
La fuga di Giona, parabola dell’uomo contemporaneo
24 Ottobre 2007
Quando il viandante ha i piedi feriti
24 Ottobre 2007In un precedente lavoro abbiamo trattato i due anni (361-363 d. C.) nei quali Flavio Claudio Giuliano fu imperatore dell’Impero Romano riunificato, dopo la morte improvvisa di Costanzo II, che scongiurò i disastri di una guerra civile. Ora ci occuperemo del periodo in cui egli era stato nominato Cesare per le province occidentali e aveva condotto una vittoriosa serie di campagne militari in Gallia, riconquistando le province che erano state occupate da numerosi gruppi di Germani migrati al di qua del Reno. Proprio l’esito brillante di tali operazioni indusse i suoi soldati ad acclamarlo Augusto, a Parigi, nel 360, mettendo in moto il meccanismo per cui il giovane filosofo neoplatonico, che già aveva stupito il mondo con il coraggio e l’abilità mostrati sui campi di battaglia, si vide proiettato verso la signoria dell’Impero Romano.
Giuliano era nato a Costantinopoli nel 331 ed era figlio di Giulio Costanzo, fratellastro di Costantino. Insieme al fratello Gallo era scampato alle stragi del 337, di cui furono vittime il padre e la maggior parte dei parenti, ricevette una pia educazione cristiana, in parte sotto la guida del vescovo Eusebio di Nicomedia. Più tardi, a Efeso e ad Atene, Giuliano entrò in contatto con gli ambienti culturali della seconda sofistica imbevuti di platonismo; e, a Costantinopoli, subì l’influsso (indiretto) di Libanio e quello, diretto, del filosofo neoplatonico e taumaturgo Massimo. In seguito a ciò, e ai suoi personali, intensi studi di filosofia e religione, maturò una concezione ispirata all’antico politeismo e al misticismo neoplatonico.
Nel 355 Costanzo II, che pure – l’anno prima – aveva fatto condannare a morte suo fratello Gallo, lo innalzò alla dignità di Cesare, gli diede in moglie sua sorella Elena, e gli affidò il governo della Gallia, minacciata dalle invasioni dei Franchi e degli Alemanni. Nel 358 Giuliano riportò una decisiva vittoria sugli Alemanni, a Strasburgo, coronando una serie di campagne condotte con maestria pari soltanto all’audacia, e imponendo sovente il suo volere ai propri titubanti generali. Da questa vittoria ebbe inizio la breve ma gloriosa e affascinante parabola dell’ultimo imperatore pagano di Roma antica.
SOMMARIO
I. Gallo è nominato Cesare per l’Oriente.
II. Sua personalità.
III. Repressione di una rivolta di Ebrei in Galilea.
IV. Violenze del governo di Gallo.
V. Richiamo, arresto ed esecuzione di Gallo.
VI. Critica situazione delle Galle.
VII. Usurpazione di Silvano a Colonia.
VIII. Eliminazione di Silvano.
IX. Invasioni barbariche in Gallia.
X. Carattere di queste invasioni.
XI. Impotenza di Costanzo e respingerle.
XII. Giuliano.
XIII. Sua infelice adolescenza.
XIV. Sua difesa a Milano.
XV. Suo ritiro ad Atene e suoi studi.
XVI. Progetti di Costanzo.
XVII. Giuliano è proclamato Cesare.
XVIII. Si reca a Vienne.
XIX. Disordine del governo gallico.
XX. Scoraggiamento delle popolazioni e necessità di un rinnovamento.
XXI. Assedio di Autun.
XXII. I barbari si ritirano.
XXIII. Avanzata di Giuliano.
XXIV. Ritorno delle legioni sul Reno.
XXV. Sosta nelle operazioni.
XXVI. Assedio di Giuliano in Sens.
XXVII. Nuovo insuccesso dei barbari.
XXVIII. Fallito attacco degli Alamanni contro Lione.
XXIX. Oltrepassano il Reno in forze.
XXX. Battaglia di Strasburgo.
XXXI. Avanzata di Giuliano in Germania.
XXXII. Trattato di pace con gli Alamanni.
XXXIII. Attacco dei Camavi in Batavia.
XXXIV. Loro guerriglia.
XXXV. I barbari contro i barbari.
XXXVI. Cariettone.
XXXVII. Sua collaborazione con Giuliano.
XXXVIII. Repressione e resa dei Camavi.
XXXIX. Attacco proditorio contro Camavi e Salii.
XL. Ragioni dell’azione di Giuliano.
XLI. Le guerre tra l’«uomo civile» e il «selvaggio».
XLII. La figura di Cariettone.
XLIII. Problemi della ricostruzione in Gallia.
XLIV. Rifornimenti granari dalla Britannia.
XLV. Sospetti di Costanzo II.
XLVI. Carattere del governo di Giuliano.
XLVII. Riscuote le tasse nella II Belgica.
XLVIII. Riduzione della «capitatio» a meno di un terzo.
XLIX. Ripresa economica e civile della Gallia.
L. Disegni politici di Costanzo.
LI. Il concilio di Arles.
LII. Concilio di Milano.
LIII. Terza cacciata di Atanasio da Alessandria.
LIV. Esilio di papa Liberio.
LV. Trionfo di Costanzo.
LVI. Suo ingresso a Roma.
LVII. Abbellisce la città.
LVIII. Fa togliere l’altare della Vittoria in Senato.
LIX. Combatte sul Danubio Quadi, Sarmatie Limiganti.
LX. Le ragioni del suo filo-arianesimo.
LXI. Ritorno di Liberio a Roma.
LXII. Concilio di Rimini.
LXIII. Concili di Seleucia e di Costantinopoli.
LXIV. Rinnovata minaccia persiana.
LXV. Fallite trattative, assedio e distruzione di Amida.
LXVI. Modesti risultati conseguiti da Shapur.
LXVII. Caduta di Singara e Bezabde; inconcludente controffensiva romana.
LXVIII. Richieste di rinforzi a Giuliano.
LXIX. Giuliano acclamato Augusto.
LXX. Respinge gli Alamanni.
LXXI. Rafforza la sua posizione in Gallia.
LXXII. Sua fulminea avanzata fino a Sirmio.
LXXIII. Morte di Costanzo in Cilicia; Giuliano unico imperatore.
I
Sconfitto nella battaglia di Mons Seleucus, coraggiosamente come aveva lottato, il 10 agosto del 353 l’usurpatore Magnenzio morì suicida, gettandosi sulla propria spada; giusto in tempo per prevenire i suoi soldati che intendevano consegnarlo a Costanzo II in cambio del perdono e della vita. Una settimana più tardi, il 18 agosto, suo cugino Decenzio, saputa la notizia, circondato anch’egli d’ogni parte dai nemici, si inpiccò a Senone ( Sens ) per non cadere nelle mani del vincitore.
La tragica figura di Magnenzio si staglia con forza plastica sul corrusco tramonto del mondo antico. Precursore dei patrizi germanici della seconda metà del IV e del V secolo, di Arbogaste, Stilicone, Ricimero, pagò con la vita la sconfinata audacia e l’immaturità dei tempi. Con lui precipitò al suolo la speranza di far risorgere il morente paganesimo, anche se questo sogno non morì del tutto. Ci sarebbero voluti il breve remo di Giuliano l’Apostata e l’estremo tentativo di Eugenio e Arbogaste, sul cadere ormai del secolo, per fare la prova provata dell’incapacità del paganesimo a opporre una efficace resistenza, sia culturale sia militare, al dilagare della religione di Gesù Cristo. La strada iniziatasi al Ponte Milvio e snodatasi attraverso Scutari, Grisppoli e Mursa doveva concludersi in quella fatale, ventosa giornata di settembre del 394, lassù nella valle del fiume Frigido, uno sconosciuto affluente dell’Isonzo.
Per la prima volta dai tempi di Costantino il Grande, l’Impero Romano era nuovamente unito nelle mani di un unico sovrano. Presto, però, si sarebbe dimostrato troppo esteso per poter essere governato da un uomo solo in un momento simile, tanto più che Costanzo II non possedeva quelle eccezionali qualità politiche che le circostanze richiedevano.
Prima di mettersi in movimento contro Magnenzio, Costanzo aveva richiamato suo cugino Gallo e gli aveva affidato, col titolo di Cesare, il governo dell’Oriente. Costanzo diede prova di un certo qual coraggio morale nel chiamare a un posto di tanta importanza un uomo che aveva parecchi motivi per odiarlo. Insieme al suo fratello minore, Giuliano, Gallo aveva assistito alla strage di tutti i suoi parenti, nonché di suo padre, dopo la morte di Costantino il Grande, e si era poi visto confinato in uno splendido ma rigoroso esilio in vari luoghi dell’Asia Minore. La rivolta di Magnenzio in Occidente segnò l’inizio della sua breve fortuna. Costanzo, al momento di partire da Costantiopoli per la guerra contro l’usurpature, si avvide di non avere nemmeno un ministro del quale potersi fidare per affidargli il governo dell’Oriente. Richiamò allora dall’esilio il cugino Gallo, lo sposò con sua sorella Costantina e lo mandò ad Antiochia quale suo Cesare per governare le province orientali e fronteggiare la minaccia persiana durante la sua assenza.
II
Il compito non sembrava presentare particolari difficoltà per il venticinquenne Cesare. Nonostante la notoria irrequietezza delle popolazioni orientali, aggravata in quegli anni da roventi dispute religiose (il ritorno di Atanasio ad Alessandria non aveva certo riportato la tranquillità ), in compenso l’unica grave minaccia esterna, quella persiana, si era proprio allora improvvisamente smorzata. Infatti il Gran Re Shapur II aveva dovuto accorrere nella regione dell’Oxus per far fronte all’ invasione di un popolo scita, i Massageti, e di conseguenza era stato costretto a sospendere quasi completamente le operazioni offensive sul fronte mesopotamico. È pur vero che nessun trattato di pace, a quanto risulta, era, stato esplicitamente concluso, ma
tutt’al più, forse, una tregua; sicché ci si doveva aspettare una ripresa dell’offensiva sassanide non appena le preoccupazioni sulla frontiera nord-orientale fossero cessate per il monarca di Ctesifonte.
Dire quale sia stato veramente il governo instaurato dal giovane Cesare in Oriente è cosa assai difficile, perché le fonti che pressoché unanimemente lo accusano danno l’impressione di una dichiarata parzialità. Alcuni vorrebbero che egli fosse un uomo sanguinario, assetato di potere quanto la moglie Costantina, brutale e assolutamente senza scrupoli. Qualche moderno, per contro, ha avanzato l’ipotesi che egli abbia cercato di inaugurare una politica economica e sociale energica e attiva, venendo incontro principalmente alle esigenze degli strati popolari più deboli e indifesi. Tutto questo, però, può soltanto essere oggetto d’ipotesi. Noi dobbiamo onestamente riconoscere che le notizie in nostro possesso non consentono di precisare meglio i contorni, indubbiamente ambigui e talora foschi, della personalità di Gallo. L’unica constatazione, basata sui fatti, che possiamo esprimere, è che egli era passato forse troppo bruscamente dall’esilio al governo, da una posizione privata ed oscura ad un posto di immensa responsabilità, e che Costanzo lo aveva richiamato senza avergli dato prima alcuna possibilità di fare esperienza.
È ben vero che suo fratello Giuliano, il futuro imperatore, partendo da basi analoghe seppe dimostrare eccezionale moderazione, saggezza e indubbie doti di governo; ma ciò deve piuttosto considerarsi una fortunata eccezione; infatti è difficile che un uomo senza esperienza, inasprito dall’esilio e da una vita piena di timori, possa divenire di colpo un buon governante. Nell’Oriente greco-asiatico era forse ancor più difficile che mai, perché in quella terra fremente e irrequieta occorreva una conoscenza fuor del comune degli uomini e delle situazioni per non fallire. La gelosia dell’Augusto cugino, la sua lontananza, la presenza di consiglieri gelosi e interessanti presso l’uno e l’altro, non facilitavano le cose. In definitiva, era difficile per il Cesare residente ad Antiochia comprendere quali fossero i reali desideri dell’imperatore. L’esempio dell’infelice Germanico, ai tempi di Tiberio e di Pisone, era un eloquente ammonimento in proposito.
III
Come Germanico e forse ancor meno di lui, Gallo dimostrò di non possedere né tatto né diplomazia. Bel suo breve governo dell’Oriente egli mise in evidenza troppo spesso un tratto di crudeltà addirittura sfrenata, e gli scrittori dall’epoca ci assicurano che una grave parte di responsabilità nei suoi deplorevoli eccessi ricadeva sulla moglie Costantina, donna che amore dell’intrigo e mancanza di umanità era ben degna di appartenere alla dinastia di Costantino il Grande.
Una rivolta degli Ebrei della Galilea fu soffocata in un bagno di sangue e una delle maggiori città dello sfortunato paese ove aveva vissuto Gesù Cristo, Diocaesarea, venne distrutta come si trattasse di città nemica. È probabile che la repressione di questo movimento segnasse il colpo di grazia per l’agonizzante ebraismo palestinese. Essa distrusse buona parte di quel poco di ebraico che era rimasto in Palestina dopo i fatti del 68-70 e dopo le rivolte sanguinosissime del tempo di Traiano e di Adriano. Dopo di allora la Palestina cessò quasi del tutto di essere un paese ebraico per divenire una contrada cosmopolita di chiara impronta greca. Non esistevano più, da moltissimo tempo, né Gerusalemme né il suo Tempio. Sulla costa, Cesarea era divenuta una città greca quasi quanto Antiochia di Siria. Il sogno di ellenizzare la Palestina, perseguito dai Seleucidi e stroncato dai Maccabei, si completò durante l’Impero Romano Cristiano. Il sorgere di numerose chiese cristiane, da Costantino il Grande in poi, contribuì all’estraniamento di quel paese dalle sue antiche matrici ebraiche non meno del l’avanzata della cui tu» a ellenica.
IV
Altre difficoltà dovette Gallo fronteggiare in Asia Minore, dove gli Isauri, rozzi e semiselvaggi montanari delle regioni interne, tornavano ora a farsi turbolenti. Come al tempo della grande crisi del secolo III, nuovamente essi scendevano nelle valli dei più ricchi paesi circostanti seminando il terrore con le loro violenze e le loro ruberie. Fon paghi di ciò, costruirono come una volta dei nidi di pirati sulle dirupate scogliere del Mediterraneo e ripresero a correre i mari rendendo insicura la navigazione commerciale. La minaccia era di carattere locale, tuttavia abbastanza preoccupante, né pare che Gallo sia riuscito a porvi dei freni in misura apprezzabile.
Quello che decise la sua rovina, però, furono i tumulti di Antiochia, scoppiati per l’approvvigionamento dei viveri e degenerati in una serie di gravi violenze. In tutto questo affare Gallo si comportò con la solita crudeltà e arrivò al, punto di scatenare una rivolta di piazza contro: due funzionari inviati da Costanzo a verificare le ragioni del suo operato. I due sciagurati, che a dispetto delle istruzioni ricevute avevano assunto un contegno altero e tracotante, infiammando l’animo vendicativo dì Gallo, vennero presi dalla folla inferocita, legati, trascinati per le strade, percossi a morte, e finalmente gettati nelle acque dell’Oronte. Questo episodio, d’altra parte, sembrerebbe suggerire che Gallo era benvoluto e difeso da una parte almeno della popolazione di Antiochia, certo la più facinorosa ma, appunto per questo, probabilmente anche la più povera. Un simile indizio comunque è troppo esile per permetterci di affermare che Gallo era una specie di tribuno della plebe e che cadde in disgrazia perché aveva il torto di difendere i poveri dalle prepotenze dei ricchi.
V
I fatti di Antiochia furono la classica goccia che fa traboccare il vaso. Da tempo Costanzo era a conoscenza dei rapporti tutt’altro che lusinghieri che gli pervenivano sul conto del cugino e dei suoi sistemi di governi. Soprattutto gli eunuchi, che erano numerosi alla sua corte, si adoperavano per provocare la rovina del Cesare e rimanere arbitri incontrastati, dietro le spalle di Costanzo, dell’arena politica. Però quest’ultimo, impegnate nella guerra contro Magnenzio in Occidente, non aveva mai voluto darvi gran peso, e non solo non aveva voluto prendere alcun provvedimento a suo carico, ma aveva anzi continuato a scrivergli nei termini più amichevoli e lusinghieri. Se poi già meditasse fin da allora la rovina del cugino, e la sua fosse tutta una commedia, è una cosa non solo possibile, ma addirittura probabile. Costanzo II era un uomo timido e sospettoso, e nei suoi metodi politici preferiva la dissimulazione alle risoluzioni a viso aperto. Insomma il veleno piuttosto che la spada; per questo lo abbiamo definito il capostipite di una lunga serie di tiranni bizantini, la cui pietà religiosa non appariva incompatibile con la spietatezza politica. Comunque, se è vero, come tutto lascia pensare, che egli fosse essenzialmente un timido, il sospetto e la mancanza di umanità erano le naturali disposizioni del suo carattere. Egli dapprima ritirò gradatamente, senza dare nell’occhio, le truppe di stanza nell’Oriente, e delle, quali Gallo avrebbe potuto eventualmente servirsi, nel caso si fosse aggrappato a qualche risoluzione disperata. Poi comunicò al Cesare il desiderio, insistente, ma non proprio sotto forma di ordine, di vederlo personalmente, e come sempre accompagnava le sue lettere con false dimostrazioni di stima e amicizia. Gallo era da poco rimasto vedovo; e Costantina, morendo, lo aveva lasciato privo del proprio appoggio altolocato, o forse si era solo risparmiata una seconda vedovanza, sempre per mano del suo Agusto fratello.
Nell’autunno del 354, dopo molte indecisioni e dopo altrettante insistenze da parte di Costanzo, Gallo si risolse a mettersi in viaggio verso Occidente. Lungo la strada si rese conto, ormai troppo tardi, dell’errore commesso. A Poetovio venne arrestato e tradotto a Fianona, in Istria, ove, sottoposto a interrogatorio confessò le colpe che gli venivano ascritte. Costanzo personalmente, da Milano, emanò la sentenza di morte. Allora Gallo, le mani legate dietro la schiena come un volgare malfattore, venne decapitato ( fine del 354 ); poco lungi dal luogo ove già Crispo aveva perduto la vita per volere del suo inumano genitore, Costantino il Grande.
VI
Un altro infausto episodio, quello del magister peditum Silvano, valse a convincere Costando dell’impossibilità, per un uomo solo, di continuare a governare l’Impero Romano senza delegare ad altri una parte del proprio potere, e d’altra parte del pericolo insito in qualsiasi delega di tale genere. Il vasto Impero era come una nave che, violentemente sballottata dalle onde, vaga di qua e di là e infine comincia a sfasciarsi, e i suoi frammenti vanno alla deriva ognuno per proprio conto. Ecco perché non appena l’attenzione del governo si concentrava in Occidente, l’Oriente cominciava ad allontanarsi dall’Occidente, sotto la spinta di cento crepe, e viceversa. Era divenuto ormai pressoché impossibile mantenere unito uno Stato di tali dimensioni e dilaniato da tendenze centrifughe così poderose.
Negli ultimi tempi dell’usurpazione di Magnenzio, un generale di razza franca, Silvano, che militava nel campo dei ribelli, era stato indotto a disertare e a passare dalla parte di Costanzo. Questi, dopo la vittoria, lo aveva premiato con un altissimo comando, quello di magister peditum, ossia comandante della fanteria dell’esercito romano, e col comando militare di tutto lo scacchiere gallico. Tale decisione nasceva dalla riscontrata necessità di decentrare in qualche misura il governo dell’Impero e voleva significare all’alta ufficialità barbarica dell’esercito, che con Costantino era giunta ai vertici del potere, che la guerra contro Magnenzio non era stata una guerra contro i barbari amici dell’Impero. D’altra parte esistono varie ragioni per considerare la mossa di Costanzo come una pericolosa imprudenza. Fidarsi di un traditore è sempre pericoloso, e lo è ancor di più affidargli un grosso esercito in un momento delicato. La Gallia settentrionale era stata invasa dagli Alamanni e da alcune popolazioni franche, su invito dello stesso Costanzo, durante l’avventura imperiale di Magnatizio. Molte città di confine erano state prese e distrutte; molte, più all’interno, vivevano nel terrore. Le campagne, sconvolte dal brigantaggio dei Bacaudae, erano più in fermento che mai e sembravano, paradossalmente, ansiose di aprire le porte ai barbari d’oltre Reno. In questa situazione occorreva affidare la direzione delle operazioni a un uomo valente e deciso, a un uomo che avesse molta pratica e una conoscenza diretta degli uomini e delle cose. Silvano sembrò l’uomo adatto.
VII
A questo punto Ammiano Marcellino, l’onesto storico pagano del IV secolo, ci racconta una storiella che ha dell’incredibile e che pure, stranamente, è stata accettata per buona anche da parecchi studiosi moderni che amano mostrarsi sprezzanti verso tutto quanto non abbia l’apparenza della più rigorosa certezza. Ci vien detto, dunque, che un nemico personale di Silvano, residente a corte ( l’imperatore si era trattenuto dapprima ad Arles, ma viaggiava continuamente da una città all’altra ), falsificò alcune lettere del generale franco, cancellandone il testo e lasciando solo la firma, al di sopra della quale scrisse di suo pugno certe notizie, dalle quali risultava evidente il tradimento dell’autore. Ciò fatto trasmise le lettere a Costanzo, il quale, sospettoso per natura, immediatamente cascò nella trappola e credette ciecamente. Ora, nulla vieta che le cose possano effettivamente essere andate così. Ma la storia del tardo Impero è talmente piena di lettere ambigue, di missive falsificate, di aneddoti ingenui ed ingegnosi al tempo stesso, che pare strano come quasi solo in questo caso si sia pensato di prestarvi fede. È più probabile invece che si tratti della solita, gustosa, fantasiosa storiella, di quelle tanto adatte a solleticare la curiosità di un pubblico ormai alquanto propenso alla storiografia scandalistica.
Sta di fatto che Silvano, quando seppe di aver perso la fiducia dell’imperatore ( il che equivaleva a una condanna a morte ), decise di recitare davvero quella parte che gli si era voluta attribuire, e vestila porpora facendosi acclamare Augusto dai suoi soldati, l’11 agosto del 355.
VIII
Così, l’indomani della sanguinosa, faticosissima vittoria su un usurpatore, di bel nuovo ne spuntava un altro, che tutto lasciava prevedere non meno abile né meno pericoloso del primo. Il momento era difficile e veramente delicato. Silvano non era il primo venuto; era uno dei migliori ufficiali di Magnenzio, godeva di un vasto seguito fra le truppe, e sembrava in grado, secondo tutte le apparenze, di ravvivare il fuoco sopito, ma non definitivamente spento, del movimento del suo vecchio capo. Già abbiam visto quanto fosse esplosiva la situazione delle campagne galliche, quanto ardenti e drammatici i conflitti sociali, quanto grave e incombente la stessa minaccia esterna, che ora, con le guerre civili dell’Impero, riprendeva forza e consistenza.
Se è vero che Costanzo si comportò da sciocco nel provocare Silvano a una ribellione mai progettata, è pur vero che sì mostrò estremamente abile nel por rimedio al danno fatto. Fingendo di secondare le rivendicazioni di Silvano, lo rassicurò, a mezzo di lettere ( come già aveva fatto con Gallo), e gli inviò il magister equitum Ursicino, in veste quasi di amico e non certo di giustiziere. Urisicino prese contatto con alcioni ufficiali dell’esercito di Magnenzio e non tardò a rendersi conto come non solo molti di essi non nutrissero un sincero attaccamento per il loro capo del momento, ma addirittura buona parte dei soldati era all’oscuro dei piani di Silvano e lo aveva seguito passivamente, senza devozione e quasi, si direbbe, senza rendersi conto di commettere un tradimento nei confronti di Costanzo II. Gli fu dunque facile mettersi d’accordo con questi ufficiali e procedere all’arresto dell’infelice condottiero, che venne senz’altro messo a morte ( primi di settembre del 355 ).
Dal momento della sua proclamazione ad Augusto, avvenuta a Colonia davanti alle truppe, erano trascorsi solamente ventotto giorni.
IX
Così l’incubo di un nuovo Magnenzio era svanito, miracolosamente, quasi prima di aver avuto il tempo per prendere consistenza. Silvano scomparve senza lasciar tracce del suo tentativo. I suoi soldati, avendo protestato la propria buona fede, vennero perdonati e il movimento fini improvvisamente, com’era incominciato. Va notato che Costanzo aveva frattanto avuto il tempo di rendersi conto, secondo Ammiano Marcellino, dell’innocenza di Silvano, ossia della falsità delle lettere esibite dai suoi nemici, e in un pubblico processo lo aveva prosciolto da ogni accusa. Ma Costanzo aveva fama di essere uomo da non perdonare mai nulla, nemmeno l’ombra di un sospetto; e Silvano, non ritenendosi più sicuro, aveva preferito affidare la propria salvezza a un tentativo disperato di usurpazione.
Costanzo dunque, è innegabile, agì con perfidia ma anche con molta abilità nella repressione del movimento di Silvano, così come del resto nell’eliminazione di Gallo. Però commise anche un grave errore, che avrebbe scontato a caro prezzo. Quando, subito dopo l’usurpazione di Colonia, si era temuto, inizialmente, che il movimento potesse dilagare, Costanzo non esitò a ricorrere per la seconda volta ai suoi "alleati" Alamanni, che già aveva impiegati validamente contro Magnenzio o, più precisamente, contro Decenzio. Fu una mossa affrettata e imprudente, della, quale presto egli avrebbe dovuto pentirsi. Mentre infatti Silvano veniva arrestato e giustiziato senza combattere e senza spargere altro sangue, gli Alamanmi, una volta messisi in movimento, non si lasciarono più indurre a deporre le armi e a, ritornare nei loro paesi d’origine al di là del Reno. Ora che avevano constatato, con» mano, la debolezza delle difese dell’Impero; ora che erano stati invitati – incredibile! – a devastare il paese dei loro sogni secolari, proprio dall’imperatore; non ci si poté sbarazzare così a buon mercato di simili alleati, e si constatò quanto fosse imprudente scherzare col fuoco. Ignorando, dunque, le disposizioni, che affannosamente venivano mandate ora dall’imperatore, essi continuarono per proprio conto la devastazione della Gallia, avendo constatato, forse non senza sorpresa, che dell’autorizzazione di Costanzo potevano anche fare a meno. In breve, tutta la riva sinistra del fiume, dal Mare del lord al Lago di Costanza, cadde nelle loro mani, e con essa i castelli, le trincee, tutta quella formidabile e intricatissima linda difensiva – vera Maginot del mondo antico – che per interi secoli, da Giulio Cesare in poi, aveva tenuto in rispetto i turbolenti abitanti della libera Germania. Le guarnigioni romane, abbandonate a sé stesse, per la paralisi dell’esercito dovuta ai torbidi degli ultimi anni, vennero distrutte, catturate, oppure si ritirarono, rinunciando all’impossinile difesa. Intanto, incoraggiati dal successo degli Alamanni, e soprattutto dal crollo del mito dell’imprendibilità della frontiera renana, altre masse di barbari, Franchi soprattutto, si rovesciarono sulla sponda sinistra del fiume dietro ai primi, avanzando minacciosamente verso l’interno.
X
L’irruzione di Franchi e Alamanni oltre il Reno alla metà del IV secolo avvenne in modi differenti dalle invasioni del III secolo, le prime grandi invasioni germaniche entro i confini dell’Impero Romano.
Non si trattava più di scorrerie in profondità, fulminee ma passeggere, tipiche di un invasore preoccupato soprattutto di bruciare e saccheggiare a più non posso e di fuggire subito dopo. Nel III secolo un gruppo di Franchi aveva attraversato tutta la Gallia fino ai Pirenei, poi tutta la Spagna, e di lì era passato fino in Africa. Per trovare movimenti di tale portata bisognerà arrivare alle grandi invasioni del V secolo: ma allora si tratterà della fuga di interi popoli, fuga davanti al terrore unno, non di scorrerie isolate. Invece l’invasione di Franchi e Alamanni al tempo di Giuliano avvenne metodicamente, a breve raggio ( non oltre i cinquanta chilometri dalla riva del fiume ), ma su un fronte unito che tutto spazzava e sommergeva innanzi a sé. Benché la superficie di territorio occupato fosse relativamente limitata, furono una quarantina o una cinquantina le città galli che vennero conquistate e distrutte, comprese le maggiori – Tréviri, Colonia, Strasburgo, antichi centri di romanità sulle lontane sponde del Reno. Le fortificazioni sul grande fiume vennero smantellate e distrutte con furia selvaggia, così come Pitti e Scoti avrebbero fatto – e già avevano fatto – col Vallo in Britannia. In una parola, la presenza romana nelle regioni invase venne a cadere del tutto, vera anticipazione dei re "rii barbarici di un secolo e mezzo dopo. Queste invasioni franche e alamanniche non avevano avuto origine, a quanto pare, da situazioni drammatiche come sarà, più tardi, l’irruzione degli Unni in Europa e la reazione a catena da essi innescata. Per questa ragione gli invasori non si gettavano come cavalli terrorizzati dal fuoco, che corrono impazziti qua e là e pensano i»-» solo a mettere la maggior distanza possibile fra sé e il pericolo. Erano invasioni sistematiche, seppure ancor su scala ridotta; o meglio, era l’inizio del passaggio dalla fase delle invasioni ( tipica del III secolo ) a quella delle migrazioni ( che sarà, invece, caratteristica della fine del IV e della prima metà del V ).
XI
Costanzo non tardò a rendersi conto dell’errore commesso chiamando i barbari contro Magnenzio e contro Silvano, e cercò, sebbene pressato da molti altri problemi, massime di natura religiosa, come vedremo, di porre qualche rime dio al disastro del anale era i a gran parte responsabile» Per due volte, nel 354 e nel 355, Costanzo personalmente si mise in campagna contro gli Alamanni, forse i più pericolosi nemici sulla frontiera renana, ma senza raggiungere risaltati apprezzabili. Fu cosi che, nel novembre del 355, i Franchi conquistarono la grande Colonia, che nell’agosto del 354 aveva visto iniziare la brevissima avventura di Silvano. Intanto, anche i Sassoni si univano nella vasta invasione, nel corso della quale quaranta città, secondo Zosimo, quarantacinque secondo Giuliano, caddero nelle mani dei barbari e vennero gravemente danneggiate o distrutte.
L’insuccesso di Costanzo contro gli invasori d’oltre Reno non era tanto causato da scarsezza di forze, quanto dalla mancanza di tempo, giacché altre minacce premevano sugli immensi confini dell’Impero e ovunque la presenza dell’imperatore appariva egualmente urgente e ugualmente necessaria. In Mesia e in Pannonia, Samati e Quadi erano tornati a farsi turbolenti e a minacciare la linea del medio e basso Danubio. Come se non fosse bastato, in Persia i Sassanidi avevano ricacciato l’invasione degli Sciti Massageti, della quale si è già parlato in precedenza e, dopo la condanna a morte del Cesare Gallo, del quale avevano temuto l’energia, nuovamente ricominciavano ad attaccare e molestare le fortezze romane della Mesopotamia. Fu sotto la pressione dì codeste gravi minacce, aggravate dalla tesa e complicata situazione venatasi a determinare in quegli anni in seno alla Chiesa cristiana., che Costanzo II dovette lasciare incompiuta la campagna gallica e partire per non più farsi vedere ai di la delle Alpi. Ma dovette pensare, naturalmente, ad affidare a qualcuno il governo e la difesa di quelle tormentate province, ove egli era ormai impossibilitato a trattenersi.
XII
Una serie di circostanze volle che la scelta dell’uomo in questione cadesse sopra il fratello dell’infelice Gallo, Giuliano, che era ormai l’unico superstite, oltre a Costanzo medesimo. della famiglia di Costantino il Grande. Perché l’imperatore, nella sua sospettosità, si sia deciso a richiamare per una missione così alta e difficile il suo ultimo parente maschio, il quale avrebbe avuto fin troppi motivi per odiarlo e nessuno per sentirsi riconoscente verso di lui, è cosa che merita una spiegazione. Per prima cosa, dobbiamo ricordare che Costanzo II era senza figli, pur essendo passato a seconde nozze con Eusebia, figliola di Flavio Eusebio; né aveva speranze di poterne avere un giorno. Si potrebbe dunque, sulle prime, sospettare che il richiamo di Giuliano dall’esilio avesse origine da una sorta di isterica reazione dopo il massacro di tutti gli altri parenti, ossia qualcosa di simile a quanto fece suo padre Costantino il Grande con i suoi figli di secondo letto e i nipoti, dopo aver pronunciato le condanne a morte di Crispo, Fausta e Liciniano.
Ma vi sono parecchi elementi i quali lasciano invece pensare che non si sia trattato di nulla del genere. Un uomo timido e sospettoso, come Costanzo era, non avrebbe potuto permettersi simili slanci di tardivo pentimento Costanzo, inoltre, era forse ancor più del padre incline a soppesare freddamente gli aspetti utilitaristici di ogni situazione: nel presente caso, dunque, gli importava assai più di trovare l’uomo adatto a salvare la situazione in Gallia, che compiere un qualsivoglia gesto riparatorio verso un cugino esiliato e offeso. Ora, il punto è proprio questo: nulla, assolutamente nulla, nell’autunno del 355, faceva sospettare che il giovane Giuliano possedesse le qualità richieste da una così difficile emergenza.
XIII
A quanto ci dicono le fonti contemporanee, fu Eusebia, la seconda moglie di Costanzo, a suggerire al marito il richiamo di Giuliano, anzi ad insistere con notevole audacia e intelligenza perché così fosse fatto. A tutta prima, come si è detto, la sua ostinazione poteva sembrare una vera stramberia: Giuliano era non solo uno sconosciuto alla grandissima maggioranza dei sudditi dell’Impero, ma altresì un giovane che, ancor meno del disgraziato fratello, sembrava adatto a prendere in mano il governo di una grande provincia, e per di più in simili frangenti. Ma a questo punto è necessario qualche cenno sol suo carattere e sulla sua vita trascorsa, assai breve, perché l’argomento sarà sviluppato con maggiore ampiezza in altra sede (vedi il nostro saggio L’imperatore Giuliano, 361-363 d. C.).
Si è già detto che Giuliano, insieme a Gallo, dopo il massacro dei suoi parenti a Costantinopoli nell’estate del 337, aveva trascorso la sua fanciullezza in esilio da un luogo all’altro, attraverso varie località dell’Asia Minore. Nulla gli era mai mancato, né il rispetto dei servitori, né un’istruzione adeguata al suo sangue; ma aveva dovuto rimanere forzatamente appartato dal mondo vivo e reale, ch’egli poteva solo immaginare fuori le aura dorate delle sue prigioni. La sua fanciullezza e la sua adolescenza erano trascorse nella solitudine e nel dolore, con la spada di Damocle perennemente sospesa sul capo di un improvviso ripensamento di Costanzo, e di una tragica morte, come quella toccata ai suoi congiunti.
Di carattere Giuliano era profondamente diverso dal suo fratello maggiore Gallo, dal quale durante l’esilio fu tenuto separato, come pure durante il periodo del suo governo in Antiochia. Quanto Gallo era impulsivo, energico, per non dire violento e perfino crudele, Giuliano era solitario, malinconico, chiuso e meditabondo. Possedeva un salute malferma e molti, allora, credevano che non sarebbe diventato mai vecchio. Il suo carattere sensibile e gentile gli faceva sentire con tanta maggior pesantezza la durezza della propria situazione. Ma, come poi si vide, le tragedie e le avversità, della sua solitaria fanciullezza non arrivarono mai ad amareggiarne il carattere o a fiaccarne lo spirito. Fiero ma senza alterigia, profondamente onesto e legato ai suoi cari o al ricordo di essi, egli avrà forse odiato Costanzo, ma forse lo disprezzava troppo per poterlo veramente odiare. La sua unica passione, nei lunghi anni di esilio solitario, furono gli studi; su di essi la sua anima, assetata di dignità e di sapere si getta con ardore inesausto. I suoi principali interessi erano di natura filosofica, e in seconda istanza, letteraria, indice di una natura pacata e profondamente contemplativa. Quanto alla religione, Costanzo ebbe cara che venisse istruito nella più stretta osservanza della dottrina cattolica, e fu in quegli anni giovanili che il ragazzo cominciò a prendere segretamente in odio il fanatismo dei Cristiani, le loro meschine lotte intestine e per il potere, il loro disprezzo per la gloriosa tradizione ellenica. Che poi questo sognatore, questo filosofo dall’aria malaticcia potesse celare anche delle doti di concretezza fuori dell’ordinario, questa era una cosa che nessuno o quasi nessuno, allora, avrebbe potuto immaginare.
XIV
Abbiamo detto ‘quasi nessuno’, perché una persona, forse, c’era, ed era, stranamente, la moglie di Costanzo, Eusebia, donna indubbiamente dotata di molta acutezza e di una lungimiranza fuori dal comune.
Quando il Cesare Gallo fu richiamato da Antiochia, arrestato, processato e ucciso, Giuliano si trovava a Milano, ove la corte dell’imperatore risiedeva in quel momento. Colà egli trascorse nuovamente alcune giornate terribili: addolorato per l’esecuzione del fratello, Giuliano fu gravemente in pericolo di viti, per la perfidia degli eunuchi che già avevano tramato la rovina di Gallo. Essi suggerivano a Costanzo che sarebbe stato un grave errore lasciare in vita il giovane: benché al none rito e gli sembrasse del tutto inoffensivo, un domani avrebbe potuto ricordarsi del sangue di suo fratello e cercare di vendicarlo. In tutta la corte egli aveva un solo alleato, ma un alleato potente: Eusebia, che contrastava presso il sospettoso consorte le insinuazioni degli eunuchi.
Finalmente, lo stesso Giuliano, dopo aver trepidato alcun tempo sulla propria sorte, fu ammesso a parlare in presenza dell’imperatore. Tutti gli occhi erano puntati su di lui, giovane di ventidue anni ( era nato nel 332 ), e spiavano con maligna attenzione se un qualche sia pur minimo gesto tradisse risentimento o indignazione per la recente uccisione del fratello, l’unico familiare che gli fosse rimasto al mondo. Giuliano superò la prova con dignità e intelligenza. Reprimendo la sua amarezza e il suo risentimento, parlò con modestia e al tempo stesso con fierezza, come pochi si sarebbero aspettati. Non si abbassò mai a dire una parola di male sulla memoria del fratello, benché non ne ignorasse i difetti, che non erano pochi né lievi; ma anche più tardi, quando diventerà imperatore, continuerà a parlare di Gallo con affetto, scusando generosamente i lati oscuri del suo carattere. Del pari non si abbassò a supplicare la clemenza dell’imperatore per delle colpe che non aveva mai commesso. Le sue parole colpirono Costanzo per il profondo senso della dignità e della franchezza di chi le pronunciava, un uomo sul quale pesava l’ombra di una secreta condanna a morte e il peso di una giovinezza trascorsa nell’esilio.
XV
Quella dignità e quella franchezza salvarono Giuliano. Si decise .li risparmiargli la vita, ma di allontanarlo da Milano e dall’Italia, ove in molti continuavano a desiderare la sua morte. Metro la clemenza di Costanzo noi possiamo facilmente vedere la bontà e l’intelligenza tenace di Eusebia, una donna le coi virtù rischiarano il grigio panorama delle donne dei Costantiniani. Giuliano fu mandato così ad Atene, a studiare la sua amata filosofia, a immergersi nell’ebbrezza di quel grandioso passato che per tutta la fanciullezza e l’adolescenza aveva venerato. Lì, ad A. te ne, visse del tutto appartato dalla vita politica, dedicandosi esclusivamente ai suoi stadi, al sogno della grandezza passata della Grecia, dei suoi saggi, delle sue divinità, e superando in breve i suoi stessi maestri. In quel periodo il suo amore per la classicità, por il neoplatonismo, per i vecchi culti caduti in disuso, avvampò di una fiamma ancor più alta e viva che in passato. E del pari crebbe in lui il disgusto per .. quanto i suoi maestri cristiani ;;li avevano insistentemente insegnato negli anni dell’esilio solitario, e per quanto, nelle vicende turbinose della lotta fra ariani e atanasiani, poteva osservare ogni giorno con i propri occhi. In quei mesi il sogno di far rivivere un passito glorioso, con quel tanto di utopistico e di irreale insito in tale vagheggiamento, prese corpo e andò rafforzandosi nell’animo del giovane. Ma la Grecia del IV secolo dopo Cristo non era più la Grecia del IV secolo avanti Cristo: i misteri avevano in gran parte soppiantato Platone, e il neoplatonismo che tuttora vi si insegnava era imbevuto di credenze magiche di origine orientale. Giuliano pareva non avvedersene. Per lui, passato e presente vivevano di una stessa vita sotto il cielo azzurro e terso della nobile terra ellenica. E così, con ardore di neofita, mentre ascoltava le lezioni dei filosofi neoplatonici, si iniziava ai Misteri di Eleusi; e lentamente, senz’avvedersene, il suo animo puro s’imbeveva di quello stesso fanatismo che tanto aveva preso in odio nella Chiesa cristiana.
XVI
In quel torno di tempo Costanzo, dopo la sua seconda e infruttuosa spedizione contro gli Alamanni, stava volgendo intorno lo sguardo per il vasto Impero alla ricerca dell’uomo cui affidare la salvezza e il governo della Gallia. Fu ancora una volta Eusebia a fargli presente il nome di Giuliano, il quale intanto, fra i marmi del Partenone, sognava di far rivivere un passato tramontato per sempre. Ella suggeriva che Giuliano era l’ultimo parente maschio che Costanzo potesse utilizzare in un momento tanto difficile; e aggiungeva che, sotto i panni del filosofo, si celavano una forza, un ardire a tutti insospettati, e che solo per un momento erano balenati – a Milano, l’anno prima – quando gli sguardi ostili e malevoli di tutta la corte erano fissi ostinatamente, spietatamente su di lui. Ma Costanzo esitava ancora. Anche ammesso che Giuliano possedesse la stoffa necessaria – cosa della quale era lecito dubitare – sarebbe stato prudente richiamarlo dall’esilio e affidargli un incarico tanto importante? Si poteva forse sperare che avesse già dimenticato il trattamento riservato a suo fratello Gallo?
Eusebia riuscì ad aver ragione di queste esitazioni. «Giuliano – gli diceva – è la tua ultima carta sicura; sarebbe follia non servirsene ora. Egli è pur sempre un nipote di Costantino il Grande, al cui nome un tempo la Gallia e gli eserciti del Reno erano stati tanto devoti». Tentare non costava nulla: o Giuliano falliva, e allora si sarebbe rovinato da sé medesimo; oppure riusciva, e allora tutto il merito sarebbe andato a lui, Costanzo, che oculatamente lo aveva scelto e generosamente aveva scordato la cattiva prova fatta con il Cesare Gallo.
Forse furono proprio questi ragionamenti a prevalere sulla titubanza di Costanzo, a vincere i suoi sospetti e i suoi timori. Ciò che la moglie gli suggeriva appariva assai logico e sensato. Se Giuliano non si fosse mostrato all’altezza del compito affidatogli, o sarebbe perito in guerra, oppure i suoi nemici – che, a corte, spiavano sempre l’occasione propizia per eliminarlo politicamente – avrebbero avuto la sua testa. Ma, se riusciva, tutto lasciava pensare che sarebbe stato proprio Costanzo a raccoglierne i maggiori vantaggi. E così, alla fine, Costanzo – che era un debole e un opportunista, ma che non era uno stupido – si lasciò convincere e richiamò Giuliano.
XVII
Nell’autunno del 355 Giuliano fu richiamato da Atene, ove si trovava da circa un anno, e, con l’animo in tumulto, lasciò la Grecia e i suoi amati studi di filosofia e spiritualità per recarsi, una seconda volta, alla corte di Costanzo. Il viaggio in Italia riaprì, forse, una piaga non mai rimarginata; ma i suoi passi erano fermi e i suoi occhi non fuggivano l’interlocutore quando rientrò in Milano, la città che aveva assistito al suo straordinario "processo" dopo la fine di Gallo. Ma quanto erano mutate le circostanze!
Il 6 novembre del 355, alla presenza dei reggimenti schierati nella capitale dell’Occidente, avvenne la fastosa cerimonia della sua proclamazione a Cesare. Costanzo in persona gli pose sul capo il diadema e lo vestì della porpora mentre i soldati, il cui abbigliamento e i cui idiomi tradivano già un crescente imbarbarimento, levavano grida entusiastiche e battevano gli scudi contro il ginocchio. Con questa solenne cerimonia Giuliano venne investito del governo delle province transalpine e fece il suo debutta sulla scena della vita politica dell’Impero Romano.
Senza por tempo in mezzo, il giovane Cesare prese la via delle Alpi e passò nella sofferente terra di Gallia, ove lo aspettavano difficoltà veramente imponenti. Gli erano compagni due ufficiali di fiducia dell’imperatore, Marcello e Sallustio, dei quali il secondo godeva della sua sincera amicizia e che gli si sarebbe rivelato prezioso collaboratore nelle prove drammatiche che lo attendevano.
XVIII
Ciò che il Cesare Giuliano vide in Gallia, mano a mano che avanzava nel crudo inverno attraverso il paese (era partito da Milano il 1° dicembre), impressionò fortemente il suo animo generoso e sensibile. La città di Vienne, ove si stabilì per trascorrere la stagione invernale e preparare le sue forze per la campagna di primavera, lo accolse come un salvatore, vivendo ormai da tempo in un clima da città assediata – benché i barbari si trovassero ancora a grande distanza. Giuliano, fino a quel momento, non aveva ricevuto alcun tipo di educazione militare: le sue cognizioni si limitavano alla filosofia e alle lettere. Per questo motivo Costanzo gli aveva messo al fianco dei generali di sua scelta; ed è anche possibile che l’imperatore, alla fine, avesse pensato di lasciare al giovane Cesare poco più che l’apparenza del governo.
Ma Giuliano era dotato di un carattere volitivo più di quanto non sembrasse, e non volle adattarsi a recitare la parte di Cesare davanti al popolo, lasciando l’effettiva direzione dell’esercito e degli affari di Stato in altre mani. E, da uomo onesto e intelligente quale egli era, comprese subito che l’unica maniera di non lasciarsi confinare in un ruolo puramente decorativo era quella di impratichirsi egli stesso, senza perdere neanche un’ora,, nell’arte militare. I sei mesi che egli trascorse a Vienne furono così impiegati in una applicazione ostinata, virile, alla scuola di guerra, e in quel lasso di tempo egli seppe accumulare un’esperienza che gli sarebbe stata ben presto preziosa.
Intanto osservava gli uomini che Costanzo gli aveva messo intorno, e, soprattutto, le condizioni del Paese e degli spiriti.
XIX
Non senza sorpresa, ben presto Giuliano si rese conto che la grave prostrazione morale degli abitanti era provocata meno dal pericolo reale dei barbari che dalle paurose carenze e dal generale sfacelo dell’amministrazione romana nel Paese. Il terrore del nome germanico, certo, era grandissimo: Zosimo ci racconta come bastasse quel nome a provocare la fuga in massa delle popolazioni; né le truppe apparivano, nel complesso, molto più determinate a combattere. I soldati che lo avevano accompagnato in Gallia (trecentosessanta appena, se dobbiamo credere a quello storico: III, 3, 2) non sapevano fare altro che pregare, quando si trattava di fronteggiare il pericolo. Ed effettivamente, dalla fascia renana occupata negli ultimi due anni, i barbari cominciavano a raddoppiare di audacia e a spingere le loro incursioni micidiali sempre più verso l’interno, verso il cuore della Gallia, ovunque incontrando una resistenza fiacca o, addirittura, nulla.
Tuttavia Giuliano, con la sua acuta intelligenza, non tardò a rendersi conto che il problema esterno costituito dai barbari era solo uno degli aspetti, sebbene il più urgente e pericoloso, del generale sfacelo del governo romano nei Paesi transalpini. L’inettitudine e la viltà dei capi militari, che non si azzardavano a scendere in campo se non nelle condizioni in cui il margine di rischio appariva ridotto a zero, non erano che uno degli aspetti di questa crisi generale. La disonestà dei pubblici ufficiali, diffusa ad ogni livello, aveva scosso la fiducia delle popolazioni e provocato la recrudescenza dei fenomeni di guerra contadina (i famigerati Bacaudae). Dove non regnava l’aperta corruzione, vigeva una disorganizzazione assoluta e, a volte, quasi incredibile. Per esempio, nella tremebonda città di Vienne si scoprì un gran numero di vecchie armi della cui esistenza, inspiegabilmente, nessuno si era fino allora reso conto o se ne era dato pensiero. Prontamente Giuliano le fece distribuire alle truppe, indi procedette a una leva generale, alla quale il popolo rispose entusiasticamente, tanto che vennero accolti perfino parecchi volontari. In tal modo Giuliano veniva recuperando quelle forze, morali e materiali, che i suoi predecessori avevano colpevolmente ignorato o scoraggiato e la cui mancata utilizzazione si era risolta in un ulteriore motivo di debolezza davanti all’invasione germanica.
XX
La crisi di fiducia delle popolazioni galliche nei confronti del potere centrale e dei funzionari governativi era dunque, purtroppo, pienamente giustificata. In una atmosfera d dissoluzione materiale e morale, ogni giorno si registravano scandali, malversazioni, violenze, corruzioni. I funzionari del governo per primi davano il deleterio esempio dell’indifferenza verso le pubbliche calamità e mostravano di preoccuparsi esclusivamente del proprio tornaconto personale. Generali pavidi e inetti, funzionari corrotti e rapaci, un apparato statale e militare in pieno disfacimento: questa era la situazione contro la quale Giuliano si trovò a lottare, fin dall’inverno del 355-56, subito dopo il suo arrivo dall’Italia.
Occorreva ridare fiducia, rinsaldare gli spiriti vacillanti, dimostrare che l’invio in Gallia di un membro della famiglia di Costantino non era un mero espediente propagandistico, ma un concreto impegno da parte del governo imperiale. Occorreva riformare gli uomini ed, eventualmente, sostituirli; ripristinare la legalità; restituire alla pubblica amministrazione le apparenze del disinteresse e la sostanza dell’efficienza e della correttezza. Non si poteva deludere ancora quei cittadini sofferenti, che stavano ricominciando a sperare; non si poteva assolutamente sprecare quest’ultima occasione di ridare loro fiducia nello Stato, pena la rovina generale della provincia.
Ma, innanzitutto, occorreva proteggere il paese dalla gravissima minaccia esterna, che lo attanagliava e che già lo stava sommergendo. La difesa della Gallia e la riconquista del suo intero territorio costituivano, infatti, il presupposto indispensabile di qualsiasi futura politica di buon governo.
XXI
L’inverno trascorse in febbrili preparativi di guerra; nell’arruolamento, nell’armamento e nell’addestramento delle truppe; nella mobilitazione di tutti gli uomini e di tutti i mezzi disponibili. Il Paese rispondeva favorevolmente all’appello del giovane Cesare, accorrendo con entusiasmo inaspettato sotto le sue bandiere. Furono proprio questo entusiasmo, questa partecipazione – che, assolutamente, non potevano essere deluse – a decidere Giuliano per una strategia decisamente offensiva contro i barbari, a dispetto dei timori pusillanimi di tanti alti ufficiali.
Giuliano, poi, benché avesse appena appreso i rudimenti dell’arte militare, possedeva un vero genio strategico e aveva istintivamente compreso una cosa: che lasciare l’esercito ozioso e inattivo mentre i barbari, quasi sotto i suoi occhi, devastavano il Paese, era certo la maniera più sicura per demoralizzarlo e distruggerne la capacità combattiva. La notizia che lo decise a rompere gli indugi fu quella dell’investimento di Augustodunum (Autun) da parte di un’orda di Alamanni e altri Germani (giugno del 356).
Il momento era veramente difficile. L’eventuale caduta della grande città, posta veramente nel cuore della Gallia, nella Lugdunensis Prima, non lungi dalla valle della Loira (Liger), avrebbe comportato delle conseguenze gravissime, sia morali che materiali, per la situazione dell’intero Paese. Giuliano non ebbe esitazioni, e con il suo piccolo esercito uscì da Vienne alla volta della città assediata. Quanto al grosso dell’esercito romano che, al comando di Marcello (in sostituzione del magister equitum Ursicino, l’assassino di Silvano) si trovava più a nord, a Remi (Reims), esso rimase inattivo, assistendo quasi con indifferenza a tanta rovina.
XXII
La valorosa Augustodunum che, al tempo di Settimio Severo, aveva già conosciuto una crudele distruzione non già per mano dei barbari, ma degli stessi esercito romani scatenati nel furore delle guerre civili, resistette bravamente all’attacco degli Alamanni. La sua energica difesa scoraggiò quelle masse disordinate di barbari e le sue robuste mura prostrarono ogni tentativo di assalto. Essi non temevano il numeroso esercito romano dislocato a Remi, conoscendo la lontananza e l’indolenza di Marcello; ma la notizia che Giuliano, con un secondo esercito, stava marciando contro di loro, diffuse il timore di poter restare intrappolati nella morsa.
Giuliano, in verità, stava accorrendo solo con un reparto di cavalleria leggera e con un piccolo nerbo di arcieri; ma la rapidità della sua avanzata e l’astuzia che dimostrava nello scegliere il percorso ingigantirono la minaccia nella immaginazione dei barbari. Quando giunse ad Augustodunum,il Cesare dovette limitarsi a constatare che tutto era già finito. Gli Alamanni e i loro alleati, scoraggiati dalla resistenza delle città e dalle notizie relative all’avanzata dei soccorsi, avevano tolto l’assedio ritirandosi in massa e preferendo evitare di tentar la sorte in una battaglia campale.
I danni che avevano arrecato al paese, però, erano stati veramente terribili. Le campagne all’interno ne erano letteralmente stravolte; le ville e le borgate, incendiate e distrutte; inoltre Giuliano aveva notizia che, al di là del Reno, decine di migliaia di infelici cittadini romani – tutti quelli che non erano periti nel furore dell’invasione – languivano in miseranda schiavitù, né avevano speranza di essere mai, un giorno, riscattati.
Questo spettacolo di morte e di rovina impressionò fortemente Giuliano e lo convinse che non era possibile accontentarsi della ritirata spontanea dei barbari. Così come aveva fatto, un tempo, Marco Aurelio davanti alle mura di Aquileia dopo l’irruzione di Quadi e Marcomanni, anche Giuliano comprese – davanti alle madri che piangevano la schiavitù dei figli, alle spose che lamentavano quella dei mariti – che permettere a quei Germani di far ritorno alle proprie sedi, iundisturbati e carichi di bottino, avrebbe significato infliggere un colpo fierissimo alla già vacillante fiducia delle popolazioni verso lo Stato romano. Di più: avrebbe significato – in un certo senso – invitare quei barbari a ripetere l’impresa, ogni qualvolta si fosse presentata loro un’occasione altrettanto favorevole.
XXIII
Così, dopo una breve sosta nelle città liberate, il giovane Cesare si rimise in marcia alla testa della sua piccola schiera in direzione del maggiore esercito romano, quello di Marcello, che si trovava accantonato vicino alla città di Remi, a mezza strada fra Lutetia (Parigi) e la grande foresta delle Ardenne. Solo dopo avere effettuato il congiungimento e aver convinto quei riluttanti ufficiali della necessità di agire subito, si sarebbero potute incominciare le operazioni su larga scala contro i barbari; ché il piccolo contingente di Giuliano era, da solo, del tutto inadeguato ad affrontare un tale compito.
La marcia da Augustodunum a Remi doveva svolgersi attraverso una vasta porzione della Gallia, ove i barbari ormai scorrazzavano liberamente, incendiando e saccheggiando ogni cosa, ponendo l’assedio a città e borgate, devastando le campagne e rendendo insicure le strade. In certi casi i contadini ribelli, i Bacaudae, si univano ad essi nel nome dell’odio comune contro l’oppressione romana e aggiungevano gli orrori della guerra sociale a quelli dell’invasione straniera. Ma, nonostante tutto, la maggioranza della popolazione era ancora affezionata al governo romano, almeno, sperava di riceverne protezione in quei terribili frangenti. Gli abitabti delle città e i grandi proprietari terrieri erano pronti a collaborare con il Cesare audace e risoluto, purché si riuscisse ad allontanare, una buna volta, il pericolo dei barbari e il timore che, con la sua angoscia mortale, paralizzava gli spiriti non meno della minaccia reale.
XXIV
Alla testa del suo piccolo esercito, dunque, Giuliano appariva di fatto, in quel momento, più simile a un fuggiasco in un Paese virtualmente controllato dal nemico che un sovrano liberatore ormai padrone della situazione. Ma il suo animo intrepido non conosceva la viltà. Uscito da Augustodunum, si diresse a grandi giornate verso il nord, verso Remi, addentrandosi lungo le vie più malagevoli e insolite, per disorientare i barbari e sottrarsi alle insidie che quelli, informati della sua marcia,, gli stavano preparando lungo il cammino. In una serie di piccoli e fortunati scontri egli ebbe ragione di bande vaganti di Germani, passò per la città di Autessiodorum (Auxerre, la futura patria di San Germano), cacciò i barbari da Tricassae (Troyes), che avevano occupata e, finalmente, raggiunse l’accampamento del principale esercito romano, presso la città di Remi. Qui convocò subito un consiglio d guerra e riuscì a convincere, non senza far ricorso a tutta la sua energia, quegli imbelli generali della necessità improrogabile di iniziare una decisa avanzata verso il Reno, onde liberare le contrade occupate e insegnare a quei barbari, fattisi ormai troppo audaci, un salutare timore del nome romano.
Così, nella seconda metà della stagione campale del 356, l’esercito romano si mise in movimento verso nord-est, verso Colonia; e, come Giuliano aveva previsto, gli Alamanni e i Franchi cominciarono a ritirarsi davanti ad esso. Nonostante un improvviso attacco notturno dei barbari, nel corso del quale due intere legioni della retroguardia romana furono tagliate a pezzi, l’avanzata continuò e, in una seconda battaglia essi furono volti in fuga precipitosa verso il Reno. Poco dopo dovettero attraversarlo, abbandonando l’ultimo lembo di territorio romano; e Giuliano, alla testa del suo esercito, poteva fare il suo mesto ingresso nella grande Colonia Agrippina. La città, rimasta nelle mani dei Franchi per quasi un anno, presentava un tristissimo aspetto di desolazione e di rovina.
XXV
Con la liberazione di Colonia terminava la prima fase della controffensiva romana nella regione renana, I barbari erano stati ricacciati, ma non sconfitti in maniera decisiva; e Giuliano, da buon generale, capiva che questo, in guerra, è l’unico possibile risultato soddisfacente. La riconquista di alcune rovine fumanti non poteva certo dirsi un risultato apprezzabile; così come non lo erano, secondo tutte le apparenze, le malfide domande di pace, che in Colonia i capi dei Franchi gli avevano fatto pervenire. Giuliano, tuttavia, non si mostrò ostile a quelle ambascerie, e assicurò i Franchi che, d’ora in avanti, se avessero desistito dal molestare le province romane, la pace avrebbe potuto regnare lungo le rive del Reno. Può darsi che a quell’epoca egli già stesse valutando che la vera partita, quella decisiva, probabilmente si sarebbe giocata l’anno seguente, nella prossima stagione campale; per intanto si accontentò dei risultati conseguiti lungo il tratto inferiore del limes renano.
Più a sud, però, gli Alamanni continuavano ad essere minacciosi. Anche se, dopo la liberazione di Troyes e di Autun e il ricongiungimento delle forze romane, anch’essi erano stati indotti a retrocedere fino al Reno superiore, tuttavia nemmeno loro erano stati veramente sconfitti; anzi, parevano più che mai pronti a riprendere l’avanzata alla prima occasione. Da Colonia fino ad Argentoratum (Strasburgo), sia l’Alsazia che la Lorena erano nelle loro mani o a portata delle loro micidiali incursioni. Occorreva pertanto agire subito, tanto più che, dalla Rezia, Costanzo in persona stava dirigendo una campagna contro l’ala meridionale degli Alamanni, e si offriva quindi l’occasione di serrarli in una morsa. Non si venne comunque, per allora, a battaglia decisiva: la sola minaccia dell’accerchiamento sembrò sufficiente a indurre quei barbari a chiedere e ottenere la pace dall’imperatore.
La campagna del 356 sembrava finita.
XXVI
Anziché far ritorno a Remi, a Lutetia o in qualche altra ben munita cittadella dell’interno, Giuliano decise di fissare il campo per la stagione invernale non troppo lungi dalla frontiera, in posizione centrale, in modo da poter controllare rapidamente – all’occasione – le principali strade verso il Reno. Egli dunque si stabilì, soltanto con un piccolo esercito, nella capitale dei Senoni (oggi Sens), a circa due terzi di strada fra Lutetia e Augustodunum, separandosi dal grosso dell’esercito che rimaneva, come per l’addietro, sotto il comando di Marcello, il nuovo magister equitum per Gallias. È probabile che questa nuova divisione delle forze romane fosse provocata, oltre che da ragioni strategiche, da contrasti fra Giuliano e Marcello, aggravati dal fatto che se Giuliano, come Cesare, teoricamente aveva il governo di tutto il Paese, tuttavia non godeva di una esplicita autorità sull’intero esercito, situazione per lui a stento tollerabile. A peggiorare le cose c’era poi il fatto che Marcello, interpretando sin troppo alla lettera le istruzioni ricevute, a suo tempo, da Costanzo – faceva del suo meglio per contrastare l’autorità del Cesare e immaginava, così facendo, di procurarsi l’approvazione del geloso imperatore.
Per poco, tuttavia, la divisione delle forze romane e il contrasto fra i suoi due capi non riuscirono fatali a Giuliano. Nel cuore del crudo inverno settentrionale, quando ormai nessuno si aspettava che accadesse più nulla di notevole, oltre al sopraggiungere del gelo e della neve, gli Alamanni con barbarica slealtà ruppero inopinatamente la tregua, piombarono nel Paese dei Senoni, sule rive dell’alta Senna, e assediarono il Cesare nel suo quartiere d’inverno. Il colpo, certo lungamente preparato e sferrato con astuzia ma anche con temeraria decisione, mise in gravissimo imbarazzo tutto il sistema difensivo romano. È ben vero che Marcello, se si fosse mosso immediatamente con tutto il suo numeroso esercito alla volta di Senone, avrebbe potuto piombare alle spalle degli assedianti e infliggere loro una memorabile lezione.
Ma il magister, inspiegabilmente, non si mosse; e, incurante del pericolo che incombeva sul cugino dell’imperatore, rimase nei suoi accampamenti con le armi al piede, quasi spettatore indifferente di quei drammatici avvenimenti. Tale comportamento apparirebbe senz’altro inspiegabile se non si tenesse conto di quanto abbiamo prima osservato e cioè che Marcello, probabilmente, agendo in tal modo pensava di guadagnarsi i favori di Costanzo, lusingandosi di averne fedelmente interpretato i desideri più segreti.
XXVII
A Senone, intanto, si passavano delle ore veramente drammatiche. Poco mancò che la città ove già si era consumato il triste destino di Decenzio, più di tre anni prima, non si trasformasse in una trappola fatale per il Cesare della Gallia. Tuttavia, ben lungi dal perdersi d’animo, egli diresse con estrema energia la resistenza, moltiplicando le sortite e impegnando duramente il nemico in attesa di quei soccorsi, che tanto tardavano ad arrivare. Ancora una volta il valore disordinato dei barbari fu superato da una resistenza così vigorosa e imprevista che, dopo un mese di inutile assedio e di perdite incessanti, delusi e furibondi essi dovettero togliere il campo e far ritorno alle proprie sedi, di là del Reno.
Dopo questo gravissimo episodio, Giuliano decise di agire con maggiore energia presso il suo imperiale cugino, affinché Marcello venisse rimosso dal comando e tutti gli eserciti del Paese venissero unificati sotto la sua direzione. I brillanti successi ottenuti fino a quel momento, pur con forze modeste e a dispetto della pusillanimità dei suoi alti ufficiali, lo mettevano adesso in una posizione di forza che, soltanto alcuni mesi prima, sarebbe stata impensabile. Era impossibile combattere contro i Germani per difendere la Gallia e, contemporaneamente, lottare contro i propri comandanti che ostacolavano in tutti i modi la sua azione. Questi argomenti ottennero lo sperato effetto presso l’Augusto, tanto più che la condotta di Marcello durante l’assedio di Senone aveva realmente squalificato quest’ultimo perfino agli occhi del sospettoso sovrano. Marcello venne pertanto richiamato e la caria di magister equitum passò a un capace ufficiale, Severo, che con Giuliano seppe intendersi come mai era riuscito al suo predecessore.
Poco dopo Giuliano completò il proprio successo politico-strategico, ottenendo l’investitura ufficiale del supremo comando militare di tutta la Gallia; e, da allora, fu libero di agire come meglio credeva.
I risultati si sarebbero visti nella stagione successiva.
XXVIII
L’inverno del 356-57 trascorse senza altri incidenti.
Col ritorno della buona stagione, Costanzo ordinò l’attuazione di un piano strategico vasto ed estremamente ambizioso, il cui risultato avrebbe dovuto essere – nella mente dell’imperatore – la distruzione totale o la resa del grosso delle tribù alamanniche. Il piano si basava essenzialmente su di una grande manovra a tenaglia: una branca – quella settentrionale -, al comando di Giuliano, avrebbe dovuto agire da ovest verso il Reno, all’altezza di Argentoratum; l’altra – quella meridionale -, al comando di un generale di nome Barbazione, avrebbe dovuto risalire dall’Italia e tagliare la ritirata ai barbari all’altezza Basilea, ovvero passare il Reno e colpirli sul fianco e sul tergo. Il punto debole di un piano siffatto era che non esisteva, al solito, un preciso rapporto gerarchico fra i due comandanti; e Giuliano che, per carattere non meno che per posizione strategica avrebbe dovuto svolgere la parte principale dell’operazione, non avrebbe potuto disporre che di una piccola aliquota del suo esercito, il rimanente essendo schierato più a nord, lungo il corso inferiore del Reno, a protezione contro Franchi e Sassoni.
Nei primi mesi del 357 Barbazione mosse da Milano alla testa di un’armata abbastanza poderosa, forte di quasi trentamila uomini; e, superate le Alpi, si spinse, attraverso il paese degli Elvezi (regione del Giura),fino al Reno superiore. Nel frattempo gli Alamanni avevano sferrato un improvviso attacco contro Lugdunum (Lione), nella valle del Rodano, probabilmente a scopo di diversione. Mai, fino allora, essi avevano osato spingersi così addentro verso il Mezzogiorno! Ma anche questa volta, come ad Autun, come a Sens, la tempestività di mosse del Cesare fece fallire i loro piani. L’attacco contro Lione si risolse in una autentica carneficina per la tribù dei Leti, che lo aveva sferrato, e in una generale ritirata dei barbari verso l’alto Reno.
XXIX
Barbazione, che si trovava in posizione eccellente per intercettare il loro ripiegamento, assisté al loro passaggio con indifferenza ancor più colpevole di quanta ne avesse mostrata Marcello, qualche mese prima, durante l’assedio di Senone. Egli non ardiva muovere un passo fuori del suo ben munito accampamento, tanto che i barbari potevano spingersi indisturbati quasi fino in vista di esso, saccheggiando e scorrazzando liberamente.
Poco dopo giunse sul posto Giuliano, alla testa del suo modesto esercito di 13.000 uomini, formato in buona parte dai veterani della campagna dell’anno precedente e da truppe di nuova leva. Allora avvenne una scena incredibile. Barbazione non solo rifiutò di unire le sue forze a quelle del Cesare, per proseguire oltre il fiume l’inseguimento dei barbari, ma gli negò addirittura i battelli necessari per la traversata, allegando egli non essere vincolato all’autorità di Giuliano. Questi, allora, cercò e trovò per proprio conto un guado lungo il fiume in magra – si era ormai nel cuore della stagione estiva -, e varcò il fiume effettuando una spedizione dimostrativa sulla riva destra, come aveva fatto Cesare ai tempi di Ariovisto.
La reazione dei barbari fu impressionante. Per tre giorni e tre notti le loro truppe passarono attraverso il Reno, offrendo uno spettacolo indimenticabile. Trentacinquemila guerrieri alamanni, il fior fiore della bellicosa e libera stirpe germanica, sembravano essere usciti dalle foreste d’oltre Reno e dalle paludi della valle del Meno per castigare la temerità del Cesare. Assisteva a quella sena grandiosa il grande re Condomario (o Conodomario), capo supremo degli Alamanni e delle tribù loro alleate, che – a somiglianza degli antichi monarchi persiani – ostentava il titolo superbo di Re dei Re.
XXX
Giuliano venne informato di tutto ciò dai suoi esploratori non lungi dalla rande città di Agrentoratum, l’odierna Strasburgo, in Alsazia, sulla riva del grande fiume. Egli, allora, prese una delle decisioni più temerarie di tutta la sua carriera militare: accettare la battaglia campale, che il nemico sprezzantemente offriva, con il suo solo esercito gallico di tredicimila combattenti (agosto del 357).
La battaglia fu davvero memorabile. Condotti con valore e disciplina, i legionari romani combatterono da eroi e strapparono una vittoria che pareva impossibile. Alla fine della sanguinosissima giornata, i corpi di 6.000 barbari giacevano sul campo; Condomario, l’orgoglioso capo degli Alamanni, era stato fatto prigioniero; e i Romani non avevano a lamentare che la perdita di 243 uomini, tra i quali quattro ufficiali (Ammiano Marcellino, cap. XVI).
Una sola nota stonata era risuonata durante la battaglia: la fuga vergognosa di seicento cavalieri scelti, sui quali specialmente Giuliano aveva fatto affidamento nella sua azione manovrata. La punizione per un simile atto sarebbe stata, secondo l’uso del tempo, la decimazione; ma Giuliano, moderato come sempre, si limitò a infliggere loro una solenne umiliazione davanti a tutto l’esercito, trasferendoli poi altrove. Fu un gesto indovinato: perché quei cavalieri, punti sul vivo, nelle successive operazioni seppero battersi come leoni per lavare il proprio onore dalla macchia di quella fuga sul campo.
Quindi Giuliano fu acclamato calorosamente dai suoi veterani per lo splendido successo riportato e poté, con legittimo orgoglio, inviare presso l’Augusto suo cugino, il superbo Condomario in catene, segno tangibile del suo valore, della sua fortuna e della sua fedeltà verso l’imperatore.
XXXI
Né Giuliano era uomo da accontentarsi di quella strepitosa vittoria; ma – da buon condottiero – comprese che, in guerra, nessun momento è più favorevole che quello dopo una vittoria per prostrare definitivamente il nemico ormai scoraggiato e costringerlo a una resa completa. Ordinata, pertanto, la traversata in forze del Reni, il Cesare alla testa delle sue valorose truppe, che ormai lo idolatravano, avanzò sulla riva destra non per una rapida spedizione punitiva, ma per condurre una vera guerra di annientamento verso il cuore della Germania.
Gli Alamanni, che avevano trasferito più all’interno le loro famiglie e i prigionieri catturati nelle città galliche, ne furono atterriti. Essi da grandissimo tempo non ricordavano una simile invasione, tanto che nessuno dei guerrieri e dei capi allora in vita ne aveva mai sentito parlare, neppure in giovinezza. L’Impero Romano, che tropo presto avevano dato per moribondo, e che audacemente erano andati a provocare, sembrava adesso capace di schiacciarli sotto il proprio peso formidabile. Le selve e i pantani della valle del Meno e della Catena Ercinia assistettero stupefatti a quello spettacolo inaudito, d’altri tempi: le aquile romane che avanzavano alla testa di un’armata poderosa negli oscuri recessi senza sole, ove da generazioni i liberi Germani erano abituati a considerarsi al riparo da qualsiasi minaccia esterna. Sgomenti, abbattuti, essi si videro ridotti ad implorare la pace, promettendo di non molestare mai più le terre di Roma e di restituire, per intanto, tutti i prigionieri fatti in Gallia negli ultimi anni.
Solo a queste condizioni, da vincitore, nel cuore del loro territorio, Giuliano acconsentì a sospendere l’avanzata (autunno del 357).
XXXII
I barbari, però, in effetti non consegnarono ce una parte dei cittadini fatti prigionieri a Colonia, Treviri, Strasburgo e nelle altre città, protestando che altri non ve n’erano. Giuliano, tanto valoroso in guerra quanto astuto nelle trattative diplomatiche, si fece consegnare dai superstiti delle città galliche delle liste con i nomi di tutti i loro parenti e conoscenti che sapevano esser stati fatti schiavi dai barbari. Servendosi di tali liste, Giuliano fu in grado di rinfacciare agli ambasciatori alamanni la loro slealtà e perfidia e minacciò loro la ripresa della guerra se i patti non fossero stati rispettati. Gli ambasciatori, allora, non poterono fare altro che confessare la propria colpa e promettere il rilascio di tutti quanti si trovavano ancora prigionieri in Germania: il che fu fatto, questa volta, senza tentativi di inganno. In seguito lo stesso Giuliano, nella sua Lettera agli Ateniesi, rivendicò il merito di aver liberato dalla schiavitù ben 20.000 cittadini romani, abitanti di quelle quarantacinque città galliche che erano state conquistate e depredate dai barbari fra il 354 e il 356.
La guerra contro gli Alamanni poteva finalmente dirsi conclusa. Essi avevano ricevuto una lezione sufficiente; e gli Agri Decumati, rioccupati dopo che le fortificazioni romane erano cadute in rovina da grandissimo tempo, potevano essere nuovamente abbandonati. Giuliano – come tutti i suoi contemporanei, del resto – incominciava che l’epoca della migrazione dei popoli era incominciata e che i terribili Unni, avvicinandosi all’Europa orientale, stavano per mettere in movimento una grandiosa serie di reazioni a catena. Appena qualche anno dopo, Valentiniano I si vedrà costretto a spendere dieci anni del suo regno nella lotta incessante e sanguinosissima contro i formidabili Alamanni. Ma la colpa non era certa dei modesti risultati ottenuti da Giuliano. Il rinnovato assalto degli Alamanni fu causato dalla pressione inesorabile, alle loro spalle, esercitata da altri popoli barbari, terrorizzati e senza più patria, che con inesausta disperazione tornavano a cercare scampo verso Occidente dal terrore del nome unno.
XXXIII
Se gli Alamanni erano paghi, per il momento,della lezione ricevuta, e avevano deposto ogni ardire bellicoso, non così i loro vicini settentrionali, i Sassoni, che fra tutti i Germani andavano fieri della loro forza fisica, del loro coraggio indomabile e della loro resistenza in battaglia. Essi non avevano ancora conosciuto il peso di un attacco a fondo delle legioni; dalle loro sedi nella parte nord-occidentale della Germania, fra l’Elba e il Reno, dopo decenni di scorrerie micidiali sulle loro veloci e inafferrabili imbarcazioni di legno e pelli, si sentivano ormai abbastanza forti per invadere stabilmente le terre sulla riva sinistra del gran fiume.
Non attaccarono, però, in massa; ma, come già avevano fatto gli Alamanni con i Leti al tempo del fallito assalto contro Lione, lanciarono una loro tribù – quella dei Camavi – attraverso il corso inferiore del Reno. Qui essi urtarono della decisa resistenza delle popolazioni franche; le quali, temendo di offrire a Giuliano il pretesto per una spedizione punitiva e di vedersi coinvolti in una guerra che non desideravano, impedirono loro il passaggio del fiume. I Camavi, allora, costruirono dei battelli – arte nella quale eccellevano tutte le tribù sassoni – e risalirono la corrente del fiume verso la foce, sino all’isola di Batavia, formata dagli ampi rami terminali del Reno. L’isola, un tempo occupata militarmente dai Romani, era adesso abitata dai Franchi Salii, una delle tre principali famiglie franche (le altre erano i Franchi Ripuari e i Franchi meridionali). I Salii avevano molte ragioni per odiare i Sassoni, poiché erano stati cacciati dalle loro sedi originarie proprio da essi, e costretti a stabilirsi su quell’isola remota. Divampò pertanto una breve ma furiosa lotta fra le due stirpi germaniche; i Salii, presi alla sprovvista dall’attacco inaspettato, si dispersero e iniziarono una fuga disordinata sulla sponda sinistra del Reno. Il loro re in persona, alla testa dei guerrieri superstiti, si presentò ai Romani, supplicando il permesso di rimanere sulla riva sinistra e dichiarando di essere stato costretto a quel trasferimento solo dalla violenza dei suoi nemici. Il permesso gli fu accordato: né Giuliano, né alcuno dei Romani (e neppure degli stessi barbari) avrebbe certo potuto immaginare che quei guerrieri atterriti e malridotti, ormai compassionevoli fuggiaschi, sarebbero stati il seme dal quale, un giorno, il possente regno franco – quasi per una sorta di misteriosa nemesi storica – avrebbero ricevuto dalle mani del romano pontefice la corona del Sacro Romano Impero di nazione germanica.
XXXIV
Giuliano, dunque, accordato l’ingresso a quei Salii che fuggivano dall’isola di Batavia in territorio romano, si trovò a dover fronteggiare le incursioni dei Camavi; e ciò quando l’intero Paese appariva stremato e affamato per le lunghe guerre e le devastazioni compiute dai barbari. Contro la guerriglia dei Camavi, però, egli sulle prime si trovò impotente; a nulla valeva, infatti, il suo genio strategico contro un avversario inafferrabile, che di giorno scompariva completamente alla vista e che di notte usciva dai suoi nascondigli per devastare i villaggi e terrorizzare le città. Tuttavia, da uomo intelligente e da profondo osservatore della realtà, finì per venire in possesso della chiave di quella spinosa situazione: la guerriglia non poteva essere combattuta che con la guerriglia. Le sue massicce spedizioni punitive, con l’esercito schierato in formazione di battaglia, non avrebbero mai potuto stroncare definitivamente la piaga del brigantaggio di quegli astuti barbari. Per domarli occorreva giocare d’astuzia e batterli sul loro stesso terreno, là dove essi si ritenevano invincibili. E chi mai avrebbe potuto realizzare un simile piano se non un uomo che vivesse come loro, combattesse come loro, pensasse come loro e fosse solito far ricorso alle loro astuzie; se non, insomma, un barbaro disposto a mettersi al servizio dei Romani?
Le circostanze vollero che, proprio allora, un tale uomo facesse la sua comparsa, quasi provvidenziale, sul teatro di operazioni del Reno inferiore; e che fosse in grado di rendere dei servigi veramente notevoli ai Romani. Si chiamava Cariettone e la sua fama fece rapidamente il giro della contrada, divenendo quasi leggendaria. Poiché si tratta di una storia interessante e, per molti aspetti, rappresentativa, non sarà fuori luogo spendere qualche parola su di essa.
XXXV
Cariettone è il prototipo del barbaro d’oltre Reno che un giorno decide di passare al servizio dei Romani e di rivolgere le proprie ami e la propria barbarica, astuzia contro i suoi fratelli di razza. Beninteso: quando un popolo libero è minacciato da una potenza imperialistica, dei traditori ci son sempre stati e sempre ci saranno. Chi può dimenticare la scena dell’incontro fra Arminio e suo fratello Flavo, sulle opposte sponde del Weser, la vigilia della battaglia d’Idistaviso, narrata superbamente da Tacito ( Annali, libro II, 9-10 )? Flavo ha perduto un occhio combattendo negli eserciti romani; Arminio, il re dei Cherusci, gli domanda la ragione di quella ferita. Saputala, chiede quali ricompense Flavo ne abbia ricevuto. Il fratello allora gli parla dell’aumento dello stipendio, mostra una collana e una medaglia, leva alle stelle la forza e la civiltà di Roma; mentre Arminio, dall’altra riva, sghignazza che son quelli ben miseri doni, per chi ha accettato di farsi schiavo del nemico. Solo l’intervento di un ufficiale romano evita che Flavo prenda le armi e il cavallo e si lanci a vendicare l’insulto.
Adesso però, nel IV secolo, le cose erano assai mutate. Roma, sulle rive del Reno, non appare più come una minacciosa potenza imperialistica; si accontenta di difendere le proprie province, mentre sono i Germani che muovono guerra, per primi, in continuazione. Quei barbari che passano al servizio di Roma sono più dei mercenari e dei soldati ( o briganti ) di professione, che dei traditori del proprio popolo. Questo, oltre al fatto che i Germani non sentono, né hanno mai sentito, di far parte di una comune nazione. Figure come quella di Cariettone riempiono gli annali del Basso Impero. Zosimo, ad esempio, ci tramanda molti particolari su uno scita di nome Modares ( probabilmente un goto), che si mise al servizio di Teodosio il Grande e condusse una carneficina notturna mentre i barbari giacevano addormentati, vinti dal vino e dai bagordi ( Storia Nuova, libro IV, 25 ). Uno storico italiano contemporaneo, il Saitta, ha chiamato con una certa enfasi Modares "assassino per conto di Teodosio"; ma, a prescindere dal fatto che, in guerra, sono tutti assassini (Arüss diceva: "Conquistatore: un grossista in assassini!"), questa definizione sembra suggerire una maniera "pulita" di fare le guerre, ad esempio quando un popolo lotta per difendere la propria indipendenza, contrapposta a una maniera "sporca", ad esempio quando elementi di una nazione conquistata decidono di collaborare con gli invasori contro i propri compatrioti. Ma non è così, e anche le lotte di resistenza antifascista che hanno caratterizzato la seconda guerra mondiale non fanno eccezione alla regola: valga per tutti il caso più imponente, quello della resistenza jugoslava, che si risolse in un gioco al massacro incrociato fra ustascia, comunisti, cetnici, sfociato nelle carneficine a sangue freddo del maggio 1945.
Le caotiche guerre, spesso fratricide, dei popoli barbari penetranti nell’Impero romano tra IV e V secolo, non fanno eccezione alla regola; ma essendovi il sentimento nazionale molto più debole, o addirittura inesistente, sarebbe anacronistico rimproverare agli antichi Germani di essersi divisi in fazioni pro e contro Roma. La stessa cosa faranno Huroni e Irochesi durante le guerre franco-inglesi nel Nord America; e, nel subcontinente indiano, gurkha nepalesi e sikh del Punjab forniranno le migliori truppe al dominatore britannico, proprio quelle che schiacceranno nel sangue la grande rivolta indipendentista dei sepoys, nel 1857.
XXXVI
Ma torniamo a Cariettone. Questo barbaro possedeva in maniera evidente tutte le caratteristiche della sua razza: una corporatura gigantesca, un coraggio indomito, un’astuzia notevole e un tratto di crudeltà senza scrupoli. Aveva partecipato, intorno alla metà del secolo, alle incursioni e ai saccheggi delle città galliche da parte di Franchi e Alamanni. Poi un giorno, non sappiamo esattamente quando né perché, decise di abbandonare i suoi fratelli e di mettersi al servizio dei Romani. Capitò anche ad Augusta Treverorurm ( Treviri ), la capitale gallica, distrutta dagli Alamanni nel 276, ricostruita da Probo e residenza di Costanzo al tempo in cui questi era ancora Cesare per conto del padre Costantino il Grande. A Treviri, Cariettone ebbe modo di constatare l’atmosfera di insicurezza e spesso di autentico terrore nella quale vivevano le città renane, a causa delle fulminee incursioni notturne di bande vaganti di barbari. per mettersi in evidenza agli occhi dei Romani e acquistare qualche merito presso di loro, Cariettone decise di incominciare adendo da solo. Prima che Giuliano venisse nominato Cesare, prima, cioè, del 355. egli iniziò le sue spedizioni notturne contro gli accampamenti dei saccheggiatori. Poiché conosceva bene i loro costumi e le loro abitudini, e sapeva che di notte solevano abbandonare ogni prudenza, rifugiandosi nelle foreste e abbandonandosi al vino e alle orge, non gli fu difficile massacrarne molti da solo. Ripeté parecchie volte questi massacri notturni, e ogni volta tornava in città con il suo pesante fardello di teste mozzate, quale prova delle proprie imprese. A quella vista i cittadini si compiacevano con lui e il nome di Cariettone cominciava a divenire conosciuto.
XXXVII
La sua fama si sparse e ridestò, com’è naturale, soprattutto i briganti e tutti coloro che, nello sfascio generale della società gallica, erano ormai abituati a vivere di rapina e di violenze ai margini della vita civile. Si formò in tal modo una banda abbastanza numerosa, che, guidata dall’astuzia e dall’esperienza di Cariettone, tornava dalle sue spedizioni infallibilmente carica di quei macabri trofei. I barbari che scorrazzavano per le campagne presso le città renane, più simili, anch’essi, a predoni smarriti che a minacciosi invasori, non capivano bene cosa stesse capitando, ma. si accorgevano che il loro numero andava scemando in maniera misteriosa.
Quando Giuliano, dopo la vittoria di Argentoratum e la campagna del 357 contro gli Alamanni, si trovò a dover fronteggiare la guerriglia dei Camavi sul Reno inferiore, si trovò, sulle prime, come abbiamo visto, in serio imbarazzo. Fa in quel frangente che si presentò a lui Cariettone con i suoi compagni, e sùbito apparve come l’uomo della provvidenza. Egli spiegò a Giuliano tutte quelle cose che né lui, né alcun Romano poteva sapere: che di giorno i barbari si nascondevano nelle selve, di notte uscivano per far razzia. Infine egli chiese e ottenne di unirsi al Cesare nella sua lotta contro i C amavi, ma restando indipendente e continuando la sua tattica di guerra già sperimentata con tanto successo. Cosi, commenta non senza amarezza Zosimo, Giuliano si vide costretto a far guerra ai barbari non solo con l’esercito regolare, ma anche con una banda di briganti. Questa osservazione laconica, fatta appena di sfuggita, ci lascia soltanto immaginare l’intimo disgusto e l’imbarazzo di un Cesare romano, grande amatore dello cose eleganti e profonde, delle arti, della filosofia, della Grecia, costretto a servirsi di strumenti così ripugnanti per ristabilire la sicurezza delle frontiere. Una masnada promiscua di barbari e di briganti, molti dei quali, verosimilmente, fino al giorno prima erano dei Bacaudae ricercati dalla legge, con numerosi delitti contro cittadini romani alle proprie spalle: tali gli alleati di Roma nell’ultima partita contro i barbari per la sopravvivenza stessa dell’Impero.
XXXVIII
Eppure, fu solo grazie all’aiuto di Cariettone e dei suoi avanzi di galera che il valoroso e geniale Giuliano venne a .,. capo di qualcosa. I Camavi, martellati incessantemente dai. predoni di notte e dalle legioni di giorno, in campo aperto, si trovarono ben presto in una situazione disperata. Già molti Franchi Salii, i loro vecchi nemici, vista la nuova direzione presa dal vento, erano tornati alle armi ed erano stati arruolati da Giuliano nell’esercito romano. Un giorno, poi, l’abilissimo Cariettone era riuscito a portare a effetto un colpo davvero magistrale: la cattura del figlio dello stesso re dei Camavi, insieme a molti altri barbari!
Fu così che il re dei Camavi, piegato come sovrano e disperato come padre, si ridusse a supplicare da Giuliano quella pace, che tanto superbamente aveva violata. Quei giganti indomabili, terrore del giorno innanzi, si presentavano in veste .di supplici al campo romano e agitavano, spettacolo commovente e terribile al tempo stesso, delle fronde di ulivo. Giuliano, che nel trattare con i barbari d’oltre Reno aveva finito per penetrare acutamente la loro mentalità, decise di giocare una piccola commedia al fine di rendere anche maggiore la riverenza di quei barbari sconfitti nei confronti della maestà di Roma. Disse che le suppliche e le assicurazioni di pace, ormai, non bastavano; delle loro carole non poteva più fidarsi; esigeva invece la consegna di alcuni ostaggi fra i più nobili camavi, e, tra essi, anche del figlio del re. Avvenne allora una scena in tutto degna di figurare in una tragedia di Eschilo o di qualche altro drammaturgo antico. Il re dei Camavi, piangendo e traendo alti lamenti, tali da muovere a compassione il cuore più duro, si mise a giurare e a spergiurare che suo figlio non era più, che era caduto trafitto dalle spade dei Romani. Gli altri barbari dietro a lui, con i rami d’ulivo in mano e la fronte bassa, formavano una cornice suggestiva e pietosa a quella tragica scena.
Allora Giuliano ritenne di aver giocato abbastanza con le lacrime di quel padre infelice. A un suo cenno si fede avanti il giovane figlio del re, non già curvo e carico di catene, come sogliono i vinti catturati in guerra, ma in floride apparenze, poiché la generosità del Cesare gli aveva concesso un regime di vita quale si addice più a un amico o a un pupillo che a un prigioniero. Quel che avvenne poi è così facilmente immaginabile che non vale la pena di raccontarlo per esteso. La conclusione di questa scena toccante, secondo Zosimo, fu che Giuliano, con magnanimità veramente regale, congedò i supplici accordando la pace, a condizione, naturalmente, che non osassero mai più impiegare le armi contro Roma.
XXXIX
Qui finisce il racconto di Zosimo su tali fatti; ma quello di Ammiano Marcellino è molto diverso, e merita di essere ricordato. Secondo lo storico di Antiochia, dunque, dopo questi fatti Giuliano per prima cosa congedò con ricchi doni quei Franchi Salii, che avevano militato nelle sue file durante le operazioni contro i Camavi. Subito dopo, con barbarica slealtà, egli avrebbe mandato un buon nerbo di truppe, guidate dal dux Severo, ad inseguirli: Severo li attaccò, li massacrò e poi dettò la pace da vincitore, ai superstiti. Né basta. Subito dopo, deciso a impartire una lesione indimenticabile anche ai Camavi, mosse contro di loro, ne uccise un gran numero, e perni se ai sopravvissuti di far ritorno in pace alle loro terre. Tali i sistemi con i quali fu in grado di ristabilire una volta per tutte la frontiera del Reno inferiore.
Non possiamo nascondere che tutto questo, se è credibile, sciupa non poco il ritratto di Giuliano che si ara venuti fin qui delineando, e guasta irrimediabilmente anche l’impressione di magnanimità suscitata dall’episodio, or ora riferito, del figlio del re dei Camavi. L’attacco contro i federati Salii, in particolare, appare del tutto privo di giustificazione. Il fatto è che Ammiano Marcellino, grande ammiratore di Giuliano, ma, come Aristotele, convinto che magis amica veritas, era uno si. storico così onesto da non tacere alcuno dei difetti del suo * idolo. Perciò, in questo caso, dobbiamo credere più a lui che a Zosimo, il quale scriveva solo per sentito dire, e concludere che quanto ci dice sull’attacco proditorio contro Salii e Camavi ebbe luogo veramente. Il che, naturalmente, non ci vieta di cercare d’interpretarlo. La storia non è un tribunale che assolve o condanna, ma ha il dovere di comprendere. O almeno di tentare di farlo.
XL
Non intendiamo cercar di salvare a tatti i costi la figura morale di Giuliano; non è compito nostro farlo. Cerchiamo invece di spiegare il perché delle sue azioni, tanto più che esso, in questo caso, appare utilissimo per mettere a fuoco la natura dei rapporti fra Romani e barbari nel secolo IV.
La conclusione più probabile alla quale ci sembra di poter arrivare è questa. Per un Romano, come già, secoli prima, per un Greco, i barbari erano più una particolare specie di animali che un membro sia pur molto differente del medesimo consorzio umano. Poiché non avevano parola (e questa, secondo i Romani, era appunto una delle loro perfide caratteristiche ),non meritavano neppure che nei rapporti con loro si fosse di parola. La parola data a un barbaro valeva quanto quella data a un animale; a meno che quel barbaro fosse stato interamente assorbito nella sfera dei costumi e degli interessi di Roma. Nel secolo IV esisteva una nuova, eccellente ragione per rafforzare una tal maniera di pensare: il pericolo immediato. Ora non ci si poteva limitare a disprezzare i barbari; sopra tutto li si temeva. Era una lotta per la vita, e ogni mezzo impiegato in
essa appariva giustificato. E veniamo a Giuliano. Egli era già un’eccezione nel panorama romano del IV secolo: innamorato di un passato che più non esisteva, di una religione agonizzante e contaminata dalla superstizione, di una filosofia decadente, di un’arte ridotta daccapo a balbettare, come un piccolo d’uomo, era più simile a un sognante relitto dei tempi andati che a un condottiero del IV secolo. Solo la sua grande intelligenza e la sua abilità poterono prolungare l’equivoco. Per lui, dunque, la parola data a un "barbaro d’oltre Reno valeva quanto una cerimonia cristiana, alla quale continuava tuttavia a partecipare. La forza delle circostanze lo costringeva a simulare, ma nel suo fiero petto ardevano alte le fiamme dell’odio e del disprezzo. Infine, dobbiamo mettere nel conto anche il fatto, indubbiamente spiacevole per la nostra raffinata sensibilità, ma non per questo meno verosimile, che tali metodi di guerra, come l’attacco a tradimento contro Salii e Camavi, erano forse realmente una delle più sicure maniere di spegnere l’ardore bellicoso dei barbari.
XLI
Un parallelo storico, a questo punto, non sarà né gratuito né inutile. Agendo in maniera simile i Romani del IV secolo si comportavano verso i Germani non diversamente dagli Americani del XIX nei confronti dei pellerossa. Anche i bianchi del Nord America dicevano che gli indiani "non avevano parola"; e ciò perché, dopo avere ubriacato alcuni di loro e avergli fatto, firmare la cessione delle loro praterie, pretendevano che siffatti "trattati" dovessero valere per le intere tribù. Anche loro, dunque, applicavano la massima che la parola data ai selvaggi è un puro strumento, e non vi è nulla di moralmente riprovevole nel fatto di mancare ad essa. Questa fu precisamente la politica dei governanti e dei capi militari statunitensi negli anni 1860-1890, il trentennio della "soluzione finale" del problema indiano. Questo spiega – spiega, non giustifica – la barbarica slealtà tante volte mostrata dall’uomo bianco nei confronti dei "selvaggi". La cattura a tradimento di Osceola, capo dei Seminole, e la sua fine vergognosa; l’arresto e l’uccisione di Toro Ceduto e di Cavallo Pazzo; la strage incredibile di Wounded Knee, ove perirono circa 300 indiani disarmati, in maggioranza donne e bambini ( e che la American Peoples Encyclopedia si pregia di chiamare "la battaglia di Wounded Knee" ), tutto questo si spiega solo nei termini che abbiamo esposto.
Quando l’uomo che si autodefinisce civile e l’uomo che egli definisce selvaggio ( e che chiama sé stesso, semplicemente, "uomo" ) si trovano faccia a faccia con le armi in mano, raramente il primo non si sente investito della sacra missione di "civilizzarlo" o di annientarlo. La sua guerra diventa una crociata; e, si sa, nelle crociate tutto è permesso. I Romani agivano verso i barbari più o meno allo stesso mano, con la attenuante ( ma questo, lo ripetiamo, non è un processo ), almeno durante il tardo Impero, che lottavano per sopravvivere. Ma proprio per questo divenivano ancor più spietati. Un generale romano, che per di più era anche un filosofo greco, non poteva applicare a questi esseri semi-umani le stesse regole del diritto spettanti all’uomo civile. E lo storico, nel rievocare quei fatti, deve stare attento a non farsi trascinare nel vortice. Con ragione qualcuno ha scritto, ad esempio, dello storico Edward Gibbon, che, secondo lui, "insomma un gentiluomo inglese del Settecento è una cosa, e un selvaggio analfabeta tutt’altra cosa". Lo storico ha il dovere di cercare, almeno, di essere imparziale nella sua rievocazione.
XLII
Le successive vicende del barbaro Cariettone meritano appena ‘una fuggevole memoria. Dopo aver reso tali servigi ai Romani sotto le bandiere di Giuliano, passò al servizio di Valentiniano I e combatté nuovamente contro i barbari d’oltre Reno al suo servizio. E nella lotta contro gli Alamanni, nel 365» trovò la morte per mano dei suoi fratelli di razza, ai quali tanto male aveva arrecato. La sua figura appare sintomatica di un certo tipo di comportamento e solo per questo gli antichi storici l’hanno salvata dall’oblio, e noi stessi abbiamo ritenuto di soffermarci alcun tempo sii di essa. Se sia Zosimo che Ammiano Marcellino hanno ritenuto di ricordare le gesta di questo oscuro barbaro germanico ( Storia Nuova, libro III, cap. 1; e Storie, libro XVII, 10, 5 ), vuoi dire che anch’essi, e sia pure oscuramente, ebbero l’intuizione che quella secondaria figura di barbaro meritasse, tuttavia, di esser tratta dalla dimenticanza che solitamente scende su tali episodi della storia umana.
Quel che rende Cariettone diverso, poniamo, da un Magnenzio o da uno Stilicone, non è tanto, sì capisce, l’umiltà della sua posizione dei loro confronti, ma la debolezza dell’ideologia che guidava le sue azioni. Magnenzio, barbaro romanizzato e ufficiale romano, ebbe se non altro l’audacia di tentare il gran colpo della scalata al potere; Stilicone, semibarbarus inviso ai Romani per le sue origini vandale, finì per innamorarsi di Roma al punto di porgere il collo alla scure del carnefice per amor di essa. Cariettone, da quel poco che di lui sappiamo, non fu né questo né quello. Non ebbe né l’audacia di Magnenzio, né il sentimento affettuoso e riverente della romanità che contraddistinse, nonostante tutto, il secondo. Quei canestri pieni di teste mozzate appartengono a un altro mondo. Per lui, alla luce di quanto sappiamo e di quanto è lecito supporre, la romanità era poco più che un tanto dì denari per ogni testa di barbaro che consegnava.
Non sono uomini di tal fatta che scrivono una nuova pagina nella storia dei popoli.
XLIII
Così, alla fine, represse le inquietudini dei Franchi Salii e, soprattutto, dei Camavi, Giuliano poteva, dire di aver pacificato tutto il limes del Reno, dalla sorgente alla foce, dagli Agri Decumati all’isola di Batavia. Né gli Alamanni, né i Franchi né i Sassoni avevano l’animo di ritentare la sorte delle armi, dopo le amare esperienze degli ultimi anni. Essi avevano di nuovo paura della forza di Roma; più di quanta ne avessero, almeno, dei nuovi barbari che premevano alle loro spalle attraverso le foreste dell’Europa centrale e orientale.
I problemi, però, per il Cesare Giuliano, non potevano certo dirsi finiti. Egli aveva sconfitto il nemico; lo aveva costretto a chiedere la pace e a ripassare il grande fiume; aveva restituito alle loro case migliaia e migliaia di prigionieri romani; ma il suo compito, noi che essere finito, sembrava adesso solamente entrare nel vivo delle difficoltà. I prigionieri erano stati liberati dalle mani dei barbari; ma che ne sarebbe stato adesso di loro? Le loro case? Meglio sarebbe stato dire: le macerie delle loro case. I loro campi? Devastati dalla guerra, abbandonati dagli uomini , erano ripiombati preda della vegetazione selvatica. Si potevano procurare le sementi: ma ci sarebbe voluto un altro anno prima che potessero dar nuovi frutti. E intanto? Di che sarebbero vissuti quegli infelici, che più niente possedevano al mondo? Giuliano li aveva sottratti alla schiavitù dei barbari, solo per abbandonarli alla morte di stenti? C’erano, è vero, molte città dell’interno del Paese, che avevano conosciuto la guerra, se non attraverso i racconti del profughi e degli scampati; ma esse non disponevano dì scorte sufficienti per alleviare le necessità dei concittadini meno fortunati; o, se le possedevano, assuefatti alla voracità e alla prepotenza dei funzionala imperiali, le tenevano gelosamente nascoste. Esisteva insomma un nemico più terribile dei barbari, più spaventoso della guerra: la fame; e, dietro di essa, lo spettro della sua inseparabile compagna, la pestilenza. Che fare?
XLIV
Giuliano, in quei difficilissimi momenti della ricostruzione, morale e materiale, di un paese stravolto, seppe essere» all’altezza del suo alto incarico. Egli era informato che la Britannia, dopo parecchi anni di pace relativamente generale, si era ripresa dalle passate devastazioni fino a recuperare la prosperità d’un tempo. I campi delle sue regioni meridionali, dove il clima era più mite e soleggiato e il terreno più fertile e amico, producevano di nuovo generose messi di grano. Egli, allora, ideò un piano, la coi realizzazione fu un piccolo capolavoro di ingegnosità, audacia e rapidità.
Le foreste lungo il corso inferiore del Reno, da poco tempo tornate tranquille, cedettero alle scuri dei legionari, e in breve tempo la corrente del fiume apparve solcata da un imponente spiegamento di piccole imbarcazioni, poco più grandi di scialuppe, ma dal fondo quasi piatto. Ese erano in grado di navigare lungo il fiume Reno, ma anche di affrontare il mare aperto, che si apre al di là della sua foce ramificata. Ottocento furono le imbarcazioni che in breve volger di tempo vennero approntate e messe in grado di pigliare il largo. Risalito il largo fiume, esse raggiunsero le coste della Britanni a e vennero caricate di grano destinato alle affamate popolazioni della regione renana, recentemente sconvolta dalla guerra. Più e più volte esse ripeterono il viaggio, facendo la spola tra la foce del Reno e i porti meridionali e sud-orientali dell’isola ( il cosiddetto litus saxonicus ), sfidando i pericoli dell’Oceano che i Romani credevano sconfinato e la presenza di mostri spaventosi. In questo modo tutto il grano necessario fu trasportato in Galli a, i prigionieri liberati dai barbari ebbero di che vivere fino a che i loro campi non tornarono a maturare; e la paventata carestia passò senza arrecare quel terribile bagaglio di miseria e di morte, che molti si erano fatalmente aspettato.
XLV
Costanzo, a quanto ci vien detto, non vedeva troppo di buon occhio tutto questo ardore febbrile di attività da parte del suo giovane cugino. Era geloso delle sue vittorie e dei suoi successi, dell’entusiasmo dei suoi soldati e dei cittadini, e soprattutto della fortuna e della buona sorte che, ovunque sembravano proteggerlo e accompagnarlo. È un fatto, e un fatto incontestabile, che quasi tutti gli ufficiali da lui messi al fianco di Giuliano, dal 355 in poi, si erano alla fine rivelati degl’imbecilli, se non addirittura dei traditori; né Marcello, né, tanto meno, Barbazione, erano usciti dignitosamente dalla prova della guerra. C’era un ufficiale, fra quanti messi da Costanzo al fianco del cugino, che aveva fatto buona prova di sé, ed era Sallustio. Egli era molto amico di Giuliano, ne serviva con zelo e devozione la causa, e gli era di grande aiuto nella difficile opera di ricostruzione del Paese. Un giorno, non sappiamo esattamente quando (Zosimo suggerisce al tempo dei rifornimenti granari dalla Britannia ), Costanzo, con il pretesto di affidargli l’amministrazione dell’Oriente, richiamò Sallustio dalla Gallia. Giuliano, senza un attimo di esitazione, lo lasciò partire e si separò dall’amico e dal collaboratore fedele, che gli era stato valido compagno in tanti difficili problemi e avversità. Comunque, da quel momento, gli amici del Cesare incominciarono a sospettare della gelosia dell’imperatore. Dicevano, o meglio sussurravano, che solo per gelosia e diffidenza Costanzo aveva richiamato Sallustio, e per invidia del buon successo di Giuliano in tutto quello che quest’ultimo intraprendeva. Suggerivano che Costanzo, così facendo, si era illuso di privare il cugino del suo maggior sostegno, e si augurava ora di vederlo ora ridotto in una posizione meno favorevole, più consona alla sua subordinazione nei confronti del potere imperiale. Anche lo stesso Giuliano, probabilmente, cominciava ad avere qualche sospetto. Tuttavia non lo lasciava trasparire in alcun modo: taceva e ubbidiva. Se il suo animo era tormentato dall’angoscia e dal timore, egli teneva per sé questi sentimenti. Apparentemente, la sua fedeltà all’Augusto cugino e benefattore appariva piena e incondizionata, e tale da rendere ancor più odiosi e ingiustificati i sospetti di Costanzo.
XLVI
Se l’imperatore si era lusingato di accrescere le difficoltà di Giuliano con il richiamo del fedele Sallustio, non tardò ad accorgersi che aveva sottovalutato le capacità personali, l’energia e l’intelligenza del cugino. E, in effetti, l’opera di ricostruzione della Gallia nord-orientale, sconvolta da anni dì invasioni e di guerre, sfiduciata nei confronti del potere centrale, angariata da funzionari avidi e senza scrupoli, percorsa da bande di briganti e di coloni fuggitivi, fu ancora più gloriosa delle campagne militare con le quali Giuliano aveva allontanato e abbattuto nella polvere l’orgoglio dei formidabili nemici d’oltre Reno, i Franchi, i Sassoni e gli Alamanni.
Egli era convinto innanzitutto di una cosa: che nessuna ricostruzione era possibile, se prima i cittadini con ricuperavano la fiducia nelle istituzioni e nei pubblici poteri. Nessuna forza al mondo poteva indurre l’artigiano a tornare nella sua città e ricostruire la sua bottega, se temeva che, non appena i suoi affari fossero ripresi, i funzionati del fisco sarebbero piombati su di lui come uccelli di rapina. La ricostruzione morale doveva accompagnare e in qualche caso addirittura precedere quella materiale. Aver capito questo fu uno dei più grandi meriti di Giuliano Cesare averlo saputo mettere in pratica, il più glorioso.
Per prima cosa, i cittadini dovevano essere conquistati dalla figura e dalla personale probità di colui che era stato preposto al loro governo. E su questo punto non esistevano dubbi. Nessuno, nemmeno i suoi nemici personali, nemmeno i malevoli o sospettosi consiglieri di Costanzo, potevano mettere in dubbio il fatto che l’onestà di Giuliano fosse al di sopra di ogni sospetto. In lui non v’era neppur l’ombra dell’odioso fiscalismo, della brama di ricchezze di tanti suoi predecessori, e questo semplicemente perché il filosofo neoplatonico disprezzava di tutto cuore le ricchezze è una fama malamente meritata, e si sforzava continuamente di mettere in pratica i dettami della sua filosofia. La sua vita privata era un vero specchio di sobrietà e di virtù. La sua corte era priva di lasso, li su?, esistenza non conosceva altro piacere che lo stadio, faticosamente rubato, nelle ore notturne, agli impegni gravosi del governo. L’unico modo di accedere alla sua amicizia era quello di essere, e non sembrare solamente, onesti; di avere orrore della illegalità; di porsi al servizio dei cittadini, e ai non considerare, come tanto spesso si era fatto, gli uffici pubblici, come un comodo mezzo per arricchire, tutto questo non doveva essere senza effetto al momento in cui il Cesare chiese al popolo, per l’opera di ricostruzione, tutta la collaborazione e tutta la buona volontà delle quali era capace: egli le chiedeva con l’autorità della sua provata integrità morale e professionale.
XLVII
Quel che fece Giuliano in fatto di politica tributaria illustra in maniera esemplare le sue idee e la natura dei suoi sentimenti intorno al problema della ricostruzione. Costanzo II gli aveva messo al fianco un prefetto del Pretorio di sua nomina, un tal Florenzio, il quale nel 357 informò Giuliano che la normale indizione sarebbe stata insufficiente e che appariva indispensabile ricorrere a una indizione straordinaria. II Cesare non era d’accordo; esaminate le cifre, sostenne che la capitatio ordinaria era bastante per le necessità del momento e che non vi era alcun bisogno di ricorrere a misure straordinarie. La lotta fra lui e il prefetto del Pretorio divampò aperta, ma Giuliano non aveva intenzione di cedere, perché la questione tributaria doveva essere, nei suoi progetti, una delle pietre cardinali dell’edificio della ricostruzione della Gallia. Egli era convinto di una cosa: che l’esercito di funzionari imperiali, sia locali, sia pretorii, che s’intrometteva regolarmente nella riscossione delle imposte, era il vero, principale responsabile della situazione di malessere cronico del settore tributario. Per quanto le indizioni venissero aumentate, le somme raccolte risultavano, alla fine, sempre insufficienti. Giuliano sospettava che ciò fosse dovuto agli illeciti profitti dei funzionari imperiali, e riteneva che se l’esazione fosse stata rimessa nelle mani degli appositi susceptores nominati dalle curie cittadine, essa sarebbe stata al tempo stesso meno esosa e più efficace.
Il ragionamento era sostanzialmente esatto, ma metterlo in pratica significava urtare nella risentita resistenza di tutti coloro che sino a quel momento si era avvantaggiati di una tale situazione. La lotta, condotta con intelligenza e decisione, fu però assai breve.
Florenzio si era lagnato con Costanzo, scrivendogli che Giuliano osava mettere in dubbio la sua personale buona fede e si opponeva alle sue direttive di politica tributaria. Non sappiamo quale fu la risposta dell’imperatore, ma è certo che il prefetto, bruciando le tappe, si rovinò da solo. Ritenendosi in una sufficiente posizione di forza, per il solo fatto di essere stato nominato non da Giuliano, ma da Costanzo, venne davanti al Cesare presentandogli per la firma l’ordine di indizione straordinaria. La risposta che ne ebbe fu una vera doccia fredda. Giuliano prese l’ordine, lo gettò a terra, quindi chiese e ottenne di poter dirigere personalmente l’esazione delle imposte in una ricca e vasta provincia, la II Belgica ( situata nella Gallia nord-orientale, con capitale Remi, l’odierna Reims ).
Il risultato fu una eloquente conferma della giustezza delle idee e dei metodi del Cesare. Le tasse, riscosse senza intromissione di funzionari straordinari, si dimostrarono sufficienti; senza ricorrere all’indizione straordinaria, si era raccolto più denaro che non fosse accaduto, in passato, a memoria d’uomo.
E non vi furono i soliti arretrati.
XLVIII
Questo primo successo mise Giuliano in grado di continuare con vigore la sua battaglia per il risanamento delle finanze. Tra le molte cattive abitudini contratte, negli ultimi tempi, dai governi provinciali gallici, vi era quella di mostrarsi indulgenti nei confronti degli arretrati delle imposte, le quali, passati alcuni anni, venivano con apparente generosità condonate. La ragione, o meglio il pretesto, addotti per giustificare una simile abitudine, era che gli arretrati nel giro di pochi anni raggiungevano delle cifre veramente astronomiche, e che era semplicemente utopistico pensare che le popolazioni fossero mai in grado di saldarli. In compenso, però, per evitare il crollo finanziario dello Stato, che alla lunga sarebbe stato rovinato da una simile generosità all’ingrosso, si faceva un continuo ricorso alle imposte straordinarie: come dire che lo Stato esigeva con una mano, quel che aveva appena fatto mostra di condonare con l’altra. Giuliano non tardò a comprendere chi fosse il principale beneficiario di un simile andazzo: il ceto dei ricchi proprie tari. Essi, con mille astuzie ed artifici, riuscivano quasi sempre ad ottenere delle proroghe nei pagamenti, e così, alla lunga, finivano per essere i soli ad avvantaggi .arsi dei condoni. Quanto al piccolo contribuente, all’artigiano, al commerciante, al piccolo proprietario, egli non riusciva ad ottenere alcun rinvio: con lui i funzionari potevamo permettersi senza timore di essere inflessibili e perfino brutali, ed esigevano il pagamento immediato.
Giuliano volle mettere la parola fine a un siffatto stato di cose; e sembra che vi sia riuscito in maniera addirittura strepitosa. Egli fu irremovibile nel pretendere l’esazione immediata delle imposte per tutti, ma in compenso non volle saperne di ricorrere a indizioni straordinarie. Il risultato fu che, dopo soli cinque anni di governo nelle Galle, era stato possibile ridurre la capitatio da venticinque a sette solidi l’anno, ossia di oltre un terzo!
XLIX
I risultati positivi di questa politica illuminata non tardarono a manifestarsi. Ancora una volta le città galliche, che già erano sembrate sul punto di contrarsi e andare in rovina, non tanto per l’assalto dei barbari, quanto per interno male, stavano rifiorendo e tornando a nuova vita. Un soffio di speranza si era levato in quelle regioni di secolare miseria e di abusi inveterati; e la piccola borghesia cittadina – che da tempo immemorabile costituiva la spina dorsale dell’economia del Paese – ancora una volta sembrava riprendere fiato e risollevarsi dalle proprie, terribili difficoltà.
Sulla frontiera, gli eserciti romani e la flottiglia fluviale facevano buona guardia. I barbari, ancora sotto l’effetto delle cocenti sconfitte ricevute, non manifestavano alcuna seria intenzione offensiva. I campi, nuovamente seminati, producevano un raccolto di grano sufficiente, e il paese aveva riconquistato l’autosufficienza, nonostante il rientro dei ventimila prigionieri restituiti dagli Alamanni.
Esiste il pericolo, sulla scorta li Ammiano Marcellino e di Zosimo, di dipingere il quadro delle Gallie verso il 360 come idilliaco, ma è un pericolo relativo. Noi dobbiamo sinceramente ammettere che gli sforzi di Giuliano, diretti con intelligenza e fermezza, pur in un tempo così breve avevano sortito dei risultati splendidi. Il paese aveva ripreso a vivere, non si limitava, semplicemente, a sopravvivere; non tirava l’anima con le unghie e coi denti, come da tanto tempo faceva.
Del resto questo pericolo, di dipingere a tinte troppo rosee la situazione di fatto, non riguarda solo il quadro della società gallica durante gli anni del governo di Giuliano, ma tutta la personalità e l’azione di governo di questo principe. Avremo modo di tornare più avanti, nel libro successivo,
su questo argomento. Per ora ci limiteremo a una sola osservazione, e cioè che, se è vero che non esistono tipi umani perfetti ( tranne alcune rare figure di mistici e di santi ), vi sono tuttavia degli uomini che sanno avvicinarsi alla perfezione più di molti altri. Giuliano aveva anch’egli dei difetti, che non erano né pochi, né lievi; ma una cosa lo sosteneva in tutte le sue azioni, e le rendeva accettabili: la buona fede. Sarebbe assurdo se cercassimo di sminuire la sua grandezza solo per la preoccupazione di apparire troppo entusiasti. Ci vedremmo costretti a scovare degli episodi marginali solo per puntellare una tesi tendenziosa, ossia che egli non era quel prodigio di perfezione che Ammiano e Zosimo ci hanno descritto. Impresa non soltanto meschina, ma altresì puerile, se è vero che la grandezza di un uomo politico non si misura dalla sua mancanza di difetti privati, ma dalla sua integrità morale, dalla sua rettitudine, dalla generosità con la quale si vota con tutto se stesso allo scopo di migliorare la società.
L
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Arrivati a questo punto della nostra narrazione, noi dobbiamo fare qualche passo indietro per tornare a seguire Costanzo II, che abbiamo lasciato a Milano, nell’inverno del 355, dopo che aveva proclamato suo cugino Giuliano Cesare.
Le preoccupazioni di Costanzo erano essenzialmente di duplice natura: religiosa e militare. All’interno, l’Impero Romano era praticamente lacerato dalla lotta fra ariani e cattolici, retaggio dei concili di Sardica e di Filippopoli; all’esterno non solo sul Reno, ma anche sul Danubio e sll’Eufrate , esso era minacciato con rinnovato vigore da Germani e Persiani.
Costanzo era un uomo scrupoloso e non privo di capacità amministrative, ma morbosamente incerto, timido, sospettoso, capace di troncare a mezzo, per gelosia o irresolutezza, i migliori proponimenti. Aveva ereditato dal padre, Costantino il Grande, la mania di grandezza; e per di più, come lui, si sentiva investito della divina missione di riportare l’unità nel corpo dilacerato della Chiesa. Sotto questo punto di vista, era il caratteristico tipo dell’autocrate bizantino; non poteva nemmeno concepire di essere un semplice difensore degli interessi delle classi benestanti, un comandante di truppe, o un amministratore. Egli voleva plasmare colle proprie mano ogni aspetto della vita pubblica dell’Impero e, in particolare, rivolgeva i suoi sforzi alla sfera religiosa; ma, disgraziatamente, pare che le sue ambizioni fossero superiori al gigantesco compito che si era prefissato. Per di più, essendo stato allevato e istruito nell’ambiente filo-ariano prevalente a Costantinopoli negli ultimi anni di Costantino il Grande, quando si ritrovò ad essere l’unico sovrano di tutto l’Impero si vide nella difficile posizione di chi voleva imporre alla maggioranza dei sudditi un credo che godeva soltanto dell’appoggio di gruppi limitati. Questo fu il suo dramma e il dramma dell’Impero per tutta la durata del suo lungo regno.
LI
Dopo la definitiva vittoria su Magnenzio, che lo rendeva padrone di tutto il mondo romano, Costanzo intendeva procedere con la massima energia per ricostituire l’unità della Chiesa su basi filo-ariane. Il primo passo in tale direzione doveva essere, secondo le sue intenzioni, la rimozione del vecchio Atanasio da Alessandria, a dispetto del fatto che nel 346 gli aveva personalmente promesso che ogni accusa nei suoi confronti era caduta per sempre. Con tale obiettivo Costanzo, che si trovava ancora in Gallia, nell’autunno del 353 fece riunire un Concilio di vescovi occidentali ad Arles. Tutti si lasciarono piegare alla volontà del sovrano, con la sola eccezione di Paolino di Treviri, che ne ebbe in premio l’esilio, e Atanasio venne condannato. Però la partita non poteva ancora dirsi finita, anzi era appena agli inizi. A parte la resistenza del popolo di Alessandria, che appariva deciso a far quadrato intorno al suo vescovo, rimaneva da convincere il papa e un numero maggiore di vescovi, la qual cosa appariva tutt’altro che facile.
Nel maggio del 352 Liberio era stato eletto vescovo di Roma in luogo di Giulio, morto un mese prima. Egli mandò dei legati ad Arles per cercar di convincere Costanzo a convocare un concilio ad Aquileia, il cui compito sarebbe stato quello di ribadire il credo niceno. Ma i legati non conclusero nulla e la condanna di Atanasio ebbe luogo. Contemporaneamente aveva luogo un grottesco scambio di lettere fra l’imperatore e il vescovo di Alessandria. Quest’ultimo ebbe comunicazione che poteva, secondo quanto richiesto, presentarsi a corte. Poiché Atanasio non aveva fatto alcuna richiesta del genere, comprese che qualcuno aveva riandato a Costanzo una sua falsa lettera, oppure che questi voleva fargli capire essere arrivato il momento della resa dei conti. Morto Costante, il suo antico e potente protettore, Atanasio non poteva sperare che nell’aiuto lei clero occidentale e dei suoi fedeli. Ma il primo venne meno, e il secondo fu soffocato nel sangue.
LII
Nel gennaio del 355 Costanzo, trasferitosi a Milano, vi riunì un secondo concilio, che aveva la pretesa di essere ecumenico, ma che in realtà era composto da poche decine di vescovi, in maggioranza occidentali. Il suo compito era quello die sanzionare le decisioni del concilio di Arles e ribadire la deposizione e la condanna di Atanasio, affinché si potesse procedere manu militari contro di lui. Quel che avvenne a Milano in quei cinque mesi, dal gennaio al maggio del 355, può considerarsi una delle più gravi disfatte del clero ortodosso nei confronti dell’arianesimo. Poiché la volontà dell’imperatore era manifesta, quasi nessuno ebbe il coraggio di resistere e i vescovi d’Oriente e d’Occidente, uno dopo l’altro, chinarono il capo e sottoscrissero la condanna di Atanasio. Il papa, rimasto a Roma, aveva mandato dei legati, ma essi non riuscirono a difendere la causa di Atanasio. Uno dei pochi che osarono resistere, Eusebio di Vercelli, cercò di aggirare la questione proponendo innanzitutto che si sottoscrivesse il Simbolo di Nicea; ma la fazione ariana si oppose con violenza e anche questo tentativo andò a vuoto. Alla fine la condanna di stanasi o venne ratificata. Dei tre vescovi occidentali che non vollero sottoscriverla, Lucifero di Cagliari, Eusebio di Vercelli e Dionisio di Milano, non uno mantenne la propria sede episcopale, ma dovettero tutti prendere la via dell’esilio. Questo pose il problema di chiamare un nuovo vescovo a Milano, la città ove allora risiedeva la corte imperiale. Alla fine si scelse un filo-ariano, Aussenzio, che veniva dalla Cappadocia e che non godeva le simpatie dei cittadini, dei quali del resto non conosceva nemmeno la lingua.
LIII
Adesso Costanzo intendeva procedere in due direzioni: in Oriente, scacciare con la forza, se necessario, Atanasio da Alessandria; in Occidente, colpire e disperdere i pochi che ancora facevano qualche resistenza all’indirizzo filo-ariano da, lui impresso agli affari della Chiesa.
La prima impresa si presentava tutt’altro che facile. I fatti accaduti a Costantinopoli nel 342, quando il magister militum Ermogene era stato ucciso e fatto a pezzi dai fedeli inferociti, lo ammonivano circa quel che poteva succedere. Subito dopo il concilio di Milano, nell’estate del 355, un primo tentativo di espellere Atanasio dalla sua sede fallì clamorosamente; e, fatto davvero impressionante, in quell’occasione i magistrati furono solidali con il popolo di Alessandria nel resistere all’ordine imperiale. Fu quindi necessario organizzare una più energica azione.
All’inizio dall’anno successivo ( febbraio del 356 ) il dux Aegypti, Siriano, alla testa di un buon nerbo di truppe; cinquemila uomini, secondo quel che si disse ), circondò nella notte la chiesa in coi Atanasio stava elaborando una funzione. Le porte vennero abbattute, i soldati si riversarono nel santuario in mezzo alle grida e alla confusione più completa, armi alla mano, sfondando e uccidendo. Mentre diversi fedeli pagavano con la vita la loro fedeltà al vescovo, questi, incredibile a dirsi, in mezzo al trambusto generale riuscì a fuggire e a far perdere nella notte le sue tracce. Poi lasciò Alessandria, e prese la via del deserto? i monaci della Tebaide soltanto erano a conoscenza del suo rifugio sperduto, ma essi non lo avrebbero mai rivelato a nessuno. Così finiva, nel sangue e nella violenza, il secondo periodo del vescovato di Atanasio nella turbolenta città di Alessandria.
Al suo posto Costanzo insediò come nuovo vescovo un altro cappadoce, un tal Giorgio, che era stato, fra l’altro, educatore del piccolo Giuliano al tempo della sua reclusione dorata nel palazzo di Makellon, in Asia Minore. Di lui possiamo dire soltanto che perseguitò con accanimento i vecchi amici di Atanasio, che speculava sulle piantagioni di papiro e sulle saline, e che si fece odiare dal popolo di Alessandria al punto che nel giro di diciotto mesi una sommossa lo costrinse a fuggire dalla città inferocita.
LIV
Dato il carattere del clero e dei fedeli dell’Occidente, il compito di schiacciare le ultime resistenze degli ortodossi intransigenti colà appariva nel complesso meno difficile, e Costanzo vi si dispose con la consueta energia.
Fin i al 355 era stato chiamato a Milano il vescovo Osio di Cordova, l’antico consigliere spirituale di Costantino il Grande, la cui colpa principale consisteva nell’esser stato, a Nicea, uno dogli animatori del concilio del 325. II vecchio novantenne dovette presentarsi quasi come un malfattore davanti all’imperatore; ma il suo spirito indomito non tremò, e il suo sguardo si appuntò con fermezza sui suoi accusatori. A Costanzo mostrò le sue piaghe e disse i «Dal tuo avo Massimiano Erculio ho ricevuto queste, soffrendo per la verità della fede di Cristo, lo non ti temo, e sono pronto, nella mia vecchiaia, a subite altrettanto per mano tua.» Costanzo non ebbe il coraggio di agire contro di lui e lo lasciò tornare in Spagna.
Intanto però l’imperatore meditava un colpo veramente decisivo: esiliare il papa e sostituirlo con un uomo di sua fiducia. Finché a Roma sedeva un ortodosso intransigente, non si sarebbe mai potuto sperare di pacificare la Chiesa e di far accettare al clero di Occidente un compromesso con l’arianesimo moderato. Liberio venne arrestato di notte e tradotto a Milano, davanti all’imperatore. Gli si chiedeva, al solito, di aderire alla condanna di Atanasio, ma questi ai suoi occhi equivaleva e tradire la fede di Nicea, alla quale intendeva a ogni costo tener fermo. Venne perciò esiliato, come Lucifero, Eusebio e Dioniso, in una località dei Balcani. Al suo posto venne nominato vescovo di Soma un tal Felice, che ricevette la consacrazione a Milano da alcuni vescovi ariani e in presenza di funzionari dell’imperatore. Felice personalmente non era un ariano, ma teneva una posizione di compromesso, tuttavia. le modalità della sua elezione e il ricordo dell’esilio di Liberio furono sufficienti a renderlo odioso alla maggioranza del popolo di Roma. Ci viene detto che quando celebrava la messa, la chiesa era quasi deserta. Questa è certo una esagerazione, ma bisogna tenere conto che nell’Urbe, la città più pagana dell’Impero, i Cristiani erano pur sempre una minoranza, e gli ariani, fra di loro, una frazione insignificante.
L’ultimo colpo al partito ortodosso intransigente dell’Occidente fa l’esilio del vescovo Ilario di Poitiers. Ilario era stato una aperto difensore della causa di Atanasio e aveva avuto parole sprezzanti per il concilio di Milano e per la maggioranza dei vescovi in esso riuniti, che avevano tradito, a suo dire, la fede di Nicea per obbedire alla prepotenza dell’imperatore. Un apposito concilio, convocato in Gallia nel 356 dal vescovo ariano di Arles, provvide e, condannarlo e a deporlo.
Ilario dovette prendere a sua volta la via dell’Asia Minore.
LV
Apparentemente Costanzo aveva trionfato su tutta la linea. Aveva stroncato ogni resistenza ed eliminato i suoi più tenaci oppositori. Naturalmente la cacciata di Atanasio, di Liberio, di Ilario e degli altri non doveva essere, nella sua mente, che il primo passo, il necessario preambolo all’azione vera e propria. Questa doveva consistere nella convocazione di un grande concilio, che provvedesse a fissare un canone di compromesso fra arianesimo e ortodossia, e quindi a cancellare il precedente del Simbolo di Nicea, cui sempre si appellavano coloro che intendevano contrastare la sua politica religiosa. Ma prima di iniziare questo passo decisivo, Costanzo volle fare una visita alla città di Roma, che sarebbe stata la prima e l’ultima nel corso del suo lungo regno,
Il pretesto per questa visita non mancava. Fra il 350 e il 353 egli, per mezzo dei suoi generali, avevano disfatto le armate di Magnenzio e di Decenzio; poi, nel 354 e nel 355, aveva condotto, in cooperazione con Giuliano in Gallia, due campagne contro le tribù alamanniche nella Rezia. Nel 356, infine, aveva guidato una tersa campagna contro gli Alamanni, sempre agendo in cooperazione con il Cesare Giuliano; e il risultato era stato la resa dei barbari e la pacificazione completa di quel settore. Una ragione meno palese della sua visita fu, probabilmente, quella di conciliarsi le simpatie del popolo dell’Urbe, che non amava vedersi trascurato o ignorato dagli imperatori. I movimenti di Masseazio o di Nepoziano ammonivano in tal senso. Per di più, l’esilio di Liberio e la sua sostituzione con l’ariano Felice richiedevano la sua presenza per far dimenticare ai Romani, con lo splendore dei festeggiamenti, le violenze della sua politica cesaropapista.
Così, nella primavera del 357, si mise in viaggio alla volta della Città Eterna, accompagnato dal
principe persiano Ormisda, che viveva in esilio presso i Romani fin dagli anni di Costantino il Grande.
LVI
Costanzo II entrò in Roma il 28 aprile del 357. La sua visita fu di una fastosità senza precedenti, e la città gloriosa e decaduta parve rivivere il sogno esaltante dei suoi anni più belli. Impallidiva il ricordo dello stragi ordinate sette anni prima da Nepoziano contro i partigiani di Magenzio, da Magnenzio contro quelli di Nepoziano; impallidiva il ricordo della testa di Nepoziano, trascinata per le vie cittadine in cima a una picca. La Città Eterna era in festa. Una folla immensa era accorsa ad ammirare l’imperatore che procedeva sol suo cocchio magnifico, simile più a una divinità che ad un uomo.
Se alcuni fuggevoli tratti possono servire a delineare il carattere di un uomo, ciò che ci racconta Ammiano Marcellino dell’ingresso di Costanzo a Roma è per noi una fonte preziosa. Quando il cocchio imperiale, circondato dal fasto magnifico delle truppe e della corte, passò, tra due ali di folla, sotto gli enormi cancelli, Costanzo, benché fosse piuttosto piccolo di statura, si curvò, quasi che la maestà imperiale fosse troppo imponente per quell’angusto passaggio. Tutti gli occhi erano fissi su di lui, sul famoso figlio di Costantino il Grande, che veniva nell’Urbe a celebrare il trionfo per tante battaglie combattete e vinte in paesi lontani. Notarono che egli non piegava il collo, quasi lo avesse avuto stretto in una morsa, e non volgeva mai lo sguardo né a destra né a sinistra: nella sua ieratica fissità bizantina pareva, a tratti, un manichino senz’anima. Quando il cocchio, superando un ‘asperità della strada, ebbe un sobbalzo, Costanzo non ebbe neppure un moto del capo, nessuno lo vide mai pulirsi o strofinarsi il naso, nessuno lo vide sputare, cose queste che – evidentemente – erano allora considerate del tutto normali anche per un personaggio di alto rango.
LVII
Il popolo di Roma guardò non senza stupore un imperatore così diverso da tutti quelli che lo avevano preceduto ed ebbe fosrse, per la prima volta, la netta sensazione che quell’autocrate bizantino appartenesse a un altro mondo, a un’altra civiltà, dove non c’era posto per i motteggi del popolino, ma solo per il rigido cerimoniale dei funzionari e degli eunuchi. Bisanzio faceva il suo ingresso nella storia di Roma. Costanzo fu il primo imperatore bizantino a entrare in Roma giocando sull’equivoco di un passato che non era il suo; trecento anni dopo, Costante II, imperatore di Costantinopoli che sognava di trasportare la capitale a Siracusa, sarebbe stato l’ultimo (cfr. l’ottima monografia di pasquale Corsi, La spedizione italiana di Costante II, Bologna, patron Editore, 1983)
Sebbene Costanzo facesse di tutto per impressionare i Romani con la sua ieraticità, egli stesso era rimasto a sua volta vivamente impressionato da quel che aveva visto. Non passò molto tempo che, senza avvedersene, abbandonò le sue maniere altere e quasi statuarie per abbandonarsi all’estatica ammirazione della grandiosità dell’Urbe. I suoi palazzi marmorei, le colonne bellissime, le terme immense, i circhi e i teatri avevano ancora, in pieno IV secolo, un aspetto splendido e veramente unico al mondo. Nessuno poteva resistere a lungo al fascino di quella città straordinaria. Costanzo si volse al principe persiano e gli domandò: "Ebbene, che te ne sembra di Roma?". Ormisda seppe solo rispondere: «Nulla di essa mi è piaciuto più del fatto che anche qui, alla fine, gli uomini sono mortali».
Costanzo volle lasciare ai Romani un più splendido ricordo della sua visita sotto forma di una testimonianza che il tempo non avrebbe potuto far impallidire. L’enorme obelisco di Tebe, che già suo padre Costantino il Grande aveva fatto rimuovere dalla antichissima città reale egiziana, venne destinato ad ornare la magnificenza dell’Urbe. Ad Alessandria venne costruita appositamente una nave particolarmente grande e robusta per il suo trasporto attraverso il Mediterraneo. Il colosso, alto trentun metri, arrivò a Roma dopo un viaggio lento e difficile ed eccezionalmente costoso. Quando venne drizzato, fra lo stupore e l’ammirazione del popolo, nel Circo Massimo, si vide quasi con sgomento che esso era il più alto della Città Eterna. E lì, nel Circo Massimo, era destinato a rimanere secoli e secoli, dapprima nella cornice esaltante delle affollatissime corse dei cavalli, poi in quella degli incendi delle invasioni barbariche; infine, tra l’indifferenza degli uomini, ad assistere al lento ricoprirsi di terra e di erbacce del vasto ippodromo che si stendeva ai suoi piedi. Noi possiamo ammirarlo, intatto, ancor oggi, nella Piazza San Giovanni in Laterano, a lato dell’enorme basilica, ove venne trasportato nel Cinquecento, quando il papa e non più l’imperatore era il padrone assoluto della città e dei suoi tesori: un esito che Costantino e lo stesso Costanzo ben difficilmente avrebbero potuto prevedere.
LVIII
L’aspetto religioso della visita di Costanzo II a Roma è illustrato da due interessanti episodi, relativi l’uno al versante cristiano, l’altro a quello pagano dell’impero. Una deputazione di nobili matrone si recò dall’imperatore per intercedere a favore di Liberio e per esprimergli la scarsa simpatia del popolo romano nei confronti di Felice, che era considerato una specie di intruso. Costanzo non si lasciò smuovere dalle loro preghiere, e lo assicurò che il gregge romano possedeva già un pastore capace di custodirlo. Ma poi, cedendo alle loro insistenze, pare si sia lasciato andare a una mezza promessa che Liberio sarebbe stato un giorno richiamato.
È stato detto che Costanzo, nella sua visita a Roma, abbia cercato un riavvicinamento all’aristocrazia pagana, riducendo i provvedimenti discriminatori presi da suo fratello Costante, giacché la resistenza del partito ortodosso intransigente lo aveva messo nella necessità di cercare alleati dovunque potesse trovarne. Già, in linea teorica, è perfettamente plausibile, e può anche darsi che Costanzo lo abbia realmente pensato. Tuttavia sarebbe difficile trovare un gesto più indisponente nei confronti dei pagani di Roma, di quello che Costanzo, primo imperatore cristiano, osò fare. Egli sostenne che l’altare della Vittoria, posto all’ingresso della Curia e sul quale ogni sena-tore, entrando, soleva bruciare un grano d’incenso, offendeva i sentimenti dei senatori cristiani, e con tale pretesto lo fece rimuovere. Il fatto destò enorme scalpore in tutta Roma, e non solo fra i pagani più conservatori e intransigenti. Infatti l’altare della Vittoria aveva un significato non solo puramente religioso, ma, da sempre intrecciato ad esso e da esso inscinidibile, uno patriottico e nazionale. Esso era un po’ il simbolo della grandezza e dell’eternità di Roma, eternità che allora nessuno, se non i Cristiani più arrabbiati, avrebbe osato mettere in dubbio. Abbiamo visto in altra sede ( vedi il nostro articolo La battaglia del Frigido e la fine del paganesimo ) come la questione dell’Altare e della Statua della Vittoria – quest’ultima posta in fondo all’aula del Senato – avrebbe costituito, verso la fine del secolo, il banco di prova tra intolleranza cristiana ed estrema resistenza pagana, tra Ambrosio e Simmaco, tra il futuro e il passato.
LIX
Costanzo II lasciò Roma, dopo un mese di permanenza, il 29 maggio del 357. Nuovi, gravi problemi difensivi lo richiamavano sulla frontiera del medio Danubio, minacciata dai nemici di sempre, quegli stessi che, fin dal tempo di Marco Aurelio, avevano incominciato l’incubo delle invasioni, e rafforzati adesso da altre tribù barbari che
Dal 358 al 359, mentre Giuliano nel settore occidentale portava a coronamento la sua azione militare e passava per la terza volta il Reno, occupando temporaneamente la regione degli Agri Decumates, Costanzo diresse personalmente le operazioni contro i barbari sulla linea del Danubio. Dapprima i Romani sconfissero e respinsero, a prezzo di dure campagne, i Quadi e i Sarmati, poi sventarono un attacco dei Limiganti ( Limigantes ), una tribù della quale poco sappiamo se non che si trovava in stato di servitù nei confronti dei Sarmati, e che probabilimente era della medesima razza. Anche i Limiganti, nel 359, furono sconfitti, come già i loro più potenti vicini, e la frontiera del medio Danubio venne ancora una volta ristabilita.
L’esito di queste operazioni fu quello ormai abituale nelle campagne contro le popolazioni barbariche di confine. Una parte dei Quadi, dei Sarmati e dei Limiganti venne massacrata, un’altra respinta; un certo numero di essi, infine, vennero accolti entro i confini dell’Impero o come agricoltori, o come foederati dell’esercito renano: politica, quest’ultima, che era già stata di Costantino il Grande.
LX
Altre nuvole cariche di minaccia si andavano intanto addensando sulla frontiera orientale dell’Impero Romano, ove il re sassanide Shapur, respinte una volta per tutte le incursioni dei Massageti e di altri barbari sui confini nord-orientali dei suoi Stati, aveva ricominciato il solito sterile, monotono, pericoloso gioco dei ricatti e delle minacce per ottenere la restituzione, com’egli affermava, delle terre spettanti per diritto alla sua corona, e cioè la Mesopotamia e l’Armenia. Proprio in quel tempo egli disponeva di un prezioso alleato nella persona del monarca arsacide del regno vicino, il quale, reagendo alla politica filo-cristiana e filo-romana dei suoi predecessori, da Tiridate in poi, aveva unito le sue forze a quelle dei Persiani nell’invasione delle terre contese.
La minaccia era grave, né poteva essere sottovalutata. Costanzo, però, era trattenuto in Europa dalla soluzione del problema religioso, che egli già cominciava a intravedere, essendosi realizzate, con la cacciata di Atanasio e dei principali oppositori, le maggiori condizioni preliminari. A questo punto ci si può chiedere perché mai Costanzo si accanisse tanto nel sostenere, all’interno della Chiesa, un partito chiaramente minoritario, prendendo su di sé tutto il carico di impopolarità che ciò comportava. Già sì cominciavano a levare, apertamente, delle recriminazioni e delle accuse contro di lui; già si cominciava ad additarlo, dai pulpiti ielle chiese, come il temuto Anticristo; già il vegliardo Osio di Cordova rispondeva alle sue lettere: «Smetti di perseguitare ; richiama i vescovi esiliati; ritira i tuoi conti, ricordati che sei un uomo, e che anche tu devi morire…» E il popolo di Roma, quando aveva saputo della sua intenzione di richiamare beasi Liberio dall’esilio, ma di affiancargli nelle cure dell’episcopato anche Felice, aveva irriso a quella grottesca soluzione, dicendo «Sì, due vescovi a Roma, come i partiti del circo!».
Che cosa dunque, nonostante tutto il risentimento e l’opposizione che la sua politica destava, poteva sorreggere Costanzo e spingerlo innanzi senza deflettere, dalla sua strada? Noi non possiamo credere che un autocrate come lui, per molti aspetti non privo di scaltrezza, potesse lasciarsi guidare in mezzo a simili affanni unicamente dal parere dei vescovi che lo circondarono. Egli era stato educato nell’arianesimo, ai tempi in cui Eusebio di Nicomedia predicava l’arianesimo in Asia minore e battezzato, sul letto di morte, il grande Costantino. La tutto questo può bastare? È stato detto che l’arianesimo, in quanto separava la natura umana del Figlio da quella divina del Padre, spezzava l’alone soprannaturale del Cristianesimo e offriva alla rapacità. del potere politico un potente strumento per penetrare nella breccia, riaffermando i suoi diritti di supremo giudice anche negli affari religiosi. Ciò è sostanzialmente esatto. L’arianesimo era effettivamente la più compiuta espressione del cesaro-papismo instaurato da Costanzo, ancor più ferreo e invadente di quello costantiniano, o meglio era lo scudo più acconcio alle sue smisurate pretese.
Solo che l’arianesimo estremista, in questa forma della dichiarata diversità del Padre dal Figlio, godeva di un credito assai modesto perfino in Oriente, e si può dire nullo in Occidente. In Oriente, invece, avevano più forza, come si è detto, le tendenze omee, secondo le quali Padre e Figlio erano simili, e quelle omoiusiane, che sostenevano la similitudine della ‘sostanza’ del Padre e del Figlio. Nel complesso però, data la ripugnanza del clero e dei fedeli di Oriente a servirsi del termine di "sostanza", sia in un senso che nell’altro ( ed era questa la ragione dell’ostilità verso il Simbolo di Nicea, che affermava esplicitamente la " consustanzialità" ), gli omei erano nettamente la tendenza predominante. Costanzo ebbe sempre di mira l’instaurazione di questo arianesimo moderato, illudendosi di poter riunificare e pacificare la Chiesa su una formula di compromesso che potesse essere accettata, in fin dei conti, sia dagli ariani moderati che dagli ortodossi non atanasiani. Era una speranza chimerica, ma Costanzo ebbe – se non altro – il coraggio di percorrere quella strada malagevole senza mai deflettere, sino alle estreme conseguenze.
LXI
Costanzo, come si è detto, si trovava in una posizione contraddittoria e spinosa. Da un lato aveva urgenza di riunire un concilio che definisse una buona volta il compromesso fra arianesimo e ortodossia, incalzato dalle notizie inquietanti che giungevano dalla frontiera persiana; dall’altro si vedeva ormai apertamente fatto segno alla riprovazione di alcuni vescovi battaglieri, che rischiavano di screditarlo del tutto agli occhi delle masse. Ilario di Poitiers, da Costantinopoli, tuonava apertamente contro l’anticristo, lamentandosi di non essere nato al tempo delle persecuzioni di Decio o di Nerone.
Costanzo comprese che era necessario un atto di generosità verso i suoi antichi avversari, un atto che gli permettesse di recuperare una parte almeno della popolarità perduta con la persecuzione dei vescovi ortodossi intransigenti. Senza un gesto di riconciliazione, egli non avrebbe mai potato riunire un concilio in veste di supremo pacificatore della Chiesa.
Così, nel luglio del 358, dopo aver ceduto a una formula di compromesso e aver lungamente supplicato il ritorno, Liberio poteva rientrare nella Città Eterna, accolto entusiasticamente dai fedeli. Felice, messo in disparte dal suo sovrano e burattinaio come un oggetto inutile, dovette ritirarsi nei sobborghi. Qualche mese dopo tentò di rientrare a forza e di occupare la Basilica Giulia ( l’odierna Basilica di S. Maria in Trastevere ). Ne fu scacciato a furor di popolo e, da allora, scomparve definitivamente dalla scena. Il sogno di Costanzo, di dare simultaneamente due vescovi alla città di Roma, l’unico cattolico intransigente e l’altro amico degli ariani, si era dimostrato assurdo e irrealizzabile. Ma Costanzo, tuttavia, aveva pur guadagnato qualche cosa in tutto questo pasticcio: aveva compiuto il tanto atteso gesto di riconciliazione; e adesso, in una veste più credibile, poteva procedere alla realizzazione della sua vecchia idea di un grande concilio.
LXII
Intanto però l’imperatore era arrivato alla conclusione che l’unico modo il assicurarsi un andamento .favorevole dei lavori era quello di convocare non già un unico concilio, ma due
concili separati, uno in Oriente e l’altro in Occidente, secondo la vecchia buona massima romana del "divide et impera". E cosi fu fatto.
Nella primavera del 358 il vescovo di Ancira ( Ankara ), Basilio, aveva raccolto un concilio dì carattere locale nel quale era stato formulato un atto di fede diverso da quello di Nicea del 325, ma moderato, ossia una classica soluzione di compromesso fra ortodossia e arianesimo. Sulla base di questo documento venne indetto subito dopo un concilio occidentale nella città adriatica di Ariminum ( Rimini ), a sud di Ravenna. Vi parteciparono circa quattrocento vescovi, e l’elevato numero delle presenze si spiega anche col fatto che Costanzo aveva offerto il pagamento del viaggio e di tutte le spese ai partecipanti. I lavori, però, erano presieduti da un fedele ministro dell’imperatore, Tauro, che ricopriva la carica di prefetto del pretorio d’Italia. Il Concilio di Rimini, che al pari di quello di Seleucia non è considerato canonico dalla Chiesa moderna a cagione della non-ortodossia delle sue conclusioni, fu una pagina squallida nella storia della Chiesa, occidentale. I vescovi ortodossi vi erano in schiacciante maggioranza, e tutti, o quasi tutti – almeno a parole – sembravano fedeli al Simbolo di Nicea. Pure, davanti alla tenacia di Tauro, che alternava abilmente le lusinghe alle minacce, tutti, uno dopo l’altro, finirono per cedere, logorati più che sconfitti, e accettarono la formula di compromesso. Questo mentre a Roma sedeva un papa che si era guadagnato il ritorno dall’esilio appunto sconfessando Atanasio e vendendo a compromesso con le un tempo aborrite dottrine ariane. Il concilio di Rimini fu un trionfo della politica cesaropapista di Costanzo II, perché egli, benché assente e lontano, aveva saputo far pesare su tutta l’assemblea la sua imperiosa volontà, e questo pur essendosi appena un’ottantina di vescovi ariani contro oltre 300 ortodossi. E fu, naturalmente, una disfatta dell’ortodossia nicena, una disfatta vergognosa, che mostrava quanto in basso fosse caduta la Chiesa di Cristo dopo che aveva accettato per supremo signore l’imperatore di Costantinopoli.
LXIII
Parallelamente al concilio di Rimini si svolse, sempre nel 359, quello orientale, che tenne le sue sedute nella cittadina di Seleucia Isauarica, in Asia Minore. Come quello occidentale, anche il concilio di Seleucia fu presieduto da un alto funzionario imperiale, il quaestor sacri palatii, Leonas, il quale era assistito, per soprappiù, dal comes rei militaris dell’Isauria, certo Lauricio. Tutto questo è di per sé sufficiente a delineare tutto il quadro di pressioni e di larvata violenza che costituì lo sfondo di questo concilio. Vi presero parte circa 150 vescovi, in grande maggioranza ariani moderati, ma, stranamente, le difficoltà cui andarono incontro i desideri di Costanzo furono più serie di quelle create dai vescovi ortodossi a Rimini. Anche qui, però, la pressione esercitata dai funzionari imperiali, i quali avevano istruzione di non cedere ad alcun costo, sortì l’effetto desiderato. I vescovi riuniti finirono per cedere e per sottoscrivere la soluzione desiderata dall’imperatore.
A coronamento dei concili di Rimini e di Seleucia, all’inizio del 360 Costanzo li volle riunire un terzo e più solenne concilio, che tenne le sue sedute nella stessa Costantinopoli e che parve segnare il completo trionfo della sua politica. Non solo il Simbolo di Nicea venne completamente accantonato, ma perfino la posizione ariana moderata, rappresentata da Basilio di Ancira, venne superata per volontà dell’imperatore. Così, con il trionfo del cesaropapismo e con la sconfitta tanto dell’ortodossia atanasiana, quanto dell’arianesimo moderato, qual era quello rappresentato da Basilio di Ancira, si concluse l’azione religiosa di Costanzo II, giunto ormai al vespero del suo lungo e travagliato regno, egli aveva riportato solo apparentemente l’unità e la concordia nel seno della Chiesa. Le forzature cui aveva costretto la religiose nel suo costante sforzo di sottometterla alla sua volontà si sarebbero tradotte in debolezza da parte della Chiesa medesima nei confronti del mondo pagano.
Così, un giorno, i Cristiani si sarebbero svegliati apprendendo, con stupore, che essi non possedevano ancora il completo dominio nell’ambito religioso; e che gli antichi dei, detronizzati ma non del tutto vinti, intendevano dare un’ultima battaglia prima di soccombere per sempre.
LXIV
Abbiamo detto della fretta che muoveva i passi di Costanzo allorché egli si impegnava a ridurre la totalità della Chiesa cristiana entro gli argini ferrei del suo cesaropapisno filo-ariano. Le noti aie provenienti dalla Persia esano tutt’altro che tranquillizzanti , e lasciavano prevalere un precipitare imminente della situazione. Certo Shapur non appariva in grado di rinnovare i trionfi strepitosi dei primi Sassanidi al tempo di Valeriano e di Gallieno, quando la stessa Antiochia era stata presa e i suoi abitanti trascinati in schiavitù nelle lontane contrade dell’Asia interiore. L’aspetto grottesco delle rivendicazioni del re persiano consisteva nel fatto che, per quanto egli affermasse la sua supremazia su tutti gli antichi domini achemenidi, compresi l’Egitto, l’Asia Minore e le isole dell’Egeo, era tuttavia disposto, nella sua generosa magnificenza, ad accontentarsi di una pacifica restituzione, da parte dei Romani, della Mesopotamia, annessa da Diocleziano sessant’anni prima con la guerra vittoriosa di Galerio. Il monarca di Ctesifonte si comportava più o meno come quei venditori ambulanti del Vicino Oriente che offrono la loro mercé ad un prezzo esorbitante e poi, senza batter ciglio, si accontentano di una somma dieci o venti volte inferiore a quella pretesa all’inizio.
La minaccia persiana, comunque , non poteva essere sottovalutata. Il Reno e il Danubio erano stati ristabiliti, e i barbari stanziati lungo il corso di questi fiumi avevano subito delle severe lezioni. Tuttavia non c’erano prospettive di per concentrare rapidamente un grosso esercito contro la Persia, a meno di richiamare le legioni della Gallia e in genere dell’Occidente. Vedremo più avanti a quali disastrose conseguenze tale necessità avrebbe dato luogo per il sospettoso imperatore Costanzo II.
LXV
Mentre Costanzo si trovava impegnato sul Danubio a punire le incursioni dei Limiganti, e mentre a Rimini e a Seleucia si consumava la disfatta dell’ortodossia, il re Shapur aveva iniziato le ostilità invadendo con grandi forze la Mesopotamia. Il re Arsace d’Armenia aveva condotto le sue armi a devastare la regione intorno a Nisibis, e dalla regione caucasica il re degli Albani aveva unito le sue trifrù. semibarbare agli eserciti del gran He. Impossibilitato a far fronte alla minaccia con forze adeguate, Gostanzo sulle prime aveva inviato presso il monarca sassanide un’ambasceria composta da tre per-sonaggi autorevoli, Prospero, Spettato ed Eustazio. Essi recavano una lettera conciliante dell’imperatore e ricchi doni che sotto le apparenze dell’amicizia dissimulavano la debolezza dei Somara. Poco dopo un ambasciatore speciale persiano di nome Narsete si era recato personalmente a Sirmium, ove Costanzo, terminata la guerra contro i Limiganti, si trovava. Alle sue richieste di una cessione unilaterale della Mesopotamia, l’imperatore, naturalmente , era stato costretto a rifiutare. Ciò aveva provocato l’immediata offensiva di Shapur che nella primavera del 359 si era diretto con un grosso esercito contro la fortezza di Ami da, situata in posizione strategica sul Tigri superiore ai confini della Mesopotamia romana cori l’Armenia Maggiore.
L’eroica città resistette per intere settimane respingendo uno dopo l’altro gli assalti furiosi dei Persiani, nei quali cadde il fiore dell’esercito sassanide. Alla fine, però, le torri mobili e le macchine da guerra di ogni tipo costruite dagli assalitori ebbero ragione delle sue mura e i Persiani si rovesciarono all’intorno con le loro masse strabocchevoli. Soltanto pochi Romani riuscirono a salvarsi con la fuga, mentre gli altri, uomini, donne e bambini, scomparvero in un massacro generale che pose la parola fine alla sanguinosa epopea di Amida.
LXVI
Shapur aveva commesso un grave errore ostinandosi nell’assedio di una sola piazzaforte, mentre i Romani avevano avuto il tempo di sgomberare le cittadine meno protette, di mettere in salvo il bestiame e di dare alle fiamme tutto quanto non poteva essere trasportato al sicuro. Così, quando Amida non fu ridotta che ad un cumulo di rovine fumanti, egli si ritrovò con un esercito gravemente indebolito nelle forze e soprattutto nel morale e con una stagione campale quasi interamente trascorsa senza aver ottenuto altri successi degni di nota. Una piccola guarnigione, sacrificandosi, aveva trattenuto il suo enorme esercito e vanificato i suoi giganteschi preparativi di guerra.
Nella primavera successiva Shapur si mise nuovamente in campagna con un’armata notevolmente più debole di quella che aveva condotto l’anno precedente. Lo spirito degli orientali non era adatto a sostenere i sacrifici di una guerra prolungata e inconcludente, e molti dei suoi barbari alleati lo avevano abbandonato. La campagna del 360 fu dunque meno grandiosa, ma non meno drammatica, per le circostanze in cui si svolse, di quella del 359. Vi erano tutti gli elementi di una vicenda tragica e romanzesca: due comandanti romani, l’uno valoroso ed esautorato, Ursicino, l’altro accidioso e incapace, Sabiniano; un traditore, Antonino, che viveva in confidenza con Shapur e gli aveva insegnato la via dell’invasione; un monarca asiatico che si diceva Re dei Re e fratello del Sole e della Luna, che ostentava nelle sue lettere il massimo disprezzo per l’imperatore romano e che non era capace di sostenere con le armi nemmeno una modestissima parte delle sue immense ambizioni.
Noi siamo informati con abbondanza di particolari di questa guerra persiana, perché fra il 353 e il 360 militò sotto il magister equiturm Ursicino un ufficiale greco di Antiochia, Ammiano Marcellino, che descrisse con la sua penna di grande storico tali vicende. Tuttavia esse non sono poi così interessanti da meritare una narrazione particolareggiata. La sostanza dei rapporti militari tra Romani e Persiani nel IV secolo era che entrambi gli avversari erano giunti ad un punto morto, e che né i primi erano capaci di mettere in campo un’amata sufficiente a chiudere la partita, come ai tempi di Traiano, Settimio Severo, Marco Aurelio o anche di Caro, né i secondi possedevano la forza per sostenere le loro illimitate rivendicazioni territoriali. La guerra ristagnò in una serie di inconcludenti operazioni di assedio e l’inutile massacro di molte migliaia di soldati fu l’unico risultato di queste goffe schermaglie.
LXVII
Iella campagna del 360 Shapur rivolse le sue energie contro la fortezza di Singara, ai confini della Osrhoene, e alla fine riuscì a impadronirsene. Uguale sorte toccò poi alla piccola fortezza di Bezabde, sul Tigri. Cinque legioni romane dagli effettivi alquanto modesti vennero catturate o distrutte e i valorosi difensori romani che non caddero sul campo vennero trascinati in schiavitù nelle lontane regioni della Persia.
Mentre Singara e Bezabde cadevano nelle mani dei Sassanidi, il comando romano era pressoché paralizzato dal contrasto esistente fra il magister equitum Ursic no, che desiderava soccorrerle in tutti i modi, e Sabiniano, che non osava muoversi e intralciava in tutti i modi l’azione del collega. Alla fine Ursicino, che era stato allontanato, poi richiamato e messo al fianco dell’inetto Sabiniano, fu processato e punito per la caduta delle due piazzaforti, nonostante che per unanime giudizio egli fosse stato il solo uomo che avesse dato prova di energia e capacità in quei difficilissimi momenti.
Quanto stava accadendo in Mesopotamia e nella Osrhoene richiedeva la presenza di Costanzo, il quale, concluso anche il concilio di Costantinopoli, si portò ad Antiochia e mosse con un esercito contro i Persiani. Ma Shapur si era già ritirato per celebrare a Ctesifonte la trascurabile gloria dei suoi successi e non vi fu alcuna battaglia campale. Amida e Singara erano state distrutte e abbandonate, mentre Bezabde era stata ricostruita dai Sassanidi che vi avevano posto una loro guarnigione. Costanzo condusse personalmente l’assedio della fortezza e si trovò a sperimentare a sua volta le difficoltà di una simile operazione in quel paese e con un simile clima. Nononstante i loro sforzi rabbiosi, i Romani non conclusero nulla e, al termine della buona stagione, quando ebbero inizio le piogge autunnali, dovettero ritirarsi con vergogna ad Antiochia. Tale fu l’esito mortificante della controffensiva diretta personalmente dall’imperatore in Mesopotamia.
LXVIII
L’andamento tut’altro che soddisfacente della guerra persiana impensieriva fortemente Costanzo II. Egli era costretto a constatare che aveva saputo tener testa con maggior fortuna ai Persiani quando non era che l’Augusto della parte orientale dell’Impero Romano, mentre ora che era l’unico imperatore aveva già subito la perdita di tre importanti piazzaforti di frontiera. Se poi paragonava i suoi insuccessi orientali con le brillanti imprese di Giuliano in Gallia, delle quali tutti parlavano con ammirazione od entusiasmo, il suo animo sospettoso doveva essere naturalmente portato alla gelosia e alla contrarietà. Tuttavia non vi sono prove per affermare, come solitamente si suole fare, che Costanzo aveva deciso di rimuovere senz’altro Giuliano e magari di riservargli la fine di suo fratello Gallo. Proprio le pressanti esigenze della guerra persiana dovevano, nonostante tutto, renderlo soddisfatto che l’Occidente fosse governato con tanta abilità e fortuna. D’altra parte, l’andamento della guerra in Mesopotamia aveva insegnato a Costanzo una grande verità: che la Persia poteva essere schiacciata solo a patto di trasferire in Asia le bellicose legioni dell’Occidente. Tutte le grandi vittorie militari di Roma in Oriente erano state ottenute in questo modo. Con le indisciplinate legioni dell’Oriente, poco avvezze alle fatiche e facili allo scoraggiamento, non era neppur pensabile di condurre una campagna offensiva ad ampio raggio
Fu così che Costanzo incominciò a far pervenire al suo Cesare delle richieste di truppe, in verità assai modeste, allegando le esigenze improrogabili della guerra persiana. Dapprima gli chiese due reggimenti, che Giuliano fece subito partite; poi ancora alcuni altri reggimenti, e anch’essi vennero mandati come i primi. Finalmente, nel febbraio del 360, Costanzo scrisse al cugino di inviargli quattro compagnie ausiliarie ( auxilia palatina ), Eruli, Batavi, Celti e Petulanti, nonché trecento uomini da ciascuno degli altri reggimenti e altre truppe scelte dalle due scholae degli Scutari e dei Gentili. A quanto ci vien detto, gli amici di Giuliano cominciarono, a questo punto, a metterlo in guardia contro le richieste di Costanzo, le quali ricordavano spiacevolmente la tattica già adoperata nei confronti di Gallo prima del suo arresto; ma Giuliano non avrebbe prestato ascolto a tali ammonimenti, e avrebbe disposto affinché anche queste truppe si mettessero in movimento.
Fino a quel momento la sua condotta nei confronti dell’Augusto cugino era stata assolutamente corretta e tale da rendere ingiustificato ogni sospetto. Alcuni sostenevano che Giuliano aveva voluto comportarsi in tal modo per non essere accusato di ingratitudine nei confronti del suo benefattore; il che, francamente, può lasciare alquanto perplessi. Giuliano non era uomo da praticare la virtù solo per essere giudicato virtuoso; e, quanto all’obbligo di gratitudine verso Costanzo, che recentemente gli aveva dato in sposa sua sorella Elena, si può dubitare che il fratello di Gallo sentisse dei particolari obblighi verso l’uccisore di quest’ultimo. Ma è un fatto, comunque, che fino a quel momento Giuliano aveva stornato, col suo comportamento, ogni sospetto di infedeltà all’imperatore, e questo nonostante che la sua popolarità fra le legioni del Reno e le popolazioni della Gallia fosse divenuta una vera e propria venerazione.
Fu allora che la situazione, per una piega improvvisa degli eventi, precipitò in maniera inusitata verso una nuova guerra civile.
LXIX
A un certo punto, era già notte tarda, come presi tutti dalla medesima idea, si alzarono da tavola, le coppe ancora in mano, e corsero come un sol uomo verso i quartieri del Cesare. Intanto gruppi di ufficiali e di soldati si spingevano in città, suscitando lo sdegno del popolo con l’affermare che Costanzo voleva richiamare poco a poco tutto l’esercito per poi insidiare la sicurezza del cugino.
Giuliano, a quanto pare, non solo non sapeva nulla di quanto stava accadendo nel campo, ma addirittura si era ritirato per riposare. Destato dal tumulto, appena vide quel che stava accadendo cercò di resistere, con nobiltà pari soltanto a quella già mostrata da Germanico, proprio davanti a quelle stesse legioni del Reno, durante il regno di Tiberio. La sua resistenza non servì a nulla. I soldati sfondarono le porte, irruppero dentro: lo trascinarono fuori a viva forza, senza dargli ascolto. All’aperto, circondato da migliaia di soldati eccitati, Giuliano fu preso, sollevato sugli scudi e acclamato Augusto imperatore. Qualcuno accorse recando un diadema, che subito gli venne posto in capo quale simbolo della sua nuova regalità.
Certi storici hanno dedotto da questo particolare che Giuliano aveva fatto solo una commedia, poiché sapeva benissimo quel che stava per accadere e teneva addirittura pronto il diadema: ma questa, naturalmente, è una prova di ben scarso valore. Ci vien detto, anzi, che più volte egli cercò di rifiutare, finché, vinto dallo acclamazioni e dal tumulto incontenibile dei soldati, si rassegnò a cedere. Era incominciata la straordinaria meteora imperiale di Flavio Claudio Giuliano, nipote di Costantino il Grande. Il suo regno, di straordinaria importanza per la storia di Roma e del mondo tardo-antico, sarebbe durato in tutto soli quaranta. mesi.
LXX
Quel che avvenne poi è una conferma della moderazione e del senso della misura di Giuliano, che la fortuna toccatagli non esaltava e non insuperbiva. Per prima cosa scrisse a Costanzo, spiegandogli semplicemente quel che era accaduto e chiedendogli di conservare la dignità dì Cesare, ma Costanzo, a quanto pare, non era disposto a cedere e a instaurare un precedente tanto pericoloso. È anche possibile che Giuliano abbia chiesto la ratifica della proclamazione ad Augusto e che Costanzo gli abbia risposto consigliandolo di accontentarsi del titolo di Cesare, come fanno pensare le parole di Ammiano Marcellino; così come è possibile, naturalmente, che questa risposta di Costanzo non fosse sincera e fosse dettata unicamente dalla preoccupazione di guadagnare tempo.
Sta di fatto che la primavera del 360 trascorse senza incidenti fra i due sovrani, e così l’estate e l’inverno. In compenso, gli Alamanni varcarono nuovamente il Reno gettandosi sulle province galliche; Giuliano accorse, li sconfisse e li ricacciò per l’ennesima volta al di là del fiume. Nel corso della lotta accaddero due fatti importanti: Vadomario, il re degli Alamanni, venne fatto prigioniero e mandato in esilio in Spagna; e Giuliano seppe che l’attacco dei barbari era stato sobillato, come già al tempo di Decenzio e poi di Silvano, proprio dal suo Augusto cugino. Ormai la rottura fra lui e Costanzo era un fatto di pubblico dominio. Viste fallire le trattative che aveva cercato di intavolare, Giuliano arrivò a lagnarsi apertamente dell’inflessibilità del cugino e ad affermare che era più prudente mettersi nelle mani degli dei che nelle sue. Costanzo, dal canto suo, era ancora troppo impegnato dalla guerra persiana per potersi occupare immediatamente delle faccende occidentali.
Il 360 trascorse nelle operazioni persiane contro Amida e Bezabde e nel vano assedio di quest’ultima da parte dei Romani. Quando Costanzo, senza nulla avere concluso, tornò, in autunno, al suo quartier generale di Antiochia, non ritenne ancora di poter abbandonare quel delicato settore per accorrere a fronteggiare Giuliano. In quell’inverno egli celebrò il suo terzo matrimonio con Faustina, dalla quale ebbe una figlia, che sarebbe nata poco prima della sua scomparsa. Non vi è dubbio che egli non si illudesse di poter sistemare pacificamente la vertenza con Giuliano. Il fatto di avergli dato in sposa sua sorella, ciò che aveva fatto di lui suo cognato, non era valso a salvare la loro amicizia e reciproca fiducia. Adesso, poi, era venuta meno anche la seconda moglie di Costanzo, Eusebia, che con la sua intelligenza e con la sua grande stima per Giuliano aveva potentemente contribuito a salvarlo dopo la rovina di Gallo e poi a farlo nominare Cesare, nel novembre del 355.
LXXI
Nell’inverno del 360-361, mentre Costanzo rimaneva ad Antiochia per organizzare una nuova offensiva contro i Persiani da lanciare nella primavera seguente, Giuliano aveva posto la sua sede a Vienne, sul Rodano, nel paese degli Allobrogi, la città che lo aveva accolto per prima con tanto entusiasmo, dopo la sua nomina a Cesare, cinque anni prima. La Gallia e la Spagna erano tutte per lui. Non gli sarebbe stato difficile, con il suo fedelissimo esercito di veterani gallici, irrompere attraverso le Alpi sulle pesta di Costantino il Grande, e impadronirsi dell’Italia debolmente presidiata dagli ufficiali di Costanzo. Tuttavia pare che abbia voluto rimandare fino all’ultimo l’inizio delle aperte ostilità con il cugino, badando piuttosto a rafforzare ulteriormente! la sua posizione nei territori che controllava. La scelta di Vienne come quartier generale era dettata dalla duplice esigenze di tener d’occhio contemporaneamente la frontiera renana, ove gli agenti di Costanzo erano sempre pronti a suscitare nuovi assalti dei barbari, e quella alpina, donde era sempre possibile attendersi un attacco improvviso dei generali di suo cugino.
In quei mesi pare che Giuliano sia passato ancora una volta sopra alle sue personali convinzioni religiose pur di rafforzare la sua posizione in Gallia. Egli dissimulava il suo profondo disprezzo per i Cristiani, per il loro fanatismo settario e la mancanza di bellezza – come a lui sembrava – della loro religione, cercando di farsi alleati anch’essi. Il 6 gennaio del 361 non esitò a prender parte alle cerimonie cristiane che si tenevano in Vienne, nascondendo per sé la reale natura dei suoi sentimenti religiosi.
Così trascorse l’inverno, in una calma apparente che non poteva ingannare nessuno sull’imminenza di un conflitto di vaste proporzioni.
LXXII
Col ritorno della primavera, Giuliano per prima cosa marciò verso il Reno e attaccò vigorosamente le tribù alamanniche più pericolose; con le altre venne ad accordi pacifici. Sistemata in questo modo la frontiera del Reno, egli poté infine rivolgere tutta la sua attenzione alla partita decisiva con Costanzo, che per tutto questo tempo non si era mosso da Antiochia.
Si era ormai nel cuore della tuona stagione e, con l’avvicinarsi dell’autunno, più pressante si faceva l’esigenza di agire subito oppure di rimandare ogni cosa alla stagione successiva. Giuliano decise di agire subito. Divise il suo esercito in tre gruppi: il primo, comandato dal magister equitum Nevitta e forte di 10.000 uomini, doveva avanzare attraverso la Rezia e il Norico; il secondo, altrettanto numeroso e guidato da Giovio e da Gioviano, doveva procedere lungo il versante settentrionale delle Alpi; infine il terzo, forte di soli 3.000 uomini, ma tutti fedeli e scelti, avrebbe accompagnato lo stesso Giuliano per la via più impervia ed audace, la Foresta Nera e il rapido corso del Danubio. Punto di partenza e di separazione delle tre colonne era Basilea; punto di aprivo e di ricongiungimento doveva essere la grande città di Sirmium, l’antica capitale di Galerio. La sua avanzata fu di una rapidità e di un’audacia senza precedenti. Marciando a grandi giornate attraverso paesi impervi e mal conosciuti, spesso in presenza di ostili tribù barbariche, Giuliano con il suo piccolo contingente superò le foreste, raggiunse il Reno, e a bordo di veloci battelli raggiunse in appena undici giorni la città di Sirmium, che lo accolse con fiori e festeggiamenti. Lucilliano, il comandante di Costanzo in quella regione, che pure disponeva di forze enormemente superiori, fu preso talmente alla sprovvista che non ebbe il tempo di organizzare alcuna resistenza, e fu fatto prigioniero prima quasi di capire quel che stava accadendo.
Mentre Giuliano con un pugno d’uomini, si impadroniva della capitale dell’Illiria ed effettuava il ricongiungimento con le altre due colonne, il grosso dell’armata gallica, muovendosi con maggiore lentezza, dalla Gallia valicava le Alpi e invadeva l’Italia. La sua avanzata non rinnovò gli orrori della marcia di Costantino il Grande e di Costantino II; pare anzi che non si sia quasi combattuto né versato del sangue. Gli ufficiali di Costanzo si erano così a lungo cullati nell’illusione della loro superiorità, che quando le truppe di Giuliano vennero a ridestarli non seppero far altro che sottomettersi o fuggire precipitosamente. Il prefetto del pretorio Flavio Tauro, che aveva diretto il concilio di Rimini, e quello dell’Illirico, Florenzio, consoli per il 361, non seppero organizzare alcuna resistenza e fuggirono velocemente. Giuliano, informatone, li fece registrare negli atti ufficiali della Curia come consoli fuggitivi; invece scrisse con moderazione al Senato e alle truppe d’Italia, pregandole di custodire le rispettive città in nome della sua sovrana autorità. Con tutte le città conquistate si mostrò benevolo e pieno di moderazione; nessuno che rimanesse al suo posto venne trattato da nemico. Così anche l’Italia, dopo l’Illirico, senza colpo ferire era caduta nelle sue mani.
LXXIII
Questa gragnola di cattive notizie convinse Costanzo che Giuliano era un avversario più. immediato e pericoloso del Re dei Re. Anzi, poiché quest’ultimo si era mostrato pago dei magri risultati finora conseguiti, e non aveva rinnovato l’offensiva in Mesopotamia, Costanzo, rinunciando per il momento a prendersi la desiderata rivincita, incominciò a trasferire truppe dall’Asia in Tracia, per sbarrare la strada all’avanzata di Giuliano. Poco dopo la presa di Sirmium, quest’ultimo si era avviato a grandi giornate verso Costantinopoli, desideroso di impadronirsi delle gole dei Monti Balcani che erano la chiave strategica della capitale.
A queste notizie Costanzo decise di mettersi personalmente in campagna e, lasciata Antiochia, si avviò verso Costantinopoli. Egli stava percorrendo il cammino inverso di suo padre, quando, come era accaduto a suo padre, durante il viaggio si ammalò e si ridusse presto in fin di vita. Era nella stazione di posta di Mobsucrene, non lungi da Tarso, una contrada che si era già rivelata fata-
le per Floriano e per Massimino Daia. Come suo padre, chiese il battesimo sul letto di morte, e come suo padre lo ricevette dalle mani di un vescovo ariano. Pare che abbia designato a succedergli proprio l’uomo contro il quale si avviava a combattere, suo cugino Giuliano. Poi morì. Era il 3 novembre del 361. Aveva quarantaquattro anni e aveva regnato per più di venti-
quattro
Come seppero della sua fine e delle sue ultime volontà, le truppe già affluite in Europa cessarono ogni resistenza e, anzi, si unirono al giovane imperatore. L’avanzata di Giuliano verso Costantinopoli si trasformò in una marcia trionfale. Pareva che una grande ventata di entusiasmo stesse percorrendo tutto il mondo romano. Da Naisso a Costantinopoli, dove entrò l’11 dicembre, fu tutta una lunga, calorosa ovazione. All’età di soli trent’anni, Giuliano raccoglieva così, le mani monde di sangue romano, l’eredità e l’enorme fardello del governo di tutto l’Impero.
(Segue l’articolo: L’Imperatore Giuliano, 361-363 d. C.).
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