, il senso della giustizia che animano i suoi personaggi non fossero già una forma di educazione morale per i suoi giovani lettori), nel campo della didattica – specialmente geografica – i suoi romanzi formano una vera e propria enciclopedia per ragazzi. Si giudichi come egli descrive la Caverna Mammuth del Norda America, che è a tutt’oggi (con il suo sviluppo orizzontale di oltre 500 km.) la più vasta fra quelle conosciute, nel romanzo Duemila leghe sotto l’America in cui l’ingenere John Webher – a somiglianza del professor Lidenbrock di Viaggio al centro della Terra – sbuca all’aperto, dopo un viaggio emozionante, nientemeno che presso il lago Titicaca, fra Perù e Bolivia: "Nessuna caverna del vecchio mondo, per ampiezza, per profondità e per bellezza può gareggiare con la caverna del Mammouth nel Kentucky.

"Quell’immenso antro che s’addentra nei fianchi di una montagna e che scende nelle viscere della terra trasformando il suolo in una spugna colossale, dovuto chissà mai a quale cataclisma, si trova a breve distanza dal Green River, quasi nel cuore del Kentucky.

"Parrebbe che una simile caverna dovesse avere un’apertura smisurata, invece tutt’altro. Vi si penetra per una specie di pozzo di quaranta piedi di profondità e largo a malapena tre metri, il quale riceve, verso uno degli angoli, le acque di un ruscello che vi si precipitano dentro con un fragore diabolico, udito, là sotto, a grande distanza. La più vigorosa descrizione non può dare che una pallida idea di questa caverna della quale gli americani del nord vanno superbi.

"È un caos di tenebrosi corridoi che salgono nel monte, che scendono nelle viscere della terra or dritti, or spezzati, or vasti e alti, or stretti e tanto bassi da urtarvi con la testa; è un caos di cupole splendide, di antri bizzarri, di celle e cellette, di vòlte immense, di archi spaventevoli, di colonne smisurate, traforate, tagliuzzate, le cui cime si smarriscono sovente nella profonda tenebra." (18)

E, accanto alla geografia, la storia: l’altra grande passione di Salgari; specialmente la storia contemporanea. I curatori delle opere di Salgari che si sono presi la briga di verificare le sue fonti, si sono resi conto che egli leggeva quasi tutto quel che era disponibile sull’argomento che intendeva trattare, anche in fatto di attualità politica. Ad esempio, quando scrisse Le stragi delle Filippine, si documentò minuziosamente sulla relazione di J. Montano, Voyage aux Philipphines, 1879-1881, pubblicato sul Tour du monde nel 1884 e ripubblicato in volume, da Hachette, nel 1886 e su altri testi ed articoli della letteratura specialistica. Il risultato è che il paragrafo conclusivo dell’opera (che ricorda, nell’impianto, quello analogo de Le due tigri per la repressione della rivolta dei Sepoys a Delhi) si può leggere come una pagina perfettamente attendibile di storia politico-militare; anche se, ironia della sorte, quando il romanzo uscì in libreria, nel 1898, lo scoppio della guerra ispano-americana doveva capovolgere totalmente l’esito della lotta d’indipendenza nell’arcipelago asiatico:"La caduta quasi contemporanea di Cavite Vecchia, di Novoleta, di Malabon e di Rosario, come aveva preveduto il generale Polavieja, aveva dato un colpo mortale all’insurrezione, tale da non poter più mai riaversi.

"Dopo quelle quattro sanguinose battaglie, per gli spagnuoli non fu che una continua vittoria, seguita da numerose sottomissioni.

"Il 10 aprile [del 1897] anche Santa Cruz veniva presa d’assalto, mentre venivano sconfitte le bande insorte di Pamplona e nuovamente quella di Bulacan.

"Alla metà dello stesso mese, in tutte le province meridionali l’insurrezione era domata ed il vittorioso generale ritornava in Spagna lasciando l’incarico al vincitore di Salitran e di S. Nicola di continuare la campagna contro le ultime bande, in attesa dell’arrivo del generale Primo Rivera.

"Il 25 un tentativo d’insurrezione a Jolo, nel gruppo delle Solù, fra i deportati, veniva prontamente soffocato colla fucilazione di tutti i capi, mentre nel maggio le truppe spagnuole, sotto la direzione di Primo Rivera e del generale Sucre espugnavano, con venti compagnie, Niaio difeso strenuamente dal capo Aguinaldo, poi Halang, Amadeo e Quintena, facendo prigioniero il capo degli insorti Andrea Bonifacio e finalmente Maragondon.

"Nel mese di giugno il generale Jaramillo espugnava Talisay mentre altre colonne spagnuole facevano prigionieri tremila insorti che avevano abbandonato poco prima la città. Verso la metà venivano iniziate le operazioni militari nel centro di Luzon sconfiggendo le ultime bande insorte. Nel luglio l’insurrezione si poteva ormai considerare come completamente vinta, dopo nove mesi di sanguinosi combattimenti e dopo la sottomissione della famiglia di Aguinaldo e di cinquemilasettecento insorti." (19)

f) MIGUEL SERRANO E "L’ANTARTIDE E ALTRI MITI".

Nato nel 1917, diplomatico in pensione, il novantenne Miguel Serrano è senza dubbio una figura tra le più discusse della cultura del suo paese, il Cile, e dell’intera letteratura mondiale. Personaggio politicamente scorretto quant’altri mai (basti dire che è, ed è sempre stato, un fanatico sostenitore di Hitler e del nazismo), ha subìto una sorta di censura da parte dell’editoria europea, tanto che vi è tuttora pochissimo conosciuto, nonostante il suo valore artistico non sia di molto inferiore a quello del celebratissimo Pablo Neruda e senz’altro non da meno di quello di un altro scrittore cileno contemporaneo, molto tradotto all’estero negli ultimi anni, Francisco Coloane. Tuttavia le sue posizioni ideologiche sono difficilmente separabili dalla sua opera puramente letteraria e ciò spiega in parte l’ostracismo di cui è stato vittima. Per la stessa ragione, ossia l’estrema difficoltà di separare la dimensione politico-filosofica da quella artistico-letteraria, non è senza imbarazzo che ci accostiamo alla figura e all’opera controversa e discutibile di questo autore, imbarazzo dovuto al fatto che si potrebbe leggere il nostro interesse per lui, impropriamente, in chiave di riabilitazione ideologica. Al contrario, riteniamo doveroso confrontarci con la sua opera letteraria per il semplice fatto che, tra quanti scrittori si sono occupati dei Poli nella letteratura occidentale, egli occupa un posto in sommo grado eminente; vorremmo anzi dire che occupa, in un certo senso, il posto più notevole, poiché lui solo non ha visto nei Poli (anzi, nel Polo Sud: poiché solo di esso si è occupato) un mero pretesto scenografico per sviluppare una trama narrativa o una creazione poetica, bensì il centro e la ragione stessa della sua arte e della sua concezione poetica.

Da giovane Serrano abbraccia il marxismo; poi, deluso dal comunismo, alla vigilia della seconda guerra mondiale, aderisce al Partito nazionalsocialista cileno di Jorge Gonzalez von Marées, collaborando al giornale Trabajo (Il lavoro) e poi fondando la rivista letteraria La Nueva Edad, dalle cui colonne fiancheggia la politica dell’Asse e passa in seguito a una decisa propaganda antisemita. Egli sostiene, riprendendo l’antica concezione gnostica e catara, che Yahweh incarna il princpio del male, è il Demiurgo che ha creato il mondo e che regna sui pianeti caduti, sul mondo delle tenebre; e che esiste un complotto sionista il cui obiettivo ultimo è quello di instaurare il dominio mondiale del giudaismo. Fra il 1941 e il 1942 avviene la svolta più importante nell’itinerario di Serrano: l’ingresso in un circolo esoterico capeggiato da un cileno-tedesco, il quale è convinto che Hitler sia un avatar, una incarnazione del dio Vishnu la cui missione è combattere una lotta eroica – non solo sul piano fisico e materiale, ma anche e soprattutto sul piano mentale -contro le nere forze dissolvitrici del Kali-Yuga, e che è possibile mettersi telepaticamenrte in contatto con centri iniziatici dell’Himalaia e con lo stesso Hitler. A guerra finita, tra parentesi, Serrano sostiene che Hitler ha rinunciato al suo corpo fisico ma si è alchemicamente costruito un corpo di luce con il quale si è trasferito nell’Antartide, donde aspetta il momento di ritornare per riprendere la lotta contro le forze delle tenebre. In quest’ultima parte del suo pensiero, Serrano coniuga miti e leggende degli Araucani e soprattutto degli Ona, il ramo dei Tehulche stabilito nella Terra del Fuoco, circa l’esistenza di un qualcosa, di un grande spirito che ha le fattezze di un gigante (la figura biancovestita del finale di Gordon Pym?), laggiù nelle bianche soltudini del Sud, fra i ghiacci eterni e le nebbie di un mondo intatto e misterioso, con la fede in una missione divina di Hitler – posizione che lo accomuna a quella strana figura di esoterista che fu Savitri Devi. Nel 1947-48 Serrano prende parte, come giornalista, alle spedizioni antartiche della marina da guerra cilena e ne riporta la convinzione che i nazisti, negli anni precedenti, vi abbiano costruito delle basi segerete (20) e che il corpo di Hitler – trasfigurato, come quello di Cristo dopo la resurrezione – si è portato laggiù dopo la caduta di Berlino in mano ai Sovietici.

Più tardi compie dei viaggi in Europa e stringe amicizia con lo psichiatra Carl Gustav Jung e lo scrittore Hermann Hesse; inoltre fa conoscenza con il poeta Ezra Pound e il filosofo Julius Evola, oltre che con Otto Skorzeny, l’ex paracadutista tedesco che aveva liberato Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso. Nel 1953 entra nel corpo diplomatico e svolge funzioni di ambasciatore in India (fino al 1962), Jugoslavia, Romania, Bulgaria, Austria. Rimosso da ogni incarico dal presidente Salvador Allende nel 1970, si ritira in esilio in Svizzera, a Montagnola nel Canton Ticino, abitando nella stessa casa che era stata di Hermann Hesse. Nel 1973, dopo il colpo di stato del generale Augusto Pinochet, Serrano rientra in Cile, dove si segnala per la clamorosa partecipazione a convegni e commemorazioni di personaggi come Rudolf Hess o come i sessantadue giovani nazisti cileni che furono uccisi, nella loro patria, nel 1938.. Ha svolto inoltre un’intensa attività di conferenziere e di scrittore, dando alle stampe un nunero considerevole di libri di filosofia, esoterismo, poesia, narrativa, memorie. Tra i titoli più importanti ricordiamo La Antàrtica y otros Mitos (1948), Quien llama en los Hielos (1957), Las visitas de la Reina de Saba, con prefazione di C. G. Jung (1960); El circulo hermético, de Hesse a Jung, tradotto in lingua inglese con il titolo Jung and Hesse: A Record of Two Friendships (1965); El Cordòn Dorado: Hitlerismo Esotérico (1974); Adolf Hitler, el Ultimo Avatara (1984); No Celebraremos la Muerte de los Dioses Blancos (1992), e le Memorias de El y Yo, ossia Hitler e lui stesso, in quattro volumi (1996-1999). Instancabile, il terribile vegliardo continua a scrivere e a far parlare di sé, rilasciando interviste anche su temi di attualità; come quella del gennaio 2004 in cui accusa gli Stati Uniti di volersi impadronire della Patagonia mediante il cavallo di Troia delle organizzazioni ecologiste.

Tutto ciò crediamo che basti per delineare la figura di un personaggio scomodissimo e francamente indifendibile, non solo sul piano politico ma anche su quello strettamente culturale; e tuttavia non privo, come poeta e come cultore di antichissimi miti amerindi, di un suo fascino strano, oltre che di una indubbia tenacia nel remare controcorrente, che si esita se qualificare come franchezza brutale o come sfrontatezza e autentico vaneggiamento. Comunque, in questa sede ci limiteremo ad approfondire l’interesse di Miguel Serrano per la dimensione mitica e poetica dell’Antartide, caratterizzata da potenti squarci visionari che ne fanno un legittimo continuatore, e anzi un originale rielaboratore, del Poe di Gordon Pym e del Lovecraft de Le Montagne della Follia. I due testi più notevoli, in questo senso, dello scrittore cileno sono La Antàrtica y otros Mitos, (L’Antartide e altri miti), pubblicato a Santiago nel 1948, e Quien llama en los Hielos (Chi chiama nei ghiacci), pubblicato a Santiago (e, più tardi, a Barcellona), nel 1957; nessuno dei due è stato finora tradotto in lingua italiana, né in inglese. (21) Nel secondo, Serrano racconta di un sogno nel quale una creatura misteriosa gli rivela che l’immortalità si raggiunge fra i ghiacci e si consegue a patto di ibernarsi, in vista del supremo combattimento con l’Angelo delle Ombre. Tuttvia, noi concentreremo ora la nostra attenzione sul primo di questi due libri, che ci pare più significativo nel senso della tradizione esoterica relativa al continente antartico e più "in linea", idealmente, con quelli già esaminati di Poe e di Lovecraft.

La Antàrtica y otros Mitos è la trascrizione di una serie di conferenze tenute dall’autore nella sua patria. Fin dalla copertina, il libro tributa un omaggio esplicito al Gordon Pym e alla sua dimensione esoterica: vi campeggia la figura spaventosa di un gigante alato, bicorne, che impugnando un tridente si staglia al di sopra di un candido paesaggio ghiacciato. Del resto, come osserva Erwin Robertson, l’Antartide in se stessa è un mito (22); dunque il "mito antartico" di Serrano non è che una variante di un mito preesistente alla tradizione esoterica occidentale, già presente – secondo lui – nelle credenze del popolo che da migliaia d’anni vive più vicino a quel mistero: gli Ona della Terra del Fuoco.

Ma lasciamo la parola a Sergio Fitz Roa, uno dei più noti studiosi di Serrano nei paesi di lingua spagnola: "Serrano riporterà numerose leggende intorno al tema che ci interessa: le cronache delle guerre degli Onas (antichi abitanti della Terra del Fuoco), la leggenda della vergine dei Ghiacci, il continente Lemuria, il gigante di Poe e, ancora, la sfacciata idea che Adolf Hitler vive nel freddo antartico. E anche se a prima vista ci sembra non esistere alcuna relazione tra ciascuna di esse, vi è, dato che tutte queste leggende fanno riferimento ai misteriosi dimoratori dell’Antartide. Vi è qui un altro punto nel quale confluisce il pensiero di questi tre autori [cioè Poe, Serrano e Lovecraft]. Serrano conosce il racconto di Poe e riguardo al Gigante Bianco annota: ‘Poe conosceva la leggenda dei Selknam sugli Jon che abitano l’Isola Bianca. O sapeva anche del Prigioniero dell’Antartide, che vive nel suo nero fondo, e che per questo stesso motivo appare bianco?

"Per capire chi sono gli Jon e a che cosa si riferisca Serrano quando parla dell’Isola Bianca, si raccomanda di leggere la pagina 25 de La antàrtica y otros Mitos, dove si spiega che gli antichi Onas (i Selknam erano solo una delle tribù Onas) credevano nell’esistenza degli Jon: uomini di una casta aristocratica dotati di facoltà sovrannaturali e possessori dei Misteri. ‘Furono gli Jon, maghi Selknam della Terra del Fuoco, coloro che conservano i segreti insegnati da Queno e che ancora si immortalizzavano imbalsamandosi entro i ghiacci del sud, per resuscitare rinnovati nel più lontano futuro. Dicono anche i Selknam che è nel Sud, lì, in quell’Isola Bianca che sta nel Cielo dove dimorano gli spiriti dei loro antenati, conducendo una vita libera da preoccupazioni.’ (23)

"Saranno questi spiriti ancestrali gli Antichi menzionati da Lovecraft? Sarà l’Antartide quella Isola Bianca della quale parlano le vecchie leggende onas?

"Serrano, che fu uno dei primi cileni a visitare la regione antartica, ci parla della relazione esistente fra questo luogo e la follia e segnaliamo, da parte nostra, che il titolo dell’indimenticabile racconto di Lovecraft Alle Montagne della Follia non è dovuto a un capriccio o a una trovata ingegnosa per richiamare l’attenzione di alcuni lettori febbricitanti.

"Serrano dirà che l’unica via per comprendere questa realtà del Sud o, meglio, per salvarsi dalla follia che lì è in agguato, è il Sogno; ed il mondo dei sogni è un elemento classico nella narrativa di H. P. Lovecraft.

"L’inquietante possibilità che esista una entità non-umana nell’Antartide si registra anche nelle pagine del testo dell’autore cileno. Il sincronismo tra questi due scrittori ci lascia stupefatti, soprattutto per il fatto che Miguel Serrano non conosceva l’opera di Lovecraft, quando scrisse La Antàrtica y otros Mitos. Citiamo, allora, Serrano, che con la sua arte ci ricorda i vecchi alchimisti: ‘Senza dubbio, in quel continente del riposo e della morte vive qualcuno.Un prigioniero si agita, avendo come mezzo di sopravvivenza il fuoco ardente ed eterno. Questa idea di Serrano si plasma anche in un altro testo del medesimo autore: Quien llama en los Hielos.

"In esso vi è un paragrafo di una bellezza terribile: ‘Io ho visto questo essere, questo Angelo nero: lì, nel suo recinto del Polo Sud. È in una immensa cavità oscura che egli risiede… Spazi enormi, senza limiti, lievi e deprimenti allo stesso tempo, che si estendono, sicuramente, nell’interiorità psichica della Terra, al di sotto dei ghiacci eterni. E così si muove il Zinoc… Ascende o discende fino all’estremo di quell’apertura e, da lì, si lancia ad una velocità vertiginosa in cerca del suo altro estremo, della sua fine irraggiungibile… Tutta l’eternità l’ha trascorsa in questo sforzo, cadendo a testa in giù, cercando di raggiungere il luogo antipodico dal quale è stato proscritto dall’inizio stesso della creazione. Il nord è il suo sogno, il suo profondo anelito e la sua maggior sofferenza.’ Lovecraft, da parte sua, nel suo racconto scriverà qualcosa di rivelatore: ‘Fondarono nuove città terrestri, le più importanti di esse nell’Antartico, perché quella regione, scenario del loro arrivo, era sacra. A partire da allora, l’Antartico fu come prima il centro della Civiltà degli Antichi, e tutte le città costruite lì dalla prole di Chtulhu furono distrutte.’ Più innanzi il narratore del racconto di Lovecraft indicherà che le mappe incontrate nella vecchia città polare mostrano che le città degli Antichi nell’epoca pliocenica si trovavano, nella loro totalità, al di sotto del 50° parallelo di latitudine Sud. Queste referenze di entrambi gli autori sono fondamentali, perché ci indicano l’opposizione simbolica tra il Polo Nord (o la mitica Iperborea) ed il Polo Sud, sede degli Antichi. Qusta opposizione non risponde solamente a una differenza di carattere geografico ma, prima di tutto, a delle differenze spirituali. In effetti, il Polo Nord è il polo positivo – in termini cristiani, il Bene – ed il Polo Sud, secondo la stessa prospettiva, il Male. Senza dubbio, questi opposti, conformi ai princìpi della filosofia manichea, sono complementari. Entrambi i Poli mantengono l’Ordine della Terra, regolano il buon funzionamento energetico del nostro mondo. L’unica possibile differenza ha relazione col tipo di energia che irradiano detti luoghi, dacché in verità sono dei centri energetici. Questa conoscenza che si esprime attraverso la letteratura moderna (Lovecraft e Serrano), che differenzia i centri volitivi terrestri, concorda punto per punto col pensiero antico o tradizionale che insegnarono i maestri indoeuropei, per i quali le parole che danno il nome ai distinti luoghi sacri sono: Cielo, Terra o Mondo, Centro e Inferno. Il Cielo, per essi, è la dimora degli eroi, coloro che vissero la vita come si deve, e corrisponde ad Iperborea o al nostro Polo Nord; la Terra è il luogo abitato o il terreno di spedizioni e viaggi, essi la identificavano con l’Asia e l’Europa. L’Inferno , che era la casa dei dèmoni – gli Antichi e gli shoggots – sembra non essere mai stata descritta e ubicata con maggior dettaglio dagli antichi saggi indoeuropei. Questo Inferno è per noi il Polo Sud." (24)

È appena il caso di notare che, negli ultimi decenni, alcuni autori hanno incominciato a ventilare la possibilità che sia esistita effettivamente un’antica civiltà nel continente antartico, che poi l’avanzata dei ghiacci avrebbe lentamente soffocato e le cui rovine giacerebbero, quindi, a migliaia di metri sotto la calotta glaciale del Polo Sud. Il primo ad avanzare questa ipotesi, a quanto ne sappiamo, è stato proprio uno studioso italiano, Flavio Barbiero, col suo libro Una civiltà sotto il ghiaccio che, negli anni Settanta, è passato praticamente inosservato; anche se, poi, le sue tesi sono state riprese in gran parte da due scrittori canadesi di successo, Rand e Rose Flem-Ath. (25) Il libro di Barbiero recava una presentazione di Silio Zavatti, il quale confermava la sua straordinaria capacità di pensare in maniera indipendente rispetto ai dogmi dell’archeologia e della scienza accademica, mantenendo un’apertura epistemologica di trecentosessanta gradi pur essendo abituato, lui uomo di scienza, a muoversi sul solido terreno dei fatti. Il nucleo delle tesi dell’autore era che esistette un’antichissima civiltà primordiale, erede diretta di quella di Atlantide, che svolse il ruolo di centro di diffusione per le successive culture a noi note dell’antichità.

"Continuando a credere nella teoria diffusionista – scriveva Zavatti nella sua prefazione – […] bisognerebbe ammettere che nonostante millenni di lenta maturazione, popoli profondamente diversi abbiano inventato simultaneamente l’agricoltura, l’architettura, gli usi, gli ordinamenti sociali ecc. che presentano un fondo comune senza che vi fossero stati dei contatti di qualsiasi ordine.

"Sarebbe voler credere nell’impossibile e infatti nessuno più vi presta fede.

"Bisogna allora ritornare a un’origine comune della civiltà e non c’è altra strada che riprendere il creduto mito di Atlantide. Non s’inventa nulla perché in tutte le civiltà antiche se ne parla, dai Maya agli Egizi, dai Sumeri agli Indiani, pur sotto nomi diversi.

"Ecco, dunque, che il quadro si completa; le navi atlantidi superstiti della tragedia approdarono in terre diverse e i loro occupanti, in misura più o meno sensibile, influenzarono le culture delle popolazioni incontrate, quando addirittura non le formarono. Solo così si spiega il fondo comune di tutte le civiltà e la spiegazione non ha bisogno di funambolismi per apparire logica. […]

"La prova per eccellenza che la teoria del Barbiero è esatta si può avere soltanto da uno scavo sistematico da farsi in un determinato punto dell’isola Berkner ma, come si è detto, gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione del progetto sono molteplici e di varia natura." […]

"Al principio del 1976 l’ing. Barbiero ebbe la possibilità di aggregarsi a una spedizione alpinistica e un po’ scientifica, organizzata alla garibaldina, che per una ventina di giorni operò nell’area della Penisola Antartica, una regione, cioè, molto lontana dal Mare di Weddell e dall’isola Berkner, ma che poteva riservare pur sempre delle sorprese. Infatti fu nell’isola Seymour che il capitano norvegese C. A. Larsen trovò, nel 1893, una cinquantina di palline di sabbia e ‘cemento’ messe su colonnette dello stesso materiale. Larsen scrisse che quegli oggetti sembravano ‘fatti da una mano umana’. Un’espressione generica per dire che erano oggetti fatti molto bene? Forse, e infatti non li fece mai studiare e analizzare ed oggi, putroppo, non li possediamo più perché andarono distrutti nell’incendio della sua casa a Grytviken (Georgia Australe).

"Nel corso della spedizione del 1976 l’ing Barbiero scoprì nell’isola Re Giorgio (una del gruppo delle Shetland Australi), una grande quantità di tronchi semifossilizzati che potrebbero risalire a 10-12.000 anni fa. Purtroppo gli istituti scientifici ai quali erano stati inviati i campioni di questi tronchi per la datazione col metodo del C14 non hanno fatto conoscere ancora la loro risposta. In Antartide sono stati trovati, a più riprese, dei fossili di alberi e altre piante (Robert Falcon Scott stesso ne riportò moltissimi), ma se i tronchi semifossilizzati trovati da Barbiero risalgono veramente a un massimo di 12.000 ani fa, si ha la prova che fino a quell’epoca l’Antartide poteva essere abitata e molti fatto coinciderebbero con le affermazioni contenute nei dialoghi di Platone e, di conseguenza, con l’ipotesi avanzata da Barbiero in questo volume." (26)

Anche studiosi anglosassoni, come il professor Charles Hapgood, erano giunti a conclusioni analoghe, studiando il problema di alcune antiche carte geografiche che rivelano conoscenza "impossibili", a meno di ammettere l’esistenza di una evoluta civiltà antidiluviana, padrona dei mari all’epoca in cui la morsa dei ghiacci con aveva ancora stretto l’Antartide, e dalla quale sarebbero derivate le conoscenze cartografiche e marittime altrimenti inspiegabili; si veda, per tutte, la celebre carta nautica dell’ammiraglio turco Piri Reis. (27) Fantasie? Certo è che Miguel Serrano, così come Lovecraft e, forse, Poe, hanno dato voce poetica a una ipotesi che ora alcuni studiosi di formazione scientifica hanno ripreso con la massima serietà: che quanto oggi sappiamo sul continente antartico è solo una piccola parte della sua storia antichissima, misteriosa e affascinante; che forse vi fiorirono, prima dell’ultima glaciazione, le imponenti città di una razza evoluta; che forse qualcosa o qualcuno ancora vi si trova, in attesa di essere rivelato all’umanità.

NOTE

1) BECKER, Beril, Jules Verne, il viaggiatore della fantasia, Milano, Mursia, 1974, pp. 202-204.

2) Cfr. CHESNEAUX, Jean, Scienza e avventure: Jules Verne, in Storia della letteratura francese (dir. Da P. Abraham e R. Desné), Milano, Garzanti, 1985, vol. II, pp. 802-803.

3) SORIANO, Marc, Il caso Verne, Milano, Emme Edizioni, 1982, p. 124.

4) Ibidem, p. 191.

5) Ibidem, p. 248-250.

6) VERNE, JULES, Edgar Poe et ses oeuvres, 1864, pubblicato in Le Musée des familles.

7) DE TURRIS, Gianfranco, tutti i seguiti del "Gordon Pym", su Il Tempo del 23 maggio 2004.

8) Su questo arcipelago scomparso, cfr. LAMENDOLA, Francesco, Il mistero delle Isole Auroras, su Il Polo, vol. 3 del 2004, pp. 25-39, e relativa bibliografia.

9) VERNE, Jules, La Sfinge dei ghiacci, Milano, Mursia, 1977, pp. 255, 258-260.

10) ZAVATTI, Silvio, Emilio Salgari e i suoi romanzi polari, pubblicazione della Scuola Media Statale Ippolito Nievo di Spilimbergo, 1957 (prov. di Pordenone, allora prov. di Udine).

11) ZAVATTI, Silvio, Ibidem, pp. 8-9.

12) Cfr. HOUGH, Richard, La caccia all’ammiraglio von Spee, Milano, Longanesi & C., 1971, p.318.

13) PIGAFETTA, Antonio, Relazione del primo viaggio intorno al mondo, a cura di Manfroni, Milano, Alpes, 1928; e MOSER, Giorgio, Alla scoperta di Magellano, Milano, F.lli Fabbri ed., 1974, pp. 122-24.

14) SALGARI, Emilio, Al Polo Australe, Bologna, Carroccio, 1961, pp. 31-32.

15) Cfr. SALGARI, Emilio, Le due tigri, Bologna, Carroccio, p. 58.

16) SALGARI, Emilio, Al Polo Australe, cit., pp. 55-56.

17) ARMELLINi, G.-COLOMBO, A., La letterarura italiana, Bologna, Zanichelli, 1999, vol. 8, pp. 425-426.

18) SALGARI, Emilio, Ventimila leghe sotto l’America, Milano, Bietti, 1974, pp.27-28.

19) SALGARI, Emilio, Le stragi delle Filippine (a cura di M. Spagnol), Milano, Mondadori, 1974, p. 222.

20) Cfr. ROBERT, James, La guerra segreta della Gran Bretagna in Antartide, su Nexus, nr. 61 e 62 del 2006; Temolo, Luca, I dischi volanti di Hitler, su Xché, nr. 3 del 2003; TROMBETTI, Pierluigi, Una base nazista in Antartide, su Hera Magazine; BACCARINI, Enrico, Dal nazismo occulto al fascismo esoterico, su Archeomisteri, nr. 20 e 21 del 2004.

21) Ci serviremo, pertanto, della traduzione italiana di alcuni passi dell’opera eseguita dal sito Internet Alchemica (www.alchemica.it/antartidemito.html)).

22) ROBERTSON, Erwin, Por el Hombre que Vendrà, in Ciudad de los Césares, nr. 18, 1990.

23) Il missionario-esploratore De Agostini, uno dei massimi conoscitori della Terra del Fuoco, che conobbe diversi sciamani e potè osservarli da vicino nelle loro attività occulte, li chiama non Jon, ma Kon, e afferma che "il potere dei Kon si estendeva fin dopo morti e per questo i Kon venivano seppelliti con la faccia rivolta all’ingiù, affinché non potessero inviare malattie ai vivi": DE AGOSTINI, A. M., Trent’anni nella Terra del Fuoco, Torino, S. E. I., 1955, p. 302.

24) FITZ ROA, Sergio, L’Antartide e il mito lovecraftiano, in Ciudad de los Césares, nr. 47, 1997.

25) FLEM-ATH, rand e Rose, la fine di Atlantide, Casale Monferrato, Piemme ed., 1997.

26) BARBIERO, Flavio, Una civiltà sotto ghiaccio, Milano, Ed. Nord, Milano, 1974, pp. XII-XV.

27) HAPGOOD, Charles P., Maps of Ancient Sea King, Adventure Unilimited Press, 1996; HANCOCK, Graham, Imoronte degli Dèi, Milano, Corbaccio, 1996; Id., Civiltà sommerse, Milano, TEA, 2005.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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