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San Giorgio martire indice

INDICE

PRESENTAZIONE

I. IL PROBLEMA.

II. SAN GIORGIO ESISTETTE

III. LE FONTI DELLA SUA BIOGRAFIA

IV. LA NASCITA

V. L’AMBIENTE RELIGIOSO

VI. I GENITORI

VII. LA PRIMA GIOVINEZZA

VIII. GIORGIO UFFICIALE ROMANO

IX. NON FU UFFICIALE PERSIANO

X. AL SEGUITO DI DIOCLEZIANO

XI. SAN GIORGIO E IL DRAGO

XII. ORIGINI DELLA LEGGENDA: ORIENTE E GRECIA

XIII. ORIGINI DELLA LEGGENDA: LE SACRE SCRITTURE

XIV. ORIGINI DELLA LEGGENDA: CONCLUSIONI

XV. L’AMBIENTAZIONE GEOGRAFICA DELLA LEGGENDA

XVI. PERCHÉ L’EGITTO

XVII. DRAGHI DI IERI E DI OGGI

XVIII. IL CAVALIERE DELLA FEDE

XIX. LA PERSECUZIONE

XX. IL MARTIRIO SECONDO LA LEGGENDA

XXI. IL MARTIRIO NELLA REALTÀ STORICA

XXII. IL MARTIRIO COME REALTÀ UMANA

XXIII. LA DATA DEL MARTIRIO

XXIV. UNA FINE E UN PRINCIPIO

APPENDICE I: IL DRAGO, IL DIAVOLO, LA SIMBOLOGIA

APPENDICE II: TAVOLA CRONOLOGICA DEI SOVRANI SASSANIDI

APPENDICE III: L’OPINIONE DI ALCUNI STUDIOSI

PRESENTAZIONE

Da anni la mia meta romana preferita era l’antica Chiesa di San Giorgio al Velabro, una delle più pure e suggestive "basiliche altomedioevali, situata in un angolo della Città Eterna assorto nel silenzio dei propri ricordi millenari. In un secondo tempo cominciai a interessarmi anche ad altre chiese dedicate a quel santo, sparse in varie città d’Italia. Ciò naturalmente stimolò il mio interesse per Giorgio di Cappadocia, forse il più universalmente noto e uno dei più venerati martiri cristiani. Pe­rò non appena orientai le ricerche in quella direzione mi resi conto, non senza stupore, della estrema scarsità delle notizie storiche relative al­la sua "biografia, nonché della loro debole attendibilità. Il contrasto fra l’estensione del culto e la genericità dei dati storici era davvero stridente e tale da lasciar fortemente perplessi. In definitiva, l’uni­co episodio della vita di Giorgio universalmente noto, la lotta col dra­go che celebri pittori avevano immortalato, era evidentemente frutto di confusioni letterarie e di commistioni di elementi mitologici svariati. Così, non solo la Chiesa aveva preso la decisione di ridurre di grado la festa del 23 aprile per mancanza di dati biografici sicuri, ma talu­ni studiosi erano arrivati perfino a negare l’esistenza storica di Giorgio. "Il santo così amato e venerato – hanno scritto due autori contempo­ranei – potrebbe anche non essere mai esistito." (1)

Nacque allora in me il desiderio di gettare un po’ di luce, se pos­sibile, sull’esistenza storica del santo. Non ritenni di prender più che tanto in considerazione la possibilità che non sia mai esistito, poiché il suo culto è attestato, sul luogo del martirio, appena pochi anni dal­la data della morte. Per il resto, mi sono sforzato di essere imparziale e scrupoloso. Ho cercato di riunire gli sparsi tasselli dei dati storici a formare un mosaico sufficientemente intelligibile ; più volte ho dovu­to procedere per via d’ipotesi, ciò che ho di volta in volta segnalato esplicitamente. L’episodio del drago mi ha affascinato e tenuto occupa­to in maniera particolare. Confesso di averlo preso in esame con mente sgombra di preconcetti e quindi di aver perfino considerato l’eventuali­tà di interpretarlo in senso non figurato. La soluzione da me proposta ha tenuto conto di tutti gli elementi disponibili e ritengo possa consi­derarsi soddisfacente, in quanto urta contro il minor numero di difficol­tà e offre la spiegazione più semplice. Ma soprattutto mi sono preoccupa­to di calare la vicenda storica di San Giorgio nella concreta realtà so­ciale, religiosa e politica dei suoi* tempi. E^1^ tempo di finirla con le vuote apologie dei santi e di accettare la sfida che essi lanciano a ciascuno di noi, sul terreno della realtà e della vita quotidiana» La naturale tendenza degli uomini è di eludere questa sfida e di mettersi al sicuro elargendo al vero uomo di fede l’aureola della santità. Ciò in fondo lo rende inoffensivo e la nostra coscienza, tornata tranquil­la, può perfino permettersi di ammirarlo e di elogiarlo.

La santità però è qualcosa di radicalmente diverso da tutto ciò. La santità» rientra nella categoria cristiana dello scandalo e non si lascia imbalsamare nel museo archeologico delle cose che furono. La santità si basa sulla fede ed è proprio della fede avere l’umiltà di ammettere che un santo è un uomo esteriormente normalissimo, proprio come tutti gli al­tri, che vive in mezzo a noi e cammina sulle nostre medesime strade. La diversità fra lui e noi non è nel "cosa" ma nel "come". Il santo può essere tale facendo in apparenza esattamente quello che fanno tutti gli altri. Quando poi la sua santità si rivela in maniera sfolgorante, co­me nel caso del martirio cristiano, rimaniamo meravigliati e ci affret­tiamo a scusare la nostra pochezza col dire che egli era, dopotutto, "un santo". Come se il santo non fosse un uomo come noi, che vive, sof­fre e spera come noi, che deve affrontare le nostre stesse battaglie e, talvolta – come Pietro nel cortile del sommo sacerdote – subire le nostre medesime sconfitte! Come se la santità fosse ugualmente un gra­zioso dono del ciclo e non richiedesse anche, e soprattutto, l’abnega­zione eroica di un sacrificio silenzioso e quotidiano!

Restituire la biografia di un santo alla storia – e tanto più quel­la del più "mitico" dei santi cristiani – vuoi dire perciò, anche, re­stituire alla vita il suo aspetto tridimensionale, fuori di ogni re­torica e di ogni alibi della pusillanimità. "Oggi non ci sono più san­ti", si sente spesso ripetere. Strana combinazione, a dirlo sono colo­ro che, di solito, posti dinanzi al radicale "aut-aut" del Cristiane­simo, si fermano al bivio illudendosi di poter tenere il piede in due staffe. Per tutti costoro i santi devono poter essere esistiti solo nel passato, perché se ammettessero che ve ne sono anche oggi, dovreb­bero concludere che a nessuno è preclusa la strada della santità. Ma siccome questa conclusione contrasta irrimediabilmente col nostro bi­sogno di tranquillità e di quieto vivere, preferiamo respingerla e ne­gare il suo naturale corollario — che i santi ci sono anche oggi, che ci passano forse accanto per la via, ma che noi, come i discepoli di Emmaus (2), li vediamo e parliamo con loro senza tuttavia riconoscerli. Che io, proprio io, povero essere insignificante, sia stato rico­nosciuto degno della santità da Dio, questo richiede una infinita umiltà e non, come potrebbe sembrare allo sguardo superficiale, una audacia sconfinata. Ma il nocciolo della fede, che è e rimarrà scan­dalo, consiste precisamente nell’umiltà di ammettere che Mo infini­to si prenda cura singolarmente di noi deboli esseri finiti (3) Ora, la mia istintiva reazione davanti a tale immenso mistero sarà facilmente la fuga: Mo, io no! E alla fuga, che genera la vergogna, tien dietro, subito dopo, fedele come un’ombra, l’invidia e il desiderio di autogiustificazione. Io no; dunque, nemmeno gli altri! Ecco perché si dice che i santi, oggi, più non esistono! Sicché "non siete entrati voi – ammoniva sdegnato il Maestro – e avete impedito di entrare a. quelli che volevano" (4).

(1) A. Giannettini-G. Venanzi, "La Chiesa di San Giorgio al Velabro", Roma, 1967, pp. 14 sgg.

(2) Cfr. Lc., XXIV, 13-35.

(3) Cfr. S. Kierkegaard, edit. A cura di C. Fabro, Brescia, 1981 sgg., 12 voll.,

5, pp. 109. 140.

(4) Lc., XI, 52.

I. IL PROBLEMA

Giorgio di Cappadocia rappresenta uno dei casi più sconcertanti fra le agiografie dei santi cristiani di tutti i tempi. Il suo nome è fa­miliare in ogni casa e in ogni città, regni e repubbliche lo adottaro­no come loro protettore; ordini cavallereschi a lui si ispirarono; chie­se a lui dedicate sorsero ovunque, introducendo il suo culto in ogni contrada; e non c’è bambino, si può dire, che non abbia mai sentito parlare della favolosa e tremenda battaglia fra il valoroso guerriero di Cristo e il dragone. Eppure, a dispetto di una popolarità così vasta, così universale, in Italia e in Europa, Giorgio di Cappadocia è e rimane per noi un grosso enigma. È, infatti, uno dei santi martiri dell’età pre-costantiniana dei quali meno conosciamo la vita, le azio­ni, la stessa morte per la fede in Gesù Cristo. Certamente è quello, fra i santi più famosi, la cui biografia presenta maggiori incertezze. Così, facendo leva sulle circostanze leggendarie dell’episodio più no­to relativo alla sua immagine, quello della lotta col drago, non è man­cato chi ha avanzato dubbi anche sugli altri fatti della sua biografia che la tradizione ci ha conservato. Una volta aperta la breccia, la critica intransigente ha voluto scalzare uno ad uno i puntelli della pretesa leggenda: che Giorgio fu un martire militare; che Giorgio fu un martire? che Giorgio, infine, sia mai storicamente esistito.

Effettivamente, in anni a noi vicini, la S. Congregazione dei Riti ha ridotto di grado la festa di S. Giorgio, da tempo immemorabile ce­lebrata in tutto il mondo il giorno 23 aprile, a causa della scarsità e della insoddisfacente attendibilità dei dati biografici del santo. A questo proposito giova però osservare che tale provvedimento, dettato da sagge considerazioni di prudenza e scrupolosità critica, non è stato in alcun modo una soppressione della festività di San Giorgio. In una so­cietà imbevuta di intellettualismo, qual è la nostra, anche gli atti del culto non possono più accontentarsi di una fede totalmente acriti­ca e spontanea, qual era ad esempio quella della società medioevale. E là dove non sono in gioco le verità eterne annunciate da Gesù Cristo, è giusto che anche la Chiesa dimostri una accresciuta sensibilità alle condizioni culturali e materiali del tempo in cui viviamo. D’altra par­te, proprio i poderosi strumenti critici e filologici che la nostra so­cietà ci offre, ci porgono assai meglio che in passato 1 ‘opportunità di far luce sugli aspetti storicamente fondati delle tradizioni che so­no alla sorgente dei culti cristiani. Una ricerca spassionata della ve­rità, che non si adegui a faziosi schemi mentali precostituiti, ci met­terà in grado di separare, almeno in parte, la storia dalla leggenda, lasciando a quest’ultima, come è giusto, tutto il suo valore di poesia e di folclore, ma impedendole indebiti sconfinamenti fuori di tale am­bito. Scopriremo allora, non senza sorpresa, che la storia, anche ne­gli scarsi frammenti che il tempo avaramente ha lasciato per risponde­re alla nostra sete di conoscenza, possiede talvolta un fascino supe­riore alla stessa leggenda, tale da. ripagare ampiamente i nostri sfor­zi di ricostruzione critica fra le nebbie del passato.

II. SAN GIORGIO ESISTETTE

Una sola ipotesi non prenderemo neppure in considerazione: quella dell’inesistenza storica di Giorgio di Cappadocia. Ciò non è in alcun modo il risultato di un atteggiamento parziale o interessato da par­te nostra. Infatti, la tesi che San Giorgio non sia mai esistito pos­siede più o meno lo stesso gradi £i serietà di certa storiografia razionalista che negava puramente e semplicemente l’esistenza storica di Gesù di Nazareth. Ora, è ben vero che nel caso di San Giorgio non pos­sediamo alcuna testimonianza storica contemporanea paragonabile ai Van­geli, però ci troviamo di fronte a un culto antichissimo che per millesettecento anni ininterrottamente – ed è bene sottolineare questo inin­terrottamente – si è diffuso ed è persistito ai quattro angoli d’Euro­pa e nel Medio Oriente senza mai scemare d’intensità. Patti come questo si possono già considerare essi stessi, e con pieno diritto, delle te­stimonianze storiche di notevolissima portata: tradizioni e sì vaste e così persistenti non nascono dal nulla. Anche il martirio di San Pietro a Roma, anzi, anche la stessa venuta di San Pietro nella Città Eterna è stata messa in dubbio da qualche volonteroso razionalista, da Lutero in poi (1). Ora, il fatto straordinario di questo tipo di criti­ca demolitrice è che essa, là dove crede di togliere le fondamenta medesime della tradizione, si trovano poi impotenti, o. giustificare sé stesse: a spiegare, cioè, come un bel giorno, per effetto di chissà quale colossale mistificazione, tante comunità cristiane si siano messe a venerare dei fantasmi. A tavolino si può benissimo sostenere che Pietro non abbia mai veduto Roma, che Giorgio di Cappadocia non sia esistito o, addirittura, che non sia esistito nemmeno Gesù Cristo e che, pertanto, i Vangeli siano un colossale falso storico.

E in effetti, a distanzia di centinaia e migliaia d’anni, si può ipotizzare che ele­menti leggendari e fantastici della tradizione siano entrati a far parte, in qualche modo, del nostro patrimonio storico. Ma si tratta, a ben guardare, di un tipo di ragionamento estremamente antistorico: come immaginare che si lasciassero così candidamente truffare i fedeli contemporanei? Solo da una distorsione prospettica, da una illusione professorale, può nascere l’idea che il passato abbia potuto smercia­re della moneta falsa, là dove una lunghissima e ininterrotta tradi­zione sorge come una garanzia (2): infatti, nessuno dei contemporanei avrebbe fiutato l’inganno? Nessuno avrebbe denunciato il falsario?

Ora, nel caso di San Giorgio noi siamo in possesso di un elemento sotto questo rispetto decisivo: e cioè il dato che già in epoca costan­tiniana, dunque dopo appena qualche lustro dalla morte del santo, il suo culto era saldamente radicato in Palestina e localizzato nei luo­ghi della sua passione. La grande persecuzione di Diocleziano, nella quale anche Giorgio aveva trovato la fine dei martiri, era affare re­cente, ancor fresco sebbene, fortunatamente, superato: molti testimo­ni oculari e molti protagonisti di quei fatti erano ancora viventi. In tali circostanze, non solo è ragionevole ammettere chele possibi­lità di falsificazione fossero ridotte praticamente a zero; ma si fa strada e urge in tutta la sua evidenza la proposizione complementare: che non è ragionevole partire dal presupposto della non esistenza sto­rica di San Giorgio.

(1) Su questo argomento cfr. , fra gli altri, gli studi di Umberto M. Fasola, "Pietro e Paolo a. Roma – Orme sulla roccia", Roma, I960; e Margherita Guarducci, "Pietro ritrovato", Milano, 1969. L’autri­ce diresse la campagna archeologica che giunse a identificare la

primitiva sepoltura dell’Apostolo in Vaticano.

(2) Tale è il caso, per la venuta di Pietro a Roma e del suo martirio in Vaticano, della antichissima tradizione apostolica della Città Eterna: tradizione che nemmeno le chiese rivali di Costantinopoli, Antiochia e Alessandria, in lotta nel IV e V secolo con il primato della sede di Pietro, pensarono mai a mettere in dubbio. Diverso il caso della falsa "donazione di Costantino" di Roma a papa Silvestro, smascherata nel Rinascimento da Lorenzo Valla: contro la sua auten­ticità, del resto, prima ancora della filologia moderna, stava il puro e semplice buon senso.

III. L E FONTI DELLA SUA BIOGRAFIA

Ogni buono storico che voglia ricostruire i fatti di un passato vici­no o lontano inizia il suo lavora raccogliendo in ordine le fonti, come ben sapeva anche San Luca, autore del terzo Vangelo e del libro sugli Atti degli Apostoli (1). Disgraziatamente, nel nostro caso nessuno sto­rico si accinse a raccogliere e ordinare le fonti per ricostruire la vita di San Giorgio. La maggior parte di quanto di lui conosciamo pro­viene da diverse "passiones" di autori ignoti, alcune in lingua greca, altre in lingua latina. Queste ultime sono alquanto più tarde, poiché non si diffusero in Occidente se non all’epoca delle .Crociate .cioè quan­do i cavalieri di ritorno dalla Terra 3anta riportarono seco, insieme al bottino di guerra, oggetti di devozione ( il trafugamento della Sindone da Costantinopoli è del 1204 ) e tradizioni relative al Cristiane­simo antico. Altre notizie, come vedremo, possono esser desunte dai re­sti archeologici, ma esse rivestono una importanza secondaria, pur se attestano l’antichità del culto del martire. Poiché, del resto, tutte le successive fonti letterarie, compresa la "Legenda aurea" di Jacopo da Varazze, si appoggiano alle notizie contenute nelle "passiones" del periodo più antico, siamo obbligati a prendere in considerazione il problema del peso che dobbiamo dare a queste ultime. E, innanzitutto, che cos’è una "passio"?

In sintesi, possiamo dire che si tratta di un testo in prosa, ge­neralmente conciso, compilato dai Cristiani dei primi secoli per tra­mandare l’eroismo dei martiri, contenente la relazione del processo, talvolta della prigionia,, dell’esecuzione, della sepoltura. Lo scopo era di edificazione, non certo storico in senso stretto; tuttavia al­cune "passiones^"^, come quelle di Perpetua e Felicita nel III secolo, ci forniscono del materiale d’importanza storica capitale per la ri­costruzione di determinati aspetti del conflitto tra Stato Romano e Cristianesimo primitivo. Le fonti delle "passiones" erano di diversa natura: poteva trattarsi di relazioni scritte da semplici testimoni, ma in alcuni casi i Cristiani riuscivano a farsi prestare, dietro la corresponsione di forti somme di denaro, gli atti ufficiali del pro­cesso, che ricopiavano più o meno fedelmente. In alcuni casi dunque le "passiones" erano compilate sulla base di documenti ufficiali del­l’autorità giudiziaria, con l’aggiunta, per soddisfare la comprensi­bile curiosità dei confratelli, di qualche rapido cenno relativo al­la vita, alla condizione sociale, alla famiglia, alla sepoltura del martire. Le "passiones" più ampie rispondevano a uno schema, riscon­trabile ad esempio in quella di Giorgio, che abbracciava la "conceptio", la "nativitas", la "vita", i "miracula", il "martyrium". Purtroppo, specialmente a partire dall’età di Costantino il Grande ( 306-337 ), quando il Cristianesimo acquistò libertà di culto e una posizione privilegiata in tutto l’Impero, sorsero molte "passiones" apocrife, ispirate dal desiderio di arricchire gli avari dati tradi­zionali e non di rado abbellire una realtà, che peraltro non aveva alcun bisogno di simili espedienti. Le "passiones" di carattere chia­ramente leggendario si moltiplicarono e destarono la reazione dei con­temporanei e delle stesse autorità della Chiesa. Queste per prime era­no infatti interessate a che una accettazione indiscriminata di leggen­de non compromettesse la credibilità storica di tanti martiri del pas­salo (2). Papa Gelasio (492-96) pubblicò fra l’altro, nel 496, il "Decretum Gelasianum de libris recipiendis et non recipiendis", una sorta di canone biblico e di indice dei libri ritrovati. Ora, a noi interessa­ subito rilevare che la "passio Georgii" è classificata dal "Decretum Gelasianum" fra gli scritti apocrifi. Questo naturalmente non si­gnifica che tatto quanto essa contiene deve considerarsi inattendibile, tuttavia ci mette in guardia, con l’autorità di un tempo pure non certo affinato alla critica ( erano gli anni di Odoacre e Teodorico in Italia), dai rischi di una credulità eccessiva. E poiché, lo ripetiamo, quasi tut­to quel che di Giorgio la storia ha, conservato è contenuto in questa "passio", e in quelle successive scritte a sua imitazione, è per noi di somma importanza procedere con prudenza nel tentar di separare la realtà­ dalla leggenda. .

(1) Lc., I, 1-3.

(2) E perciò sbaglia chi sostiene che la Chiesa è per sua natura nemi­ca della critica scientifica. Un buon esempio è fornito dalla co­raggiosa decisione di Pio XII e dei suoi successori di aprire i sotterranei di San Pietro agli archeologi. Erano in gioco le basi medesime dell’autorità papale: ma la scienza attestò che Pietro era stato a Roma e vi era morto come narra la tradizione orale.

IV. LA NASCITA

Non possediamo alcuna notizia che ci permetta di stabilire la data di nascita di Giorgio. Poiché il suo martirio ebbe luogo, come vedre­mo, verso il 303 d.C., almeno secondo l’ipotesi più verosimile, pos­siamo fissare il 250 come estremo limite "ante quem". Ora però, dal momento che tutte le tradizioni esistenti si accordano nel descriver­ci Giorgio come ancor giovane all’epoca della lotta col drago, e forse anche in quella del martirio, non dovremmo andar lontano dal vero po­nendo l’anno di nascita verso il 270. In quegli anni appunto, dopo la persecuzione religiosa scatenata da Valeriane ( 253-260 ) e la tregua imposta da suo figlio Gallieno ( 260-266 ), si era avuta una nuova, violenta persecuzione contro i Cristiani per volontà dell’imperatore Aureliano ( 270-275 ) il vincitore degli Iuthungi, dei Goti, di Pamira, seguace del culto solare importato a Roma dalle terre d’Oriente, e in modo particolare dalla Persia. E da genitore persiano appunto, Geronzio, nacque San Giorgio, rampollo di una famiglia ragguardevole per nobiltà e sostanze. Sua madre era Policronia, una donna della Cappadocia, regione che da grandissimo tempo era entrata a far parte dell’Impero di Roma. Quanto al luogo della nascita, esso è indicato co­me la stessa Cappadocia dall’agiografo "bizantino Simeone Metafraste (sec, X d.C. ), autore di una preziosa raccolta di 149 vite di santi e, forse ( ma qui vi è disaccordo fra gli studiosi ), dei celebri "Annali", che sono un testo fondamentale per la storia del Medio Evo bizantino (l).

Non ci sembra inutile mettere qui maggiormente a fuoco i caratteri della regione natale del santo. Come del resto le altre regioni centra­li e orientali dell’Asia Minore, anche la Cappadocia era stata anticamente permeata dall’influenza culturale del vicino mondo iranico. Simi­le l’aspetto fisico ed economico, un elevato altopiano dal clima conti­nentale, ove una aristocrazia nobiliare di antica stirpe praticava l’al­levamento dei cavalli, punto di forza dell’apparato militare. I ricini Parti ( e, dopo il 230, i loro successori, i Persiani Sassanidi ) col nome di Cappadocia designavano tutta la parte interna e settentrionale dell’Asia Minore, distinguendo peraltro una Cappadocia settentrionale ( che andò poi a far parte del regno del Ponto ) e una meridionale, co­stituitasi nell’età dei Diadochi in regno indipendente. Sia l’una che l’altra vennero dipoi assorbite nell’Impero Romano, conservando però i loro caratteri etnici e culturali peculiari. Specialmente nella zo­na settentrionale predominavano la lingua iranica e la religione zoroastriana nella sua forma mithraica, della quale daremo fra breve qualche cenno. La famiglia regnante del Ponto, prima della conquista romana, era discendente dalla più pura nobiltà persiana. Benché questa parte dell’Asia Minore fosse sempre stata pervasa da profondi fermenti culturali ( Amasia nel Ponto aveva dato i natali a Strabone, il grande geografo greco, e Sinope sul Ponto Eusino al riformatore religioso Marcione ), essa non godeva, di grande considerazione da parte dei Romani. Per es­si "Cappadoce" era sinonimo di sciocco, così come "Arabo" era sinoni­mo di brigante; e in effetti la Cappadocia, quale terra di frontiera tra, due mondi, il greco e l’iranico, scarsamente permeata dall’elle­nismo, stette per lungo tempo al di fuori della sfera degli interessi culturali dei Romani e, come è logico, della loro facoltà di compren­sione.

(1) Cfr. G. Moroni, "Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, Venezia, 1845, vol. XXX, p. 262.

V. L ‘AMBIENTE RELIGIOSO.

Ai tempi di San Giorgio però la situazione si era alquanto evoluta in un senso che pochi Romani alla fine della Repubblica o all’inizio dell’Impero avrebbero potuto immaginare. Nel corso del III secolo, in concomitanza con la grande crisi politica ed economica dello Stato Romano, si era verificata una generale irruzione della cultura asia­tica fin nel cuore dell’Occidente (1) Dall’Asia Minore, dalla Si­ria, dall’Egitto, tutte province romane, e anche dalla Persia, nemi­ca secolare e irriducibile di Roma, erano penetrate in misura sempre più massiccia le lingue, gli usi, i costumi e specialmente le religioni orientali nelle terre di lingua greca e latina. Fra tutti i culti asiatici penetrati nell’Impero Romano, il mithraismo era l’u­nico in grado di competere efficacemente col Cristianesimo e, per qualche tempo, rimase la religione ufficiale dell’Impero. Già Aureliano si era indotto ad adottare il culto del "Sol Invictus", di origine persiana, ponendolo alla base dei suoi sforzi per una riforma religione dello Stato che favorisse la sua restaurazione politico-militare. La sua persecuzione anticristiana si inserisce in questo conte­sto: così come lo sarà, trent’anni più tardi, quella di Diocleziano, lui pure adoratore del Sole Invitto. La Cappadocia, posta proprio sul confine tra mondo greco-romano e mondo iranico, crocevia di due conti­nenti, fu naturalmente investita in pieno da questo riflusso asiatico-orientale.

La divinità persiana Mithra era forse di origine indiana (2) e a partire dal V secolo a. C. divenne la principale del Pantheon iranico. Il suo culto si diffuse verso Occidente dapprima sulle orme dei soldati di Alessandro Magno, che tornando in patria la introdussero in Grecia, poi a Roma, ove nel corso del III secolo d. C. guadagnò larghe simpatie sia nell’ambiente militare, sia fra l’aristocrazia senatoria, composti ormai, l’uno e l’altra, da elementi largamente provinciali. Come tanti altri culti orientali, di Iside e Osiride ( Egitto ), per esempio, o di Cibele ( Frigia ),identificata dipoi colla "Magna Mater" di tutti gli dèi, anche quello mithraico era lar­gamente imbevuto di elementi misteriosofici, cruenti e talvolta or­giastici, celebrati in appositi locali sotterranei ( "mithrei" ) ,e culminanti nella cerimonia allegorica del taurobolio, ossia il bagno rigeneratore dell’iniziato nel sangue ancor caldo di un toro appo­sitamente sacrificato. Dopo il trionfo del Cristianesimo, molti mithrei furono distrutti o adibiti ad altro uso, ma alcuni vennero conservati grazie al fatto di essere incorporati nelle fondamenta di altrettante chiese cristiane, come nel celebre caso di San Clemente a Roma. È in questo modo che ancor oggi, nella Città Eterna e altrove, a Ostia, a Napoli, possiamo ammirare questi suggestivi ambienti sotterranei, dai quali spira ancora un’atmosfera di mistero e di misticismo sensuale. Molte sculture ci conservano inoltre il dio Mithra, vestito in costu­me asiatico e col caratteristico berretto frigio, nel momento in cui immerge il pugnale nella gola del toro, il cui sangue caldo un cane e un serpente corrono a leccare avidamente, Nella religione iranica basata su di un radicale dualismo di bene e male, di luce e tenebra, Mithra rappresenta il principio luminoso impegnato nella lotta drammatica fra i due elementi, la cui posta in gioco è il destino dell’u­manità e anzi l’ordine cosmico intero. . .

Questo, l’ambiente religioso in cui Giorgio nacque e trascorse la prima giovinezza. I suoi genitori erano cristiani, e cristiana era or­mai sul cadere del III secolo, una discreta parte della popolazione. Ma il mithraismo era sempre fortissimo, avvantaggiandosi a un tempo della, vicinanza della Persia ( l’Asia Minore era stata tra l’altro invasa dai Persiani durante il regno di Valeriano ) e della posizio­ne eccentrica nell’ambito dell’Impero Romano. Così, mentre la vicina Galazia o la Licaonia si erano, fin dal I secolo dell’era volgare, aperte alla penetrazione del Vangelo, portato colà da San Paolo medesi­mo nei suoi viaggi apostolici, la Cappadocia era stata appena sfiora­ta da questa avanzata, restando saldamente legata alle sue tradizioni indigene di derivazione persiana.

(1 ) Cfr. l’opera ormai classica di Franz Cumont, "Le religioni orien­tali nel paganesimo romano", tr. it. Bari, 1967-

(2) Ciò non deve destare sorpresa, poiché India e Persia, specialmen­te nell’età dei Diadochi ( i generali successori di AlessandroMagno), furono in stretta relazione culturale ed artistica. Si pensi solo al Parsismo, rampollo dell’antichissima religione mazdea trapiantato in India, ove conta tuttora un séguito di circa 150.000 fedeli.

VI. I GENITORI

La nascita di Giorgio portò la felicità nella casa del notale Gaudenzio. Sia lui che sua moglie Policronia seguivano la religione cri­stiana e furono grandemente rallegrati dalla nascita di quel figlio che, secondo la pia tradizione, era destinato a grandi cose prima an­cora di venire al mondo. Purtroppo non possediamo che scarsissime no­tizie sui genitori di Giorgio, e dobbiamo pertanto procedere in gran parte per via d’ipotesi. Possiamo dunque sospettare che Gaudenzio, co­me rappresentante dell’antica nobiltà di sangue persiano, abbia abbracciato relativamente tardi la fede in Gesù Cristo, forse per ope­re), della moglie cappadoce, caso allora non certo infrequente. Né si deve pensare che a quei tempi i matrimoni fra coniugi di diversa fe­de religiosa fossero infrequenti o, nel caso del Cristianesimo, fos­sero ritenuti sconvenienti. A suo tempo lo stesso San Pietro, il prin­cipe degli Apostoli, con l’autorità del suo nome aveva scritto ai fede­li di Roma: "Anche voi, donne, siate soggette ai vostri mariti, affin­ché se alcuni di loro non credono alla parola, siano guadagnati, sen­za parole, dalla condotta delle loro mogli, vedendo la vostra maniera di vivere casta e rispettosa" (1). E si pensi ancora ai genitori di un altro grande santo vissuto ai tempi del tardo Impero, Agostino di Tagaste, il futuro vescovo d’Ippona ( Hippo Regius ), figlio di madre cristianissima, Santa Monica, e di padre pagano, Patrizio, da lei pa­zientemente convertito.

Tutto quel che sappiamo, nel caso di Giorgio, è che i suoi genitori lo crebbero religiosamente fino alla maggiore età, quando egli entrò nell’esercito romano. Non possediamo alcun particolare sulla sua pri­ma giovinezza, tranne la morto del padre, avvenuta in età imprecisata, e il trasferimento del ragazzo con la madre in Palestina, ove la sua famiglia era proprietaria di ricchi beni. Ora, il fatto che Giorgio venisse avviato senz^1^altro, fin da giovane, alla carriera militare, lascia supporre che quella delle armi fosse stata anche la professio­ne del padre, il nobile Gaudenzio. Selle famiglie aristocratiche le professioni sono, e lo erano ancor più in passato, generalmente ere­ditarie. Ma c’è un altro elemento, oltre a questa ovvia considerazio­ne, che sembra suggerire come Gaudenzio fosse stato un militare di professione, o, come diremmo oggi, un ufficiale di carriera. L’eser­cizio delle armi, nel mondo antico anche più che oggi, era general­mente considerato poco compatibile con l’attiva professione del cre­do cristiano. Conosciamo la "passio" di un giovane cristiano dell’A­frica che accettò la morte sotto Diocleziano e Massimiano~,~ per ‘essersi puramente e semplicemente rifiutato di venire arruolato nell’eser­cito. Però in quegli anni il sistema socio-economico imposto dai tetrarchi tendeva a imporre in ogni caso l’ereditarietà delle profes­sioni ed è molto probabile che Giorgio si sia trovato nelle condizio­ne di dover proseguire per volontà dello Stato la carriera militare di suo padre. D’altra parte, a quei tempi, nessuno nell’ambito della Chiesa cristiana pretendeva che i nuovi convertiti abbandonassero ne­cessariamente la professione militare, a patto di astenersi dai sacri­fici rituali e di non offendere in alcun modo la religione di Cristo. Come aveva detto San Paolo: "Ognuno rimanga nella condizione che il Signore gli ha assegnato come si trovava quando Dio lo ha chiamato. (2). E, di fatto, molti erano i Cristiani che militavano nelle file dell’esercito romano, fin dai tempi di Marco Aurelio ( si pensi al codiddetto "miracolo della pioggia", invocato dai soldati cristiani per l’esercito assetato, e raffigurato sul marmo della Colonna Antonina a Roma ), come è provato del resto dall’alto numero di martini militari durante la persecuzione di Diocleziano, nella quale si vuole che venisse decimata un’intera legione di Cristiani, la famosa "legione tebana" di S. Maurizio, commemorata dal calendario liturgico il 2 settembre. (3)

Ora, noi possiamo immaginare che le cose siano andate così. Il nobile persiano Gaudenzio entra al servizio dell’esercito romano, caso allora comunissimo, essendo le legioni del secolo III largamente composte di provinciali e di ""barbari", Germani, Persiani, Arabi, Mauritani: tanto che un Arabo, Filippo ( 243-49 ) e due mauritani, Macrino (217-18 ) ed Emiliano ( 253 ), divennero imperatori. Inoltre, non è necessario supporre che Gaudenzio venisse dalla Persia, stato allora ostile e in guerra pressoché continua coi Romani, poiché poteva benissimo appartenere alla nobiltà locale, della Cappadocia, o meglio ancora del Ponto, ove un tempo il persiano Mitridate aveva regnato dando molto filo da torcere ai Romani. Passato dunque al servizio dell’esercito iomano, e trasferitesi o stabilitesi definitivamente in Cappadocia, Gaudenzio sposa la cristiana Policronia, oriunda ella pure della Cappadocia ma non, probabilmente di sangue iranico, che altrimenti le nostre fonti non avrebbero avuto motivo di tacerlo. Policronia non si sgomenta davanti alle nozze con un pagano, un militare e uno straniero, per giunta: forse il matrimonio fu deciso dalla sua famiglia, forse ella vide un fondo di bontà cristiana in quell’uomo e si ripropose di far leva su di esso. Comunque, ella si uniforma a quanto stabilito a suo tempo da San Paolo: "Se un fratello ha una moglie non credente, e questa è contenta di abitare con lui, non la ripudi; e se una donna ha un marito non credente, che è contento di abitare con lei, non lo ripudi. Infatti, il marito non credente è santificato della moglie, e la moglie non credente è santificata al fratello: altrimenti i vostri figli sarebbero immondi, mentre ora sono santi" (4) E infatti avviene che Gaudenzio è conquistato dalla fede della moglie, e quando nasce Giorgio, la sua educazione cristiana è già decisa, o lo è fin dai primi anni di vita. Ora, così come Gaudenzio non ha giudicato incompatibile la professione delle armi con la fede da lui abbracciata, e per desiderio personale o piuttosto per la legislazione dioclezianea, ha pensato di avviarvi anche il suo figliolo, così pure Giorgio si trova senza traumi nella duplice condizione di soldato di Cristo e designato soldato di Cesare.

(1) I Petr., III, 1-2.

(2) I Cor., VII, 17-

(3) Secondo la tradizione, San Maurizio comandava la legione tebana, interamente composta di Cristiani dell’Alto Egitto, in numero di 10.000 ( ma il numero è eccessivo per gli effettivi di una legione alla fi-ne del III secolo o all’inizio del I? ). Essa fa condotta dall’Italia in Gallia, attraverso le Alpi, per la guerra germanica, ma ad Agaunum ( oggi St. Maurice ) ricevette l’ordine di fermarsi e sacrificare agli dèi. Avendo rifiutato, fu sottoposta per due volte alla decimazione per ordine di Massimiano, infine venne circondata, disarmata e totalmente sterminata. La data dell’eccidio, il 286,è certamente errata, poiché la persecuzione di Diocleziano e Massimiano non ebbe inizio che nel 302-303; inoltre nella Gallia governava il Cesare Costanzo Cloro, che non applicò mai le misure anticristiane con la determinazione dei suoi colleghi.

(4) I Cor., VII, 12-14.

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VII. LA PRIMA GIOVINEZZA

È molto poco quel che sappiamo della fanciullezza e della prima giovinezza di Giorgio, cosa che ci costringe a procedere ancora per via d1 ipotesi. La sua educazione dovette essere buona, dato lo stato sociale della famiglia, probabilmente superiore a quella che normalmente aveva un ufficiale di carriera in un’epoca in cui, diversamente dai primi tempi dell’Impero, l’esercito si apriva sempre più Largamente, anche nei quadri superiori, a "homines novi", uomini rudi, provinciali energici ma senza cultura, membri delle classi sociali meno favorite. Basti pensare che lo stesso Galerio, il futuro imperatore ( 305-311 ) viene presentato da Lattanzio quale "semibarbarus" (i), e Massimino Daia ( 310-313 ) è definito "armentarius" (2). La cultura di Giorgio, più che sui testi latini, dovette formarsi su quelli greci, come del resto sembra suggerire anche il nome greco della madre (3). Oltre alle lettere, alla retorica, forse alla filosofia, il giovane cappadoce imparò a conoscere a fondo le Sacre Scritture e poté certamente leggere nella lingua originale i Vangeli (4). Lo studio del testo fondamentale della religione cristiana, insieme all’esempio vivente della madre e del padre, produssero un’influenza decisiva sull’animo forte ma sensibile e generoso del ragazzo, che, bilanciata forse, all’inizio, dal carattere a spartano dell’istruzione militare, sarebbe riemersa con prepotenza negli anni della piena virilità.

La morte del padre fu il fatto saliente di questi primi anni della sua vita, anche se non possiamo determinarne con maggiore esattezza l’epoca. Rimasta vedova, Policronia non ci risulta si sia risposata, costume allora peraltro frequente in entrambi i sessi, ma decise di trasferirsi definitivamente nelle terre, di proprietà sua o del defunto marito, che la famiglia possedeva in Palestina. Così, madre e figlio lasciarono per sempre la natìa Cappadocia e si misero in viaggio verso sud, viaggio non breve né facile, allora, neppure per chi, come in questo caso, disponeva di cospicui mezzi finanziari. Non sapendo dove viveva esattamente la famiglia di Giorgio, se a Cesarea, la capitale della provincia, o in qualche borgo minore, non possiamo seguire con precisione questo viaggio. Tuttavia sappiamo che anche in questa parte i del Vicino Oriente l’eccellente sistema stradale romano si articolava in una fitta rete di arterie che dalla Cappadocia portavano a mezzogiorno, attraverso le Porte Cilice, scavalcando la formidabile catena montana del Tauro per scendere verso l’azzurro Mediterraneo (5) Forse Policronia con Giorgio e la servitù presero la via che da Cesarea discende direttamente a Tarso, sul mare, patria di San Paolo; o forse prese la via, faticosa e difficile, che con un ampio giro fra i monti arrivava a Samosata, patria dello scrittore Luciano, sull’alto Eufrate, e di là scese verso la grande Antiochia. Nel primo caso, molto probabilmente da Tarso la famigliola s’imbarcò su una nave, greca o egiziana, alla volta di Tiro, Sidone, o forse direttamente Cesarea Marittima, il porto principale della Palestina, fatto edificare da Erode il Grande. Nel secondo, o s’imbarcò a Seleucia sulla foce dell’Oronte, il porto di Antiochia, o proseguì per la cosiddetta "via del mare", l’antica e suggestiva strada costiera che seguiva le sponde del Mediterraneo fino ad Alessandria d’Egitto.

Dove si stabilissero Policronia e suo figlio, non salpiamo dire. Certo fu per loro un’occasione magnifica, e lungamente desiderata, quella di poter vedere con i propri occhi i luoghi che videro la predicazione di Gesù, i suoi miracoli, la sua passione e aorte. A quel tempo, per la verità, doveva esservi ben poco di visibile a confronto di quel che può ammirare il pellegrino dei nostri giorni, sia perché il Cristianesimo era tuttora un culto a stento tollerato e periodicamente perseguitato, sia per le terribili devastazioni che due guerre sterminatrici avevano provocato. Dopo la conquista, e la distruzione di Gerusalemme, nel 70 d.G., tanto ai Giudei che ai Cristiani era stata fatta proibizione assoluta di rimettere piede colà, e più tardi l’imperatore Adriano ( II7-I38 ) vi aveva stabilito una colonia romana: Aelia Capitolina. Stroncata nel sangue l’estrema rivolta giudaica di Bar Kochba ( 132-35 d.C. ), un monumento a Giove era sorto sulle rovine del celeberrimo Tempio e un sacrario alla dea Venere era stato eretto proprio sul luogo ove la tradizione voleva fosse stato sepolto Gesù Cristo (6). In tal modo l’ellenismo, contro cui così a lungo i Giudei tradizionalisti avevano combattuto in nome della fedeltà a Jahvé e alla legge mosaico (7) sotto le aquile di Roma aveva definitivamente vinto la partita. Dovunque, a Tiberiade, a Cafarnao, a Gerico, nell’antica città santa di Gerusalemme, per non parlare di Cesarea» la nuova capitale della provincia (8), terme, ippodromi, teatri, templi dedicati alle varie divinità del Pantheon greco e orientale, insieme alla liturgia e alla cultura ellenistica, avevano sostituito l’antico volto del paese, mentre il popolo ebraico iniziava la sua più che millenaria diaspora ai quattro angoli del mondo allora conosciuto.

(1) Cfr. Lact. , "De mort. persec.", IX, 2} XXXIII, 5; XXVII, 8.

(2) Ibid. , cfr. XVIII, 12; XIX, 6.

(3) Policronia è un nome greco; "Gaudentius" probabilmente è il nome latino adottato dal padre di Giorgio quando entrò nell’esercito romano, sull’esempio di tanti altri ufficiale di origine straniera o, come allora si diceva, "semibarbarica" o "barbarica": si pensi solo a Flavio Stilicone, il generale di Teodosio il Grande e di suo figlio Onòrio che sconfisse per due volte il visigoto Alarico ( a Pollenzo nel 402 e a Verona nel 405 ) Giorgio è anch’esso un noie di origine greca e significa "agricoltore".

(4) Sicuramente Giorgio lesse i Vangeli nella lingua greca, la lingua che doveva essere d’uso nella sua famiglia. La famosa tradizione latina delle Sacre Scritture di S. Gerolamo ( 34^/350 ca.-420 ca.), detta Vulgata, è posteriore di oltre un secolo alla nascita di Giorgio.

(5) Cfr. V. Von Hagen, "Le grandi strade di Roma nel mondo", tr. it. Roma, 1978, spec. pp. 93-127.

(6) Cfr. W. Keller, ."La Bibbia aveva ragione", tr. it. Milano, 1977 ( 2 voli.), II, 362-373.

(7) Cfr. ad es. il I e il II Litro dei Maccabei.

(8) Al tempo di Diocleziano vi era un’unica provincia di Palestina, comprendente la Giudea, la Samaria, la Galilea e una stretta striscia oltre il Giordano ( Perea, territorio dei Geraseni, eco.). Dalla "Hotitia Dignitatum" ( V sec. d.G.) risulta invece che le provin-ce erano diventate tre: Palestina I ( Giudea e Samaria ), Palestina II ( Galilea, Perea eco. ), Palestina Salutaris ( Idumea e Penisola del Sinai ). Cfr. A. E. 14. Jones, "Il tardo Impero Romano (284-602 d.G. )", tr. it. Milano 1973 ( 2 voll. ), I, 80, 368; e G. Barbagallo, "Roma antica", Torino, 1932 ( 2 voll.), II, 703, 881.

VIII. GIORGIO UFFICIALE R O M A N O

Sulla giovinezza di Giorgio non sappiamo altro fino al momento in cui lasciò la madre per darsi alla professione delle armi, in ossequio alle disposizioni giuridiche vigenti o, forse, coronando il sogno di suo padre Gaudenzio. Purtroppo non salpiamo nulla dei sentimenti del giovane ufficiale in quel periodo, né se la lacerazione inevitabile fra l’esigenza di darsi tutto a. Dio o di servire totalmente solo l’imperatore cominciasse già a manifestarsi nel suo animo. Probabilmente Giorgio, natura intelligente e sensibile, sia pure in forma non ancora ultimativa doveva avvertire già un certo malessere derivante dall’inevitabilità di una scelta finale, tuttavia avrà forse considerato come una forma di rispetto alla memoria del padre mantenere il suo impegno e non deludere quello che era stato il suo vivo desiderio nei confronti del figlio. Non ci è possibile fissare con maggior precisione la data dell’ingresso di Giorgio nella milizia: approssimativamente possiamo fissarla verso il 285-290, dal momento che il giovane entrò nell’esercito certamente prima dei vent’anni, e che la data di nascita, come abbiamo visto, dovrebbe potersi fissare intorno alla settima decina del III secolo. Proprio in quel torno di tempo l’Impero e l’esercito romano stavano attraversando una fase di radicale ristrutturazione per opera di Diocleziano e dei suoi

colleghi. Nel 283 l’imperatore Caro si era spiato alla testa delle sue legioni vittoriose fin nel cuore della Mesopotamia, conquistando e saccheggiando la capitale persiana d’inverno, Ctesifonte, antica città reale dei Parti e dei Sassoni di (i). Ma durante il viaggio di ritorno la tenda dell’imperatore era stata incenerita da un fulmine e il figlio di lui Numeriano aveva assunto il comando dell’esercito. Ammalato agli oc-chi, Numeriano viaggiava in una lettiga chiusa per proteggere la vista dal sole; e così solo dopo qualche giorno i suoi soldati, insospettiti, avevano scoperto di aver trasportato per tante miglia solo un cadavere (2). Allora si era fatto avanti il capo della sua guardia personale, 1’illirico Diocle (3), che, accusato del delitto il prefetto del pretorio Apro, con un colpo di spada l’aveva ucciso davanti a tutti. Restava da eliminare Carino, il fratello di Numeriano, che regnava in Occidente. Diocleziano lo affrontò in "battaglia e ne venne sconfitto (4), ma Carino cadde sotto il pugnale di un traditore e Diocleziano, rimasto unico pretendente al potere, fu acclamato imperatore. Iniziava così il regno ventennale di questo sovrano ( 284-305 d.C.), nel cui esercito Giorgio compì i primi passi della propria carriera, salì in alto grado e subì, infine, il martirio. Il nome di Diocleziano è ricordato dai Cristiani soprattutto a motivo della sua vasta persecuzione religiosa, nella quale tanti coraggiosi fedeli trovarono la tortura e la aorte; però dobbiamo subito far notare che fino al 302-303 i Cristiani furono lasciati assolutamente tranquilli. Essi possedevano delle chiese, edifici pubblici ove potevano svolgere i sacri riti alla luce del sole (5), quantunque Diocleziano personalmente seguisse, come già Aureliano, il culto del "Sol Invictus", oltre quello di Giove, e Galerio, il suo braccio destro, a quanto pare, quello di Gitele, la Magna Mater di origine frigia (6). A Nicomedia, ove Diocleziano aveva trasportato la capitale dell’Impero (7), la basilica cristiana sorgeva in piena città ed era un edificio imponente che stagliava la sua mole quasi di fronte al palazzo imperiale (8). La tolleranza religiosa del sovrano aveva del resto favorito il diffondersi della religione cristiana all’interno dello stesso "palatium", tanto che perfino la moglie di lui, Prisca, e la figlia Valeria, si diceva nutrissero simpatie per il Cristianesimo, al punto da subire qualche fastidio allo scoppio della persecuzione(9)« Questo del resto non era che uno dei sintomi della crescente diffusione della nuova fede, non più quasi soltanto fra gli strati sociali più umili, ma anche tra molte famiglie dell’aristocrazia e specialmente fra le distinte matrone. In questa situazione, dopo tanti anni di pace religiosa ( la persecuzione di Aureliano per molti non era più che un ricordo ), si può bene immaginare come Giorgio non dovesse porsi fin dall’inizio in maniera drammatica il problema della incompatibilità fra la sua professione e la sua fede.

Seguire il santo in questi primi anni della sua carriera militare non è per noi certo facile. Dopo aver lasciato la madre Policronia, della quale più non udremo parlare, non pare che Giorgio si sia sposato. Le fonti tacciono del tutto su questo argomento, e poiché, in tanti altri casi analoghi (10), gli agiografi raramente hanno scordato di informarci se i martiri militari erano sposati, da questo silenzio possiamo dedurre che Giorgio, molto probabilmente, non lo era. Dove esercitò la milizia? Anzitutto, dobbiamo rilevare che l’esercito romano, con le riforme militari di Diocleziano, si trovava ad esser composto di due principali e differenti nuclei. Le frontiere dell’Impero, il Reno, il Danubio, l’Eufrate, erano guardate dai "limitanei", truppe piuttosto mal pagate e sovente indisciplinate, fissate al suolo da concessioni di terre governative, e reclutate fra i provinciali del luogo o addirittura, sempre più spesso, fra quelle stesse tribù barbariche che dovevano tenere a distanza (il). All’interno delle province, a disposizione dei "comes" e dei "dux" locali, ma soprattutto a disposizione degli imperatori, erano i "comitatenses", come massa d’impiego destinata a operare per la difesa in profondità ( e perciò ben dotati di cavalleria leggera e pesante ). In realtà la loro presenza tendeva a trasformarsi in molti casi in un peso insopportabile per le città e le campagne dell’interno, che essi angariavano in vari modi e ove spesso si abbandonavano all’ozio. Il numero delle legioni era stato enormemente aumentato da Diocleziano (come, del resto, quello delle province ), ma più che per mezzo di nuove leve , con una drastica riduzione degli antichi effettivi- Ciò per impedire che un generale popolare fra le proprie truppe, così com’era accaduto tante volte nel corso del III secolo, potesse aspirare all’Impero e marciare sopra la capitale con grandi forze. Il nucleo più selezionato dell’esercito, che al tempo di Costantino si chiamerà "schola palatina" , ossia la guardia dell’imperatore, era una specie di nuova edizione del corpo dei pretoriani. I suoi componenti, reclutati non più in Italia, sempre più estranea all’antico spirito militare romano, ma fra le bellicose popolazioni della Pannonia e dell’Illirico, e, pel momento raramente, fra gli stessi Germani d’oltre Reno e d’oltre Danubio e fra i Persiani, erano un corpo scelto, molto efficiente e ben pagato. In teoria guardia di rappresentanza del sovrano, in realtà lo seguivano nei suoi continui spostamenti attraverso l’Impero e sulle frontiere, sempre pronte a intervenire in caso di emergenza militare (12).

Ora, è molto probabile, anzi quasi certo, che Giorgio di Cappadocia abbia militato fra le truppe del "comitatus", forse nella stessa guardia palatina: infatti il bizantino Metafraste afferma che egli si acquistò la stima dello stesso Diocleziano e salì ai più alti onori della milizia (13). Uno storico moderno, il Gregorovius, ha supposto ch’egli raggiungesse il grado di "magister equitum", maestro della cavalleria, cosa peraltro che non ci sembra possibile provare. Comunque, se la notizia di Metafraste è attendibile, il problema della localizzazione del servizio militare di Giorgio va subordinato a quello . degli spostamenti dello stesso imperatore: spostamenti che fortunatamente conosciamo con sufficiente esattezza.

(1) Cfr. "Hist. Aug.", "Carus".

(2) Cfr. "Dizionario di antichità classiche di Oxford", ed. it. Roma, 1971 ( 2 voli. ), II, MS+-3S .

(3) Diocle era il nome di Diocleziano quand’era uri provato cittadino, che egli portò sia prima di salire al potere sia dopo la sua abdicazione a Nicomedia nel 305. Cfr. Lact., "De mort. pers.", XIX,5.

(4) A Margo, in tìesia, dopo che Carino aveva eliminato l’altro usurpatore, Giuliano Sabino.

(5) L’età delle catacombe, se mai esistette nella forma che il turista affrettato di Roma si immagina, era infatti finita da un pezzo. Il Cristianesimo, pur se in teoria era tuttora perseguibile in qualsiasi momento in forza dello "Institutum Neronianum" ( cfr. J. Lortz, "Storia della Chiesa", ed. it. Alba, 1966, 2 voli., I, 51 sgg.) in effetti era normalmente lasciato tranquillo, secondo la prescrizione dell’imperatore Traiano ( Plin., "Epist.", X, 9?J "conquirendi non sunt: si deferantur et arguantur, puniendi sunt"). Questa tolleranza verso il Cristianesimo da parte dello Stato Romano venne infranta più volte da singoli imperatori, che vollero rimettere in vigore, quasi sempre per periodi limitati, le antiche disposizioni di Nerone. Tuttavia è certo che le persecuzioni anticristiane non furono dieci, come ricorda la tradizione ecclesiastica, ma di più; e tuttavia non si trattò di fenomeni omogenei e sistematici, poiché ebbero applicazione minore o maggiore in singole province, ad opera di singoli magistrati e governatori. Ad esempio, la persecuzione di Cerone ( 64 d. C. ) colpì la sola comunità cristiana di Roma; quella di Diocleziano, specialmente l’Oriente, l’Italia e l’Africa. La cosiddetta persecuzione di Marco Aurelio registrò sporadici episodi qua e là, specialmente in Gallia ( i martiri di Lione ). Potevi anche accadere che mentre la Chiesa di Cartagine veniva sanguinosamente perseguitata, a Colonia o ad Antiochia se ne avesse appena notizia. Ma su tutto questo problema, cfr.: J. Lortz, Op. Cit., I, 51 sgg.; e A. Momigliano, "II conflitto tra paganesimo e Cristianesimo nel secolo IV", Torino, 1975» spec. pp.3-43; M. Grant, "II declino dell’Impero Romano", ed. it. Milano, 1976, pp. 231 sgg.

(6) Cfr. Lact. , "De mort. pers.", X, I sgg. La Magna Mater era adorata sotto forma- di un meteorite nero che venne portato a Roma dalla Frigia durante la seconda guerra, punica, quando Annibale si trovava. ancora in Italia. Alla Magna Mater l’imperatore Giuliano ( 361-63 ), detto l’Apostata, dedicò sul letto di morte il suo ultimo scritto, durante la guerra persiana.

(7) Diocleziano, che deteneva il titolo di "primo Augusto", aveva trasportato la capitale dell’Impero da Roma a Nicomedia in Bitinia ( Asia Minore ), nominando suo collega per l’Occidente il compagno d’armi Massimiano, che risiedette per lo più a Milano. I loro due Cesari ( i futuri imperatori), Galerio e Costanze Cloro, governavano rispettivamente da Sirmium ( sul Danubio, oggi Sremska Mitrovica) e da Treviri, nella Gallia Renana.

(8) Cfr. Lact., "De mort. pers.", XIII, 2-5. Fu infatti il primo edificio ad essere abbattuto per ordine dell’imperatore all’inizio della persecuzione, nel 303.

(9) Come in quello, ad es. , di S. Adriano e di sua moglie Natalia: cfr. Jacopo da Varazze, "Legenda aurea", Firenze 1952, pp.599-604.

(10)Tale il caso dei Franchi e dei Batavi sul Reno, contrapposti ai Sàssoni e agli Alamanni.

(11)Cfr. C. Barabagallo, Op. Cit. , II, 702 sgg. 5 M. Holden, "Le legioni di Roma", ed. it. Milano, 1973.

(12)Cfr. G. Moroni, "Dizionario di erudizione storico-ecelesiastica", Venezia, 1845, voi- XXX, p.262; D. Balboni, in "Bibliotheca Sanctorum", Roma, 1962, voi. VI, col. 512 sgg.; R. T. John, "La basilica di San Giorgio al Velabro", Roma, I960, p. 17.

IX. NON FU UFFICIALE PERSIANO

A questo punto è bene dir subito che il più antico testo della "passio" di S. Giorgio, il palinsesto in lingua greca del secolo V, afferma che il santo non subì il martirio per opera di Diocleziano, "bensì di Daciano imperatore dei Persiani (1). Secondo tale testo, Baciano avrebbe convocato un giorno settantadue re per decidere le misure da prendersi contro i Cristiani, e provocò in questo modo la sdegnata reazione di Giorgio, suo ufficiale, che si espose volontariamente al martirio. Di quest’ultimo parleremo diffusamente più innanzi; per ora, basti aver riportato la tradizione secondo la quale Giorgio subì il martirio sotto un sovrano persiano, a titolo di esattezza storica. Diremo però subito che questa tradizione è francamente insostenibile, e per vari ordini di motivi. Infatti, se Giorgio subì il martirio sotto un monarca persiano, vuoi dire che non fu ufficiale dell’esercito romano, bensì di quello persiano. Ora, questo è impossibile, perché, come vedremo, Giorgio subì il martirio a Lydda (2), in Palestina, ossia in una provincia saldamente tenuta dall’Impero Romano : e non vi furono invasioni persiane in Palestina, a quel tempo (3). Questo è il primo argomento contro la tradizione che vorrebbe sostituire il persiano Daciano al romano Diocleziano. Secondo argomento, ancor più probante: non vi fu nessun monarca sassanide, ne nel secolo III né dopo, che rispondesse al nome di Baciano. All’epoca del martirio di Giorgio regnava a Ctesifonte Narsete (4), contro il quale i Romani guerreggiarono con successo. Terzo argomento: i monarchi sassanidi non portavano allora, e invero non avevano mai portato, il titolo di imperatori (5); "imperator" è un termine latino che fu, nel mondo antico, esclusiva prerogativa dei successori di Ottaviano Augusto. Quarto argomento: Giorgio militava nell’esercito col grado) di "tribunus", secondo quanto la tradizione ci ha conservato (6): e il grado di tribuno militare era esso pure caratteristico ed esclusivo dell’esercito romano. Quinto ed ultimo argomento: che in Persia, sotto i sovrani sassanidi, la diffusione del Cristianesimo rimase un fenomeno limitato, esclusivo peraltro delle satrapie occidentali, Armenia, Oshroene, Mesopotamia, Babilonia, e non assunse mai le proporzioni imponenti che gà al cadere del secolo III stava acquistando nell’Impero Romano. Ora, è ben vero che i monarchi sassanidi, di tanto in tanto, si accanirono contro le comunità cristiane viventi nel loro regno, più che altro per motivi di politica estera ( dopo la vittoria di Costantino, il Cristianesimo divenne la religione ufficiale della rivale monarchia romana );ma di tali vicende poco sappiamo (?) e sé avessero realmente coinvolto un martire della fama di S. Giorgio, la tradizione ce ne avrebbe lasciato notizie ben altrimenti copiose e documentate. Con ciò crediamo si possa senz’altro accantonare l’ipotesi che Giorgio abbia militato nell’esercito persiano e subito il martirio sotto un sovrano persiano. Resta invece da spiegare come da Diocleziano si sia potuti passare a Daciano, chi sia stato, se mai vi fu, questo Daciano, e infine se sia assolutamente certo che il "Nostro militò e soffrì il martirio proprio sotto Diocleziano, e non sotto qualche altro imperatore.

Punto primo: come si sia passati da Diocleziano a Daciano. A prima vista, una corruzione ortografica da "Diocletianus" a "Dacianus" non sembra possa aver avuto luogo tanto facilmente (8). Parrebbe dunque preferibile procedere per un’altra strada, e domandarsi se non esiste nessun monarca sassanide, ne nel secolo III né dopo, che rispondesse al nome di Daciano. All’epoca del martirio di Giorgio regnava a Ctesifonte Sarsete (4), contro il quale i Romani guerreggiarono con successo. Terzo argomento: i monarchi sassanidi non portavano allora, e invero non avevano mai portato, il titolo di imperatori (5); "imperator" è un termine latino che fu, nel mondo antico, esclusiva prerogativa dei successori di Ottaviano Augusto. Quarto argomento: Giorgio militava nell’esercito col grado) di "tribunus", secondo quanto la tradizione ci ha conservato (6): e il grado di tribuno militare era esso pure caratteristico ed esclusivo dell’esercito romano. Quinto ed ultimo argomento: che in Persia, sotto i sovrani sassanidi, la diffusione del Cristianesimo rimase un fenomeno limitato, esclusivo peraltro delle satrapie occidentali, Armenia, Oshroene, Mesopotamia, Babilonia, e non assunse mai le proporzioni imponenti che gà al cadere del secolo III stava acquistando nell’Impero Romano. Ora, è ben vero che i monarchi sassanidi, di tanto in tanto, si accanirono contro le comunità cristiane viventi nel loro regno, più che altro per motivi di politica estera ( dopo la vittoria di Costantino, il Cristianesimo divenne la religione ufficiale della rivale monarchia romana ); ma di tali vicende poco sappiamo (7) e se avessero realmente coinvolto un martire della fama di S. Giorgio, la tradizione ce ne avrebbe lasciato notizie ben altrimenti copiose e documentate. Con ciò crediamo si possa senz’altro accantonare l’ipotesi che Giorgio abbia militato nell’esercito persiano e subito il martirio sotto un sovrano persiano. Resta invece da spiegare come da Diocleziano si sia potuti passare a Baciano, chi sia stato, se mai vi fu, questo Daciano, e infine se sia assolutamente certo che il "Nostro militò e soffrì il martirio proprio sotto Diocleziano, e non sotto qualche altro imperatore.

Punto primo: come si sia passati da Diocleziano a Baciano. A prima vista, una corruzione ortografica da "Diocletianus" a "Dacianus" non sembra possa aver avuto luogo tanto facilmente (8). Parrebbe dunque preferibile procedere per un’altra strada, e domandarsi se non esistette per caso un tal Daciano, che in qualche modo fu connesso alla persecuzione dioclezianea: saremmo così in grado di rispondere al tempo stesso al punto secondo. Ebbene: la storia risponde in maniera affermativa alla nostra domanda. Risulta infatti che al tempo della persecuzione di Diocleziano vi fu un governatore della Spagna, di nome appunto Daciano o Daziano, che lasciò di sé tristissima fama pel rigore crudele col quale si accanì contro i Cristiani (9), al punto da guadagnarsi l’epiteto sinistro di "drago degli abissi" (10). Anche Jacopo da Varazze riporta che il martirio di San Giorgio fu eseguito dal prefetto Daciano, sotto il regno degli imperatori Diocleziano e Massimiano (11). Come poi un feroce governatore della Spagna sia stato messo in relazione col martirio di Giorgio, avvenuto all’altra estremità dell’immenso Impero, in Palestina, è una questione che affronteremo a suo tempo. Comunque, l’ipotesi sopra esposta offre una spiegazione soddisfacente sia del primo che del secondo quesito che ci eravamo posti. Daciano perseguitava i Cristiani secondo le istruzioni ricevute da Diocleziano ( anzi, da Massimiano, che governava l’Occidente, e che del resto non fece che aderire con entusiasmo agli editti anticristiani promulgati dal collega )’ L’autore della "passio" greca del V secolo, scrivendo ormai a quasi due secoli di distanza dai fatti, e non sapendo chi mai fosse questo Daciano, che per errore era stato accomunata al martirio di San Giorgio, suppose trattarsi di un sovrano persiano, così come persiano era il padre del santo. Certamente non prestò attenzione al nugolo di contraddizioni e di circostanze inspiegabili, che in tal modo veniva a porre sul proprio cammino. Altri copisti, autori di successive versioni, o per meglio dire, recensioni, di quella "passio", cornea ad esempio nel manoscritto greco del X secolo conservato nella Biblioteca Vaticana (12), intuirono l’errore e corressero Daciano con Diocleziano. Insomma il passaggio da Diocleziano a Daciano non fu un errore ortografico, ma storico, e la successiva correzione da Daciano in Diocleziano fu anch’essa una correzione non già ortografica, ma storica. Jacopo da Varazze ripescò poi il nome di Daciano, ma giustamente non lo presentò più come quello di un sovrano di Persia, bensì come di un luogotenente di Dioclesiano, e questo potrebbe essere la dimostrazione che il vescovo genovese poté attingere a fonti molto antiche ( quelle della tradizione orale anteriore alla "passio" greca del V secolo ) e che noi a tutt’oggi non conosciamo.

Terzo e ‘ultimo punto: avvenne proprio sotto Diocleziano il martirio di San Giorgio? Il Ruinart risponde in modo affermativo, anche se fissa la data al 284 (13), il che è a nostro avviso assolutamente improbabile (14). Molto più solidi sono gli argomenti di coloro che anticipano la data del martirio al periodo 249-251, e leggono di conseguenza non "Dacianus" bensì "Decius". Decio Traiano infatti, imperatore romano dal 249 al 251 (15), fu autore di una persecuzione anti-cristiana breve, ma così violenta eh fu ricordata per decenni come una delle più dure prove che la Chiesa ebbe a soffrire (16). Ora, è possibile che Giorgio sia vissuto nella prima metà del secolo III, e abbia subito il martirio durante la persecuzione di Decio? In via puramente teorica dobbiamo rispondere che sì, ciò è possibile. Ma aggiungiamo subito che è anche estremamente improbabile. Infatti, tutto quanto siam venuti dicendo di Daciano, governatore spagnolo durante il regno di Diocleziano ( non di Decio! ) sta contro questa interpretazione. Inoltre, diciamolo francamente: una corruzione ortografica da "Decius" in "Dacianus" è quasi altrettanto poco verosimile che da "Diocletianus" in "Dacianus". L’ipotesi di Decio rimane dunque un’ipotesi, estremamente fragile, smentita oltretutto dalle numerose fonti che parlano di Diocleziano e Massimiano come i sovrani sotto i quali soffrì il martirio Giorgio di Cappadocia.

(1) Palinsesto greco 954 della Biblioteca Nazionale di Vienna. Questa "passio" venne pubblicata nel 1858 da Detlefsen, che la stimò datata agli inizi del V sec. È molto probabile che si tratti proprio della "passio" che il citato "Decretum Gelasianum" ( della fine del V sec.) pone tra gli scritti apocrifi.

(2) Lydda ( Diospolis era il nome ellenico ) è l’odierna Lod, ove ha sede l’attuale aeroporto di Gerusalemme, sulla strada di Giaffa.

(3) Shapur I, monarca sassanide, invase la Siria nel 241, dopo aver

conquistato la Mesopotamia, ma fu affrontato e vinto in battaglia a Resaina dall’imperatore romano Gordiano III ( 243 ). Durante il regno di Valeriano ( 253-60 ), Shapur I profittando delle molteplici difficoltà in cui versavano i Romani attaccò e invase nuovamente la Siria, conquistando perfino la grande Antiochia e massacrando o facendo schiavi gli abitanti. Valeriano accorse con le legioni, ma dopo qualche iniziale successo cadde prigioniero di Shapur sotto le mura di Edessa, forse vittima di un tradimento. Dopo di allora l’Impero Romano, guidato dalle ferree mani degli imperatori illirici, fu in grado di difendere con successo la diocesi d’Oriente dalle mire dei Sassanidi.

(4) Narsete ( N’arseh ), figlio e successore di Shapur I nel 272, invase l’Armenia e nel 296 inflisse una grave sconfitta a Galerio, che Diocleziano gli aveva mandato contro e che lo aveva assalito con forze di gran lunga inferiori, presso Carrhae. Nel 297 però Galerio riprese l’offensiva e riportò sui Persiani una vittoria così strepitosa, che Narsete dovette fuggire ferito e abbandonare il suo accampamento, la sua famiglia e il tesoro reale nelle mani del nemico. Dopo di ciò i Romani poterono assicurarsi un trattato di pace a condizioni assai favorevoli, ponendo sul trono d’Armenia il loro candidato Tiridate. Questi, convertito al Cristianesimo da S. Gregorio, finì per elevarlo a religione di Stato ( nel 305 d.C. ).

(5) Sotto la dinastia degli Achemenidi ( 546-330 a.C. ) i sovrani di Persia si facevano chiamare Re dei Re; sotto quella dei Sassanidi (226-651 d.C. ) sono ricordati coi titoli di "Gran Re", "fratello del Sole e della Luna", ecc.

(6) Cfr. J. da Varazze, "Legenda aurea", ed. cit., p. 268.

(7) Una delle cause della rottura definitiva fra Costantino il Grande e Shapur II fu l’intimazione del primo a non molestare la Chiesa cristiana di Persia. Shapur per tutta risposta perseguitò i Cristiani e invase l’Armenia e la Mesopotamia. Costantino mori mentre era in marcia contro di lui ( 337 d.C. ), e suo figlio Costanzo II condusse una guerra sfortunata ( 359-60 ), minuziosamente narrata da Ammiano Marcellino. La Chiesa di Persia aveva anche inviato un vescovo quale proprio rappresentante al Concilio di Nicea nel 325 d.C. Né si dimentichi che la casta sacerdotale dei Magi aveva promosso pure una vigorosa persecuzione contro i Manichei ( lo stesso Mani fu suppliziato a Ctesifonte, sotto il re sassanide Barham, nel 273 o 277 ).

(8) Ci si potrebbe piuttosto chiedere se "dacianus" non sia una forma erronea del sostantivo "dacicus", abitante della Dacia. Da Lattanzio, cit., XXXIII, 5, sappiamo che Galerio ( Cesare di Diocleziano e suo principale istigatore nella persecuzione anticristiana ) era nativo della Nuova Dacia e che avrebbe perfino progettato di chiamare l’Impero non più Romano, ma Dace ( "dascicus", forma inusuale di "dacicus" ). Ma potrebbe esser stato lui il Daciano della "passio Georgii"? Ma questa ipotesi ha il difetto di essere troppo elaborata e priva di ogni base sicura.

(9) Cfr. D. Balboni, "Bibl. Sanct.", cit., vol. VI, col. 516.

(10)La Spagna, durante la prima tetrarchia ( 293-305 d.C. ),pare sia appartenuta a Massimiano, che vi applicò, come in Italia e in Africa, gli editti anticristiani pubblicati a Nicomedia da Diocleziano e Galerio. Solo dopo l’abdicazione di Massimiano ( a Milano, nella primavera, del 305 ), la Spagna passò a Costanzo Cloro, che già governava la Gallia e la Britarmia, e che si mostrò mite nei confronti dei Cristiani.

(11)Cfr. J. da Varazze, "Legenda aurea", , ed. cit., p. 268 sgg.

(12)Bibl. Vat., man. 1660, foglio 272-288. Esso è datato 916. Il manoscritto greco è inedito; nel 1539 fu tradotto in latino e pubblicato dal Lipomano nelle "Vitae S. Patrum". Vi si dice che Diocleziano, assistito da Magnenzio, convocò il Senato per decidere la persecuzione. Flavio Magno Magnenzio è un personaggio storico, ma posteriore a Diocleziano: fu un usurpatore dell’Occidente romano (350-353 ) e morì suicida a Lione, dopo essere stato sconfitto da Costanzo II. Probabilmente "Magnentius" è nella "passio Geoegii" una corruzione, o meglio un "lapsus linguae", con "Maximilianus" o "Mazimianus", il collega di Diocleziano.

(13)Cfr. il "Chronicum alexandrinum seu paschale", PG, XCVI, col. 680.

(14)Nel 284 Diocleziano fa acclamato imperatore a Nicomedia dagli ufficiali dell’esercito, reduce dalla spedizione persiana di Caro, ma subito dovette sostenere una dura guerra con Carino, che lo sconfisse ma cadde assassinato in battaglia ( 285 ). È immaginabile che in tali frangenti qualcuno abbia avuto il tempo e la volontà di imbarcarsi in una sistematica repressione religiosa?

(15)Nato circa il 200 in Pannonia, fu inviato da Filippo l’Arabo a reprimere una rivolta militare nella Mesia, si rivoltò contro l’imperatore, che fu sconfitto e ucciso a Verona nel 249. Decio cadde poi combattendo contro i Goti che avevano invaso e devastato la Mesia, la Macedonia e la Tessaglia.

(16)Nel corso di essa soffrì la t or tuta anche Origene, il padre della Chiesa greca, che morì a Cesarea di Palestina nel 254 in seguito alle percosse ricevute.

X. AL SEGUITO DI DIOCLEZIANO

Come abbiamo visto, Giorgio certamente militò fra le truppe comitatensi, ossia nell’"élite" dell’esercito romano di quel tempo, la più efficiente e la meglio pagata. La tradizione infatti vuole che il santo si mettesse rapidamente in luce per le sue brillanti doti di coraggio e di intelligenza, sino al punto da farsi notare dallo stesso imperatore e, forse, da entrare a far parte della sua guardia del corpo. Se ciò è vero, un caso singolare del destino volle che il Nostro giungesse ad occupare presso Diocleziano una carica molto vicina a quella che Diocleziano stesso aveva ricoperto prima di essere elevato all’Impero (1). Naturalmente noi non possiamo essere assolutamente certi della veridicità di questa tradizione, che ricorda da vicino quella dei santi Giovanni e Paolo e dell’imperatore Giuliano 1′ Apostata (2), ma non vi sono nemmeno delle valide ragioni per giudicarla negativamente da una posizione preconcetta. Come abbiamo visto il III secolo fu, nell’ambiente militare romano, l’età d’oro degli uomini nuovi, degli uomini che si erano fatti da sé, oscuri soldati venuti dalla gavetta e saliti con una carriera prodigiosa fino ai vertici dell’Impero. (3) Giorgio, che veniva da una famiglia aristocratica e, per linea paterna, di antiche tradizioni militari, anche senza aver mai ottenuta la dignità senatoria o qualche altra carica amministrativa, che un tempo erano "conditio sine qua non" per la scalata agli alti gradi dell’esercito, poté benissimo ottenere la stima dell1 imperatore e segnalarsi tra gli ufficiali palatini durante il lungo regno di Diocleziano.

Come si è visto, il problema di individuare i luoghi della carriera militare del il nostro si riconnette direttamente a quello relativo agli spostamenti dell’imperatore, poiché, se Giorgio era tribuno, "magister equitum" o comunque alto ufficiale nei quadri del "comitatus", quasi certamente dovette seguire costantemente Diocleziano nei suoi frequenti movimenti e nelle operazioni militari che condusse entro e fuori i confini dell’Impero. Non è questa, invero la sede per ricostruire le campagne di Diocleziano nei suoi ventun anni di regno: perciò non ci limiteremo che a pochi rapidissimi cenni sull’argomento, rimandando il lettore desideroso di un ulteriore approfondimento ad altri testi, e specialmente alla monografia dello Ensslin nella "Real Encyclopadie" (4). Anzitutto dobbiamo rilevare che solo raramente Diocleziano prese parte personalmente alle continue operazioni militari che si svolsero durante il suo regno lungo i confini dell’Impero e all’interno di esso. In genere preferiva servirsi dei suoi colleghi, Massimiano, da lui proclamato Augusto nel 286 (5), Galerio e Costanzo, nominati Cesari nel 293. Massimiano schiacciò la rivolta dei Bacaudi nella Gallia settentrionale, ricacciò i Burgundi e gli Alamanni ( 283-86 ), poi combatté ancora con fortuna sul Reno ( 293 ) e condusse una difficile campagna contro i "Quinquegentiani" in Africa ( 297 ), anche questa con esito vittorioso. Costanzo Cloro dal canto suo combatté dapprima contro l’usurpatore Carausio ( 287-93 ) sulle coste della Manica e contro il suo successore Allecto ( 293-97 ) in Britannia, sconfiggendoli; indi si occupò della difesa dei confini sul Reno e in Caledonia. Galerio combatté invece a lungo contro i Carpi, i Sarmati e altri popoli che minacciavano il medio e basso Danubio ( 293-95 ); poi contro i Persiani in Armenia e Kesopotaraia ( 2Q6-97 ) e di nuovo sul Danubio.

Diocleziano scese personalmente in campagna due volte: dal 291 al 295 in Egitto, contro l’usurpatore Achilleo che si era chiuso in Ales-sandria (6) e contro i Blemmii che avevano sconfinato dall’Etiopia (7) e nel 297 in Siria contro i Persiani, dopo la sconfitta iniziale subita da Galerio ad opera di Narseh (8). In entrambi i casi l’imperatore non scese mai in campo alla testa delle truppe ma lasciò ai suoi generali il compito di condurre personalmente le operazioni. Dopo il trattato di pace firmato con la Persia, Diocleziano risiedette quasi sempre a Nicomedia, la sua capitale, di dove continuava in realtà a dirigere gli affari di tutto l’Impero. Nel 303 si indusse a venire per la prima e ultima volta a Roma, la vecchia capitale spodestata che lo accolse con palese disapprovazione nonostante i fastosi spettacoli da lui offerti (9). Fu quella la sola visita di Diocleziano in Italia, l’antica culla dell’Impero, che per sua mano aveva disceso l’ultimo gradino della decadenza, essendo stata equiparata giuridicamente ed economicamente alle altre province. Da Roma ripartì in fretta, con evidente disagio, e per la Via Flaminia passò a Ravenna, viaggiando in una lettiga chiusa sotto la pioggia insistente, tormentato dagli acciacchi (10). Di qui solo al sopraggiungere della buona stagione procedette lungo il Danubio, rientrando a Nicomedia ove trascorse l’ultimo periodo del suo regno (11) e di dove, raggiunto da Galerio, condusse la sua sanguinosa persecuzione contro i Cristiani.

Riassumendo: se Giorgio entrò nell’esercito nei primi anni del regno di Diocleziano, e se fu al suo fianco quale ufficiale delle truppe comitatensi, certamente dovette prender parte ai fatti d’arme di Egitto e di Siria, fra il 295 e il 297. Così pure, molto probabilmente seguì l’imperatore in Italia nel 303-304, fu con lui a Roma, e fece ritorno alla capitale asiatica per la via del Danubio(l2). Ora, la presenza di Giorgio in Egitto potrebbe essere in relazione con la tradizione che vuole essersi svolta a Selene, città della Libia (13), la famosa lotta con il drago. A prescindere dal valore che si può dare al contenuto di quel celeberrimo episodio della vita del Nostro, la tradizione che pone la lotta col drago in Libia pare debba esser considerata più antica dell’analoga, pretesa avanzata da Berito in Fenicia, l’attuale Beirut, capitale della Repubblica del Libano (14). Quel che intendiamo dire è questo: che la lotta di Giorgio col dragone può essere benissimo considerata del tutto leggendaria, senza che ciò spieghi come si sia voluto associarla con la presenza del santo in Libia. Anche le leggende non nascono dal nulla, ma utilizzano, in origine, dei dati storico-geografici, che vengono poi liberamente elaborati. Ebbene, perché proprio la Libia avrebbe dovuto esser teatro della lotta di Giorgio col drago, quando gli unici dati geografici assolutamente certi della sua biografia erano notoriamente la nascita in Cappadocia e il martirio in Palestina o forse, secondo alcuni, a Nicomedia) ? Perché mai introdurre nella biografia del santo un elemento ‘ulteriormente sconcertante, difficilmente credibile, mediante un balzo di migliaia di chilometri dal teatro della sua esistenza documentata? Certo, si potrebbe obiettare che delle persone discoste a immaginare un drago in carne e ossa non dovrebbero crearsi tanto facilmente dei problemi per una semplice incongruenza geografica; e, in secondo luogo, se accettiamo Berito come teatro della lotta – o della leggenda della lotta – col drago, la difficoltà cade e tutto l’episodio viene riportato molto naturalmente entro l’ambito siro-palestinese ove Giorgio visse. Ma Jacopo da Varazze sembra troppo deciso e sicuro di sé quando pone il fatto a Selene, "città della Libia" (15), e anche se ignoriamo le sue fonti, e se, inoltre, conosciamo la sua ingenuità culturale, pure sembra troppo strano che la Libia sia stata scomodata senza ragione alcuna, Nei prossimi capitoli avanzeremo dunque una personale interpretazione del rapporto che sembra legare questi fatti: la presenza di Giorgio in Egitto, al séguito di Diocleziano, durante le campagne militari del 294-96, il sorgere della leggenda della lotta col drago; il localizzarsi di questa leggenda in Libia. A questo tentativo faremo precedere un breve riassunto della leggenda stessa, così come è riportata dal vescovo Jacopo da Varazze nel suo celeberrimo libro.

(1) Diocleziano nel 284 era comandante della guardia del corpo dell’ imperatore Numeriano, morto, come si è detto, in circostanze misteriose durante il ritorno dell’esercito dalla campagna persiana. Quando il delitto venne scoperto, qualcuno sussurrò il nome del prefetto Apro, il quale si sarebbe già sbarazzato del padre di Numeriano, Caro, e che apertamente ambiva al supremo potere. Diocleziano davanti all’esercito si eresse a vendicatore dei defunti imperatori e accusò Apro, uccidendolo di propria mano senza dargli il tempo di discolparsi. Questo zelo eccessivo fece nascere il sospetto che i due fossero stati d’accordo in precedenza, o addirittura che lo stesso Diocleziano avesse eliminato Numeriano che viaggiava in una lettiga chiusa: niente di più facile per lui, quale capo della guardia personale dell’imperatore.

(2) B.M. Margarucci Italiani, "II titolo di Pammachio, Santi Giovanni e Paolo", Venezia, 1967} e G. Ricciotti, "L’imperatore Giuliano l’Apostata", Milano, 1956, pp.254-55.

(3) II primo di essi fu l’africano Lucio Settimio Severo, di Leptis Magna, primo imperatore provinciale di lingua non latina ( parlava il punico ed era un fervente ammiratore di Annibale ), portato al potere dalle legioni di Pannonia dopo una sanguinosissima guerra civile scoppiata alla morte di Gòmmodo, l’ultimo sovrano della dinastia antonina ( 192 d.C. ). Anch’egli cercò di fondare una dinastia, ma il dominio dei Severi venne infranto nel 236 dal "semibarbarus" Massimino il Trace, che alcuni vogliono addirittura di stirpe gotica ( cfr. Jord., "Get.", XV ). Da allora e fino all’avvento di Diocleziano, nel 284-85» la maggioranza degli imperatori furono di origine militare: tra essi Filippo l’Arabo, Decio, Treboniano Gallo, Emiliano, Claudio II il Gotico, Aureliano, Probo, Caro.

(4) W. Jilnssli^, "Valerius Diocletianus", in "Real Encyclopadie" di

Pauly-Wissowa, voi. VII A 2, col. 2420-2495.

(5) Si suoi tradurre il termine "tetrarchia" come "governo di quattro imperatori", ma in effetti vi erano solo due imperatori, i due Augusti Diocleziano e Massimiano, teoricamente uguali, ma con una effettiva preponderanza del primo in qualità di "Augustus senior". Galerio e Costanzo erano solo Cesari e cioè, al tempo stesso, collaboratori degli Augusti e imperatori designati alla successione.

(6) Achilleo si era fatto proclamare imperatore in Alessandria nel dicembre del 294 d.C. ( cfr. Oros., "Hist. adv. pag.",VII,25,8). Diocleziano era subito accorso con un forte esercito, ma l’assedio si era protratto per ben sette mesi, fino al giugno del 295, quando la città aveva dovuto arrendersi per sete dopo il taglio delle condutture d’acqua.

(7) Nel 29! Diocleziano era sui confini meridionali dell’Egitto, nella Nubia, e combatteva contro i Bleminii a Busiride e a Gopto, questa ultima distrutta nel corso della guerra. Dopo la campagna, l’imperatore riportò indietro la frontiera dell’Alto Egitto sino a File e a Massimianopoli, ove furono stabiliti i nuovi capisaldi della difesa. Cfr. A. M. Levi, "L’Impero Romano", Milano, 1973 (3 voli.)» Ili, p. 955-

(8) Cfr. Oros., "Hist. adv. pag.", VII, 25, 9-11; Lact. , "De mort. pers.", IX, 5-7.

(9) Per le feste dei "Vicennalia", ossia il venissimo anniversario della sua ascesa al potere, alla fine del 303 ( Diocleziano era stato proclamato Augusto dall’esercito il 17 settembre del 284 )•

(10)Diocleziano partì da Roma a metà dicembre del Ì03, in condizioni di salute cattive, aggravate dall’inclemenza del clima invernale. A gennaio era a Ravenna, ove assunse il consolato per la nona volta. Cfr. Lact., "De mort. pers.", XVII, 1-4.

(11) Rientrato a Nicomedia verso il settembre del 304, volle presenziare alla dedicazione di un circo da lui fatto costruire nella capitale asiatica. Subito dopo la sua salute, già gravemente compromessa dagli strapazzi del viaggio in Italia, cedette di schianto. Per alcuni mesi non si seppe più nulla di lui. Il 13 dicembre correva silenziosamente la voce che fosse già morto. Solo il 1°marzo riapparve in pubblico, guarito, ma quasi irriconoscibile per i segni della malattia. Cfr. Lact., op. cit., XVII, 5-9.

(12) Ma su questo punto della biografia del Nostro, cfr. quanto diremo al cap. XVII ("Il cavaliere della fede").

(13) Cfr. J. Da Varazze, "Legenda aurea", ed. cit., p. 265. Il nome ha poi subito diverse alterazioni nelle varie rielaborazioni letterarie della leggenda di S. Giorgio e il drago.

(14) Cfr. "Enciclopedia Italiana", voce "San Giorgio", vol. XVII, pp. 173-74.

(15) Al tempo di Diocleziano vi erano due province libiche: Libya Superior (Cirenaica) e Libya Inferior ( Marmarica e Oasi di Ammone).

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XI. S A N GIORGIO E IL DRAGO.

Di Jacopo da Varazze, autore del famoso libro "Legenda aurea" e fonte importante per la biografia di San Giorgio, non sappiamo molto. Nato a Varazze in Liguria nel 1228 ( donde il suo soprannome, corrotto dipoi in Voragine e Voragine), nel 1244 entrò a soli sedici anni nell’ordine dei predicatori domenicani. Nel 1265 divenne priore del suo convento e nel 1267 padre provinciale della Lombardia. Nel 1285 si dimise volontariamente dall’incarico e nel 1288 rifiutò una prima volta l’elezione vescovile, ma quattro anni dopo, nel 1292, dovette accettare quasi a forza l’elezione a vescovo di Genova, nonostante la sua ritrosia fosse dovuta al fatto che si sentiva inferiore al compito, nel più puro ‘ spirito della modestia cristiana (1) egli ricoprì la carica dando prova di grandi capacità e di alta responsabilità morale, contribuendo fra l’altro alla pacificazione della sua città divisa dalle contese fra le casate aristocratiche. Mori il 14 luglio del 1298. La sua produzione letteraria, fa cospicua: di essa ci restano i "Sermoni", i "Commentari di S. Agostino", una cronaca di Genova dalla sua fondazione al 1295 e, soprattutto, la "Legenda aurea" (2), il libro che lo rese famoso in tutto il mondo, voluminosa raccolta di vite di santi d’ogni tempo e paese. Anche la data di composizione di quest’opera è incerta: possiamo dire soltanto che essa fu scritta o prima del 1255 o dopo il 1266. Le sue fonti principali sono i sermoni di S. Ambrogio, i "Dialoghi" di S. Gregorio Magno e varie raccolte biografiche di santi e opere di edificazione religiosa. Si tratta certamente di un materiale scientificamente molto spesso inattendibile, e il "buon vescovo genovese se ne servì con scarso spirito critico, sì che l’alto valore poetico della "Legenda" non è pari al suo valore dal punto di vista storico. Le incongruenze, le ingenuità e tutto quello che alla raffinata sensibilità critica dei moderni suona come astrusità o contraddizione, non solo è ben presente nella "Legenda", ma ne forma invero il nucleo principale. Dovremo perciò procedere con estrema cautela nell’utilizzare quest’opera ai fini della biografia di San Giorgio.

Narra dunque Jacopo da Varazze che Giorgio di Cappadocia, tribuno militare romano, arrivò un giorno alla città di Silene, in Libia. Presso la città si estendeva uno stagno "vasto come il mare" dal quale usciva un drago orrendo che divorava uomini e armenti e il cui fiato micidiale uccideva perfino coloro che cercavano rifugio sulle mura. Gli abitanti, dopo aver fatto alcuni inutili tentativi per ucciderlo, si eran visti costretti a offrirgli in pasto ogni giorno due pecore; poi, venendo meno gli animali, una pecora e un uomo, estratto a sorte fra gli infelici cittadini. Un giorno le sorti caddero sull’unica figlia del re. Egli tentò in ogni modo di salvare la fanciulla dall’orribile fine, ma gli abitanti, essendo entrato ormai il lutto in ogni famiglia, lo forzarono a rassegnarsi. Così la giovinetta, chiesta la benedizione del padre, uscì tutta sola dalla, città incontro al suo destino, mentre il popolo si accalcava sulle mura. Fu proprio in quel momento che sopraggiunse Giorgio sul suo cavallo. Vedendola in lacrime, e notando la folla sui bastioni, le domandò che cosa avesse. Ella per tutta risposta lo invitò a fuggire via subito, ma così non fece altro che accrescere la curiosità di Giorgio. Mentre parlavano ancora, il mostro emerse dalle acque del lago, e subito la fanciulla esortò il santo a fuggire finché era in tempo. Ma Giorgio partì lancia in resta contro il drago e lo affrontò tutto solo. Qui Jacopo fornisce due versioni della lotta. Secondo la prima, egli ferì il drago gravemente, tanto che la figlia del re fu in grado di portarlo in città manuseto come un cagnolino. Il popolo ne fu atterrito, ma poi, tranquillizzato da Giorgio, ricevette in massa il battesimo cristiano; dopo di che il santo uccise il drago. Secondo l’altra versione, Giorgio, fattosi il segno della croce, partì al galoppo contro il mostro e lo uccise al primo assalto. Ci vollero quattro paia di buoi per portare via il corpo del drago caricato su un carro. Poi Giorgio ripartì, rifiutando dal re una forte somma di denaro e dicendogli di distribuirla ai poveri. Prima di andarsene, diede al re questi quattro ammaestramenti: di curare le nuove chiese, onorare il clero, ascoltare la messa e assistere gli indigenti. In quel giorno avevano ricevuto il battesimo ventimila maschi adulti e il re aveva ordinato la costruzione di una chiesa dedicata alla Madonna e al beato Giorgio, dalla quale scaturì poi una fonte miracolosa,. Qui finisce il raccolto del drago.

-: I problemi che questo racconto solleva sono tali e tanti che è ‘quasi inutile sottolinearne l’importanza. L’episodio della lotta col drago è talmente famoso da essersi imposto nel tempo su ogni altro fatto della biografia del santo e perfino sul martirio, che costituisce il culmine dei racconti agiografici relativi a tutti questi martiri militari del III secolo. Quando sentiamo parlare di San Giorgio, la nostra niente istintivamente corre alla lotta col drago, tanto che ormai è per noi impensabile separare la figura del santo guerriero da quella del mostro da lui vinto e ucciso. Ciò è dovuto a una lunghissima tradizione iconografica che giunse al suo culmine nel Rinascimento coi capolavori di artisti come Vittore Carpaccio, Paolo Uccello, Andrea Mantegna ed altri, ma che in ogni città d’Europa e d’Italia, si può dire, con una chiesa dedicata a San Giorgio e con i dipinti e le sculture a lui riferentisi, ci ha abituati a questa immediata associazione d’idee. Ma come è nata, la leggenda di San Giorgio e il drago? Jacopo da Varazze non la inventò di certo; come vedremo, a partire dal 1200, col ritorno dei Crociati dalla Terra Santa, vi fu un prodigioso rifiorire del culto di San Giorgio nell’Europa occidentale; ma né Jacopo, né i suoi contemporanei, inventarono la leggenda del drago. Disgraziatamente, per quanto riguarda la "biografia di San Giorgio contenuta nella "Legenda aurea", il problema delle fonti – che sarebbe per noi di estremo interesse – non è stato ancora risolto in maniera soddisfacente. Quel che è certo, né Vincenzo Bellovacense, né San Ambrogio, né San Gregorio, le sue fonti principali, possono offrirci il bandolo della matassa (3). L’unico dato sicuro è che la leggenda della lotta col drago non fu inventata da Jacopo da Varazze ( egli non inventò mai nulla ), poiché esisteva anteriormente e, anzi, pare che fosse a quel tempo già vecchia di parecchi secoli. Torneremo più avanti sull’argomento: qui basterà dire che essa è già presente in un manoscritto greco della Biblioteca Ambrosiana (4) e che gli studiosi che si sono occupati del problema sono certi dell’antichità di essa. Come dice un noto studioso italiano di folklore, il Toschi, Jacopo da Varazze non fece altro che accreditare un racconto che circolava da molti secoli nella tradizione orale, e già per questo contribuì ad accreditarlo (5). Egli afferma anche che la leggenda del drago era "ab antiquo" localizzata in Palestina, col che, come si è detto, non siamo d’accordo, anche per il fatto che non si vedrebbe come e perché l’acritico, ma scrupoloso, vescovo di Genova, avrebbe sentito il bisogno di spostarla in Libia. Sul problema della localizzazione geografica della lotta col drago torneremo fra breve. Ora il problema che ci poniamo è: se Jacopo non trasse dal nulla l’episodio del drago, di dove attinse nel suo racconto? Si trattava, come abbiamo detto, di una semplice tradizione orale: ma dove essa ebbe origine, e quando, e come; e inoltre, giunse fino a Jacopo inalterata attraverso i secoli, o subì delle modificazioni? E se sì, quali?

La grande maggioranza degli studiosi , nel considerare i problemi posti dalla leggenda di San Giorgio e il drago, sono partiti mettendo in evidenza le analogie esistenti fra essa e il mito greco di Pèrseo e Andromeda. Veramente, sono più d’uno i miti ellenici che presentano analogie più o meno .marcate con la leggenda di Giorgio e il drago: a cominciare da quello di Tèseo che uccide il Minotauro, liberando la città di Atene dall’incubo dell’olocausto annuale dei suoi giovanotti, fino a quello di Ercole che uccide l’idra di Lerna, il cui fiato spopolava i campi dell’Argolide, e a quello di Giàsone che con l’aiuto di Medea uccide il drago posto a guardia del vello d’oro del re della Còlchide (6). Del resto, lo stesso mito di Pèrseo presenta almeno due episodi che possono esser messi in relazione con quello di Giorgio e il di1 ago: quello dell’uccisione della Gòrgone e quello della liberazione di Androraeda e dell’uccisione del mostro marino che stava per divorarla. Ricorderemo perciò brevemente questo famoso mito, noto al grande pubblico forse più per le costellazioni ad esso legate, affinché il lettore possa porre da sé i raffronti e cogliere le possibili derivazioni nella leggenda di San Giorgio.

(1) Cfr. "Del sacerdozio" di Giovanni Crisostomo.

(2) Il titolo latino dell’opera è "Legenda aurea", alla lettera "cose auree (sante ) che devono esser lette". Non "leggenda". dunque, come qualche incauto traduttore ha creduto! Jacopo da Varazze, ancorché non abbia, certamente scritto un libro di storia, credeva : con sincero candore alla verità del proprio racconto; mai e poi mai lo avrebbe definito una "leggenda", ossia una raccolta di fatti riconosciuti come più o meno fantasiosi.

(3) Per i rapporti tra S. Ambrogio e Jacopo da Varazze, cfr. A. Kil-mart, "Sant Ambroise et la legende dorée", Roma, 1936.

(4) Manoscritto n. 158 Bibl. Ambros. Med.

(5) P. Toschi, "La leggenda di San Giorgio nei canti popolari italiani", Firenze, 1964, pp. 22-23.

(6) Cfr. "Dizionario di mitologia", Bologna, 1975: "Tèseo", pp.176-775; "Eracle", pp.79-82;"Giàsone, pp.99-100.

XII. ORIGINI DELLA LEGGENDA:

O R I E N T E E G RE C I A

Pèrseo è un nome spreco ( "Pérseus" ) che significa "il distruttore". Secondo il mito egli era un eroe, figlio di Zeus ( Giove ) e di Danae, fecondata dal* dio sotto forma di pioggia d’oro mentre si trovava prigioniera, per volontà del padre Acisto, re di Argo, in una torre di bronzo. Quando nacque Pérseo, il disumano re chiuse madre e figlio in una cassa di legno che poi fece gettare in mare. Essi però scamparono alla morte e le onde li sospinsero sulla spiaggia dell’isola di Sèrifo, governata dal re Polidette. Questi accolse i naufraghi e finì per innamorarsi della bella Danae, ma le sue attenzioni vennero respinte. ‘Deluso e infuriato, trattenne la madre come schiava e per liberarsi del figlio di lei lo mandò in Libia con l’impossibile compito di uccidere Medusa, una delle tre sorelle Gòrgoni, dalla chioma di serpi e dallo sguardo capace di pietrificare chiunque lo incontrasse. Pérseo non si perdette d’animo e partì (1), aiutato da Athena ( Minerva ) e da Ermes ( Mercurio ). Dalle Graie ( o Pòrcidi ) venne a conoscenza della dimora di Medusa e riuscì a ucciderla, troncandole il capo, senza guardarla in viso ma servendosi di tono scudo riflettente. In groppo al suo cavallo alato Pègaso l’eroe sfuggì quindi all’inseguimento delle altre due Gòrgoni, portando seco la testa mozza di Medusa, e con essa pietrificò il gigante Atlante che gli aveva rifiutato ospitalità. Qui finisce la prima parte del mito.

Nella seconda parte si narra come Pérseo, durante il viaggio di ritorno, passando a volo sulle coste dell’Etiopia (2), vide una "bellissima fanciulla incatenata in riva al mare. Si trattava di Andromeda, figlia del re Cefeo e della regina Cassiopea, e che era destinata a divenir pasto di un mostro marino sterminatore. Infatti la superba Cassiopea aveva offeso le Nereidi e Poseidone ( Nettuno ), loro padre, per vendicarsi, aveva mandato il drago a menare strage degli abitanti. Pérseo si commosse alla sorte dell’infelice fanciulla e se ne innamorò, affrontò il drago e lo uccise. Liberata quindi Andromeda, la chiese in sposa, ma essendosi i genitori di lei macchiatisi di spergiuro, li pietrificò servendosi del capo di Medusa e ripartì conducendo seco la giovane sposa. Il mito si conclude col ritorno a Sèrifo dell’eroe, che libera la madre Danae pietrificando anche il suo carceriere Polidette. Tutti i protagonisti di questo mito furono dipoi trasformati in costellazioni celesti.

Il mito di Pérseo è certamente, per tipologia, ambientazione e altri aspetti, uno dei meno schiettamente ellenici della mitologia greca (3). Infatti molti elementi di esso si ritrovano già in antichissimi miti egizi e babilonesi e, in generale, si può dire che in tutta la storia di Pérseo si respira un’atmosfera chiaramente influenzata dalle tradizioni mitologiche dell’Oriente. Gli studiosi hanno stabilito come data approssimativa di origine di questo mito il 1.400 a. C., ossia un’età di vari secoli anteriore alla nascita del ciclo omerico; d’altronde la storia di Pérseo, notevolmente lunga ed elaborata, appare chiaramente il frutto di una serie di stratificazioni successive, avvenute in epoche diverse e in disparati ambienti culturali, aperta ad arricchimenti provenienti da tradizioni eterogenee. Arriviamo così alla conclusione che, se in una certa misura la leggenda di San Giorgio si rifà al mito di Pérseo, dobbiamo necessariamente risalire ancora più indietro nel tempo e nello spazio per raggiungere le sorgenti ultime. Naturalmente si potrà obiettare che quel che importa, in definitiva, è sapere se il mito di Pérseo entrò o meno nella elaborazione della lotta di San Giorgio col drago, indipendentemente dalle sue origini. Un primo raffronto tra i due miti mostra a prima vista delle affinità indubbiamente notevoli. Sennonché, ci permettiamo la domanda: in che modo una leggenda greco-asiatica antica di quasi duemila anni entrò un bel giorno a far parte della biografia di un martire cristiano? Dove? Quando?

Coloro che studiano l’origine dei miti a tavolino, e a grandissima distanza di tempo dalle tradizioni in questione, non trovano di solito molte difficoltà nell’istituire dei rapporti di derivazione fra cicli leggendari disparati; ma tutto questo può andar bene, appunto, a tavolino, e a decine di secoli dalla nascita di tali leggende. Ora, il nostro caso è questo. Un soldato romano, un ufficiale di religione cristiana, affronta coraggiosamente il martirio durante la persecuzione di Diocleziano, all’inizio del secolo IV. Pochi decenni dopo la sua morte, e dopo la vittoria del Cristianesimo sotto Costantino il Grande, il suo culto è già saldamente affermato in Palestina e si diffonde in tutto il Vicino Oriente, fino alle province dell’Impero di lingua latina. Le "passiones" che a lui si riferiscono ( la più antica è di quasi due secoli posteriore alla sua morte ) non parlano dell’episodio del drago: esso sorge, non sappiamo esattamente quando, in epoca alquanto posteriore, prima comunque delle Crociate e non – come molti affermano – dopo il ritorno dei Crociati dalla Palestina. La tradizione del drago circolò lungamente in forma soltanto orale; solo dopo un certo tempo, nel citato manoscritto greco e nella "Legenda aurea" di Jacopo da Varazze, essa viene fissata per iscritto; e il lasso di i; tempo è stato così lungo che quella di Jacopo, nel secolo XIII, presenta tutte le caratteristiche di una vera riscoperta. Insomma la tradizione orale della lotta col drago dovette nascere, in ambiente orientale ( palestinese ) o africano ( egiziano ? ), dopo il Y secolo, data della "passio" citata dal "Decretum Gemasianum", e non oltre il IX o il X, con ogni verosimiglianza. (4) Ora, il problema che solleviamo è questo: come poté, un giorno, una qualche comunità cristiana del Vicino Oriente, devota al culto del martire militare, innestare bellamente, senza un batter di ciglia, la leggenda di Pérseo nella biografia di San Giorgio? E, ancor più, come poté essere accettata, e, per quanto caduta poi quasi in oblio, rilanciata con tanto successo dal vescovo di Genova nel 1200 per tutto 1′ Occidente?

Si può sospettare clje la Chiesa bizantina, che costituì un decisivo fattore di continuità tra Occidente e Oriente per quasi tutto il Medio Evo, e nella quale il Nostro è venerato senz’altro come "il grande martire", abbia fatto da tramite e quasi da ponte per il balzo prodigioso della leggenda ( e del culto ) di Giorgio dall’Asia in Europa. Ma il problema rimane: può mai essere che la Chiesa del Medio Evo abbia fatto proprio, senza alcuna esitazione, un mito connesso col Pantheon pagano dell’antica civiltà ellenica? Noi non vogliamo certo negare che il mito greco – e in parte, come abbiamo visto, pre-ellenico, di Pérseo, e specialmente l’episodio della liberazione di Andromeda, sia entrato a far parte delle fonti lontane della leggenda di San Giorgio che uccide il drago. Quel che mettiamo in Subbio è che il mito greco sia stata la sola o la principale fonte della tradizione cristiana. Di conseguenza, per cercare una risposta ai nostri interrogativi, ci sposteremo dal terreno della mitologia greca a quello della mitologia biblica, alla ricerca di qualche traccia più idonea a spiegare il nascere della tradizione della lotta di Giorgio con il drago.

(1) A questo punto, naturalmente, bisogna supporre una incongruenza cronologica, oppure un lasso di tempo di una ventina d’anni almeno fra l’arrivo di Danae VIII, 27,col neonato a Sèrifo e la partenza di Pérseo alla ricerca di Medusa.

(2) Si tenga presente che per gli antichi Greci e Romani col nome di "Aethiopia" non si designava l’acrocoro che oggi porta quel nome, bensì la regione immediatamente a mezzogiorno della Nubia (l’odierno Sudan settentrionale), con le città di Napata e Meroe, capitale – quest’ultima – del regno più importante. Poiché i Romani avevano guerreggiato con una regina di Napata (forse una reggente) con un occhio solo, si era diffusa la falsa tradizione che quel regno fosse retto da donne. Cfr. La regina "Candace" (in realtà, un nome comune) ricordata in Atti, VIII, 27, come sovrana dell’Etiopia.

(3) Cfr. "Dizionario di mitologia", cit., pp. 150-151.

(4) Abbiamo infatti visto come Jacopo da Varazze attingesse a fonti orali che, ai suoi tempi, erano già antiche di parecchi secoli.

XIII. LE ORIGINI DELLA LEGGENDA:

LE SACRE SCRITTURE

Una lontana prefigurazione tra le forze del bene e quelle del male, rispettivamente sotto la forma della Donna e del serpente, si trova nel libro della "Genesi", il primo del Pentateuco e della Bibbia, tradizionalmente attribuito a Mosé o da lui ispirato ( sec. XIV a. C. circa). Dopo aver narrato la tentazione di Adamo ed Eva e il peccato originale, vi si legge che "il Signore disse al serpente: Poiché tu hai fatto questo, sii maledetto fra tutti gli animali e tutte le bestie della campagna; striscerai sul tuo ventre e mangerai la polvere per tutti i giorni della tua vita! Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua discendenza e la sua; essa ti schiaccerà il capo e tu la insidierai al calcagno" (1). Profezia che si apre col primo libro della Bibbia e si chiude, in forma escatologica, con l’ultimo, che al passo citato della "Genesi" sembra rifarsi direttamente. Come è noto, la questione dell’autore del libro dell’"Apocalisse" è di quelle che tengono ancora divisi gli studiosi della Sacra Scrittura, né del resto ci importa qui approfondirla (2), ferma restando la data di composizione verso la fine del secolo I d. C. Il capitolo XII dell ‘"Apocalisse" si apre con questa visione: "Poi un gran segno apparve nel cielo: una donna rivestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie del parto e le angosce nel dare alla luce. Intanto apparve un altro segno nel cielo: un gran dragone, dal colore del fuoco, con sette teste e dieci corna e sette diademi sulle teste. La sua coda trascinava la terza parte delle stelle del cielo e le precipitò sulla terra. Poi il dragone si pose davanti alla donna che stava per dare alla luce, per divorare il figlio appena fosse nato. Ella diede alla luce un figlio maschio, destinato a pascere tutte le nazioni con una verga di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e il suo trono…". (3) A questo punto si scatena una battaglia tra l’arcangelo Michele alla testa delle legioni celesti e il dragone coi suoi angeli, che vengono precipitati dal cielo: resta loro campo libero sulla terra e sul mare, ma solo per poco tempo, allora il dragone si rivolge contro la Donna, ma ella fugge nel deserto volando con ali d’aquila; esso le vomita contro un fiume d’acqua per travolgerla, ma la terra si apre ad inghiottirlo.

Impotente a farle del male, si rivolge contro la sua progenie, i credenti del Vangelo di Gesù, e infine si apposta sulla riva del mare in attesa del cimento supremo (4).

La lettura allegorica di questo brano non presenta soverchie difficoltà: la Donna indica la Chiesa e al tempo stesso la Madre di Mo; le dodici stelle sono gli apostoli; le stelle trascinate dalla coda del dragone sono gli angeli ribelli; il figlio della Donna è Gesù, il Redentore dell’umanità; il fiume vomitato dalla gola del mostro sono le persecuzioni. Quanto al dragone, che si tratti proprio del serpente ricordato nel libro della "Genesi", è detto in forma esplicita dall’autore dell"’Apocalisse": "E il gran dragone fu precipitato, l’antico serpente, che si chiamava diavolo e Satana, il seduttore del mondo intero…". (5) Infatti "diavolo" in greco significa " calunniatore" e Satana e 1’"avversario". Ora, il drago era in tutto l’Oriente, cristiano e pagano, figurazione trasparente del demonio: e vincere il peccato, vincere la tentazione, vincere la prova della persecuzione era, nella Chiesa primitiva, una vittoria sul demonio stesso. In questo stesso passo il libro dell’"Apocalisse", dopo aver narrato la sconfitta e la caduta del dragone, esulta: "Ecco venuta finalmente la salvezza, la potenza, il regno del nostro Dio e la sovranità del suo Cristo; perché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che giorno e notte li accusava davanti al nostro Dio. Ora, essi l’hanno vinto in virtù del sangue dell’Agnello e con la parola della loro testimonianza, ed hanno disprezzato la loro vita fino al punto di accettare la morte…". (6) In questa prospettiva, i martiri che disprezzando la propria vita si espongono ai tormenti e alla morte e "rendono testimonianza" a Gesù Cristo sono i vincitori di Satana, il dragone. Perciò anche Giorgio, come martire della parola, combatté e vinse il dragone, "l’antico serpente", proprio come 1′.arcangelo Michele lo aveva vinto e precipitato materialmente in una battaglia vera e propria. Michele era infatti l’arcangelo guerriero per eccellenza, così come Gabriele era l’annunciatore; e come il guerriero Michele aveva affrontato il diavolo nella lotta celeste, così il soldato Giorgio di Cappadocia affrontò e vinse, col martirio, il diavolo nella sua personale lotta terrestre per la salvezza eterna. Questo può spiegare un accostamento fra Michele e San Giorgio, che altrimenti non si spiegherebbe come e perché solo Giorgio, fra tanti martiri cristiani, fu scelto a simbolo della lotta vittoriosa col dragone.

Però siamo ancora lontani dalla soluzione del nostro problema. L’identificazione del drago con il diavolo è certa, così come è chiara l’identificazione del martire Giorgio, ufficiale romano, col soldato di Dio per eccellenza. Però istituire una connessione diretta fra questi elementi generici della tradizione biblica e della simbologia paleocristiana, e i dati della biografia storica del santo, ci parrebbe quanto mai azzardato. Come nel caso del mito greco di Pérseo, infatti, non si capisce come e perché, a un certo momento, i dati della simbologia dualistica luce-tenebra sarebbero stati puramente e semplicemente calati nella vicenda personale di uno dei tanti martiri pre-costantiniani, senza che nessuno si accorgesse dell’errore di trasposizione e lo denunciasse.

(1) Gen., I, 14-15.

(2) Per una introduzione al problema, ved. M. E. Boismard- E. Cothenet, "La tradizione giovannea", tr. it. Roma, 1978, p. 44 sgg.

(3) Apoc., XII, 1-5.

(4) Cfr. Apoc., XII, 6-18.

(5) Apoc., XII, 9.

(6) Apoc., XII, 10-11.

(7) Cfr. Apoc., XII, 7 sgg.; Dan., X, 13; Giuda, 9.

XIV: ORIGINI DELLA LEGGENDA:

CONCLUSIONI

Abbiamo a suo tempo ricordato come un governatore della Spagna (1), di nome Daciano, si macchiasse di una feroce persecuzione anticristiana ai tempi di Diocleziano, tanto da esser chiamato dalle sue vittime "il drago degli abissi", là dive "drago" sta, come si è visto, per "demonio", e gli "abissi" sono, evidentemente, i regni infernali. Una erronea tradizione volle che fosse proprio questo Daciano l’esecutore materiale del martirio di Giorgio; ma poi si finì per non comprendere chi fosse questo Daciano, lo si suppose – erroneamente – un imperatore persiano (prima redazione della "passio", il palinsesto greco della fine del V secolo) e, più tardi, ancora, lo si corresse con Diocleziano, l’imperatore romano.

Ora, noi dobbiamo immaginare per un momento che le cose siano andate così. La tradizione orale più antica ricordava come il santo Giorgio di Cappadocia avesse subito il martirio ad opera del "drago degli abissi", ossia, come allora si usava dire per i martiri che fino all’ultimo avevano testimoniato per la loro fede

(2), Giorgio aveva "vinto il drago". Poi questo racconto giunse alle orecchie di qualcuno che non aveva conosciuto direttamente né Giorgio, ne la sua vicenda: diciamo pure una comunità cristiana fuori dell’ambito geografico e culturale entro cui la tradizione della "passio" del santo era nota. Ci occuperemo in séguito del problema di localizzare geograficamente queste tappe intermedie della tradizione agiografica; per ora proseguiamo nella nostra ipotesi. Questo qualcuno, che senti parlare di una lotta vittoriosa di Giorgio col drago, non essendo a conoscenza dei particolari storici ne fraintese il significato e pensò trattarsi di una lotta non già figurata, bensì materiale, contro un drago in carne e ossa. Dal momento che Giorgio era un soldato, riusciva tanto più facile accreditare un racconto di per sé molto fantastico: la sua qualità di ufficiale romano, infatti, veniva a integrarsi benissimo, con l’idea di forza e coraggio inseparabili da tale professione, con la figura allegorica dell’intrepido soldato di Cristo che vince e uccide il demonio molto più con l’aiuto della fede e del segno della croce, che col vigore del braccio e la destrezza nell’uso della lancia.

Ma non basta. Un grande erudito bizantino, l’arcivescovo Andrea di Creta ( nato a Damasco verso il 660 d.C., morto nell’isola di Mitilene nel 740 ), l’eroico difensore del colto delle immagini contro l’imperatore iconoclasta Leone III l’Isaurico, poeta e musicista oltre che uomo di Chiesa, contribuì potentemente ad accreditare la leggenda del drago. In un panegirico dedicato a San Giorgio, egli tra l’altro scrisse: "Benedictus Dominus qui non dedit nos in praedam dentibus eorum"

(3). Ora, alla mentalità critica dei moderni potrebbe sembrare incredibile che sulla scorta di una frase dal significato un po’ ambiguo, possa crescere e svilupparsi una leggenda così tenace e diffusa. Ma tutto questo è, appunto, il frutto della nostra mentalità critica di uomini del XXI secolo. Casi come quello ora descritto, infatti, non solo si verificarono, ma furono anche frequenti nella tradizione agiografica medioevale. (4) Si tenga inoltre presente che S. Andrea da Creta, molto probabilmente, non fece che ripetere quanto già aveva udito da altra fonte: pensiamo al manoscritto greco dell’Ambrosiana di Milano; ma pensiamo soprattutto alla tradizione orale relativa al governatore spagnolo Baciano. Jacopo da Varazze non fece altro che interpretare questo testo alla luce della tradizione orale, mescolando i concetti di "persecutore" e di "martirio" con i termini di "drago" e di "vittoria", alla luce anche, forse, di reminiscenze mitologiche greco-orientali, veterotestamentarie e giovannee: e il gioco è fatto.

Questa ipotesi ci sembra avere il vantaggio di non incontrare grosse difficoltà e di non pretendere uno svolgimento troppo complicato o fantasioso. Ma ci sono ancora degli altri fatti, che meritano qui di essere ricordati. Nell’antichissima religione egizia il sole primaverile era simboleggiato dal dio Hor o Horus, figlio di Iside e Osiride. Horus era venerato in Egitto anche come purificatore del Nilo, il fiume da cui l’intero paese traeva la vita. Ebbene: gli archeologi europei (5) rimasero vivamente impressionati quando scopersero, in Egitto appunto, una raffigurazione del dio Horus dalla testa di falco, a cavallo, che trafigge con un colpo di lancia un coccodrillo del Nilo (6). Subito qualcuno pensò a un accostamento col mito di San Giorgio e il drago, tanto più che un particolare della scena era davvero sconcertante: infatti il dio egizio era raffigurato in uniforme romana! Nulla di strano, beninteso, dal punto di vista storico: evidentemente il potere politico, tutto inteso a celebrare il benessere materiale (7) portato nel paese dal governo romano, aveva commissionato questo tipo di opere, diciamo così, a carattere mitologico-propagandistico. Ma cosa di più naturale che pensare a una associazione di idee fra il soldato romano Giorgio, che, si badi, militò e combatté in terra d’Egitto, giusta la nostra ipotesi, è il dio Horus che uccide il dragone vestito da ufficiale romano? Non vinse forse anche il martire Giorgio la sua lotta col "drago degli abissi"? Bisogna considerare inoltre che il culto del santo, in Egitto, aveva, assunto proporzioni notevolissime fra il età di Costantino e l’invasione musulmana ( IV—VII secolo d.G.), con la dedicazione di un gran numero dì chiese e monasteri.

E non è ancora finita. Nel 1204 i Crociati conquistano e saccheggiano la grande, ricchissima e fastosa Costantinopoli. I rozzi cavalieri francesi, tedeschi e italiani si trovano fra l’altro davanti a una immagine singolare: un soldato romano che trafigge con la lancia un dragone, steso ai suoi piedi. Quando la notizia arriva in Europa, subito qualcuno pensa a istituire un rapporto fra questa immagine enigmatica e la leggenda di San Giorgio, ancor viva nell’Oriente bizantino ed ex bizantino ( Creta, Siria, Palestina, Egitto ). Si trattava invece di una immagine dell’imperatore Costantino il Grande ( 306-37 d.C. ), il fondatore della città di Costantinopoli e il primo imperatore romano di religione cristiana. Ne abbiamo l’assoluta certezza perché ci è pervenuta la testimonianza autorevole del massimo storico della Chiesa antica, il vescovo Eusebio di Cesarea ( 265 ca.-340 ca. ). Nella sua biografia dell’imperatore Costantino, infatti, egli fra l’altro scrive (6): "salutare signum capiti suo superpositum imperator draconem ( inimicum generis humani ) telis per medium ventris confixum sub suis pedibus… depingi voluit". Ma i Crociati non lo sapevano: e col culto di San Giorgio, reduci da Costantinopoli, dall’Editto e dalla Palestina, essi importarono anche la leggenda della lotta col drago, di cui avevano trovato qua e là così abbondanti tracce, dalle rive del Nilo fino alla capitale bizantina. .

(1) A quel tempo divisa in quattro province: Tarraconensis, Gallaecia( Galizia ), Lusitania ( l’odierno Portogallo ) e Baetica ( Andalusìa).

(2) Quelli invece che cedevano alle torture e rinnegavano Cristo eran detti "lapsi" o "traditores". Dal rifiuto di riaccoglierli nella Chiesa, passata la persecuzione, da parte dei Cristiani più intransigenti, prese origine in Africa il grave conflitto religioso dei donatisti (IV-V sec.), che Costantino finì per combattere a mano armata.

(3) Ps. 123, 6; cit.in "Bibl. Sanct", cit., col. 515.

(4) Un solo esempio, riferito da Jacopo da Varazze. Di San Giorgio, Ambrogio da Milano aveva scritto: "O felice e illustre soldato di Dio! Non solamente disprezzò l’offerta del potere terreno ma ingannò il suo persecutore facendo inabissare il tempio con tutti i suoi idoli". Tanto basta a Jacopo per scrivere a sua volta che San Giorgio finse di voler abiurare il Cristianesimo e poi, fattosi condurre nel tempio, chiese e ottenne che Dio lo incenerisse con tutti gli idoli e i sacerdoti: cfr. la "Legenda aurea", cit., pp. 269-70.

(5) Il primo a fare un accostamento fra Horus e San Giorgio fu, nel 1876,l’archeologo Clermont-Ganneau.

(6) Un esemplare di questa scena è oggi conservato a Parigi, nel Museo del Louvre.

(7) Eus., "Vita Constantini", III, 3.

XV. L’AMBIENTAZIONE GEOGRAFICA

DELLA L E G G E N D A

Prima di concludere, vogliamo dedicare ancora un po’ di attenzione a una questione che non è senza importanza per l’origine della leggenda di San Giorgio e il drago: 1’ambientazione geografica di essa. Già si è visto come la città di Berito ( Beirut ) fin dal Medio Evo avanzi la pretesa di essere stata teatro della lotta: ma le molte chiese dedicate al santo che vi sorgono (1) sono posteriori all’inizio delle Crociate, e dunque le origini del culto a Beirut sono perlomeno sospette: non vi giunse infatti dopo la "riscoperta" di San Giorgio in Occidente? Del resto, se è vero che una cappella trasformata in moschea sorge tuttora sul luogo del preteso combattimento, è pur vero che molti altri "teatri" della lotta di Giorgio col drago si mostrano ancor oggi, in luoghi che evidentemente nulla hanno a che fare con l’esistenza storica del santo. Bella sola isola di Sardegna se ne mostrano addirittura due: a S. Andre a Frius ( provincia di Cagliari ), detto "u planu e sanguini" ( la pianura del sangue ), l’altro alla fonte di Suelli ( anche questo in provincia di Cagliari ), ove Giorgio si sarebbe lavato le mani dopo l’uccisione del drago. Anche in Sicilia il santo avrebbe fatto la sua comparsa, in urna palude presso Sciacca ( Palermo ) : luoghi tutti certamente fuori dell’ambito geografico in cui visse Giorgio di Cappadocia (2), il quale, come si disse, poté venire in Italia con Diocleziano, ma non certo oltre Roma e tanto meno spingersi fin nelle isole.

Abbiamo invece visto come l’identificazione di Horus con San Giorgio, in Egitto, si sia verificata in presenza di condizioni quanto mai favorevoli, anali una vasta diffusione del culto del santo sulle rive del Nilo e una sua tenace sopravvivenza, grazie all’azione della Chiesa "bizantina, almeno fino alle grandi invasioni dei Persiani e degli Arabi, nel secolo VII. Questo ci riporta alle campagne militari di Diocleziano in Egitto, alle quali probabilmente prese parte anche il nostro. 0ra, Jacopo da Varazze colloca l’episodio del drago in Libia, presso la città di Silene. Certamente egli non se lo inventò, ma attinse a una fonte più antica, forse scritta, forse semplicemente orale. Anzitutto dobbiamo chiederci: che cosa intendevano gli antichi con il termine geografico "Libia"? Non già la regione che solo un tempi moderni, dopo la conquista coloniale italiana ( Tripolitania e Cirenaica ),per la ; quale l’antica denominazione venne riesumata ad indicare il vasto paese desertico posto fra il Mediterraneo, la Tunisia e l’Egitto. Per gli antichi la "Libya" era,in senso lato, tutta l’Africa settentrionale ( ossia tutta l’Africa allora conosciuta ), dalla Mauretania al Nilo, intesa come la terza grande parte del mondo dopo l’Asia e l’Europa. In senso stretto, invece, nell’età dioclezianea quel termine indicava due province desertiche e vuote d’abitanti, la Libya Superior e la Libya Inferior, poste fra la Cirenaica, e l’Egitto e amministrativamente unite alla diocesi di Oriente ( Egitto e regioni medio-orientali fra il Tauro, l’Eufrate e il Mar Rosso ). Ora, il caso vuole che anche il mito di Pérseo che uccide Medusa sia localizzato in Libia ( in senso lato ), così come alla stessa area geografica appartiene il mito di Pér-seo che uccide il drago e libera Andromeda: le coste dell’Etiopia, cioè, come abbiamo visto, del Sudan, tra la Seconda cateratta ( Wadi Halfa ) e la confluenza del Nilo Bianco col Nilo Azzurro ( Khartoum ). Seguiamo il racconto del mito di Perseo e Medusa come lo narra il poeta Marco Anne o Lucano nel suo "Bellum Civile" o "Pharsalia": dopo aver narrato come l’eroe uccise la Gòrgone, così prosegue:

"Aliger in caelum sic rapta Gorgone fugit.

ille quidem pensabat iter propiusque secabat

aera, si media Europae scinderet urbes:

Pallas frugiferas iussit non laedere terras

et parci populis…

… Zephyro convertitur ales

itque super Libyen…" (3).

Così, il volo di Perseo sul suo cavallo alato è deviato sulla parte più interna della Libia: anziché far ritorno al Mare Egeo sorvolando direttamente il Mediterraneo con le sue città industriose, egli compie un ampio giro dapprima verso mezzogiorno, indi verso il levar del sole; e sarà là, sulle coste dell’Etiopia, che scorgerà la bellissima Andromeda incatenata e piangente sulla riva del mare. Ma intanto, mentre passava a volo sulle terre desertiche più interne della Libia, il sangue stillante dall’orrido capo di ‘Medusa era caduto a terra e aveva dato vita ai velenosissimi serpenti dei quali Lucano farà la sua impressionante e famosissima descrizione. Ma non solo serpenti genera il sangue della Gòrgone cadute sulle sabbie:

"Vos quoque, cui cunctis innoxia nomina terris

serpitis, aurato nitidi fulgore dracones,

letifero ardens facit Africa; ducitis altum

aera cum pinnis armentaque tota secuti

rumpitis ingentes amplexi verbere tauros;

nec tutus spatio est elephans: datis omnia leto…" (4)

Raggiungiamo così la conclusione che già nella mitologia greco-romana la Libia era considerata, in quanto terra misteriosa e desertica, rifugio di draghi divoratori di armenti e perfino di elefanti. Non potremmo certo escludere che reminiscenza di questa leggenda siano entrate a far parte degli svariati materiali da cui nacque o di cui si arricchì la tradizione di San Giorgio in lotta col drago, dopo che il governatore Baciano, il "drago degli abissi" ( "draco abyssorum" ), fu scambiato per un drago in senso letterale.

Ma nell’ambientazione geografica della lotta fra San Giorgio e il drago non fu certo solo la mitologia pagana ad aver parte. Ricordiamo infatti che il drago, nella simbologia cristiana, era figura del demonio: e un libro deuterocanonico dell’Antico Testamento, il "Libro di Tobia" ( III sec. a.C.), ci riporta alla regione nord-africana per la localizzazione di un demonio, Asmodeo "il devastatore". Il racconto, che negli elementi mistici, angiolologici e demonologici presenta tracce evidentissime dell’influsso culturale iranico ( si pensi agli Aesma Daeva, i demoni della religione zoroastriana, capeggiati da Ahriman nella lotta contro Ahura Mazda, principe della luce), ci riporta al tempo stesso all’ambiente religioso mithraico (5), ove Giorgio, persiano di Cappadocia, aveva avuto i natali. Ecco il passo del "Libro di Tobia" che in questa sede ci interessa: "L’odore del pesce allontanò il demonio che fuggì nell’Alto Egitto, dove Rafael, inseguitelo, l’incatenò e subito ritornò" (6). Rafael è l’angelo che ha, accompagnato il giovane protagonista, Tobia figlio di Tobit, nel suo viaggio sui monti della Media da Ninive a Ecbatana e che lo assiste nel mettere in fuga Asmodeo, il demone che uccideva fin dalla prima notte tutti i mariti di Sara. Anche qui, dunque, una lotta a tu per tu fra un angelo, simbolo della luce, e un demonio, simbolo delle tenebre del peccato, ha per teatro le regioni nord-africane, e anche qui, come nel caso di Pérseo, come anche in quello di San Giorgio, con esito vittorioso per il campione del bene. Qui però non si parla, genericamente, della Libia ( come per Pérseo e poi per San Giorgio ), bensì dell’Alto Egitto la Tebaide del monachesimo medioevale, da Costantino in poi ). Ora, i commentatori del "Libro di Tobia" spiegano che colà Asmodeo fu vinto e incatenato perché l’Alto Egitto è sinonimo di regione lontana ( un "volo", quello da Ecbatana, di migliaia di chilometri ), desertica e poco conosciuta, quasi al limite del mondo allora noto: e infatti, risalendo il Nilo oltre le cateratte, si entrava nella misteriosa Etiopia (7), ove si favoleggiava di regioni caldissime, abitate da un popolo di pigmei. Ma allora perché specificare "Alto Egitto", e non dire semplicemente "Libia", se veramente si voleva adoperare una espressione geografica vaga e indefinita? Che 1’epressione "Alto Egitto" non sia puramente fittizia, ma vada intesa in senso letterale, di questo erano convinti due moderni esploratori appassionati di demonologia, che penetrarono nel deserto per evocarvi il demone Asmodeo: dei quali uno scomparve per sempre, senza lasciare di sé .alcuna traccia, l’altro fu ritrovato quando ornai aveva perduto la ragione. Quanto a San Giorgio, se fu con Diocleziano in Egitto negli anni dal 291 al 296, è anche possibile, forse addirittura probabile, che abbia preso parte alla breve ma decisiva campagna contro i Blemmii che avevano invaso e devastato, come dicemmo, le città e le terre dell’Alto Egitto. Che non sia avvenuta colà, in epoca assai posteriore alla sua morte, una’ doppia confusione fra San Giorgio ufficiale romano e il dio Horus vestito da soldato romano, e fra il "drago" Baciano da lui "vinto" affrontando il martirio, e il demone Asmodeo incatenato da Rafael, secondo la leggenda, proprio in quella regione?

Un ultimo punto ci resta ancora da chiarire. Jacopo da Varazze scrive che il drago ucciso da Giorgio infestava i paraggi di Silene, città della Libia, anche qui, una specificazione precisa; ma, come ben si comprende, tale da sollevare più interrogativi di quanti ne risolva. La leggenda di San Giorgio si riferisce forse a una località, a una città ben precisa? Il primo impulso del ricercatore, quello di cercare la città di Silene su una carta geografica dell’antica Africa romana, è naturalmente una ingenuità che si rivela ben tosto come tale. Non esistette mai una città di tal nome, né nelle due province che di "Libya" portavano il nome, né nelle vaste distese sabbiose all’interno dell’Africa settentrionale, nemmeno l’etimologia offre molto: Selene dea greca della Luna, Sileno, dio greco figlio di Ermes e una Ninfa, i Sileni, geni delle fonti e delle acque, di origine frigia: tutti questi non hanno evidentemente niente a che fare col nostro caso. Cerchiamo dunque di aiutarci con gli ulteriori particolari della leggenda. Primo: presso la città vi era uno stagno, "grande come il mare", che era appunto la tana del mostro. Si potrebbe pensare alle Sciott-el-Gei-id ( Tritonis lacus ), o anche alle Sirti, che Luciano definisce "incerte tra la terra e il mare" (8). Secondo: la città era governata da un re indigeno, pagano come tutta la popolazione, che fu da Giorgio convertito al Cristianesimo e battezzato. Doveva dunque trattarsi di un regno dell’interno, vassallo dei Romani o anche del tutto indipendente, come ve n’era più d’uno, specialmente sulle montagne dell’Atlante (9), nel III e IV sec. d.C., quando il dominio romano in Africa si era ridotto a una fascia costiera (10), talvolta estremamente sottile. Sotto il regno di Valentiniano I ( 364-375 ) le stesse città della costa tripolina furono attaccate dai barbari del deserto; e durante il regno di Diocleziano, come si disse, Massimiano dovette condurre una dura campagna contro i Quinquegentiani della Mauretania (1l). Se queste supposizioni sono valide, è escluso che la leggenda di San Giorgio e il drago designi la "Libia" in senso stretto, ossia la regione costiera fra la Grande Sirte e l’Egitto. Di conseguenza, cade anche l’ipotesi che "Silene" sia una corruzione di "Cyrene" , città principale della Libya Superior.

A questo punto, però, dobbiamo fermarci per fare il punto della situazione. Se la lotta di Giorgio col drago fu soltanto leggenda, nata dall’equivoco col "drago" Daciano, è una vana fatica quella di volerla localizzare geograficamente sulla scorta dei vaghi dati della tradizione. Certo, per l’erudito non è del tutto senza interesse approfondire dove la fantasia degli uomini di quel tempo, e sia pure fantasia in buona fede, volle localizzare la leggenda. Ma per una biografia storica del santo, tutto questo non è certo essenziale. A noi basta aver gettato un po’ di luce su quegli aspetti svariati della tradizione mitologica pagana e di quella biblica, che possono aver contribuito a ubicare l’episodio della lotta col in Libia. Essi hanno tutti, pur nella loro diversità, un elemento reale in comune: quello di riferirsi alle regioni desertiche nord-africane, che con molta probabilità videro la persona di San Giorgio al tempo in cui guerreggiava in Egitto come ufficiale dell’armata di Diocleziano.

(1) Cfr. C. Astruc, "Saint Georges a Beyrouth", in "Ann. Boll.", LXXVII, 1959) pp. 54-62.

(2) Cfr. P. Toschi, "La leggenda di San Giorgio, ecc.", cit.

(3) Lue., "Phars.", IX, vv. 684-690.

(4) Lue., "Phars.", IX, vv. 727-732.

(5) Mithra era figlio di Ahura Mazda e fu inviato agli uomini per aiutarli nella lotta contro il principio delle tenebre. Perciò il mithraismo fu un diretto discendente dell’antica religione zoroastriana.

(6) Tob., VIII, 3.

(7) Abbian visto che "Etiopia" designava per gli antichi il paese a sud della Seconda cateratta nilotica. Ma così come "Libia" in senso stretto era il paese tra Cirenaica e Marmarica e in senso lato tutta l’Africa sahariana, così "Etiopia" adoperata in senso lato designava le sconosciute regioni a sud della Libia, ossia, a un dipresso, il Sudan ( non lo Stato ) dalla vegetazione steppica. "Etiopi" eran quindi detti, per antonomasia, gli abitanti più meridionali dell’ecumene ( così come "Cimmerii" erano i più nordici ); ma di essi si sapeva quasi solo che avevano la pelle molto scura.

(8) "Syrtes vel primam mundo natura figuram/ cum daret,in dubio pelagi terraeque reliquit": cfr. Lue., "Phars", IX, w. 303-304.

(9) Cfr. Aramiano Marcellino, lib. XXVIII e XXIX.

(10)Fino all’età degli Antonini, guarnigioni militari romane erano state dislocate in permanenza molto all’interno del Sahara, nel cuore del paese dei Garamanti e dei Getuli. Cfr. Th. Mommsen, "L’Impero di Roma", ed. it. Milano, 1973 (3 voll.), III, pp. 219-21. Ma, a partire dalla grande risi del sec. III, esse vennero ritirate e mai più rimandate.

(11)Non si è mai capito esattamente chi intendessero designare con tale nome i distratti storici del Basso Impero. E. Gibbon, in "Storia della decadenza e caduta dell’Impero Romano", ed. it. Roma, 1973 ( 6 voll. ), I, pp. 368-69, si limitò a confutare l’ipotesi che potesse trattarsi delle cinque città greche della Cirenaica ( Pentapoli ) e ad affermare che doveva invece trattarsi di cinque tribù barbare dell’interno. Mommsen ( op. cit., III, pp. 230-31 ) espresse analoga opinione e li collocò al di là degli stagni ( "transtagnenses" ), ossia al di là della zona del Tritonis lacus, ai confini meridionali della Numidia e della Mauretania.

XVI. PERCHÉ PROPRIO L’EGITTO?

Dopo aver scartato Berito e, in genere, l’ambito siro-palestinese per la localizzazione della leggenda di San Giorgio e il drago, abbiamo circoscritto il campo d’indagine all’Africa settentrionale, e più precisamente a una zona dai limiti incerti posta fra le Sirti, l’Alto Egitto e la costa del mar Rosso. Abbiamo anche accennato ad alcuni degli elementi che ci fanno ritenere l’Egitto in genere, e l’Alto Egitto in particolare, come la culla di origine di questa famosa leggenda, la cui vasta cornice Jacopo da Varazze tracciò più genericamente col termine "Libia" e specificò – o credette di specificare – con il nome di una città, Selene o Silene, che oggi è assolutamente impossibile localizzare, posta che sia mai esistita. Vogliamo adesso tentar di approfondire ulteriormente la nostra indagine, e impegnarci nel tentativo di spiegare perché mai proprio l’Egitto debba considerarsi come la patria di gran lunga più probabile della leggenda di San Giorgio e il drago.

Gli elementi da noi portati sinora a sostegno di questa ipotesi sono stati i seguenti: primo, la presenza di Giorgio in Egitto» al seguito di Diocleziano, nelle campagne di guerra contro la ribelle Alessandria e poi contro i barbari Blemmii (l); secondo, l’esistenza di una tradizione iconografica, raffigurante il dio Horus vestito da soldato romano, a cavallo, che trafigge un coccodrillo del Nilo; terzo, la tradizione biblica relativa al demonio Asmodeo, che, secondo il "Libro di Tobia", 1’angele Rafael avrebbe incatenato nell’Alto Egitto dopo la sua fuga da Ecbatana, nella Media. Ad essi si potrebbe aggiungere una possibile reminiscenza del mito di Pérseo che libera Andromeda, mito che venne localizzato già "ab antiquo" sulle coste dell’Etiopia, oasi a un dipresso, del Mar Rosso all’altezza, della Nubia. E, ancora, la tradizione mitologica pagana, assai nota e ripresa da Lucano nella "Pharsalia* » che identifica il deserte nord-africano in genere come patria di mostri, draghi, serpenti mai visti; ossia, secondo la trasparente simbologia del tempo, dei demoni,

Ma ci sono ancora degli alti fatti, piuttosto circostanziati. che ci aiutano a comprendere perché proprio l’Egitto sia divenuto la pretesa cornice storica della lotta di San Giorgio col drago. Fin dai tempi dell’antichità classica, infatti, era diffusa la credenza che l’Egitto venisse periodicamente minacciato da paurose invasioni di serpenti alati dei quali, in verità, poco o nulla si sapeva tranne il nome. Fu Erodoto, il padre degli storici greci (V secolo a.C.), che, con la sua caratteristica avidità di sapere, e anche con la sua altrettanto caratteristica ingenuità, raccolse in proposito le notizie più dettagliate di cui disponiamo. Egli, che visitò personalmente l’Egitto, ci parla in due luoghi delle sue "storie" di questi misteriosi animali. Nel primo (2) afferma di essersi recato di persona a Buto, città dell’Arabia vicina all’Egitto, per raccogliere informazioni sui serpenti alati; dice di averne veduti cumuli di ossa, e descrive la natura dell’uomo; sostiene inoltre che la salvezza dell’Egitto è merito degli Ibis, i quali si levano in volo e fanno strage dei serpenti alati, prima che questi ultimi possano irrompere nella valle del Nilo, per la qual cosa l’Ibis vi è venerato come animale sacro. Infine descrive l’aspetto dei serpenti alati: li di ce simili all’idra e forniti di ali prive di piume, simili a quelle del pipistrello – ossia, a quanto se ne deduce, membranose. Nel secondo passo (3) dice che i serpenti alati vivono appollaiati negli alberi d’incenso, donde gli uomini li allontanano col fumo; cerca di descriverli ulteriormente dicendoli "piccoli di corpo e di vari colori"; li colloca, infine, tra gli animali nocivi come le vipere e sostiene che, essendo esclusivi dell’Arabia, sono per questo giudicati assai più numerosi di quanto non siano in realtà.

Ora, è piuttosto notevole il fatto che un cenno a queste strane creature si trovi anche nell’Antico Testamento e, precisamente nel "Libro di Isaia", scritto o dettato dal più grande dei profeti ebrei prima dell’esilio babilonese. Il passo che a noi interessa si trova nella prima parte del libro (4), che gli studiosi – a differenza della seconda e della terza- tendono ad attribuire realmente al profeta Isaia, nato verso il 768 a. C. e vissuto a Gerusalemme, ove sarebbe morto martire sotto il re Manasse ( 693-639), al principio del VII secolo. Egli era contrario all’alleanza politica del regno di Giuda col faraone in funzione anti-assira, e deprecava l’invio di ambasciatori e di doni in Egitto, adoperando – tra l’altro – queste parole: "Oracolo sulle bestie del Negeb: attraverso una terra di tribolazione e d’angoscia, dimora del leone e della leonessa, della vipera e dei serpenti volanti, essi portano le loro ricchezze sopra i dorsi degli asini, i loro tesori sopra la gobba dei cammelli ad un popolo, che non servirà a nulla…". (5).

Ora, abbiamo visto che, secondo Erodoto, i serpenti alati minacciavano periodicamente di invadere l’Egitto partendo dall’Arabia; qui Isaia – che visse più di duecento anni prima dello storico greco – afferma che la patria di tali animali era il Negeb ( o Negev ), ossia la parte meridionale dell’attuale Stato di Israele ( a quei tempi, l’Idumea. Patria di Erode il Grande ), unica via terrestre fra l’Arabia e l’Egitto. Non vi è quindi contraddizione fra quanto sostengono i due scrittori ma, al contrario, una perfetta integrazione reciproca.

Per quanto riguarda l’identificazione degli strani animali da essi chiamati "serpenti alati",o "serpenti volanti", il problema non appare di semplice soluzione. Werner Keller, un noto studioso e divulgatore di antichitàclassiche, ha supposto trattarsi di cavallette, antico flagello della valle del Nilo, sulla scorta di una radizoone molto diffusa. (6) Questa spiegazione a noi sembra, invece, del tutto inaccettabile, se non altro per la testimonianza di Erodoto che vide con i propri occhi i cimiteri di tali animali e li descrive come ingombri d’ossa di vario aspetto. Dobbiamo quindi francamente confessare che la questione si presenta, coi dati oggi a nostra disposizione, pressoché insolubile. Quel che, del resto, importa rilevare è che già ai tempi di San Giorgio ( ossia circa settecentocinquanta anni dopo Erodoto e quasi mille dopo Isaia ) dei serpenti alati, ormai, non doveva essere sopravvissuta che la leggenda. Si ignorava quale tipo di creature, esattamente, avessero popolato quelle regioni; si sapeva soltanto che, in tempi antichi, avevano minacciato più volte l’Egitto, così come si collocava nell’Arabia meridionale (7) e nel mare Arabico (8) la patria della non meno misteriosa fenice, l’uccello prodigioso che aveva la capacità di risorgere dalle proprie ceneri. (9)

Raggiungiamo, pertanto, la conclusione che sin dai tempi antichi l’Egitto,in quanto circondato da deserti inesplorati, era considerato il come il paese dei draghi, dei serpenti volanti, dei demoni; su quelle regioni correvano, infatti, le leggende più incredibili, che nessun viaggiatore era, a quanto pareva, in grado di confutare. (10) Al tempo stesso, come si è visto, l’Egitto ai tempi di San Giorgio – e anche in seguito, fino alla grande invasione musulmana – era una delle più salde roccaforti del Cristianesimo (11); era, inoltre, la terra ideale del monachesimo (12); e la patria d’infinite schiere di martiri, molti dei quali militari. (13) Cosa di più naturale che associare tutti questi ricordi, tutte queste tradizioni – più o meno confuse – tutti questi dati storici, con la reale presenza del Nostro in terra egiziana, durante le campagne di guerra di Diocleziano? Il passo fra la leggenda e la realtà era breve, e venne compiuto quasi d’un solo balzo. (14)

(1) I Blemmi vanno identificati con i Beja o Begia, popolazione attualmente stanziata tra il Nilo, il Mar Rosso, l’Egitto meridionale e l’Eritrea settentrionale. Si suddividono in cinque gruppi principali: gli Ababdeh dell’Egitto; gli Amarar, gli Hadendca e i Bisciarin del Sudan; i Beni Amer dell’Etiopia. Parlano una lingua camitica e praticano la pastorizia nomade di ovini e cammelli.

(2) Erodoto, II, 75-76.

(3) Erodoto, III, 107-109.

(4) La prima parte, attribuita a Isaia, va dal capitolo 1 al 39; la seconda, di un autore anonimo vissuto a Babilonia verso la fine dell’esilio, dal 40 al 55; la terza, scritta in Palestina dopo il ritorno dall’esilio, da 56 a 66.

(5) Isaia, 30, 6.

(6) W. Keller, "Le meraviglie di Erodoto", ed.it. Milano, 1977, pp. 16-17. Ma il Keller scrive che i serpenti volanti menzionati da Isaia vivevano in Egitto, mentre il profeta menziona in forma esplicita il Negeb, ossia la regione immediatamente a sud della Palestina.

(7) Secondo la terminologia degli antichi, Arabia Felix ( odierno Yemen ), per distinguerla dall’Arabia Deserta ( costa occidentale sino all’attuale Golfo di Aqaba e al paese dei Nabatei, nell’odierna Giordania ).

(8) Allora detto mare Erythraeum ( fra le Penisole Araba e Indiana ).

(9) Già Erodoto ne parla in II, 73, senza però menzionare la miracolosa rinascita dell’uccello dalle proprie ceneri. Quest’ultima tradizione è infatti posteriore e raggiunse la massima diffusione, in Occidente, durante il Medio Evo. Forse ciò avvenne non senza qualche commistione con la leggenda araba del mostruoso uccello Rokk, grande come una montagna, di cui si parla anche nelle "Mille e una notte", composte proprio in Egitto dopo il 1000, e che videro la stesura definitiva non dopo il 1400.

(10) Famosa è la mirabolante descrizione dell’Oasi di Ammone contenuta in un frammento delle perdute "Storie" di Olimpiodoro di Tebe, storico egiziano di lingua greca del sec. V d. C. Il deserto, del resto, terra dei miraggi e delle illusioni ottiche, da sempre era ritenuto sede degli spiriti. Ancora secondo Marco Polo ( 1254-1324 ), nel Deserto di Gobi "… si truova tale maraviglia: egli è vero che, quando l’uomo cavalca di notte per lo diserto, egli avviene questo: che se alcuno rimane adietro degli compagni per dormire o per altro, quando vuole poi andare per giugnere gli compagni, ode parlare spiriti in àiere, che somigliano gli suoi compagni, e più volte è chiamato per lo suo nome proprio, e è fatto disviare talvolta in tal modo che mai non si truova; e molti ne sono già perduti. E molte volte ode l’uomo molti istromenti in aria,e propriamente tamburi…" ("Il Milione", cap. XLV). E Isaia, come si è visto, chiama il deserto "terra di tribolazione e d’angoscia".

(11) Possiamo farci indirettamente un’idea della forza del Cristianesimo egiziano considerando che solo colà, dopo secoli e secoli di dominazione musulmana, sopravvive tuttora una compatta minoranza cristiana: quella dei Copti, oggidì circa il 7% dell’intera popolazione dell’Egitto.

(12) I cenobii dell’Alto Egitto, e specialmente della regione di Tebe, già verso il V sec. erano così numerosi che, nel Medio Evo, "Tebaide" divenne il termine che indicava, per antonomasia, una regione abitata dai monaci. Ancora oggi, alle pendici del Monte Santa Caterina (Penisola del Sinai) è attivo un famoso monastero cristiano.

(13) La legione tebana di San Maurizio era stata reclutata, secondo la leggenda, interamente fra i Cristiani dell’Alto Egitto: altra prova indiretta della grande diffusione del Cristianesimo in tale regione. Ancor oggi, del resto, i Copti sono in maggioranza ad Assiut, Akhmîm e in altri centri dell’Alto Egitto.

(14) Noi non ci siamo soffermati, come il lettore avrà notato, sopra la possibilità di una interpretazione non allegorica della lotta di san Giorgio col drago. Ciò non si deve tanto a una posizione razionalistica preconcetta, quanto alla impossibilità di giungere a conclusioni positive o, comunque, a verifiche – sia pur vaghe – della questione. Tuttavia, se qualcuno si sentisse in grado di battere anche questo difficile sentiero, ci sembra di poterlo mettere sulla strada ricapitolando i seguenti fatti, sintesi di una nostra ricerca più vasta riguardante la criptozoologia. Primo: la leggenda avrebbe potuto trarre origine da un fatto reale e del tutto naturale, per es. dalla lotta del Nostro con un feroce coccodrillo del Nilo (cfr.quanto detto sul dio Horus vestito da soldato romano che trafigge con la lancia, appunto, un coccodrillo). Secondo: gli antichi Romani avevano una conoscenza alquanto approssimativa della fauna esotica, nonostante le "venationes" (cacce alle fiere nell’anfiteatro) e lesfilate trionfali di generali e imperatori, nelle quali si potevano ammirare anche campioni di animali catturate in lontane regioni: grande scalpore fecero le giraffe ("camelopardales") nel trionfo di Aureliano del 272 d. C. ("Historia Augusta", "Div. Aurel.", 33-34). Nel Medio Evo non c’erano più né gli spettacoli né i trionfi; quasi tutto quel che si sapeva della fauna dell’Africa, dopo che l’invasione araba ebbe tagliato i contatti fra le due sponde del Mediterraneo, era basato sui confusi ricordi dell’antichità. Non può essere allora, il coccodrillo ucciso da Giorgio, divenuto un "mostro" devastatore? Quando l’unica fonte di un fatto naturale ècostituita da una incerta tradizione orale, ogni confusione appare possibile. Si pensi alla celeberrima descrizione del coccodrillo fatta nel "Libro di Giobbe" (cap. 41): " Il suo dorso è di lamine di scudi, saldate con forte sigillo, sono strette l’una con l’altra e non passa aria fra loro… Dalla sua bocca escono faci, scintille di fuoco schizzano fuori. Dalle sue nari vien fuori fumo, come da caldaia che bolle sul fuoco; il suo respiro accenderebbe carboni e una fiamma gli esce dalla bocca…La spada che lo tocca non si fissa, né la lancia, il dardo o il giavellotto". Sembra qui anticipata la classica iconografia del drago medioevale, compreso il particolare delle fiamme che erompono dalle fauci. Chi, leggendo questo brano, se non avesse mai visto la fotografia di un coccodrillo, non penserebbe, ancor oggi, a un mostro terrificante dall’aspetto di un drago? Lo stesso vale per l’ippopotamo, di cui il "Libro di Giobbe" (cap. 40) fa un’altra famosa e impressionante descrizione, che nell’antichità viveva numeroso (come dice il suo nome greco) nella valle del Nilo, e che rende ancor oggi insicura la navigazione delle piroghe indigene sui fiumi e sui laghi africani. Terzo punto: esistevano fin dall’antichità, ed esistono ancor oggi, segnalazioni di animali simili a rettili giganteschi che vivrebbero nelle paludi e presso gli specchi d’acqua di varie zone del continente africano. Il lettore moderno e disincantato può rimanere scettico di fronte a tali segnalazioni, tuttavia noi abbiamo il dovere di riportarle. Ed è quanto faremo nel prossimo capitolo.

XVII. DRAGHI DI IERI E DI OGGI

Per dovere di completezza dobbiamo adesso ricordare le sporadiche segnalazioni, da parte di viaggiatori ed esploratori europei, nel XIX e all’inizio del XX secolo, di animali mostruosi che vivrebbero nelle paludi e nei laghi dell’Africa centrale. (1) Gli avvistamenti avrebbero avuto luogo nel Camerun, nel lago Vittoria, nel Lago Bangweolo (Zambia), dunque attraverso una vastissima fascia di territorio dall’Oceano Atlantico fino in prossimità dell’Indiano (2); fra i testimoni oculari citiamo esploratori più o meno noti, come l’inglese Sir Clement Hill, il tedesco Alfred Aloysius Horn, mentre altri ne raccolsero notizie indirette (tracce nella foresta, racconti degli indigeni). Secondo tali descrizioni, specialmente quelle dello Hill, che disse di aver visto l’animale da vicino, nel Lago Vittoria, esso aveva approssimativamente l’aspetto e le dimensioni di un dinosauro erbivoro. (3) Ora, fra i laghi e le foreste dell’Africa centrale e le regioni vicine al Mediterraneo si estende l’immenso Deserto del Sahara, che costituirebbe una barriera invalicabile a un eventuale rettile di grandi dimensioni; ma, in tempi antichi, esso era ricoperta da foreste o, quanto meno, da praterie; il processo d’essiccamento non era ancora del tutto concluso nei primi secoli dell’era cristiana. La fauna dell’odierno Sahara era quella della foresta o della steppa, come è testimoniato in maniera diretta dai graffiti del Tibesti e di altre zone riproducenti bufali, giraffe, elefanti (4); e in maniera indiretta dalle fiere che i Romani catturavano per gli spettacoli del circo. Il leone oggi è scomparso a nord del Sahara (5), come lo è pure l’ippopotamo dall’Egitto. Tornando alla leggenda di San Giorgio, la tradizione afferma che ildrago da lui ucciso era un mostro acquatico, che viveva in un vasto lago. Una coincidenza invero notevole coi racconti di Hill, Gratz, Schonburgk, Glober. Una ricerca in questa direzione sarebbe interessante, perché consentirebbe di affacciare l’ipotesi di una interpretazione non allegorica, ma naturalistica del racconto della lotta fra San Giorgio e il drago, anche se, per ovvie ragioni, ben difficilmente potrebbe uscire dal campo delle mere ipotesi. E tuttavia, per scrupolo di completezza, vogliamo suggerire anche questa possibilità.

Né si creda che solo dall’Africa centrale giungano notizie di avvistamenti di animali mostruosi simili a dinosauri: in effetti, esse provengono da tutto il mondo. Nel lago Labynkyr, In Siberia, un rettile gigantesco fu avvistato fin dal 1953, e il protagonista dello strano incontro fu proprio uno scienziato: ilgeologo V. Tjerdokherbov. (6) Si può dire anzi che ogni continente vanti il suo "mostro acquatico", o anche più di uno: il Nord America il mostro del lago Champlain, al confine tra Canada e Stati Uniti (7), quello del Manipogo (Canada e quelli di Slimey Slim (in due diverse località degli Stati Uniti occidentali); il Sud America, il mostro del Lago Bianco,in Cile; l’Oceania, il mostro di Waitoreke, nell’Isola del Sud della Nuova Zelanda. L’Europa ne vanta almeno cinque: il famosissimo "Nessie" del Lago di Loch Ness (Scozia), il serpente del Lago Storsjö (Svezia), quello del Hvler (Norvegia) e addirittura due la piccola Irlanda: quello di Pooka e quello di Piast. (8) Ma i "mostri" europei potrebbero salire a sei (e anche di più) tenendo conto, ad esempio, del serpente mostruoso che fu visto in Friuli, presso Sarone, nel 1963 e di cui si occupò anche la stampa, nell’estate del 1963. (9) In realtà, l’elenco completo degli avvistamenti sarebbe lunghissimo e potrebbe continuare per pagine e pagine.

Ancora nel XVII secolo un illustre scrittore italiano, il padre gesuita Daniello Bartoli (1608-1685), ferrarese, aveva raccolto la tradizione relativa a un drago che, in passato, infestava le contrade dell’isola di Rodi, uccidendo uomini e bestie, finché un cavaliere gerosolimitano non l’aveva affrontato e ucciso, dopo essersi lungamente preparato al cimento.

"(…) Incontrollo a tutta corsa del cavallo con un ben assestato colpo di lancia; ma, come l’avesse corsa in uno scoglio, non fe’ piaga, e si fe’ ella scheggia. Dunque smontato a pie’ gli fu mestieri di prender la zuffa con lo scudo imbracciato e la spada in pugno a faccia a faccia col drago: il quale, tutto dirittosi sopra i due ultimi piedi, tal gli menò d’una branca un colpo sopra lo scudo con cui il cavaliere si riparò che ne vinse il braccio e disarmoglielo; ma come volle Iddio, l’assannare che un di que’ valorosi cani fe’ il drago in parte dove orribilmente gli dolse, e al medesimo tempo, entrargli il cavaliere con due penetranti stoccate dentro alla gola, gliel batté a’ piedi vinto: anzi il vinto e il vincitore, quello addosso a questo e presso a schiacciarlo col peso, caddero amendue sul campo; ma riscosso a gran pena di sotto l’orribil fiera,il valoroso tornossene con la vittoria re col merito di quel degno titolo d’Extintor draconis, che di poi ebbe ad eterna sua lode incisogli nel sepolcro fra’ gran Maestri di Rodi." (10)

Certo, si può immaginare che, per il Bartoli, tutto l’episodio non sia altro che un’allegoria dell’uomo giunto in punto di morte (il cavaliere) che deve affrontare le ambasce della morte corporea (il drago), allenandosi adeguatamente dal punto di vista spirituale; ma è altrettanto possibile, per non dire probabile, che egli abbia raccolto una tradizione esistente sulle sponde del Mediterraneo orientale, forse di origine bizantina o magari ancora più antica, e che su di essa abbia poi costruito la sua parabola morale. Il che ci riporterebbe, ancora una volta, nell’ambito geografico dell’Asia Minore e in quello della Cristianità d’Oriente, donde appunto la leggenda di San Giorgio e il drago aveva preso le mosse.

Se poi vogliamo risalire ancora più indietro, scopriremo – non senza una certa sorpresa – che l’esercito romano di Attilio Regolo, sbarcato in Africa (odierna Tunisia) durante la prima guerra punica, aveva avuto a che fare con un immenso serpente che molestava l’accampamento delle legioni presso le sponde del fiume Bagradha; al punto che, per averne ragione, non bastando lance e spade fu necessario far entrare in azione addirittura le balliste.

L’episodio di cui ci occupiamo si colloca nel 256 o 255 a. C., quando, nella fase iniziale della Prima guerra punica, i consoli M. Attilio Regolo e L. Manlio Vulsone, sconfitta una flotta cartaginese al Capo Ecnomo, erano sbarcati in Africa con un esercito e avevano marciato audacemente contro la capitale nemica. Richiamato Vulsone in Sicilia per ordine del Senato, Regolo con 40 navi e 15.000 uomini aveva proseguito da solo le operazioni, battendo i Cartaginesi e inducendoli a chiedere la pace. (11) Questa non venne conclusa perché il comandante romano, imbaldanzito dai successi, volle porre condizioni eccessivamente dure: le vicende belliche subirono poi un capovolgimento e l’esercito romano andò incontro a un tragico destino. Ma questo esula dal nostro orizzonte: noi faremo un passo indietro e torneremo all’inverno 256-55, quando i legionari, sbarcati a Clypea (o Clupea), a est di Cartagine, erano impegnati nelle operazioni d’assedio della capitale punica. Racconta dunque Valerio Massimo che "in Africa, apud Bagrada flumen, tantae magnitudinis anguem fuisse tradunt, ut Atilii Reguli exercitum usu prohibèret". Il passo completo è tratto da un libro perduto di Tito Livio (12) e recita così: "In Africa, sulle rive del fiume Bagrada, v’era un serpente d’una tale mole che impediva all’esercito di Attilio Regolo dei servirsi di quell’acqua; molti soldati erano stati presi dalle sue enormi fauci e in maggior numero strozzati dalle spire della sua coda. Le frecce che gli lanciavano non riuscivano a ferirlo. Alla fine con le balestre lo si finì facendo piovere sul suo corpo da ogni parte gran quantità di pesanti pietre: A tutte le coorti e le legioni era apparso oggetto di terrore assai più della stessa Cartagine e quando il suo sangue si mescolò all’acqua del fiume e le esalazioni pestifere del suo cadavere infestarono tutta la regione, l’esercito fu costretto a spostare il campo. Aggiunge, inoltre, Tito Livio che la pelle del serpente, che misurava centoventi piedi, fu mandata a Roma." (13)

Questo incontro fra gli esseri umani e una creatura animale mostruosa è uno dei meglio documentati dell’antichità, per cui ci soffermeremo un po’ su di esso. Ne parlano, infatti, moltissimi autori latini. Aulo Gellio, l’autore delle celeberrime Notti attiche, da parte sua, nel riferirlo dice di averlo trovato nelle Storie di Quinto Elio Tuberone: "Tuberone lasciò scritto (…) che avendo il console Attilio Regolo, durante la prima guerra punica, posto i propri accampamenti sulle rive del fiume Bagrada, dovette ingaggiare un combattimento lungo e aspro contro un serpente di inusitata grandezza, il quale aveva la propria dimora in quei luoghi; dopo una lunga lotta di tutto l’esercito per mezzo di balestre e catapulte, avendolo ucciso, ne mandò a Roma la pelle lunga 120 piedi."(14) Ora, poiché noi sappiamo che un piede romano era una misura di lunghezza equivalente a circa 30 cm:, se ne ricava che la pelle del "serpente" ucciso dai legionari di Regolo doveva misurare 120 x 30= 3.600 cm., ossia 36 metri!

Prima di domandarci a che razza di creatura dovesse appartenere una pelle di tali dimesioni, diamo la parola a quello, fra gli autori antichi, che si diffonde con la maggiore abbondanza di particolari su questo episodio, cioè lo spagnolo Paolo Orosio (inizi del V sec. d..), amico e collaboratore di Sant’Agostino. Nelle sue Storie contro i pgagani (Orosii historiarum adversus paganos libri septem), egli scrive: "Il console Manlio lasciò l’Africa con la flotta vittoriosa e fece ritorno a Roma con ventisettemila prigionieri e grandi prede. Regolo, al quale era stato conferito l’incarico di continuare la guerra, marciò con l’esercito e pose il campo non lontano dal fiume Bagrada. Qui molti soldati, che erano scesi al fiume per rifornirsi d’acqua, furono divorati da un serpente di eccezionale grandezza: perciò Regolo decise di andare con l’esercito a combattere la bestia. Ma a nulla servirono i giavellotti e ogni sorta di proiettili che gli scagliavano addosso, giacché, come se avessero colpito una "testuggine" formata dagli scudi inclinati, i giavellotti scivolavano sulla mostruosa compagine delle squame, respinti in modo sorprendente dal corpo della bestia, che non riuscivano minimamente ad offendere. Perciò Regolo, vedendo che un gran numero dei suoi soldati era dilaniato dai morsi del serpente o atterrato dai suoi attacchi furibondi o anche tramortito dall’alito pestilenziale, fece entrare in azione le balliste, le quali, colpendo con sassi grossi come macine la spina dorsale della bestia, spezzarono tutta l’articolazione del suo corpo. Questa infatti è la natura del serpente, che mentre sembra privo di piedi, è però provvisto di squame e di costole, che sono disposte uniformemente dalla sommità del collo fino in fondo al ventre e che, quando si muove, gli servono le prime quasi da unghie e le seconde da zampe. (…) Questa conformazione fa sì che in qualunque parte del corpo, dal ventre fino alla testa, il serpente sia colpito, rimane paralizzato e non è più capace di muoversi, giacché, dovunque il colpo arrivi, esso gli spezza la spina dorsale, che imprime il movimento alle costole e a tutto il corpo. Perciò anche questo serpente, che per tanto tempo nessun giavellotto aveva potuto scalfire, fu immobilizzato dal colpo di un sasso, di modo che i romani poterono attorniarlo e ucciderlo facilmente con le armi. La sua pelle — a quanto si dice, misurava centoventi piedi — fu portata a Roma e per qualche tempo suscitò la meraviglia di tutti."(15)

Prima di Orosio e prima di Aulo Gellio, ma un po’ dopo Valerio Massimo (che dedica la sua opera all’imperatore Tiberio), il filosofo Lucio Anneo Seneca aveva anch’egli ricordato il mostro del fiume Bagrada. "Quel feroce serpente dell’Africa — scrive — che le legioni romane temevano più della stessa guerra, fu preso invano di mira con frecce e con frombole. Non l’avrebbe ferito neppure l’arco di Apollo. La durezza del suo corpo mostruoso non era scalfita né dal ferro né da qualunque proiettile scagliato da mano d’uomo. Alla fine fu schiacciato sotto pesanti macigni". (16)

(1) Cfr. Leo Talamonti, "Questi ‘mostri’ non conformisti", in "Scienza e Vita", Roma, novembre 1961, pp. 40-47.

(2) Cfr. Peter Kolosimo, "Il pianeta sconosciuto", Milano, 1970, pp. 210-15.

(3) Cfr. Michael Bright, "Dinosauro sopravvissuto cercasi", in "Airone", Milano, maggio 1985, pp. 122-27.

(4) Cfr. Attilio Guadio, "La via del Sahara", in "L’Universo", Firenze, gennaio-febbraio 1968, pp. 29-65.

(5) "Tra il 1873 e il 1883, 202 leoni furono ufficialmente abbattuti in Algeria; l’ultimo leone vu fu ucciso nel 1891 a Souk-Ahras. Il maestoso re degli animali sopravvisse, invece, più a lungo nel Marocco, in particolare nelle zone boscose del Medio Atlante rimaste quasi inesplorate fino ai nostri giorni. Lì trovarono rifugio, almeno fino al 1922, gli ultimi leoni dell’Africa settentrionale, la cui regressione segue dunque, con perfetto parallelismo, la progressiva avanzata della civilizzazione": così Jean Dorst, "Prima che la natura muoia", ed. it. Milano, 1969, p. 92.

(6) Peter Kolosimo, op. cit., pp. 220-222.

(7) Jean-Jacques Barloy, "Animali misteriosi, fra cronaca e leggenda", Roma, 1985, pp. 90-92.

(8) Cfr. C. Angeletti Meirano-M. Fugiglando Cumino, "Dear Penfriend", Torino, 1988,p. 63.

(9) Precisamente, il quotidiano "Il Giorno": riportato in Peter Kolosimo, op. cit., pp. 215-16.

(10) Daniello Bartoli, "L’uomo al punto", in: Luigi Russo, "I classici italiani", vol. 2, Firenze, 1947, pp.317-18.

(11) Cfr. Antonio Brancati- Girolamo Olivati, Il Mondo Antico, vol. II, Roma, Firenze, 1957, p. 153.

(12) Livio doveva parlarne nel libro XIX (che è tra quelli perduti), ma non risulta dall’Epitome.

(13) VALERIO MASSIMO, Factorum et dictorum memorabilium libri IX, I, 8, 19. Trad. di Luigi Rusca , 2 voll., Milano, 1972.

(14) AULO GELLIO, Noctes Atticae, VII, 3. Trad. di L. RUSCA, 2 voll., Milano, 1968. Il passo di Tuberone sta in Fragm. 8, Peter.

(15) PAOLO OROSIO, Historiarum Adversus Paganos, IV, ( Trad. di Aldo Bartalucci, in Adolf Lippold, 2 voll., 1976.

(16) LUCIO ANNEO SENECA, Ad Lucilium Epistularum Moralium Libri XX, X, 82. Trad. di Giuseppe Monti, Milano, 1966.

XVIII. IL CAVALIERE DELLA FEDE

Ad ogni modo, che San Giorgio abbia affrontato materialmente una lotta mortale col dragone resta un’ipotesi di lavoro molto problematica e, oltretutto, ancor tutta da esplorare. Molto più probabile, allo stato attuale delle nostre conoscenze, supporre che la tradizione sia nata da una interpretazione allegorica della lotta della santità contro le forze oscure del male. A questo punto potrebbe sorgere spontaneo un senso di delusione, quasi fossimo stati defraudati di qualche cosa di caro, cui eravamo inconsapevolmente legati fin dagli anni della fanciullezza. Come! La lotta di San Giorgio col drago non è che una leggenda! Noi non possiamo pensare a San Giorgio senza pensare anche, per ciò stesso, al drago da lui ardimentosamente affrontato e ucciso: ma se non vi fu alcun drago…! Ed ecco che l’immagine del giovane guerriero che parte lancia in resta, sul suo cavallo "bianco, contro il mostro ripugnante, viene sostituita quasi inavvertitamente da quella di un altro cavaliere, che partì lancia in resta non contro un drago, ma contro dei giganti terribili, senza sapere che erano in realtà solo dei mulini a vento.

Ebbene, nulla di più lontano dalla concreta realtà storica del mostro eroe. Giorgio di Cappadocia non fu un Don Chisciotte in cerva di avventure mirabolanti; e se altri gliele attribuì, non gli rese un buon servizio. San Giorgio fu un uomo reale, un uomo completo, con le sue passioni e le sue debolezze, con il suo coraggio e la sua paura; un soldato, certamente; ma un santo. Perché fu un santo? Perché affrontò il martirio, a cui avrebbe potuto facilmente sottrarsi, preferendo i tormenti e la morte al rinnegamento del nome di Cristo? Ma il martirio – è bene ricordarlo – non è un momento isolato e irripetibile nella vita di un uomo, non è un salto improvviso che chiunque può essere in grado di compiere, sol che sia messo nelle circostanze propizie al supremo sacrificio. Giorgio di Cappadocia non era un sacerdote; non era nemmeno un tranquillo borghese che conducesse un’agiata esistenza, fatta di quietismo e di facili compromessi. Era un soldato, ufficiale di un esercito profondamente e intrinsecamente impregnato di paganesimo; un uomo abituato alle marce, alle battaglie, ai pericoli; e quando, con simili precedenti, si arriva alla santità che genera il martirio, vuoi dire che si è fatta davvero una 1unga strada per arrivarci. L’ambiente militare, allora e sempre, ma allora forse più di oggi, non era certo tale, di per sé stesso, da favorire l’esplicazione delle doti morali e spirituali di una persona; coi suoi interessi costantemente proiettati entro la sfera pratica, materiale della vita, coi suoi affanni e le sue ‘preoccupazioni tutti di carattere immediato, era per sua natura quanto di più lontano si possa immaginare dalle preoccupazioni dello spirito. L’esercito romano di allora, poi, che era lo strumento principale di un potere dispotico strettamente connesso con la religione di Stato – sotto Diocleziano, principalmente il culto del "Sol dominus Invictus" – era tale da mettere a dura prova, incessantemente, quotidianamente, i sentimenti religiosi di un animo cristiano. Da una simile scuola non si esce santi per caso. Là dove l’insegnamento di Gesù è smentito e contraddetto infinite volte al giorno, non si rimane fedeli alla Sua parola se essa non ha messo radici ben salde fin nell’intimo più riposto dello spirito. E tale fu appunto il caso di Giorgio. Egli fu simile a quella casa edificata sulla roccia, di cui aveva parlato una volta il Maestro in una sua parabola: "Cadde la pioggia, vennero le inondazioni, soffiarono i venti e imperversarono contro quella casa, ma essa non rovinò, perché era fondata sulla roccia."(1)

S qui sorge spontanea una domanda, spontaneo un raffronto tra quelle condizioni difficili e le comodità in cui viriamo noi oggi: sapremmo noi, con la nostra fede così spesso vuota e superficiale, di comodo, avvicinarci anche solo di lontano a quella del santo di Cappadocia, che seppe conquistarsela, giorno dopo giorno, fra mezzo a mille occasioni di scandalo? Questo è il nocciolo dell’insegnamento che il martire di Cappadocia ha lasciato in eredità indistruttibile ai Cristiani di ogni generazione: una fede vissuta nei fatti, concretamente, e non solo a parole. Dopo le campagne in Egitto, molto probabilmente egli prese parte alle operazioni in Oriente, dove i Persiani avevano ancora una volta rotta la pace invadendo l’Armenia con forze imponenti. La campagna romana si divide in due fasi. La prima vide la temeraria controffensiva lanciata da Galerio con un piccolo esercito contro il re sassanide Narseh, che si concluse, nel 296, con la disfatta di Galerio e la distruzione della sua armata. Tornato ad Antiochia dopo il disastro di Carrhae, egli fu duramente rimproverato da Diocleziano e dovette subire l’umiliazione di camminare a piedi davanti al cocchio imperiale, davanti a tutto l’esercito. Ma, subito dopo, Diocleziano porse al suo Cesare e genero (2) l’occasione di riabilitarsi, rimandandolo in Oriente con un esercito di cui egli stesso, Diocleziano, assunse il comando. E’ molto probabile che il Mostro abbia preso parte a questa seconda fase della campagna in Siria, che vide scendere personalmente in campo lo stesso imperatore. Mentre Diocleziano alla testa di grandi forze superava il Tigri e invadeva la Mesopotamia, Galerio con un altro esercito andava cercando, per la via montuosa dell’Armenia, il riscatto o la morte. La fortuna delle armi questa volta fu dalla sua: con un irresistibile assalto notturno i legionari penetrarono fin nel campo dei Persiani, fecero strage dei nemici in preda al panico e catturarono, nella tenda del Gran Re, perfino l’harem di Narseh ( anno 297 ). Questi riuscì a stento a salvarsi colla fuga e subito volle avviare trattative di pace: Diocleziano le accolse e, quantunque fosse stato in suo potere di aggiungere una nuova provincia, la Mesopotamia, ai suoi domini (3), pure si accontentò della cessione da parte dei Persiani di cinque regioni oltre 1’Eufrate e del protettorato sull’Armenia e sulla Media (4).Nello stesso torno di tempo Massimiano vinceva i Quinquegentiani in Mauretania e Costanzo Cloro sconfiggeva 1’usurpature Alleato e riconquistava la Britannia, entrando da trionfatore in Londinium ( Londra ).

Questi successi strepitosi delle armi romane, riportati ai quattro angoli dell’Impero e dopo che per tanto tempo, nel corso del III secolo, gli eserciti di Roma non avevano più conosciuto la vittoria, indussero Diocleziano sulla fine del 303 a venire a Roma onde solennizzare, in occasione dei "Vicennalia", il trionfo su tanti nemici, come nei tempi passati. Che Giorgio sia venuto con lui in Italia, come si è detto, è possibile, anche se non certo e tanto meno dimostrabile. Certo è per noi suggestivo immaginare che egli sia stato nella città ove qualche secolo dopo sorse la più "bella e raccolta delle innumerevoli chiese e "basiliche dedicate al suo nome, quella del Velabro, presso l’Arco degli Argentari dedicato a Settimio Severo e a sua moglie.

Sarebbe di estremo interesse per noi conoscere gli sviluppi del sentimento religioso del Nostro durante questi anni, ma purtroppo non ne sappiamo nulla. Probabilmente, la persecuzione anticristiana scatenata dall’imperatore non fece che precipitare in lui una situazione rii tensione spirituale da tempo esistente. "Nessuno può servire a due padroni – aveva detto il Maestro – perché, o disprezzerà l’uno e amerà l’altro, o sarà affezionato ad uno e trascurerà l’altro" (5). Questo probabilmente pensava Giorgio, reduce da tante avventure, mentre vedeva il suo sovrano imboccare ogni giorno più decisamente la via dell’assolutismo e dell’intolleranza religiosa. Finora i Cristiani non erano mai stati molestati: ma adesso le cose stavano per cambiare. "Perché mi chiamate: Signore, Signore!, e poi non fate quello che dico?" (6), aveva rimproverato Gesù. Ora una scelta radicale stava maturando nell’animo di Giorgio, un rifiuto totale di ogni ulteriore compromesso, un "aut-aut" senza indugi. "Perché – ricordava certo le parole del Maestro – là dov’è il tuo tesoro, ci sarà pure il tuo cuore" (7). E Giorgio, nel suo intimo, aveva già deciso per quale genere di tesoro optare, a

quale padrone appartenere, non mancava che l’occasione per fare il passo esteriore, poiché nell’intimo egli si era spogliato già delle insegne di Cesare (8). E l’occasione non tardò a venire, sotto forma della persecuzione scatenata da Diocleziano: la tempesta più violenta che si abbatté sulla Chiesa dai lontani tempi di San Pietro e di Nerone.

(1) Mt., VII, 25.

(2) Galerio, al momento di esser nominato Cesare nel 293, aveva sposato la figlia di Diocleziano, Valeria, mentre Costanzo Cloro allontanava la concubina Elena ( madre di Costantino il Grande ) per sposare Teodora, figlia di Massimiano.

(3) Cfr. T. Mommsen, Op. Cit., II, pp.250-52. La pace fu firmata nel 298, quando già Galerio, per la Media e l’Adiabene, stava marciando sulla capitale Ctesifonte.

(4) Cfr. Petr. Patr., in F.H.G., IV, 189? Amm. Mare., XXV, 7, 9.

(5) Mt., VI, 24.

(6) Le., VI, 46.

(7) Mt., VI, 21.

(8)Questa, naturalmente, è soltanto una nostra ipotesi. Essa si basa sul fatto, attestato dalla tradizione, della prontezza con cui Giorgio si offrì al martirio al primo infierire della persecuzione. Una reazione così pronta e immediata lascia supporre una decisione ormai da tempo maturata nell’animo del Nostro.

XIX. LA PERSECUZIONE.

D Da vari decenni, come si è visto, la Chiesa cristiana viveva in pace, tollerata dagli imperatori alla pari di molti altri culti, per lo più di origine egizia od asiatica, che si erano diffusi nel vasto [‘ territorio dell’Impero. I Cristiani avevano le loro chiese, i loro cimiteri, le loro proprietà fondiarie legalmente riconosciute; svolgevano pubblicamente opera di assistenza presso le vedove, gli orfani, i bisognosi; visitavano i condannati e li assistevano fino al1’ora suprema. Il Cristianesimo non era più la religione del popolino indigente ed incolto. A Roma non era più confinata, come ai tempi di Pietro e Paolo, a Trastevere, al Velabro e, in parte, all’Aventino (1), ma aveva iniziato la scalata alle antiche roccaforti del paganesimo, il Campidoglio, il Palatino; e diverse famiglie dell’aristocrazia senatoria si stavano aprendo al nuovo culto. A Nicomedia, la nuova capitale di Diocleziano, i Cristiani erano penetrati nelle varie branche dell’amministrazione. Alcuni svolgevano pubblicamente la professione di insegnanti, come Lattanzio, professore di retorica che non nascondeva la sua professione di fede cristiana. Quando venne l’editto

Diocleziano che imponeva agli insegnanti di sacrificare agli dei o di dare le dimissioni, parecchi senza esitazione abbandonarono la professione (2). Nell’Asia Minore centrale e occidentale il Cristianesimo era professato da una larga percentuale della popolazione ed era di gran lunga la religione più diffusa. Anche in Siria, in Egitto e in Africa (3) la Chiesa cristiana era ormai saldamente organizzata. Alla corte di Diocleziano diversi alti funzionari ufficiali dell’esercito e perfino membri della famiglia imperiale avevano aderito alla parola di Cristo.

Questa lunga pace religiosa venne "bruscamente troncata dallo scoppio della persecuzione di Diocleziano. Essa è già stata accuratamente studiata da altri autori e non è qui il caso di narrarne ancora una volta i minuti sviluppi: perciò non ci limiteremo che a pochi cenni essenziali. Diocleziano con le sue imponenti riforme amministrative, economi che e militari si era sforzato di ridare forza e coesione ali1 Impero già quasi disgregato. Ma poiché, fin dai tempi più antichi della sua storia, lo Stato ‘Romano era stato considerato tutt’uno colla religione dei suoi padri, l’imperatore illirico finì per convincersi che nessuna riforma sarebbe stata efficace se non sulla base di una rinnovata monarchia assolutista di stampo teocratico, proprio come nella Persia dei Sassanidi. A fondamento della riforma religiosa egli pose, come già Aureliano, il culto solare, molto popolare nell’esercito e fra una parte della popolazione, e cercò di divinizzare la propria persona (4) e la figura stessa del sovrano, indipendentemente dai meriti e dalle capacità personali, giungendo per tale via ad un completo ribaltamento di quella che era stata la felice politica degli imperatori Antonini. Davanti a lui non vi erano più cittadini, ma sudditi, pronti a cadere in ginocchio come degli schiavi; il sovrano si nascondeva dal popolo fra i recessi irraggiungibili del "palatium"; davanti alla sua divina persona nessuno poteva rimanere seduto (5); egli indossava un mantello di porpora e cingeva il campo con una corona tempestata di gemme e diademi. In questo modo il "romano" Diocleziano, vincitore della Persia sul campo di battaglia, ne era però a sua volta vinto e soggiogato nella sfera culturale e morale (6). La decisione di agire con decisione contro il Cristianesimo venne come naturale conseguenza di questo indirizzo, in quanto era intesa ad eliminare il maggiore ostacolo alla restaurazione del culto pagano e alla divinizzazione dell’Imperatore. (7)

Lungamente Diocleziano esitò, prima di gettarsi nella sanguinosa impresa; da uomo prùdente ed acuto, quale egli era, non gli sfuggivano le difficoltà ed i rischi dell’impresa, derivanti essenzialmente dalla vastissima diffusione che la fede cristiana aveva ormai raggiunto. Pare che la spinta decisiva gliel’abbia fornita il suo genero, Galerio, che odiava personalmente i Cristiani e che di Diocleziano possedeva l’energia e la spietatezza, non però l’intelligenza politica e l’avvedutezza (8). Dopo che un incendio, probabilmente di origine dolosa, per due volte ebbe messo in pericolo lo stesso palazzo dell’imperatore (9), Diocleziano, convinto a quanto pare della colpevolezza dei Cristiani (10), decise di agire. Il 23 febbraio 303, all’alba, una squadra di soldati armati di attrezzi e picconi irruppe nella basilica di Nicomedia, distrusse i libri sacri, indi demolì interamente quel grande e pregevole edificio. Diocleziano e Galerio, dal tetto del palazzo imperiale che era situato proprio di fronte, osservavano personalmente la scena.

L’indomani venne affisso ai muri della città il primo editto contro i Cristiani, cui ne fecero séguito diversi altri, sempre più gravi. Dall’allontanamento dalla professione per chi non partecipava ai sacrifici, alla confisca dei beni, all’esilio, si arrivava alla pena capitale. Subito fin dal primo giorno un coraggioso cristiano di Nicomedia strappò con le proprie mani l’editto imperiale, gridando in tono ironico che esso annunciava le brillanti vittorie militari sui Goti d’oltre Danubio (11). Venne immediatamente arrestato, imprigionato, condannato al supplizio: fu il primo glorioso martire della persecuzione di Diocleziano, il primo rintocco funebre della campana per il morente paganesimo che ingaggiava la sua ultima disperata bat-

taglia per la sopravvivenza. Qualcuno ha voluto vedere in questo cittadino di Nicomedia lo stesso San Giorgio, forse basandosi sull’analogia della prontezza con cui egli, ai primi annunci della persecuzione, disprezzò il pericolo e corse per le strade confessando la sua fede in Cristo (12). Con tutta probabilità, invece, non poteva trattarsi del Nostro, e ciò per vari motivi. In primo luogo, lo sconosciuto martire di Nicomedia non era un militare: ci viene detto solo che era un cittadino ragguardevole (13), ma se fosse stato un ufficiale dell’esercito, né Eusebio di Cesarea né Lattanzio si sarebbero scordati menzionarlo. In secondo luogo, quel Cristiano subì immediatamente il martirio nella capitale asiatica, mentre la maggioranza delle fonti, checché ne dica il Moroni (14), indicano Lydda in Palestina quale luogo del martirio. Poco dopo la sua morte, il culto di Giorgio era già diffuso nella città palestinese, non a Nicomedia: e se una tradizionetarda può essere erronea, non può certo esserlo una tradizione non più vecchia di una generazione. .

Questo fu l’inizio della sanguinosa persecuzione di Diocleziano, i cui ultimi bagliori si spensero, in Oriente e in Egitto, dov’essa durò più a lungo, solo nel 313, quando l’ultimo persecutore, l’imperatore Massimino Daia (15), morì suicida dopo essere stato sconfitto dal collega Licinio. Non è possibile fare alcuna statistica delle vittime, anche se la tradizione ecclesiastica ha certamente esagerato il numero dei martiri. In Italia e in Africa lo spietato Massimiano applicò alla lettera gli editti di Diocleziano, come del resto fece Galerio nell’Illirico. Il solo Costanzo Cloro, in Gallia e in Britanni a ( regioni ove peri atro il Cristianesimo era poco diffuso) non volle lordarsi le mani di sangue innocente e si limitò a far abbattere le chiese e sciogliere le associazioni. È anche certo che molti Cristiani si lasciarono cogliere alla sprovvista dall’inattesa persecuzione, dopo una pace così prolungata, e finirono per cedere ai tormenti e sacrificare agli dei e ai sovrani. Essi erano congedati dalle autorità con uno speciale attestato, comprovante l’avvenuto sacrificio: non si trattava in genere che di "bruciare qualche grano di incenso davanti alle immagini delle divinità. Alcuni cristiani facoltosi, atterriti alla sola idea di essere sottoposti alla tortura, corruppero i funzionari imperiali e si fecero rilasciare l’attestato senza esser stati costretti a compiere il sacrificio. Gli uni e gli altri furono poi trattati molto severamente dalla Chiesa vittoriosa, quantunque i secondi fossero giudicati con maggiore indulgenza. Con tutto ciò, è altrettanto indubbio che le vittime della persecuzione non furono poche. In alcune regioni profondamente cristianizzate, come l’Asia Minore e l’Egitto, i martiri dovettero essere sicuramente centinaia, forse migliaia (l6). Il fatto che molti cedessero e sacrificassero agli dei non fa che rendere più umana, in prospettiva storica, la situazione dei Cristiani, spogliandola della vuota retorica e riconducendola alla sua realtà essenziale, che era fatta di vero e immediato pericolo, di coraggio e di paura. Del resto, se, all’inizio, colpiti da quel fulmine a ciel sereno, i Cristiani esitarono intimoriti, la loro resistenza crebbe col trascorrer del tempo e l’accanirsi medesimo della persecuzione. Anche i discepoli di Cristo fuggirono, sul Monte degli Olivi, quando le guardie del tempio vennero ad arrestare Gesù (17), anche Pietro per paura rinnegò tre volte il Maestro, che aveva giurato poc’anzi di difendere sino alla morte (18). Ma l’esempio di Gesù fu per loro come una sferzata sul viso, ed essi in séguito non conobbero più la paura: così il sacrificio delle prime vittime di Diocleziano, in mezzo allo sbandamento generale degli animi, servì a ridare coraggio ai paurosi, a infondere fiducia negli esitanti: perché, come disse una volta Tertulliano, "il sangue dei martiri è semente di nuove conversioni" (19).

Una reminiscenza di questo dato di fatto storico si trova nella pur leggendaria "passio" di S. Giorgio, là dove si ricorda che perfino un alto ufficiale coi suoi soldati e la moglie dell’imperatore furono convertiti dall’esempio di Giorgio e subirono alla lor volta il martirio. (20) In. tempi moderni non sono mancati gli storici, per lo più di indirizzo grettamente razionalista, che si sono assunti il compito di prender le difese dell’operato di Diocleziano, sforzandosi di dimostrare che la "barbarie cristiana" (21) stava minando alle fondamenta la sopravvivenza stessa dello Stato Romano. Il Poehlmann, ad esempio (22), è arrivato fino ad applaudire la persecuzione anticristiana, a compiacersi dell’accortezza colla quale a suo tempo Tacito (23) aveva intuito il pericolo costituito dai Cristiani "nemici del genere umano", a elogiare la pazienza degli imperatori che così a lungo avevano tollerato l’arroganza e il fanatismo di tali sudditi sleali, nel tentativo, invero ben tristo, di giustificare le atrocità della persecuzione di Diocleziano, egli non trova di meglio che osservare come essa fa in fondo poca cosa a confronto degli orrori dell ‘Inquisizione spagnola, di un Torquermada o di un duca d’Alba (24), e per dimostrare che i Cristiani erano sudditi turbolenti e ribelli, osa citare la presunta violenza di cui Gesù stesso si sarebbe macchiato, cacciando colla forza i profanatori dal tempio (25). Tali metodi storici, ci sembra, non avrebbero neppur bisogno di commenti: si qualificano da soli. L’attualità e il valore eterno della Croce di Cristo si vedono, in fondo, anche da questo; dalla Sua capacita di destare scandalo ancor oggi, a duemila anni da quel venerdì di tenebra in cui un popolaccio abbrutito dal fanatismo e dall’ignoranza gridava allo stupefatto Ponzio Pilato: "Crucifige!" (26). E ancora oggi, come allora e sempre, noi siamo singolarmente chiamati, davanti alla nostra coscienza e davanti agli uomini, a fare la nostra scelta.

(1) Cfr. A. Piccolini, "La basilica di San Crisogono in Roma", Roma, 1953, PP. 27 sgg.

(2) Cfr. G. Ricciotti, "L’era dei martiri", Milano, 1956.

(3) "Africa" nel significato ristretto di "provincia d’Africa" ( Africa Proconsolare o Cartaginense, l’odierna Tunisia settentrionale, e anche la provincia "Byzacena", Tunisia meridionale ), secondo la terminologia corrente al tempo dei Romani.

(4) Per questo motivo egli aveva aggiunto al titolo di "Augusto" il soprannome di "Giovio", mentre Massimiano aveva preso quello di "Erculio". Giove era, nella mitologia greco-romana, il re di tutti gli dei, Ercole era l’eroe mandato a lottare contro i mali che affliggevano l’umanità.

(5) Tale fu appunto l’origine del "sacrum conisistorium" : sacro perché si teneva alla presenza del "divino" imperatore, concistoro perché tutti dovevano rimanere in piedi.

(6) Ma su tutto questo cfr. T. Frank, "Storia di Roma" ( 2 voll. ), ed. it., Firenze, 1974, II, pp.305 sgg.; 3. Kovaliov, "Storia di Roma"

(2 voll.), ed. it. Roma, 1977, II, pp.2II sgg; M. Rostovzev, "Sto-ria economica e sociale dell’Impero Romano", ed. it. Firenze,1976, PP. 585 sgg.; M. A. Levi, "L’Impero di Roma" ( 3 voll.), Milano, 1967, III, p.943 sgg.; C. Barbagallo, "Roma antica" ( 2 voll.), Torino, 1932, II, pp. 692 sgg.

(7) Sulla impossibilità, per un Cristiano, di adorare l’imperatore come un essere divino, cfr. Tertulliano, "Apol.", XXXIII, XXXIV, XXXV.

(8) La parte decisiva avuta da Galerio nello spingere alla persecuzione il titubante Diocleziano è sottolineata, e forse esagerata, da Lact., "De mort. pers.", XIV, 1-8.

(9) Cfr. Lact., "De mort. pers.", XIV, 2. Ma J. Burckhardt nella sua celebre opera "L’età di Costantino il Grande", ed. it. Roma, 1970, ha giustamente osservato che Diocleziano non era il tipo d’uomo da lasciarsi tranquillamente appiccare il fuoco sulla testa, nemmeno da Galerio, come vorrebbe far credere Lattanzio.

(10) Non si dimentichi che i Cristiani avevano fama d’incendiari, fra la plebe ignorante, fin dal tempo dell’incendio di Roma nel 64 d. C. sotto Nerone ( ci’r. Tac., "Ann.", XV, 44 ).

(11) Su questo episodio, cifr. Lact. , "De mort pers.", XIII, 2-3; Eus., "Hist. eccl.", VIII, 5. .

(12) Cfr. J. Da Varazze, "Legenda aurea", ed. cit., p.268.

(13) Cfr. Sus., "Hist. eccl.", VIII, 5. .

(14) Cfr. G. Moroni, op. e loc. cit.

(15) Nominato Cesare di Galerio nell’aprile del 305, quando questi subentrò a Diocleziano in qualità di Augusto a Nicomedia. Perseguitò con ferocia i Cristiani, spec. in Editto, fino alla morte, nonostante l’editto di tolleranza pubblicato da Galerio nel 311.

(16) Già E. Gibbon, "Storia della decadenza e caduta dell’Impero Romano", ed.cit.,11, pp. 7 sgg., si era affannato a minimizzare l’esiguo numero degli autentici martiri cristiani ( e su ciò cfr. G. De Ruggiero, "La filosofia dell’illuminismo" , 2 voll., Bari,1974, I, p. 1153 sgg.). Così, dalle esagerazioni puerili per eccesso del Medio Evo, si passò alle esagerazioni, dotte ma altrettanto puerili, per difetto, del Settecento.

(17) Cfr. Mt., XXVI, 56; Mc., XIV, 50.

(18) Cfr. Mt., XXVI, 69-75; Mc., XIV,66-72; Lc., XXII,54-62; Gv., XVIII, 17-27.

(19) Tert., "Apol.", L, XIII.

(20 II "magister militum" Anatolio e l’imperatrice Alessandra. Cfr. J. daVarazze, "Legenda aurea", cit.; P. Toschi, "La leggenda di S. Giorgio, ecc.", cit.

(21) E. Gibbon ( Op. Git. ) così concludeva la sua monumentale opera: "Ho descritto il trionfo della barbarie e della religione" (vol. VI, p.657 ), volendo significare che le invasioni barbariche e la diffusione del Cristianesimo, secondo lui, furono le cause decisive del tracollo dello Stato Romano. Da parte sua, sulla "barbarie cristiana" si è compiaciuto di soffermarsi a lungo R. von Pohelmann ( in "Storia Universale", Milano, s. d., 6 voll.),I, p. 655.

(22) Cfr. R. von Pohelmann, in "Storia Universale" di J.Pflugk-Harttung, vol. I, "La monarchia assoluta e la dissoluzione dell’Impero", p. 641 sgg.

(23) Cfr. Tac., "Ann.", XV, 44.

(24) Cfr. R. von Pohelmann, op.cit., vol. I, pp. 642-43. Altrettanto bene, pensiamo, i capi nazisti che in anni recenti consumarono il genocidio degli Ebrei avrebbero potuto osservare, col Libro della storia alla mano, come anche gli Ebrei, tremila anni prima, avessero scacciato dalla Plaestina e tentato di distruggere Filistei, Cananei, Ammoniti e Amaleciti.

(25) Cfr. R. von Poehlmann, op. cit., vol. I, p. 640.

(26) Cfr. Gv., XIX, 6, 15; Lc., XXIII, 21; Mc., XV, 13; Mt., XXVII, 22-23.

XX. IL MARTIRIO SECONDO LA LEGGENDA

La più antica versione della "passio" di San Giorgio, il palinsesto greco della Biblioteca viennese, come abbiamo visto colloca il martirio del santo sotto l’imperatore persiano Baciano. Egli convocò un giorno settantadue re (1) per decidere le misure da prendersi contro i Cristiani. Giorgio di Cappadocia, ufficiale dell’esercito, non appena ne venne a conoscenza distribuì i suoi beni ai poveri e attestò davanti alla corte la sua professione di Cristiane sino. Baciano gli rivolse un invito a desistere dalla sua ostinazione e a compiere il sacrificio agli dei, che San Giorgio respinse affrontando con fermezza la tortura. Dopo essere stato sottoposto ad atroci supplizi, egli venne riaccompagnato in carcere dove ebbe la visione consolatrice del Signore che gli predisse sette anni di tormenti, tre morti e altrettante resurrezioni. 1 persecutori intanto, disperando di piegarlo con la forza, fecero ricorso al mago Atanasio (2) che mise in opera, senza successo, 1 e sue oscure arti per vincere la resistenza di Giorgio e indurlo all’abiura. Non solo: ma lo stesso Atanasio, vinto dal fui fa do esempio del santo e dalla sua soprannaturale capacità di resistenza, chiese e ottenne il perdono di Giorgio e si convertì al Cristianesimo. Subito dopo venne condotto a sua volta al martirio (3). Il santo di Cappadocia venne allora segato in due col supplizio della ruota, ma resuscitò e questa volta riuscì a convertire non solo un alto ufficiale dell’esercito, il "magister militum" (4) Anatolio, ma anche tutti i soldati di quest’ultimo. Tanto Anatolio che i suoi soldati vennero perciò passati per le armi. (5) A. questo punto il re Tranquillino, per metterlo alla prova, gli domandò un prodigio (6) e San Giorgio lo accontentò facendo tornare in vita diciassette persone che erano morte da quattrocentosessanta anni, le battezzò e poi le fece scomparire. (7) Entrato dipoi in un tempio pagano, col solo alito fece crollare le statue degli dei. Davanti a tante manifestazioni della protezione divina, la stessa imperatrice Alessandra si convertì al Cristianesimo e subì il martirio per ordine dello spietato marito (8). Finalmente San Giorgio venne condotto alla decapitazione, il supplizio "risolutore" in questo tipo di racconti agiografici dove i santi martini hanno la meglio sul fuoco, sulla ruota e sulla caldaia di piombo fuso (9). Il santo allora chiese al Signore che l’imperatore Daciano e tutti i settantadue re del suo seguito venissero inceneriti, cosa subito avvenne; dopo di che egli porse il collo serenamente alla spada del carnefice. Prima di subire il martirio, però, egli aveva promesso la sua protezione a chi avesse onorato i propri resti mortali. La versione del ‘martirio** nella "Legenda aurea" di Jacopo da Varazze varia in taluni particolari, ma nel complesso rispetta le grandi linee di questo racconto. Per non annoiare il lettore con inutili ripetizioni, ci limiteremo dunque a rilevare gli episodi che differiscono alquanto dalla tradizione più antica. Il primo è che il martirio di Giorgio non viene localizzato alla corte dell’imperatore di Persia, ma nell’Impero Romano, durante il regno di Diocleziano e Massimi ano (10), sotto i quali, scrive il buon Jacopo, in un solo mese vennero uccisi settantasettemila Cristiani (11) , mentre altri cedettero sotto i tormenti e finirono per sacrificare . Allora Giorgio, dopo aver donato ai poveri tutti i suoi beni, si spogliò dell’abito militare, si vestì col mantello dei Cristiani (12) e "si slanciò nelle piazze gridando: I vostri dei sono demoni, ma il nostro Dio ha creato i cieli!" (13). L’arresto, 1’inteerogatorio e le torture, nella versione del vescovo ligure, sono eseguiti materialmente non da Diocleziano e Massimiano (14), ma dal prefetto Daciano. All’inizio dell’interrogatorio, lo stesso Giorgio fornisce alcuni particolari preziosi per la ricostruzione della sua biografia: "Mi chiamo Giorgio, discendo da una nobile famiglia della Cappadocia e con l’aiuto di Dio ho combattuto in Palestina; ma tutto ho lasciato per poter meglio servire Iddio che è nei cieli". (15) II racconto dell’apparizione divina nel carcere e quello della conversione del mago sono pressoché uguali a quelli della "passio" greca, ma giunti al supplizio della ruota non vi è la morte del santo seguita dalla sua spettacolare risurrezione: semplicemente, la ruota si rompe al momento opportuno (l6). Daciano fece allora immergere il santo in una caldaia di piombo fuso, che ebbe per lui l’effetto di una tiepida acqua (17). A questo punto Giorgio fede finta di voler sacrificare agli dei allo scopo di essere condotto in un tempio: ma qui chiese a Dio la sua distruzione e subito un fuoco disceso dal cielo incenerì tanto gli idoli che i sacerdoti (18). Poi la .terra spalancatasi inghiottì perfino le rovine. Anche qui, dunque, il racconto è diverso. Così pure, in Jacopo da Varazze non è la moglie dell’imperatore, bensì la moglie del prefetto, sempre di nome Alessandra, che si convertì, rimproverò al marito le sue crudeltà (19) e affrontò serenamente la tortura. Sospesa per i capelli e battuta con le verghe, ella chiese al santo cosa sarebbe stato di lei, non essendo ancor battezzata: al che Giorgio la rassicurò dicendole che il sangue del martirio sarebbe stato per lei come 1’acqua battesimale. Alessandra allora, messasi a pregare, morì in pace. Infine il racconto della decapitazione è anch’esso abbastanza dissimile. Giorgio, condotto al supplizio, pregò Dio che chiunque invocasse il suo aiuto fosse esaudito; e una voce dal cielo lo rassicurò in tal senso. Quindi egli venne decapitato. Baciano però, mentre tornava a casa dal luogo ove era avvenuta 1’esecuzione,ven-ne incenerito insieme ai suoi ministri da un fuoco celeste (20).

Non c’è naturalmente bisogno di dire che tanto l’antica "passio" greca quanto quella contenuta nel racconto della "Legenda aurea" sono basate su situazioni puramente fantastiche e storicamente inaccettabili. Coloro i quali credono di ravvivare il culto dei santi presentando ogni tradizione indiscriminatamente come verità indiscutibile, rendono un cattivo servizio tanto a quei santi che alla religione cristiana. Come nel caso della leggenda del drago, non c’è alcun motivo per cui la gloria imperitura del Mostro debba uscire in qualche modo menomata dal riconoscimento che le sue "passiones" greche e latine sono puramente leggendarie. Questo lo aveva già compreso la Chiesa romana al tempo del pontificato di Gelasio, alla fine del V secolo, quando il re Teodorico gettava le basi della potenza gotica nella nostra Penisola. Non è davvero il caso che alle soglie del duemila, in tempi tento più favoriti dalla diffusione del sapere, qualche intempestivo apologista pigli ad imboccare la via opposta.

Vedremo infatti che la storia, anche in questo caso, nulla ha da invidiare alla nirabo1ante leggenda.

(1) Probabile reminiscenza del titolo di "Re dei Re" portato dagli antichi monarchi persiani e della posizione regale semi-indipendente dei satrapi posti al governo delle diverse province o "satrapie" ( cfr. Erodoto, III, 89 sgg. ).

(2) Questo personaggio rimane innominato nella versione della "Legenda aurea". Richiama alla mente il vescovo alessandrino Atanasio ( 295-375 ), grande avversario dell’eresia ariana e più volte perseguitato dall’imperatore Costanzo II, figlio di Costantino il Grande ( 337-361); ma si tratta certamente di una, coincidenza.

(3) Che sia azzardato vedere in questo malvagio pentito che affronta la morte un ricordo del buon ladrone crocifisso a lato di Gesù ( cfr. Lc.,XXIII, 40-43 )? Del resto, anche la vicenda di Paolo di Tarso (cfr. "Atti", IX, I—19 ) ,dapprima persecutore implacabile dei Cristiani e poi apostolo infaticabile della loro dottrina, è molto simile.

(4) Nel Basso Impero il "magisterpeditum" era il comandante dell’unità di fanteria e il " magister equitum" di quella di cavalleria : infatti da Gallieno in poi il rapporto tra fanteria e cavalleria in seno alla legione si era andato gradatamente spostando a favore della seconda. dell’età di Diocleziano e di Costantino la metamorfosi è ormai avvenuta e il nerbo dell’esercito romano non è più la scadente fanteria ( annientata nel .378 dai Goti nella famosa battaglia di Adrianopoli ), ma la cavalleria, specialmente pesante ( catafratta ), che già preannuncia quella medioevale. San Giorgio, solitamente raffigurato a cavallo, armato di scudo e di una lunga lancia, è il capostipite dell’ideale cavalleresco medioevale. Nell’ultima età dell’Impero di Occidente, poi, le due cariche di "magister peditum" e di "magister equitum" si fusero in quella di. "magister utriusque militiae praesentalis" o semplicemente "magi ster militum".

(5) Vi è forse qui un ricordo della Legione Tebana di S. Maurizio, massacrata in Gallia, come già si è detto, per ordine di Massimiano Erculio, e della leggendaria armata dei diecimila di Acacio, sterminata in Armenia per ordine di Adriano ( il Martirologio romano li ricorda il 22 giugno ).

(6) anche Erode Antipa, il tetrarca della Galilea e della Perea che ricevette Gesù da Filato, "sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui" ( Lc., XXIII, 8 ). Il Maestro, però, si era comportato ben diversamente da quanto la leggenda attribuisce a San Giorgio: infatti, non che esaudire la sua empia sete di prodigi, "non gli rispose nulla" ( id. , XXIII, 9 ).

(7) È appena il caso di richiamare l’attenzione sulla puerilità e anzi la vera e propria mancanza di serietà morale di questi pretesi "miracoli", come pure sulla voluta astrusità dei numeri, certo un prestito grossolano dallo stile letterario dell"Apocalisse" giovannea.

(8) Nell’imperatrice Alessandra è riflessa probabilmente la moglie

dell’imperatore Diocleziano, Prisca, nonché la sua figlia Valeria, che era già andata in sposa al Cesare Galerio per motivi dì politica dinastica. Dice infatti Lattanzio, "De mort. pers.", XV,I : "Infieriva allora l’imperatore non soltanto contro quelli di casa, ina contro tutti: e per prime fra tutti costrinse la figlia Valeria e la moglie Prisca a contaminarsi con un sacrificio agli dei." Che le due donne fossero di sentimenti inclini al Cristianesimo, però, non risulta da nessuna altra fonte. Esse andarono incontro, alcuni anni dopo, a un tragico destino: fatte arrestare da Licinio a Tessalonica ( circa l’anno 314 ), furono decapitate e i loro corpi gettati in mare.

(9) Cfr. J. da Varazze, "Legenda aurea", ed. cit., p. 268.

(10)Il numero, chiaramente iperbolico, è un multiplo di sette, numero che in Oriente significava una quantità grande, quasi infinita ( cfr. Mt., XVIII, 21-22 ). È molto probabile che Jacopo da Varazze abbia attinto questo numero da una tradizione più antica e abbia presentato come dato storico ciò che aveva un valore puramente simbolico.

(11)Come dobbiamo intendere questa espressione? Porse che vi fu realmente una "divisa" cristiana, rappresentata da un mantello par-ticolare, tale da distinguere di primo acchito chi lo indossava, più o meno come la corta barba era il distintivo dei filosofi ( cfr. il ritratto dell’imperatore Giuliano, 361-63, di Ammiano Marcellino )? Certamente no. Qui si vuoi solo intendere che i Cristiani, in accordo con la, loro morale che teneva in spregio i beni del mondo ( cfr. Mt.,71,19-21j 25-26 ), erano soliti vestire modestamente e senza alcuno sfarzo.

(12) Evidente reminiscenza di Lact. , "De mort. pers.", XIII, 2-3.

(13) Durante la grande persecuzione dioclezianea ( 303-305 ) Diocleziano rimase a M come di a,, eccezion fatta nper il viaggio a, Roma del quale si è già detto, e Massimiano risiedette a Milano.

(14) È confermata l’origine cappadoce del santo, quantunque altri abbia voluto che Giorgio nascesse bensì in una famiglia nobile della Cappadocia, ma non nella sua terra d’origine, bensì in Palestina, a Lydda ( Lod ). "A Lydda, infatti, era venerato il suo sepolcro" ( A.Giannettini-G. Venanzi, "San Giorgio al Velabro", Roma, I9&7, P« ^4 )• Quest’ultima notizia è, come vedremo, esatta: ma non ne consegue affatto che il luogo del martirio sia stato pure quello della nascita. Il passo citato di Jacopo da Varazze contiene poi una difficoltà: "con l’aiuto di Dio ho combattuto in Palestina". Di quale combattimento si tratta? Che sia quello col drago, potrebbe farlo pensare l’espressione "con l’aiuto di Dio": ma, come abbiamo visto, la leggenda del drago va collocata in ambiente africano, non palestinese ( e, del resto, anche Berito di Fenicia è ben fuori della Palestina ). Lo stesso vescovo di Genova l’ha collocata poc’anzi presso "Silene, città della Libia". Si accenna dunque, nella deposizione del santo durante 1’interrogatorio, a un fatto d’armi guerresco? Nel 296 il re persiano Narseh aveva invaso non solo l’Armenia fin quasi al tratto cappadoce dell’Eufrate, ma anche la Siria; e nell’inverno-primavera seguenti Diocleziano aveva stabilito in Antiochia il proprio quatier generale per la grande controffensiva romana. Nel Basso Impero, poi, era divenuta d’uso corrente 1′ espressione "Siria Palestina" per designare la seconda regione ( cfr. Tert., "Apol.", 7, 2 ). Ma naturalmente la soluzione più piano è quella che corregge "combattuto" con "militato": Giorgio depose cioè di aver prestato servizio in Palestina.

(15) Questo particolare ricorre anche in altre "passiones" a carattere più o meno fortemente leggendario: per esempio, in quella, di S. Augusta da Serravalle (Vittorio Veneto ): cfr. G. Cescon, "S. Augusta", Torino, 1954.

(l6) Analogo supplizio, secondo la tradizione, sarebbe stato inflitto a San Giovanni evangelista per ordine di Diocleziano. Ma il santo ne uscì illeso e fu allora relegato nell’isola di Patmos. Giova qui ricordare che l’atrocità dei supplizi escogitati dai carnefici, quantunque inserita in una cornice fantastica, non ha purtroppo nulla di inverosimile. Cfr. Eusebio di Cesarea, "Hist. Eccl.", lib. VIII.

(17) II fuoco celeste sterminatore degli empi non è un’idea originale della mitologia cristiana, essa era comunissima nel paganesimo greco-romano. La folgoro era appunto un attributo di Zeus e diffusissima era l’idea che un uomo colpito dal fulmine fosse

stato esplicitamente colpito dall’ira divina. Cfr. il bassorilievo conservato al Museo archeologico di Aquileia, raffigurante un "cacator" ( lordatore di luoghi sacri ) colpito dalla folgore dell’irato Zeus.

(18) Era da tempo invalsa nella letteratura cristiana l’abitudine di attribuire sentimenti favorevoli ai Cristiani alle mogli dei persecutori. Cfr. il capostipite dì questa tradizione nella moglie del procuratore Ponzio Pilato, in Mt. , .XXVII, 19.

(19) Cfr. quanto detto alla nota 17, supra. L’immagine di Giove armato di folgore (l’arma utilizzata per colpire i peccatori più empi) partecipò l’ultima volta a un fatto d’armi nella battaglia del Frigidus, il 6-7 settembre del 394 d. C. In essa l’esercito del cristiano Teodosio annientò quello del pagano Arbogaste, rovesciò le immagini pagane e pose fine per sempre al culto pubblico delle antiche divinità.

XXI. IL MARTIRIO NELLA REALTA’ STORICA

Dobbiamo dire subito, per primissima cosa, che non possediamo alcun dato storico attendibile sulle circostanze del martirio di San Giorgio. Tutto quel che potremo fare quindi sarà procedere per ipotesi, aiutan-doci con quanto la storia ci ha tramandato in al tiri casi più fortunati.

Diremo subito che la morte per decapitazione, attestata dalla leggendaria "passio" e ripetuta dalla tradizione successiva sino a Jacopo da Varazze,è la più attendibile fra tutte le altre possibili. Selle "passiones" a carattere leggendario, come quella di S. Giorgio o come quella, citata, di Santa Augusta da Serravalle, la morte per decapitazione è la soluzione stereotipa cui ricorrono i persecutori dopo che né il fuoco, né la ruota né l’olio bollente hanno potuto far niente contro la virtù dei santi martiri. Però nel caso di San Giorgio, che era un ufficiale dell’esercito romano, e un ufficiale, per di più, di grado abbastanza elevato, è più che verosimile che la decapitazione sia stata la pena reale cui venne senz’altro condannato. Al tempo dei primi martiri, quasi tutti di condizione civile, la distinzione della pena si "basava sulla cittadinanza. Coloro che godevano della cittadinanza romana usufruivano di speciali privilegi: non potevano essere flagellati o sottoposti a tortura nella fase istruttoria (1), avevano il diritto di ricusare i tribunali provinciali per appellarsi direttamente alla giustizia dell’imperatore (2), infine la loro esecuzione | capitale non poteva aver luogo pubblicamente. Essa consisteva di norma nella decapitazione: tale fu infatti la morte di San Paolo, avvenuta in località "ad aquas Salvias" presso la Via Ostiense, lungi dagli sguardi del popolino. Coloro che non avevano la cittadinanza romana, invece, i sudditi provinciali, venivano sottoposti a tortura o : a flagellazione durante l’interrogatorio (3). L’esecuzione capitale aveva sempre carattere pubblico, non di rado festivo, in concomitanza cioè con cerimonie religiose e giuochi circensi; poteva aver luogo nel foro, nel teatro, nel circo, o in uno spazio aperto fuori città, come nel caso di Gesù. Agli assassini, ai briganti di strada e agli schiavi fuggitivi erano riservate le pene più strazianti: il fuoco, la croce, le belve. San Pietro, che cittadino romano non S era, subì la crocifissione nel Circo di Nerone in Vaticano. Apprendiamo da Tacito (4) che la crudele fantasia dei persecutori si spingeva ad inventare nuove ed ingegnose forme di supplizio: condannati ricoperti con pelli ferine fatti sbranare dai cani, torce umane accese a rischiarare la notte. I Cristiani subivano un diverso trattamento a seconda del momento, del luogo, dell’indole del giudice, poiché una precisa legislazione in materia, come si è detto, non esisteva. Alcuni studiosi (5) hanno perfino negato che esistesse un vero e proprio "Institutum Neronianum" contro i Cristiani e hanno quindi supposto che essi venissero condannati sulla base del diritto comune, cioè non specificamente in quanto Cristiani ma bensì per delitto di lesa maestà (rifiuto di sacrificare agli imperatori ), o sotto imputazione di incendio doloso ( come nel caso della persecuzione neroniana ), o di rifiuto a sottostare agli obblighi militari. Comunque, col passare del tempo anche persone di nobile condizione subirono il martirio nelle forme anticamente riservate ai membri delle classi inferiori. Il 7 marzo del 203 d.C., a Cartagine, una giovane matrona di nome Perpetua subiva il martirio nell’anfiteatro: secondo una versione fu calpestata da una vacca infuriata e finita con la spada, secondo un’altra venne data in pasto ai leoni (6). Nel 212 d.C. poi veniva promulgata la famosa "Constitutio Antoniniana" dall’imperatore Caracalla, figlio di Settimio Severo, che equiparava giuridicamente tutti gli abitanti dell’Impero ed aboliva la secolare distinzione tra cittadini e provinciali, salvo eccezioni. Il padre della. Chiesa, Origene, travolto dalla persecuzione di Decio ( 249-51 ), venne crudelmente torturato, tanto che ne mori pochi anni dopo, pur non essendo certo di umile condizione.

E veniamo alla persecuzione di Diocleziano. A quel tempo il delitto di lesa maestà veniva punito con la decapitazione per i membri delle classi superiori col rogo o con le belve per quelli delle classi inferiori. Però l’editto di persecuzione del 303 specificava che ogni Cristiano venisse degradato e perciò era in ogni caso passibile delle pene riservate agli "humiliores". Così si spiega la sorte di quel cristiano di Nicomedia che stracciò l’editto imperiale: benché fosse di condizione aristocratica fu sottoposto a tortura, ustionato e infine arso vivo (7). Di molti altri supplizi dolorosi ed estremamente efferati siano a conoscenza, tra l’altro, dalle pagine della "Storia Ecclesiastica" di Eusebio di Cesarea: essi arrivavano fino al punto di versare aceto o sale nelle maghe dei torturati, là dove già si intravedevano biancheggiare le ossa.

Il caso dei membri dell’esercito però, e particolarmente degli ufficiali, era diverso. Non sembrava decoroso che chi aveva sino al giorno innanzi indossato la lorica fosse suppliziato in pubblico e in maniera infamante. Per essi la pena consueta rimaneva la spada: Massimili ano fu così martirizzato, in Africa, l’anno 295- La formula a abituale della sentenza era: "gladio animadverti placuit", si decretò punire con la spada (8). Identica sentenza fu pronunziata contro l’ufficiale Marcello, in Spagna, nel 298 (9). Solo di San Sebastiano ci vien detto che venne condannato alla frecce, ma, anche la sua "passio" ci è pervenuta, in una redazione totalmente leggendaria (10). A Milano, verso il 304, l’imperatore Massimiano fece condannare pure alla decapitazione due ufficiali del suo esercito, Felice e Nabor, di origine orientale o forse nord-africana: la Chiesa ricorda insieme il loro martirio il 12 giugno (il). Per tutte queste ragioni, propendiamo a credere che anche San Giorgio sia stato martirizzato mediante la decapitazione: se così non fu, dovette trattarsi di una rara eccezione, alla quale del resto sembra venir meno qualunque spiegazione soddisfacente.

Quanto al luogo del martirio, checché ne dica il Moroni (12),esso ebbe luogo a Lydda in Palestina, fra Joppe e Gerusalemme (l3); che, come si è visto, più non esisteva. Non si può spiegare diversamente il fatto che solo pochi decenni, forse pochi anni, dopo la sua morte, il suo culto abbia preso stabilmente dimora in quella località. Come nel caso di Pietro, di Paolo e di tanti altri martiri cristiani, il colto faceva sempre perno sulla tomba, non sul luogo della nascita o della residenza. Verosimilmente, l’idea del martirio di San Giorgio a Nicomedia nacque da un duplice ordine di fattori: l’identificazione, già accennata, col martire che strappò l’editto di Diocleziano, e la tradizione che voleva Giorgio non soltanto alto ufficiale di Diocleziano, ma personalmente conosciuto e stimato, prima della persecuzione, dallo stesso imperatore: la cui residenza era, fin dall’inizio del suo lungo regno, appunto Nicomedia.

(1) Cfr. At., XXII, 24-29.

(2) Cfr. At., XXV, 10-12.

(3) Cfr. Gv., XIX, 1. ‘

(4) Cfr. Tac., "Ann.", XV, 44.

(5) Tra i quali T. Mommsen. Del cosiddetto "Institutum Neronianum" parla il solo Tertulliano ( 160 ca.-245 ca. ), due volte: in "Apologeticun", V, 3; e in "Ad nationes", 1,6.

(6) La prima versione si trova nella "passio" delle sante Perpetua e Felicita, la seconda negli "Acta" ( processo verbale dell’interrogatorio) delle medesime.

(7) Cfr. Lact., "De mort. pers.", XIII, 2-3.

(8) Cfr. "Passio S. Maximiliani", III. Una edizione con traduzione e commento si trova in "La non-violenza del Cristianesimo dei primi secoli", a cura di E. Butturini, Torino, 1977,pp. 21-35.

(9) Secondo la "Passio sancti Sebastiani" ( prima metà del V sec.) Sebastiano, guardi pretoriana di Diocleziano, sopravvisse miracolosamente al supplizio delle frecce e, dopo essere stato Giurato dalla matrona I re ne , si ripresentò all’imperatore , che lo fece uccidere a bastonate. Il suo corpo venne sepolto sulla via Appia, ove più tardi fu edificata una basilica a lui dedicata, tuttora esistente.

(10) Nabor e Felice vennero in Italia da Utica ( probabilmente la moderna Tunisi ). I loro nomi, corrotti in S. Félix e San Ambrosio, sono rimasti a due isolette del Pacifico, al largo delle coste del Cile. Cfr. "Patrologia" di J.P. Migne, Parigi,1845, torno XV, p.1.453; G. Moroni, op. cit. ,vol . XLVII ,p. 154; G. Gorney, "The Isles of San Félix and San Nabor", in "The Georaphical Journal", sett.1920, pp.196-200.

(11) Cfr. G. Moroni, op. cit. , voi. XXX, p. 262.

(12) (!2)Cfr. R.’P. John, "San Giorgio al Velabro", cit. ,p. 17; D. Balboni, in "Bibl. Sanct.", cit., VI, col. 512.

XXII. IL MARTIRIO COME REALTA1 U M A N A.

Nello scrivere la "biografia del santo, e specialmente nel narrare le vicende del suo martirio, il pericolo di cadere nel panegirico e di sostituire a una concreta, difficile e sofferta realtà umana un’apologia vuota e squillante è sempre presente (1). Ciò è accaduto molte volte in passato e non vi è travisamento che qui noi vorremmo più sinceramente evitare. I santi non piovono dal cielo, vivono la nostra medesima realtà quotidiana, sono con noi nella nostra affaccendata vita di ogni giorno, ci ‘passano accanto e sembrano quasi confondersi nella folla anonima in cui si muovono. Per un errore di comprensiva storica, rafforzato dalla tradizione iconografica dei grandi pittori e dalla rumorosa retorica di certa letteratura agiografica, noi siamo portati inconsapevolmente a non poterci immaginare un santo se non nel tempo passato e a non riconoscerlo come tale se non dopo l’autorevole giudizio della maggioranza. Invece il santo è un uomo fra gli uomini che vive, pensa e lavora nella società e che apparentemente, a ano sguardo superficiale, noia sembra distinguersi in nulla dagli altri uomini. Perché riconoscere come santo una Caterina da Siena o un Francesco d’Assisi, questo oggi è facile e son tutti capaci di farlo: ma riconoscere un santo nell’uomo della porta accanto, nel vicino di casa, nel collega di lavoro! Questo si è veramente difficile: perché siamo soliti immaginarci la santità ammantata di panni affatto straordinari , e ci sembra di primo acchito incredibile ammettere che essa può anche rivestirsi, o camuffarsi, sotto i panni di coloro che vediamo tutti i giorni e che paiono così simili a noi. Questo appunto è il paradosso del cavaliere della fede, già sottolineato dal filosofo Sören Kierkegaard (2), e in ciò del resto consistette la principale ragione di scandalo dei Giudei riguardo a Gesù. Si crede che il santo piova dal cielo: "Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo, invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia" (3). "Fon è egli forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi?" (4); l’evangelista Matteo aggiunge: "E si scandalizzarono per causa sua". (5)

Tale fu anche, verosimilmente, il destino di Giorgio di Cappadocia. Un uomo come gli altri, un soldato come gli altri, un ufficiale come tanti altri. Al primo annuncio della persecuzione, però, ecco che quest’uomo "come tanti altri" reagisce in ‘laniera diversa, forse inaspettata agli occhi dei suoi stessi commilitoni. Si spoglia dei suoi numerosi "beni, ne fa dono ai poveri, e professa senza timore la sua fede in Cristo, ricusando di compiere il sacrificio alle altre divinità. Sorpresa, stupore, imbarazzo. Poi, l’interrogatorio. Giorgio lo sostiene con semplicità e con fiducia, ben ricordando le parole del Maestro: "Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato Me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia" (6). Eppure, sarebbe bastato solo un piccolo sacrificio agli dei, secondo gli ordini dell’imperatore, poco più di una semplice formalità. Giorgio era un buon soldato, e le autorità non si privavano volentieri di un uomo simile, a quel tempo. Il procuratore avrà provato dapprima con la persuasione, con i modi corretti e perfino rispettosi dovuti a un valoroso ufficiale. Giorgio era un uomo ancor giovane: gli avrà detto, come già al soldato Massimiliano: "Attende iuventutem tuam ne miser pereas" (7). La risposta di Giorgio fu ferma e serena. Non aveva Gesù stesso rassicurato i Suoi con le parole: "e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai padani. E quando vi consegneranno nelle loro ma non preoccupatevi di come o di che cosa dovete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi". (8) Probabilmente, l’inquisitore chiese anche a Giorgio, come era stato chiesto pochi anni prima a un altro ufficiale cristiano martire, Marcello: "Quid tibi visum est contra disciplinam militarem te discingeres et balteum et spatam et vitam proiceres?", cioè "Che cosa ti è saltato in niente di scioglierti dalla disciplina militare e gettare via la cintura e la spada e il bastone di comando?" (5). Sappiamo infatti che Giorgio, prima di professarsi cristiano, si era spogliato delle armi e dell’abito militare, risolvendo la sua personale scelta fra i due "padroni", Dio e Cesare, che da tempo lo tenevano incerto e diviso in se stesso, Né saranno mancati i commilitoni cristiani che, cercando una scusa alla propria debolezza, avranno sussurrato: "Che bisogno c’era di andare così incontro alla morte, costringere le autorità ad emettere una sentenza capitale, spingendole con le spalle al muro? Era proprio necessario?". La stessa cosa era già capitata allo

sconosciuto martire militare elogiato da Tertulliano nel suo celebre scritto "De corona". (10) Infatti 1’integrità morale degli altri ci irrita, quando costituisce un richiamo indiretto alla nostra viltà e al nostro amore del quieto vivere.

L’inquisitore dal canto suo avrà insistito per ottenere il sacrificio ricorrendo a questo argomento: "In sacro comitatu dominorum nostrorurn Diocletiani et Maximiani, Constantii et Maximi milites Christiani sunt et militant", ossia: "Nella guardia al séguito dei nostri signori Diocleziano e Massimiano, Costanzo ( Cloro ) e Massimo ( Galerio ), vi sono soldati cristiani e tuttavia prestano servizio" (11). San Giorgio, come a suo tempo il martire Massimilano, dignitosamente avrà risposto: "Ipsi sciunt quod ipsis expediat", "essi sanno cosa gli giovi", "lo sapranno loro cosa gli giovi". "Ego tamen Christianus sum et non possum mala facere, "Tuttavia io sono Cristiano e non posso fare il male" (l2).

Infine, la sentenza e il martirio. In martirio coraggioso, senza retorica, confortato dalle parole del Maestro: "E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere 1′ anima… Chi dunque Mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece Mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli." (13) Un ultimo pensiero, quando già il carnefice sta snudando la spada: "Signore Gesù, accogli il mio spirito".

Abbiamo cercato in questo capitolo di ricostruire nella sua realtà umana concreta il martirio del Nostro. Le libertà che ci siamo permessi, in mancanza di una "passio" autentica, spero ci saranno perdonate, poiché ci siamo basati interamente su documenti storici attendibili, quantunque relativi ad altri martiri militari della stessa persecuzione. Si fa presto a dire "santo"; si fa presto a dire "martire". Con questi esorcismi noi scarichiamo la nostra coscienza: infatti, posto un abisso incolmabile fra la loro altezza e noi, non c’è più motivo di rimproverarci troppo le nostre debolezze, di essere troppo esigenti con noi stessi. Abbiamo voluto dimostrare che tale abisso non esiste come dato di partenza, ma solo come punto di arrivo. Perciò non vi sono scusanti al nostro amore del quieto vivere. Ogni giorno della, nostra vita è una scelta morale: e di ciascuno di essi saremo chiamati a rispondere.

(1) Cfr. G. Petrilli, "San Tommaso Moro", Milano, 1972, pp. 1-10.

(2) S. Kierkegaard, "Timore e tremore", ed. it. Roma,1976, pp. 68 sgg.

(3) Gv., VII, 21.

(4) Mt., XIII, 55-56.

(5) Mt., XIII, 57.

(6) Gv., XV, 18-19. ‘

(7) "Passio 3. Maximiliani" , ed. cit. , p.30.

(8) Mt., X, 18-20.

(9) "Passio S. Marcelli", ed. cit., pp. 40-41.

(10) Tert., "De Cor.", I. .

(11) "Passio S. Maximiliani ", ed. cit., pp. 30-31.

(12) "Passio S. Maximiliani", ed. cit., p.31. Osserviamo però che nel caso di Massimiliano la motivazione della sentenza, era, il puro e semplice rifiuto di prestare servizio militare, in quello di Giorgio la professione di fede cristiana in quanto tale. Tale differenza è "bene evidenziata da questa domanda e risposta fra l’inquisitore e Massimiliano: "Qui militant, quae mala faciunt?" ; e il giovane: "Tu enim scis quae faciunt" , "tu "ben sai cosa fanno!".

(13) Mt., X, 28; id., 32-33.

(14) Mt., VII, 59: sono le parole del primo martire cristiano, S. Stefano, al momento della lapidazione.

XXIII. LA DATA DEL MARTIRIO

La maggior parte delle fonti e così pure degli autori moderni propende a fissare l’anno 303 come quello in cui avvenne il martirio del santo. La Chiesa celebra la sua festa il 23 aprile seguendo una tradizione assai antica e questa data non è mai stata messa in discussione. Ora, se teniamo presente che la distruzione della cattedrale di Nicomedia ebbe luogo il 23 febbraio del 303, e il primo editto di persecuzione fu pubblicato nella capitale d’Oriente il giorno successivo, 24 febbraio, la data tradizionale del martirio di San Giorgio appare a prima vista convincente. Sia le antiche e pur fantasiose "passiones" greche e latine, sia la "Legenda aurea" di Jacopo da Varazze e così pure le vite dei santi di Simeone Metafraste, lasciano intendere che fra la pubblicazione dell’editto di persecuzione e la reazione di Giorgio, che si spogliò dell’abito militare e fece pubblica professione di fede cristiana, dovette trascorrere un lasso di tempo piuttosto breve, anzi forse brevissimo. Poiché l’editto apparve a Nicomedia il 24 febbraio e nelle province forse qualche giorno dopo (1), e considerato che l’arresto, il processo istruttorie, l’emissione della sentenza e infine l’esecuzione della condanna dovettero richiedere qualche giorno almeno, pure svolgendosi nella massima rapidità, come il grado dell’imputato richiedeva, i due mesi che corrono da quella data al 23 aprile appaiono un tempo più che ragionevole e naturale.

Ora, poniamo per accettato che la data del martirio fu il 23 aprile. Quanto all’anno, ci permetteremo di verificare se il 303 sia quello che offre maggiori garanzie dì verosimiglianza. Per prima cosa procederemo per esclusione. Come dati di base possediamo quello del 24 febbraio, inizio della persecuzione, e il 1° maggio del 305, data della pubblica e solenne abdicazione di Diocleziano e Massimiano (2). E1 infatti ben vero che la persecuzione anticristiana infierì ancora, nella "pars Orientis", fino al 311, data dell’editto di tolleranza di Galerio (3), e in Siria e in Egitto fino al 313, data della morte di Massimino Daia, l’ultimo persecutore, a Zirallo, durante la guerra contro Licinio (4), ma la tradizione è concorde ne11’affermare che il martirio di San Giorgio avvenne sotto Diocleziano e Massimiano, dunque entro i primi quattro mesi del 305. Ora, se il Nostro avesse subito il martirio il 23 aprile del 305, sarebbe stato appena pochi giorni prima dell’abdicazione dei due Augusti, e dunque una delle loro ultime vittime: il che non si accorda coi particolari dello, narrazione. Per una ragione simile non sembra molto probabile neppure il 23 aprile del 304, data alla quale, dei resto, Diocleziano si trovava in Italia, a Ravenna (5).

A questo pianto rimane un’ultima possibilità: che la data del martirio vada anticipata al 23 aprile del 302. Infatti la maggioranza degli studiosi ha sempre considerato il 303 come il termine "ante quem" del martirio di Giorgio, per il fatto che appunto nel febbraio di quell’anno venne pubblicato il primo editto di persecuzione. Vedremo ora che

la questione non è affatto così semplice ed evidente. Abbiamo già ricordato Massimiliano, martirizzato in Africa nel 295, e Marcello, martirizzato in Spagna nel 298. Ora, è ben vero che l’uno e l’altro non furono condannati a morte sotto la specifica imputazione di professione cristiana, ma il primo perché rifiatò di lasciarsi arruolare, il secondo perché gettò in terra la spada e la vite del comando. Prima del 302 diversi soldati romani di religione cristiana affrontarono il martirio, in diverse parti dell’Impero, non in virtù di una specifica legislazione anticristiana, ma per essersi rifiutati di sottostare, in una forma o nell’altra, agli obblighi della disciplina militare. Questi episodi avevano già cominciato ad indisporre l’animo di Diocleziano nei confronti dei Cristiani, e ancor più lo inasprì un incidente avvenuto a corte mentre l’imperatore si trovava in Oriente, ad Antiochia, per la guerra persiana.(6) Fu nel corso del 302 che Diocleziano, tornato a Nicomedia, convocò una conferenza, cui presero parte il suo Cesare Galerio e il filosofo pagano Jerocle (7), nemico irriducibile dei Cristiani, nel corso di essa venne prese la decisione di prescrivere un sacrificio religioso per tutti i soldati e gli ufficiali del1’esercito, decisione che venne immediatamente messa in atto. Tutti i militari di religione cristiana che rifiutarono di prendere parte al sacrificio vennero allontanati immediatamente dall’esercito: alcuni subirono il martirio (8). Così, benché il primo editto di persecuzione generale, quello del febbraio 303, non fosse stato ancora pubblicato, di fatto in seno all’esercito romano era già in corso una persecuzione anticristiana in piena regola.

Che altro dire? Giorgio di Cappadocia, ufficiale di rango elevato, non poté certo evitare di essere messo fin dal 302 davanti all’alternativa del sacrificio o della pena. La tradizione è del resto concorde nel presentarcelo come un uomo dall’animo generoso e impulsivo, che non attende nemmeno l’ora del sacrificio ma spontaneamente, al primo annuncio delle misure prese contro la religione cristiana, si affretta a fare la sua pubblica professione di fede cristiana. Non è pensabile che egli abbia potato evitare questa prima prova e che sia stato martirizzato solo nel corso della persecuzione generale, iniziata nel 303. Altrimenti si cadrebbe nel paradosso di ammettere che egli, essendo ancora nell’esercito alla data del febbraio 303, si era piegato l’anno prima a compiere il richiesto sacrificio alle divinità pagane: il che, francamente, appare del tatto impensabile.

Naturalmente dobbiamo concludere che, se queste supposizioni sono esatte e se la data del martirio del Nostro deve essere anticipata al 23 aprile del 302, viene a cadere la possibilità che San Giorgio abbia preso parte al viario di Diocleziano in Italia. Questa possibilità, per le ragioni che siaa venuti esponendo, può infatti sussistere solo nel caso che Giorgio abbia subito il martirio nel 304 o nel 305, ipotesi che già vedemmo debolmente sostenibile.

(1) Diciamo forse, perché Diocleziano e Galerio avevano concertato la persecuzione fin dai mesi invernali, a Nicomedia, e avevano prescelto di scatenarla il 23 febbraio perché, essendo la festa del dio Termine e la chiusura dell’anno civile, intendevano simbolicamente

"quasi por termine a quella religione", cioè dei Cristiani: Lact. , "De mort. pers.", XII, 1. Se tutto questo è esatto, ne consegue che anche i governatori provinciali dovettero essere informati anticipatamente dei progetti dell’imperatore.

(2) Zosimo, "Storia Nuova", II, 7,2; Lact., "De mort. pers.", XVIII, XIX; Oros., "Hist. adv. Pag.", VII, 25, 14.

(3) Lact., "De mort. pers.", XXXIV, ne riporta il testo integralmente e ne ricorda la data precisa: il 30 aprile del 311. Galerio, caduto orribilmente malato a Nicomedia, nell’editto pregava tra l’altro i Cristiani "a predare il loro Dio per la salute nostra, dell’Impero e propria". Lattanzio riscontra un precedente nel re seleucide Antioco Epifane, il persecutore della religione giudaica ( II Macc., IX ) caduto anch’egli preda di un morbo terribile e autore, sul letto di morte, di un editto di tolleranza religiosa. Galerio morì poco dopo e la notizia fu resa pubblica a metà maggio del 3H.

(4) Zos., "Storia Nuova", II, I7, 3; Oros., "Hist. adv. Pag.", VII, 28, 17; Lact., "De mort. pers.", XLIX, 1-7.

(5) Cfr. cap. X, "Al séguito di Diocleziano", p.42 sgg.

(6) Secondo Lact., "De mort. pers.", X, una cerimonia sacrificale cui presenziava lo stesso Diocleziano fu turbata dalla presenza di alcuni servitori cristiani che, facendosi il segno della croce, misero in fuga i demoni e impedirono agli aruspici di trarre i consueti presagi. L’imperatore allora ordinò di compiere i sacrifici a tutti coloro che si trovavano a palazzo, sotto pena di subire le verghe: "e con ordini scritti ai comandanti militari prescrisse che anche i soldati fossero costretti a compiere quei nefandi sacrifici, e coloro che non obbedivano fossero allontanati dall’esercito". Noi potremmo anche supporre che dapprima Giorgio, in conseguenza di questa circolare imperiale, abbia lasciato l’esercito, e solo in séguito abbia sofferto il martirio, nel corso della persecuzione generale. Ma non è che un’ipotesi priva di qualsiasi elemento sicuro.

(7) Jerocle era seguace delle dottrine anticristiane di Celso e Porfirio e pubblicò uno scritto dal titolo "Discorso amico della, verità ai Cristiani". Chateaubriand fece di questo personaggio il più accanito persecutore dei Cristiani nel suo poema epico in prosa "I martiri" ( 1809 ).

(8) Cfr. anche Raimondo Bacchisio Motzo, "Diocleziano", in "Enciclopedia Italiana", voi. XII, p. 922.

XXIV. UNA FINE E UN PRINCIPIO

Anche nel caso di San Giorgio, come in quello di tanti e tanti altri martiri cristiani, la vittoria del potere assolutistico impersonato dal dispotismo orientalizzante di Diocleziano fa solo apparente. Non si può spegnere nel sangue un’idea, se essa ha profonde radici nel cuore degli uomini: e questo era il caso della fede per la quale anche Giorgio diede la propria vita. L’imperatore abbandonò il trono, stanco egli stesso di tanto sangue, pochi anni dopo (1); Massimiano, l’altro feroce persecutore del nome cristiano, per tre volte depose la porpora e per tre tentò di riprenderla, seminando di cadaveri la propria tragica strada: finirà impiccato per ordine di suo genero, Costantino il Grande. (2) Galerio, l’altro implacabile persecutore, morì dopo un regno sanguinoso e travagliato fra gli spasimi di una atroce malattia (3): ma egli stesso, prima di soccombere al male, riconobbe implicitamente la propria sconfitta emanando un editto di tolleranza religiosa con cui si ordinava di cessare ogni azione contro i Cristiani e si permetteva la ricostruzione delle chiese e dei luoghi del culto. Due anni dopo seguì l’editto di Milano, promulgato da Costantino e Licinio, che liberò definitivamente i Cristiani dalI1incubo di ogni futura persecuzione.

Il culto di San Giorgio sorse spontaneamente solo pochi anni dopo la sua morte e questo è uno degli elementi secondo noi decisivi a conferma dell’esistenza storica del martire, da alcuni, come si disse a suo tempo, messa in dubbio o addirittura negata. (4) Il culto di Giorgio si localizzò a Lydda, luogo del martirio, ove sono ancor oggi visibili i resti di una chiesa del IV secolo a lui dedicata, che è databile forse all’età di Costantino (5) e comunque entro la metà del secolo. Infatti un’epigrafe in lingua greca (6) datata dall’insigne studioso Delehaye al 368 parla di una "casa dei santi e trionfanti martiri Giorgio e compagni". (7) Se si tiene presente che in quegli anni dovevano essere ancora in vita diversi testimoni e anche protagonisti della persecuzione dioclezianea, appare addirittura incredibile che una chiesa, venerata per i suoi martiri, frequentata da pellegrini di ogni contrada, sia stata innalzata alla memoria di un martire mai esistito. Possediamo poi due altre testimonianze, però più tarde, entrambe del VI secolo. La prima è di Teodosio Perigeta, un diacono che compì verso il 530 un pellegrinaggio in Palestina e che fra l’altro scrisse: "In Diosopolis ( Lydda ), ubi sanctus Georgius martyrizatus est, ibi et corpus eius est et multa mirabilia fiunt" (8). L’altra è di Antonino da Piacenza e risale al 570 circa (9).

Intanto il culto del santo si allargava, sia all’interno dell’ambito triestine se che fuori. A Gerusalemme esistevano fin dal VI secolo un monastero e una chiesa a lui dedicata (10). A Gerico nello stesso secolo gli venne dedicato un monastero. (11) A Zorava nella Traconitide ( parte dell’antica tetrarchia di Filippo, oggi in Siria ) si ricordava uri ‘ apparizione di San Giorgio a un tal Giovanni, come è attestato da un’iscrizione del 515 (12). A nord dell’Armenia il paese della Colchide, entrato nell’orbita politica, economica e culturale di Bisanzio, assumeva in onore del santo il nome di Georgia (l3).La fantastica cavalcata del culto di San Giorgio nelle regioni dell’Europa occidentale non ebbe inizio, come erroneamente taluno ha raffermato, al tempo delle Crociate, poiché esso è documentabile fin dai secoli più oscuri dell’alto Medio Evo e delle grandi invasioni germaniche. In Italia esso fu introdotto, o forse reintrodotto, al séguito delle campagne di riconquista dell’imperatore Giustiniano. Infatti, durante la guerra greco-gotica ( 535-552 ), il generale bizantino Belisario fu assediato in Roma dargli Ostrogoti e in quella occasione affidò una delle porte cittadine, quella di S. Sebastiano, alla custodia di San Giorgio. (14) E il santo, a quanto pare, fece buona guardia dall’alto delle mura Aureliane quasi sguarnite di difensori. Poco più di un secolo dopo, sotto il pontificato di Leone II (682-83) venne costruita nella Città Eterna la meravigliosa basilica di S. Giorgio al Velabro, sulla base di una diaconia preesistente (15), questo nobile monumento dell’architettura altomedioevale è stato immortalato dalla penna impareggiabile di un grande studioso del passato di Roma, Ferdinand Gregorovius (16). E naturalmente una chiesa dedicata a 3an Giorgio esisteva, fin dal secolo VI, bella più "bizantina" delle città italiane del tempo, Ravenna, capitale dell’Impero Romano d’Occidente fin dal recano di Onorio ( 402 circa ) e poi sede dell’Esarca bizantino. (17) Naturalmente il culto del santo orientale ebbe grande successo anche a Venezia, l’altra grande città "bizantina" del nostro alto Medio Evo, ove esistono a tutt’oggi due chiese a lui dedicate (18). Così pure, a Napoli il vescovo Severo fin dai primi anni del secolo V ( dunque circa cento anni dopo il martirio ) aveva fondato la basilica di S. Giorgio Maggiore. (19)

Ma il culto del martire orientale non si limitò alle province soggette, direttamente o indirettamente, alla potenza bizantina; esso penetrò fin nel cuore dell’Italia longobarda. Il re Cuniberto ( 678-88 ) dedicò a San Giorgio una chiesa nel borgo di Cornate, vicino a Milano (20). Di lì, il culto di Giorgio valicò le Alpi e passò in Gallia. Lo troviamo anzi colà fin dal tempo di S. Gregorio di Tours ( 538-594 ) in relazione al trasporto delle reliquie a Limoges e a Le Mans (2l), trasporto del quale anche Jacopo da Varazze ebbe conoscenza (22). Infatti nel 614 i Persiani avevano invaso la Palestina (23); ricacciati e disfatti dall’imperatore Eraclio, nel 637 gli Arabi guidati dal califfo Omar avevano conquistato definitivamente Gerusalemme (24) e le reliquie di San Giorgio erano state trasportate, insieme a molti altri oggetti sacri della religione cristiana, in Occidente. Il cranio del martire venne collocato nella Chiesa di San Giorgio al Velabro in Roma e venerato fin dai primi anni del secolo VIII (25). Altre reliquie andarono a Ferrara e a Venezia (26). Per tornare alla Gallia, il re dei Franchi Clodoveo ( 482-511) agli inizi del VI secolo aveva dedicato a San Giorgio un monastero, il cui culto venne diffuso dipoi da San Germano di Parigi.

Mentre nel mondo orientale, dall’Egitto il culto del santo raggiungeva l’Etiopia (27) e vi si stabiliva saldamente, in Occidente esso raggiungeva la Britannia e, dopo l’invasione normanna, acquistava tale ampiezza da divenire il santo nazionale inglese (28). In Germania, poi, fin dal 550 circa, esisteva una basilica a lui dedicata a Magonza, celebrata anche da Venanzio Fortunato (29).

Ma la nostra rassegna si ferma qui. La diffusione del culto del martire San Giorgio nel mondo è un argomento così vasto e molteplice che richiederebbe uno studio a parte: e sa di esso molto è già stato scritto (30). Basterà appena ricordare che durante il Medio Evo questo santo divenne protettore di città ( Genova, Venezia, Barcellona), Stati ( Lituania) Georgia, Inghilterra, Catalogna, Aragona, Portogallo), organizzazioni (commercianti, Cavalieri di Aragona, Cavalieri della Giarrettiera ). In breve, per usare l’espressione del rev. E. T. John, Rettore della chiesa di San Giorgio al Velabro, bisogna, riconoscere che, se una parte della nostra vita eterna consiste nel ricordo che lasciamo ai posteri, allora San Giorgio, a dispetto dell’avarizia dei dati storici che di lui possediamo, è più vivo che mai (31). Né Diocleziano} che a malapena, poté aver notizia della sua morte, né il procuratore romano che materialmente lo condannò alla pena capitale, a Lydda, in Palestina, diciassette secoli fa, poterono certo immaginare che quel colpo di spada con cui fu troncata la testa di Giorgio lo avrebbe consegniate alla memoria imperitura dei secoli a, venire.

(1) Diocleziano abdicò a Ili come di a il 1° maggio del 305 e subito dopo si ritirò a vita privata nella sua casa-fortezza di Salona ( Spalato ), sulla costa della Dalmazia. Presiedette la conferenza di Carnuntum nel 308, in cui tentò vanamente di appianare i gravi contrasti scoppiati in seno alla tetrarchia, e declinò ogni invito a riassumere il potere. Chiese invano la restituzione di sua moglie e sua figlia, trattenute in ostaggio da Massimino Daia, e si spense misteriosamente a Salona verso il 313. Secondo una versione, si sarebbe egli stesso lasciato morire di fame.

(2) Le circostanze, peraltro assai dubbie, della morte di Massimiano, sono narrate da Lact., "De mort. pers.", XXX, 1-6, il quale ci informa anche ( id., XLII, 1 ) che subito dopo Costantino fece abbattere le sue statue e togliere le sue immagini dovunque si trovassero.

(3) Sul letto di morte aveva raccomandato la moglie Valerla e la suocera Prisca a Licinio, da lui beneficato: il quale lo ricompensò facendo assassinare entrambe pochi anni dopo ( Lact., op. cit.,

XXXV, 2; LI, 1-2.

(4) Cfr. A. Giannettini-C. Venanzi, "La chiesa di San Giorgio al Velabro", cit., p. 14. Si tratta di una tesi piuttosto superficiale, quantomeno frettolosa, nel contesto di una monografia peraltro di indubbio valore. Gli Autori sostengono che Giorgio di Cappadocia fu una specie di ipostatizzazione degli ideali cavallereschi del Medio Evo. Ci si potrebbe però chiedere quanto di tale mentalità cavalleresca fu parto reale dell’età medioevale e quanto non sia da attribuire alla rappresentazione moderna, filtrata dal Romanticismo, degli ideali del Medio Evo. E oltre a questo, gli Autori sono impotenti a spiegare, ovviamente, come un bel giorno l’ideale sia stato calato, per frode o ingenuità, in una figura storica e al tempo stesso del tutto irreale.

(5) Cfr. D. Baldi, "Guida di Terra Santa", Gerusalemme, 1953, pp.332-333.

(6) L’epigrafe venne ritrovata a Eaccae di Batanaea. Questa regione, insieme alla vicina Gaulanitis o Gaulanitide ( capitale Cesarea di Filippo ) faceva parte nei tempi evangelici del principato di Erode Filippo, terzo figlio di Erode il Grande, cit. anche in Le. ,111, I, mentre nell’età di Diocleziano ( e quindi di San Giorgio ) venne inglobata nella provincia palestinese.

(7) Questa iscrizione dimostrerebbe inoltre che il martirio di Giorgio in Palestina non rimase un fatto isolato, ma dev’essere inquadrato’ in un fenomeno più ampio riguardante l’ambiente militare durante la persecuzione anticristiana in quella provincia.

(8) Teodosio Perigeta, "De Situ terrae sanctae", in GSEL, XXXIX, Vienna 1898, p. 139. . ,

(9) Antonino da Piacenza, "Itinerarium", ibidem, p. 176. Una terza testimonianza in proposito, di Adamanno, è dell’anno 670 circa: "De locis sanctis", 111,4, ibidem, pp.288-294. E’ cosi confermato che negli anni più oscuri dell’alto Medio Evo, quando i Longobardi imperversavano in Italia e distruggevano per sempre città come Altino e Oderzo, il culto di Giorgio passava direttamente, senza intermediari, dai luoghi d’origine al mondo occidentale: e ciò molti secoli prima delle Crociate. ::

(10) Ciò è documentato da una epigrafe, anch’essa del VI sec., cit. in J. Perrot, "Syria", XXVII, 1950, pp. 194-196.

(11) Cfr. P. Abel, in "Revue Biblique", VIII, 1,911, pp. 286-289.

(12) Cfr. Delehaye, "Origines", p. 86.

(13) La Colchide, teatro del mito greco di Giàsone alla conquista del vello d’oro, si aprì al Cristianesimo sotto il principe Miriani verso il 265 d.C., dunque oltre mezzo secolo prima dell’Impero Romano, grazie all’influenza della vicina Armenia. Alla fine del IV secolo essa poteva dirsi interamente cristianizzata. Il culto di San Giorgio vi fu introdotto da Costantinopoli ove, è bene ricordarlo, il martire era venerato nell’orfanotrofio cittadino.

(14) L’episodio è stato erroneamente collocato ria alcuni autori moderni nell’anno 527 circa: cfr. D. Balboni, in "Bibl. Sanct.", cit., VI, col.518; "Enciclopedia Italiana", vol. XVII, p.173. Ma Belisario sbarcò in Sicilia, dando inizio alla ventennale guerra greco-gotica, solo nel 535; vi è quindi un palese errore di cronologia riguardo all’assedio di Roma. Gfr. Procopio di Cesarea, "De Bello Gothico", ed. it. Roma, 1974. .

(15) Cfr. A.Co3t-.intini-C. Venanzi, cit. 5 R.T. John, cit.; M. Apollo-nj-Ghetti, cit. .

(16) Cfr. P. Gregorovius, "Storia della città di Roma nel Medio Evo" (1859-73 ), ed. it. Roma, 1972 ( 6 voll. ), I, pp. 378-379.

(17) Questa chiesa ravennate è attestata dalla biografia del celebre

vescovo Agnello: cfr. "Codex Pontificalis Ecclesiae Ravennatis", in BIS, II, 2, 3j p.2I7. Essa sorgeva nel campo "Coriandro", vicino al Mausoleo del re goto Teodorico il Grande e dunque non lungi dalla odierna stazione ferroviaria. Una seconda chiesa dedicata al santo di Cappadocia, "Sancti Georgii de Porticibus", sorgeva nel quartiere del palazzo imperiale.

(18) S. Giorgio dei Greci ( 1539-1561 ), il cui interno è ricco di opere d’arte bizantine trafugate da Costabtinopoli; San Giorgio Maggiore ( fondata nel secolo X e ricostruita nel 1565-1610 ), che contiene, fra 1′.altro, il celebre dipinto di Vittore Carpaccio raffigurante la lotta fra San Giorgio e il drago.

(19) Non lungi dal Duomo, fu ricostruita nel 1600 da C. Fanzago e conserva ancor oggi, all’ingresso, l’abside primitivo del IV-T secolo.

(20) Cfr. C. Marcerà, "II messale di Civate", Civate, 1958, p. 38.

(21) Cfr. Gregorio di Tours, "Miracolorum liber", I, CI, ediz. T. Ruinart, PL, LXXI, col. 792-793. .

(22) Infatti Jacopo da Varazze cita esplicitamente Gregorio di Tours riguardo a questo episodio: cfr. la "Legenda aurea", ed. cit. , p. 271.

(23) Fin dal 611 il re persiano Cosroe II "Parviz" ( "il Vittorioso") aveva sferrato una violenta offensiva contro i Bizantini, occupando la Siria e la città di Damasco. Nel 614 i Persiani presero Gerusalemme, distrussero la chiesa del Santo Sepolcro e trafugarono a Ctesifonte la reliquia della Santa Croce.

(24) Nel 635 gli Arabi avevano conquistato Damasco; nel 636 vinsero la decisiva battaglia sulle rive del fiume Yarmuk e nel 637, dopo due anni di assedio, entravano in Gerusalemme.

(25) Una parte di esso fu trasferita nel 1600 a Ferrara.

(26) Nel 1110 Roberto di Fiandra portò un braccio di San Giorgio a Ferrara, facendone dono alla contessa Matilde, che a sua volta lo donò alla cattedrale ( dedicata al santo di Cappadocia nel 1135 ). Cfr. G. Bertoni, "La fondazione della cattedrale di Ferrara e l’iscrizione del 1135", in "La cattedrale di Ferrara", Verona, 1937. UJn altro braccio del santo fu portato a Venezia nel 1462: cfr. G. Damerini, L’isola e il cenobio di San Giorgio Maggiore", Venezia, 1956, pp. 95 sgg. È questa una pagina sgradevole, ma tutt’altro che infrequente, della religiosità medioevale, legata a forme di culto esteriori e spettacolose.

(27) Cfr. D. Balboni, in "Bibl. Sanct.", cit., VI, col. 517. L’arte copta dell’Etiopia siimpadronìanch0’essa del fortunato motivo iconografico della lotta di San Giorgio col drago, specialmente con miniature e dipinti.

(28) Edoardo III fondò nel 1348 l’Ordine di San Giorgio o "della Giarrettiera".

(29) Venantius Fortunatus, "Carmina", II, 16, in PL, LXXXVIII, col. 107. Un’altra chiesa dedicata a San Giorgio fu eretta da Enrico II (1014-1024) a Bamberga.

(30) Cfr. la ricca bibliografia sull’argomento contenuta in P. Toschi, "la leggenda di San Giorgio nei canti popolari italiani", cit..

(31) Cfr. R. T. John, "San Giorgio al Velabro", cit., p. 17.

APPENDICE I

IL DRAGO., IL DIAVOLO, LA SIMBOLOGIA

La leggenda del combattiineNto fra San Giorgio e il drago può essere considerata partendo da due diversi punti di vista: quello di Giorgio Ev quello del drago. Nell’ambito della nostra indagine – che vuole essere essenzialmente una biografia storica – o, quanto meno, un tentativo di biografia storica — del santo di Cappadocia, noi abbiamo naturalmente privilegiato il primo punto di vista. Invero, a qua-to ci risulta questo è stato pure l’approccio abitualmente seguito da tutti coloro i quali si sono occupati della leggenda. D’altra parte, i risultati conseguiti nel tentativo di lumeggiare le origini e lo sviluppo di essa hanno discretamente ripagato il nostro sforzo di comprensione. Tuttavia, a conclusione della nostra indagine, sentiamo il bisogno di completare il quadro della leggenda» tentando di gettare un po’ di luce su un aspetto rimasto sino ad ora in ombra, e cioè la simbologia del drago considerato in sé stesso, prima ancora che in rapporto con San Giorgio e con la lotta mortale che avrebbe ingaggiato contro di lui.

Infatti, aprendo a caso una enciclopedia, alla voce "San Giorgio" (1) leggiamo: "…secondo la leggenda, soldato della Cappadocia che avrebbe ucciso in Libia un drago feroce (il demonio) e che sarebbe morto verso il 303, sotto Diocleziano…". Ora, questa immediata identificazione del drago ucciso da Giorgio, con il demonio, ci si presenta alla mente per effetto di una secolare tradizione allegorica, divenuta così salda da generare l’illusione di un’idea istintiva e non già mediata da secoli di condizionamento culturale. Ma la domanda che bisognerebbe porsi è piuttosto: Come, quando e perché ebbe inizio tale identificazione tra il drago e il demonio? Infatti, non è essa dovuta – in una certa misura almeno – precisamente alla leggenda di San Giorgio? E se questo è vero, in quale contesto andava letto l’episodio della lotta fra San Giorgio e il drago, quando tale leggenda era ancora agli esordi e non aveva acquistato la forza di una vera e propria tradizione allegorica e iconografica? In altre parole: che significato aveva il drago, e quindi che significato poteva avere uccidere il drago, prima che si affermasse con tutto il suo peso la leggenda del Nostro e la sua interpretazione convenzionale?

Noi abbiamo già risposto, almeno in parte, a tali interrogativi, occupandoci dello origini della leggenda e specialmente delle sue possibili fonti d’ispirazione, tanto pagane quanto giudaiche ( veterotestamentario ). Ma poiché, allora, la nostra attenzione era concentrata prevalentemente sulla figura storica di San Giorgio, mentre il drago non la interessava che in via aggiuntiva e, diciamo così, esteriore, vogliamo adesso, per amore di completezza, imboccare la via opposta e considerare la figura allegorica del drago in quanto tale. Solo in un secondo momento la set te remo a confronto con quella di San Giorgio; e, se i risultati così ottenuti combaceranno con quelli tradizionali, da noi già considerati, potremo dirci interamente soddisfatti della soluzione a suo tempo proposta per l’insieme della leggenda»

La prima constatazione che dobbiamo fare è questa: non sempre la figura del drago riveste una connotazione malefica, tanto meno suggerisce sempre e istintivamente una relazione con le forze diaboliche. Che cosa è, infitti, un drago? È un mostro favoloso, il cui aspetto è derivato quasi sempre dai rettili, pur nella varietà delle connotazioni particolari: sul corpo di serpente, o comunque di rettile, si innestano ali di pipistrello, testa e zampe di leone (o di cane, o di gatto) ,me atre le fauci , talvolta fornite di numerose lingue, emettono fumo e fiamme. Ora, fin dalla più remota antichità, il suo aspetto terrificante, ma al tempo stesso suscettibile di interessanti sviluppi figurativi, ne ha suggerito una massiccia utilizzazione in campo decorativo, sia pittorico che plastico. Ma non in tutte le tradizioni iconografiche le sembianze mostruose del drago hanno ispirato la convinzione di una sua natura diabolica o comunque malvagia. In Estremo Oriente, ad esempio, ove la figura del drago è talmente familiare da costituire uno dei motivi ornamentali più diffusi (2), essa è concepiti, come figura positiva e addirittura "benefica. In Giappone del resto è credenza mitologica che il drago possa mutare aspetto e perfino rendersi invisibile. Nell’antica Cina era venerato come un celeste apportatore di pioggia dalle popolazioni contadine; il taoismo lo annoverò tra le forze deificate della natura; e la famiglia imperiale lo assunse come proprio simbolo distintivo (3). Alla fondamentale differenza di significato allegorico, rispetto alle civiltà occidentali, l’Estremo Oriente ne aggiunge anche una di natura iconografica, che rappresenta una costante: tanto in Cina che in Giappone, pur essendo considerati potenze dell’aria, i draghi vengono raffigurati privi di ali (4).

È degno di nota il fatto che anche nell’antica Grecia, originariamente, il drago non possedeva affatto delle connotazioni di natura diabolica. Per i Greci, anzi, la muta annuale della pelle era un simbolo di autorinnovamento della natura, e di conseguenza il drago, la cui storia figurativa – come si è visto – è nata dal serpente, era considerato senza alcun sottinteso di carattere negativo. Se il serpente era un animale sacro (5), il drago non poteva certamente rappresentare una essenza diabolica: tale almeno sembra la conclusione suggerita dal mito del giardino delle Esperidi (6) e probabilmente anche da altri. (7) E’ solo in un secondo tempo che appare Echidna, divinità femminile alata, metà donna e metà serpente, dalle abitudini antropofaghe, che unendosi al mostruoso gigante Tifone genera una numerosa progenie di draghi e di mostri: Cerbero (8), il leone di Nemea, la Chimera (9), l’idra di Lerna, la Sfinge (10). In questa fase di sviluppo della mitologia ellenica, il drago impersonò le forze misteriose e incontrollabili della natura – una concezione probabilmente importata dall’Asia – e naturalmente venne affrontato in diverse occasioni dal maggiore degli eroi civilizzatori, Eracle (11).

Figurativamente simile al drago era poi il dio nmessicano Quetzalcoatl, ossia il serpente piumato della civiltà tolteca di Teotihuacàn (12), entrato dipoi nel Pantheon azteco; ma esso non aveva carattere malvagio, anzi era una divinità benefica e presentava inoltre evidenti caratteristiche di eroe civilizzatore! a. lui si doveva l’istituzione delle; cerimonie religione; lui aveva introdotto nel Messico antico la coltivazione del mais. (13) Un’altra divinità azteca, la maggiore, Huitzilopoctli, signore del Sole e della guerra, secondo la mitologia messicana era nato armato sin da principio del "serpente di fuoco" ( ossia, i raggi solari ); era questi però un dio terribile, che esigeva costantemente sacrifici umani (14) poiché si nutriva del sangue dei mortali. (15)

Il drago era largamente diffuso anche nella mitologia Mesopotamia e ancor più largamente utilizzato come elemento iconografico di carattere decorativo. Nella scultura assira ( e, più tardi, in quella persiana ), prevaleva il toro alato con testa regale (16), ma Babilonia il drago era ben differenziato, dal punto di vista figurativo, sia dal toro che dal leone e dagli altri animali mostruosi. Sulla porta di Ishtar, decorata con 575 figure di tori e draghi, questi ultimi rappresentavano il dio Marduk, ossia la divinità principale dei Caldei (17). Nella mitologia sumerica il drago impersonava il principio negativo del cosmo e fu probabilmente al tempo dell’esilio "babilonese che gli Ebrei identificarono il serpente del "Genesi" con il demonio, così come presero dimestichezza con l’angelologia e la demonologia in genere (18). Infatti tali concetti sono pressoché assenti dalle parti più remote dell’Antico Testamento, nonostante che vi compaiano maghi e streghe. (19) È possibile ad esempio seguire la progressiva demonizzaziono del Leviathan, che nei Salmi designa genericamente un cetaceo ed è detto "creato da Dio" (20), mentre in Giobbe, se da un lato indica semplicemente il coccodrillo (21), dall’altro è il mostro capace di inghiottire il Sole per opera degli stregoni (22) e che, in Isaia, simboleggia esplicitamente le forze diaboliche, che Dio stroncherai nel si giorno del giudizio (23).

Con la demonizzazione del Leviathan presso gli Ebrei e di Echidna presso i Greci, frutto entrambe dell’impatto della mitologia mesopotamica sulle civiltà dell’Occidente, sono gettati i presupposti per la raffigurazione medioevale del demonio in sembianza di drago. Il passo è definitivamente compiuto nella "Apocalisse" giovannea, ove con un trasparente riferimento al racconto del "Genesi" il dragone è detto "serpente antico" e viene precipitato da Michele dopo una terribile lotta celeste. (24) In questa fase della cultura ebraica aveva già fatto irruzione ama concezione dualista che, appena accennata nell’Antico Testamento, fu rafforzata senza paragoni dagli influssi dello gnosticismo prima, e del manicheismo poi.

La concezione cristiana del demonio risaliva in massima parta a quella giudaica e naturalmente, attraverso di questa, anch’essa risentì moltissimo dell’influsso orientale, iranico in particolare. Nel Nuovo Testamento, d’altra parte, sì parla del demonio assai più frequentemente che nel Vecchio, tuttavia senza ricorrere all’immagine del drago. Il diavolo, nel Nuovo Testamento, è essenzialmente antropomorfo; solo nella prima lettera li Pietro (25) è paragonato a un leone ruggente, che si aggira in cerca di anime da divorare. Ma nell’ambiente sincretistico dell’Asia Anteriore, ove tra la fine del I secolo e l’inizio del III il Cristianesimo acquistò forza decisiva, le idee relative al principe del mondo (26) furono influenzate, assai più che dalla sobria predicazione evangelica, dallo fascinose mitologie orientali, che, essendo per lo più d’ispirazione nettamente dualistica, facevano ampio spazio alle potenze de numi acne. In questa fase della religiosità tardo antica, che il Burckhardt ha chiamato, non senza buone ragioni, "demonizzazione del paganesimo" (27); la misteriosofia si arricchisce di riti cruenti e raccapriccianti, il sangue umano ne diviene una parte essenziale del culto; compaiono perfino gli adoratori del demonio, quali, secondo S, Ireneo, erano gli ofit. (28) Grazie al vigore morale e dottrinario dei dottori della Chiesa, il Cristianesimo riuscì a superare le pericolose seduzioni del dualismo, sia mandeo che manicheo (29), ma il suo patrimonio iconografico cominciò inevitabilinente ad arricchirsi di draghi, di nostri, di creature d’incubo, che raggiunsero il diapason nella scultura romanica e gotica di parecchi secoli dopo,.

Il drago della leggenda di San Giorgio ci è descritto come una creatura anfibia; vive in un immenso stagno, ma spinge le sue micidiali incursioni fin sotto le mura della città, tanto da bruciare col suo fiato infuocato gli abitanti che sì trovano nei paraggi (30). Iconograficamente, sono palesi le analogie con i due draghi virgiliani che, usciti dalle acque davanti a Troia, uccisero il sacerdote Laocoonte o i suoi due figlioletti. (31) Ma nell’"Eneide" i due nostri acquatici non appaiono che i ciechi esecutori di una volontà divina; non possiedono alcuna consistenza propria, come il drago ucciso da Giorgio. Per comprendere, dunque, il processo di "personalizzazione", e più precisamente di demonizzazione, del drago di Silene, dobbiamo rifarci a tutt’altra fonte, e cioè alla tradizione allegorica della iconografia cristiana. Un esempio celebre: in molti dipinti medioevali e rinascimentali a fianco di San Gerolano è raffigurato un leone (32), il quale non aveva alcun riferimento con la biografia storica del santo, ma simboleggiava puramente e semplicemente le passioni faticosamente domate (33). Ora, cosi come San Gerolamo domò il leone ruggente delle proprie passioni (il demonio della prima lettera di Pietro!), San Giorgio vinse il drago della persecuzione, ispirata a Diocleziano dal diavolo, affrontando serenamente il martirio e ottenne, come gli antichi atleti delle gare pagane, la palma della vittoria (34). Reminiscenze svariate, dunque, in parte giudaiche, in parte orientali, in parte greco-romane, favorirono gli sviluppi della leggenda che nasceva da un fatto storico reale: l’eremitaggio di Gerolamo a Betlemme nel primo caso, il martirio subito da San Giorgio nel secondo. Tutti questi elementi mitologici, che nella iconografia medioevale presero decisamente il sopravvento sulla parte propriamente storica della biografia di Giorgio di Cappadocia, si accordavano benissimo con i dati storici, ahimè scarsi e confusi, che della sua vicenda si possedevano, e venivano a colmare la naturale curiosità dei fedeli e, fino ad un certo punto, la loro sete di meraviglioso.

Senza volere intentare un anacronistico processo alla mentalità dei tempi, debbiano riconoscere che è giunta l’ora di enucleare la concreta realtà umana del Nostro dal contesto leggendario in cui l’avvolsero i secoli. Potremo cosi restituirle anche, nella loro piena importanza, quei valori concreti, morali e religiosi, che fanno della santità un faro luminoso e un costante punto di riferimento nella caliginosa incertezza della nostre scelte.

(1) Enciclopedia Tumminelli, 2′ ed., Roma, 1949, vol. 1, p. 874.

(2) Di solito l’occidentale, ignaro di mitologia cinese, ignora il fatto che l’amplissima diffusione iconografica del drago in Estremo Oriente deriva essenzialmente dalla sua funzione apotropaica. Nella religione popolare cinese, infatti, il drago impersona le forze benefiche della natura e, di conseguenza, ha la funzione di allontanare e di scongiurare quelle malefiche; solo molto più raramente il drago simboleggia esso stesso le forze ostili.

(3) Si pensi, del resto, all’ampio sfruttamento del motivo iconografico del drago, proprio per le sue possibilità decorative, nel campo dell’araldica europea. .

(4) Sarebbe impossibile fornire anche solo un rapido quadro descrittivo dell’impiego dal drago nell’iconografia estremo-orientale. Per la sua funzione apotropaica esso è presente anche nell’architettura profana, in tutti i vecchi quartieri delle città cinesi. Ricordiamo soltanto le statue ed i bassori lievi di draghi nel Palazzo d’Inverno a Pechino; nel tempio dei Lama, sempre a Pechino; o i famosi guardiani del Phrakeo (cappella reale) del Grande Palazzo di Baagkok. . .

(5) Basti pensare al serpente sacro di E oc al api o, dio della medicina, o al Pitone di Delfi, che custodiva l’oracolo di Temi s che fu ucciso da Apollo, il quale si impossessi dell’oracolo e istituì, i giochi pitici.

(6) II giardino delle Esperidi (figlie della Notte o di Atlante) era perduto a Occidente e vi si trovavano i favolosi pomi d’oro, regalo di nozze di Gea ad Era, custoditi dal drago Ladon. Eracle, aiutato da Nereo, scopri il giardino, uccise il drago e rubò i frutti. R. Thévénin ( "I Paesi leggendari", tr. it. Milano, 1960, pp.7-14) sostiene che i pomi d’oro erano certamente arance, all’epoca rare o sconosciute in Grecia, ma rinuncia a identificare il drago.

(7) Nella Colchide, ad esempio,il drago del re Beta custodiva il vello d’oro consacrato da Frisso ed Elle a Zeus (probabilmente, una pelle di montone che alcuni popoli primitivi utilizzavano per separare l’oro dalle sabbie fluviali). L’impresa di Giasone che, aiutato da i Medea, uccise il drago e rubò il vello, era dunque, indubbiamente, sacrilega.

(8) Gr. Kerberos, cane tricefalo custode degl’Inferi (Verg», "Aen.", VI, 417-18),che Dante, pur conservandogli fattezze canine, tende a umanizzare, fornendolo di "barba" o "mani" ("Inf." , VI, 13-53 ).

(9) Gr. Chirmaira, animale mostruoso con corpo di capra, testa dì leone e coda di drago. Infestava la Licia (il mito è, dunque, probabilmente di origine asiatica), finché venne ucciso da Bellerofonte (Omero,"Iliade", VI, 179). La Chimera era ben nota anche agli Etruschi (celeberrima la Chimera d’Arezzo, bronzo del V sec. a. C.), attraverso la Grecia: ma essa, a sua volta, era estranea al mondo ellenico. La chimera vi arrivò, insieme ad altri animali mostruosi, dall’Oriente: cfr. O.W. Von Vacano, "Gli Etruschi nel mondo antico", tr. it. Bologna,1977,pp.83-84.

(10)Gr. Phix, mostro con corpo di leone, ali di uccello, testa e busto di donna, che divorava i viandanti sulla strada ili Tebe, finché fu vinta da Edipo. Da non confondersi con la Sfinge egiziana, con corpo di leone e testa regale.

(11)Eracle strangolò il leone di Nemea nella sua prima fatica; uccise l’idra di Lerna nella seconda; catturò Cerbero nella dodicesima e ultima. .

(12)In lingua nahua "Quetzalcoatl" significa appunto "serpente piumato". Per 1’iconografia, si cfr. le grandi sculture del tempio di Teotihuacàn.

(13)Nella concezione dualistica azteca, Quetzalcoatl lottava col dio distruttore Tezactlipoca, dal quale infine venne espulso da Tula; ma andandosene a oriente, aveva promesso un giorno di tornare. Su tale leggenda giocò Cortés dopo il suo sbarco nel regno di Montezuma, nel 1519-1520.

(14)Infatti per gli Aztechi l’obiettivo principale della guerra era la cattura di vittime sacrificali:cfr.W.M. Prescott, "La conquista del Messico", tr. it. Roma,1977, pp.33-46,

(15)Quando a Tenochtitlàn (Messico) venne eretto, nel 1486,il grande tempio piramidale dedicato a Huitzilopoctli, il re azteco Ahuitzotl condusse una campagna bellica per due anni e sacrificò al dio 20 mila prigionieri di guerra. Cfr. V. von Hagen, "Civiltà e splendore degli Aztechi", tr. it. Roma, 1977,pp.167-170.

(16) Per l’iconografia assira, cfr. spec. i tori dal palazzo di Khorsabad; per quella persiana, 1 ‘ Apadana (sala ipostila) di Persepoli.

(17)Il dragone di Marduk ha corpo di quadrupede, dorso squamoso, zampe, coda e testa di rettile,e un lungo corno sulla fronte. Cfr. l’ottimo libro di A.Parrot, "Babilonia e l’Antico Testamento", tr. it. Roma, 1973, pp. 19-21. .

(18) Influssi evidentissmni della concezione iranica (mazdea) relativa agli angeli e ai demoni si trovano, come già dicemmo, nel "Libro di Tobia" ,interamente ambientato nella Media, ove Rafael e Asmodeo si misurano faccia a faccia. Ora, Rafael è uno dei sette spiriti planetari, benigni ("Amesha Spenta") mazdei: in caldeo, Raphael, signore del Sole (così come Gabriel lo è della Luna e Michael di Mercurio). Asmodeo, che taluno ricollega al verbo ebraico "samad", "distuggere" (e dunque "il distruttore"), probabilmente deriva dal persiano Aeshma, uno dei sette caapi demoni opposti agli Amesha Spenta, e da "daeva" (=demone).

(19) Basterà ricordare i maghi del faraone, capaci di trasformare le verghe in serpenti ( "Esodo", VII, 12 ), e, in ambiente giudaico palestinese, la negromante di En-Dor consultata da Saul la vigilia della battaglia decisiva contro i Filistei ("I Samuele", XXVIII, 7-25).

(20) Salmo CIV (CIII della "Vulgata") ,vv.25-26:"Eeco il mare grande e spazioso / in esso guizzano senza numero /animali piccoli e grandi : /lo solcano le navi /e il Leviathan, da te creato, vi si diverte",

(21) Giobbe", XL, 25 sgg.

(22) Giobbe", III, 6-8: "Quel giorno lo possegga il buio, non si aggiunga ai giorni dell’anno, non si computi nel numero dei mesi. Quella notte sia sterile, non conosca grida di gioia; la maledicano quei che maledicono il giorno, quelli che son pronti ad eccitare Leviathan".

(23) Isaia", XXVII, 1: "In quel giorno il Signore visiterà con la sua spada dura, grande, forte il Leviathan, l’agile serpente, il Leviathan, il serpente tortuoso, e ucciderà il mostro che è nel mare."

(24) "Apocalisse", XII, 7-9. Anche Michele, come si è visto, deriva dagli Amesha Spenta persiani.

(25) "I Pietro", V, 8: "Siate sobri e state in guardia? Il diavolo, vostro avversario, si aggira, come leone ruggente, in cerca di chi divorare". Anche nell”"Apocalisse", naturalmente, iconografia del diavolo si discosta enormemente da quella dei Vangeli,

(26) "Principe del mondo" è chiamato il diavolo da Gesù durante l’ultima cena in Giovanni, XIV, 30; "mundus", naturalmente, nel significato che ha apparito la parola nel Vangelo giovanneo,

(27)A questo argomento, per allora nuovo alla storiografia tardo-antica, J. Burckhardt dedicò un intero capitolo della sua "Die Seit Konstantins der Grossen" (1853, tr. it. nella Biblioteca Italiana di Storia Patria, 1970).

(28) Così detti perché adoravano il serpente (in greco "òphis") Essi, infiammati dal pensiero di Marcione, identificavano il Dio dell’Antico Testamento, Yaweh, come il principio del male, mentre pensavano che il serpente dell’Eden fosse un salvatore e un portatore di verità. Cfr. L.Kolakowoki, voce "Diavolo" della Enciclopedia Einaudi, vol. 4, P.709.

(29) Il manicheismo specialmente giunse a mettere in forse l’affermazione del Cristiane cimo, attirando molti ingegni del tempo; lo stesso Agostino ne fu sedotto, in Africa, per qualche tempo. cfr. "Confessiones", V, 6.

(30) Cfr. J. Da Varazze, "Legenda aurea", ed. cit., p.265.

(3l) Vers., "Aen.", II, 203-227.

(32) Citiamo fra i tanti i dipinti di Colantonio (Napoli, Galleria Nazionale di Capodimonte) e Antonello da Messina (Londra, National Gallery).

(33) Probabilmente la leggenda del leone nacque da una lettura affrettata di un passo dello stesso Santo: cfr. L. Mumford, "La condizione dell’uomo", tr. it, Milano, 1977 (2 voll.), I, p 108.

(34) Si pensi soltanto ai martiri del mosaico parietale di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna; alla Vittoria Eucaristica nel mosaico pavimentale della Basilica di Poppo ad Aquileia, ove compaiono sempre gli antichi simboli di vittoria delle gare sportive (la palma e la corona d’alloro); o – per quanto riguarda la tradizione letteraria – alla "Passio" di Perpetua e Felicita ("Racconto di Perpetua", X).

APPENDICE II

TAVOLA CRONOLOGICA

DEI SOVRANI SASSANIDI

Come il lettore certamente ricorderà, abbiano dedicato un capitolo della nostra ricerca a confutare l’ipotesi che San Giorgio possa essere stato ufficiale nell’esercito persiano e avere subito il Martirio sotto il re persiano Daciano. Tra le altre argomentazioni da noi addotte a sostegno di questa smentita, ricordammo il fatto che nessun sovrano di Persia, al tempo in coi Giorgio visse – e, invero, neppure prima né dopo – portò i1 none di Daciano o simile.

Riportiamo qui una tavola cronologica dei monarchi saasanidi, dall’avvento della dinastia che succedette agli Arsacidi fino alla conquista musulmana, per provare tale affermazione. Poiché non vi è completo accordo fra gli storiai moderai sulla cronologia e sul numero esatto dei re sassanidi, a causa dei vari contestatori e pretendenti che qua e là complicano il quadro, abbiano dovuto di necessità fare una scelta, adottando la cronologia di A..L. Oppenheim ("L’antica Mesopotamia, ritratto di una civiltà", ed. it. Roma, 1977, pp. 298-299), uno dei maggiori studiosi contemporanei delle civiltà dell’antico Medio Oriente.

1. Ardashir I 224-241

2. Shapur I 241-272

3. Hormizd I 272-273

4. Bahram I 273-276

5. Bahram II 276-293

6. Bahram III 293

7. Narses 293-302

8. Hormizd II 302-309

9. Shapur II 309-379

10. Ardashir II 379-383

11. Shapur III 383-388

12. Bahram IV 388-399

13. Yazdegerd I 399-420

14. Bahram V 420-438

15. Yazdegerd II 438-457

16. Hormizd III 457-459

17. Firun 457-484

18. Balash 484-488

19. Kavadh I 488-496

20. Jamasb 496-499

21. Kavad II 499-531

22. Chosroes I 531-579

23. Hormizd IV 579-590

24. Chosroes II 590-628

23. Bahram VI 590-591

26. Bistam 591-596

27. Kavad III 627-628

28. Ardashir III 628-630

29. Purandokht 629-631

30. Shahrbaraz 630

31. Hormizd V 631-632

32. Chosroes III 632-633

33. Yazdegerd III 633-651

APPENDICE III

L’OPINIONE DI ALCUNI STUDIOSI

Per concludere, riportiamo la voce "san Giorgio martire" della "Enciclopedia Cattolica" (Firenze, 1951, vol. VI, 441-445), da alcuni studiosi di indiscusso valore, che espongono oggettivamente i dati scientifici della questione e avanzano alcune ipotesi circa l’origine della leggenda, utilizzando anche i preziosi studi del Deleahaye. Agostino Amore, già professore di Storia Ecclesiastica nel Pontificio Ateneo Antoniano di Roma, esamina la biografia del santo e la tradizione relativa alla sua "passio". Vitold Wehr, esaminando alcune opere nel numero sterminato di quelle dedicate a san Giorgio e specialmente alla lotta con il drago, si occupa della tradizione iconografica relativa al santo. Paolo Toschi, docente di Letteratura delle tradizioni popolari all’Università di Roma alla metà del secolo scorso, privilegia la lettura simbolica e "folkloristica" della figura di San Giorgio rispetto a quella storica, partendo dal fatto – incontestabile – che il culto di San Giorgio è un grandioso edificio delle cui fondamenta – la concreta biografia del santo – ben poco sappiamo; che esiste, cioè, una vistosa asimmetria fra l’aspetto del culto popolare e la figura storicamente documentata del Nostro. Non è l’unico caso nella storia del Cristianesimo (basti pensare al culto di S. Gennaro, limitato però a un preciso ambito locale: Napoli e dintorni), né deve destare scandalo. Anche se commistioni con elementi puramente leggendari e perfino con aspetti dei culti pre-cristiani sono più che probabili, ciò non significa automaticamente che tutta la vicenda storica di San Giorgio sia da relegarsi nel Limbo della leggenda. È già accaduto numerose volte e forse accadrà ancora (non solo in ambito cristiano né solo in ambito religioso) che la devozione popolare ricami sopra uno zoccolo storico ben definito una serie di aggiunte, abbellimenti, deformazioni, che non autorizzano però a liquidare il fatto storico che ne è alla base come puramente leggendario. Le leggende, infatti – come ci siamo sforzati di mostrare nelle pagine precedenti – non nascono mai dal nulla; e i semplici desideri e le semplici aspirazioni delle masse possono aggiungere qualcosa a un dato storico originario, ben difficilmente inventarlo di sana pianta; tanto più se secoli e secoli di storia si succedono con fervore sempre fresco e inalterato nella venerazione di quei personaggi.

"Venerassimo fin dall’antichità sia in Oriente come in Occidente. Il santuario costruito sulla sua tomba a Lydda (Diospolis) in Palestina, meta di frequenti pellegrinaggi fin dal sec. IV (CSEL, 39, p.139, 176; v. p. 266 sgg.) esisteva ancora nel sec. IX. Purtroppo a tanta venerazione non corrispondono notizie certe sulla vita e sul martirio del santo. La sua personalità è ugnota tanto che si è tentato di identificarlo con qualcuno dei martiri attestati da fonti autentiche: con il giovane anonimo che strappò l’editto di persecuzione di Diocleziano a Nicomedia (Eusebio, Whist. Ecce., VIII, 5); con Elpidio, martire della Mesopotamia venerato lo stesso giorno di Giorgio; e persino con l’omonimo vescovo ariano di Alessandria perito in un tumulto popolare sotto Guliano (Socrate, Hist. Eccl., III, 3).

"Il ‘dies natalis’, segnato nel ‘Martirologio gerosolimitano’ il 23 aprile proviene dall’indicazione della ‘Passio’. Questa è assai antica e certamente esisteva nel sec. V poiché è ricordata e proscritta nel famoso decreto pseudo-gelasiano ‘De libris recipiendis’; ma è assolutamente favolosa e fantastica. Attraverso i secoli se ne fecero varie recensioni che la trasformarono gradualmente spogliandola dei brani chiaramente sospetti ed arricchendola di elementi storici arbitrariamente scelti; molte sono poi le versioni dall’originale greco, in latino, copto, armeno, ecc.

"Secondo la più antica redazione Giorgio era oriundo dalla Cappadocia, ma viveva in Palestina dove era tribuno militare. Scoppiata la persecuzione di Diocleziano distribuì i suoi beni ai poveri e si professò apertamente cristiano. Condotto davanti all’imperatore fu invitato a sacrificare; si rifiutò energicamente e fu perciò, dopo essere stato tormentato, rinchiuso in carcere, costretto a passare la notte con una grossa pietra sul ventre. Quivi ebbe una visione da parte di Dio che gli annunciò una lunga serie di tormenti che sarebbero durati per ben 7 anni, durante i quali sarebbe morto e risuscitato tre volte. La predizione si avverò a puntino e Giorgio soffrì terribili martiri uscendone sempre illeso finché finalmente fu decapitato. L’insulsa narrazione sarebbe stata scritta da un certo Pasicrate testimone oculare. Al tempo delle Crociate il culto di Giorgio ebbe un grande incremento essendo stato scelto come patrono della cavalleria, ed in suo onore si eressero numerose chiese e monasteri. Dallo stesso tempo fu divulgato in Occidente il famoso episodio della fanciulla esposta ad un dragone e liberata dall’intervento di Giorgio. Esso nacque probabilmente dalla falsa interpretazione di un’immagine di Costantino esistente a Costantinopoli (‘Vita’, III, 3:PG 20, 1058). Collegata ad un passo del panegirico che s. Andrea di Creta recitò in onore di Giorgio (ibid., 87, 1189). "

AGOSTINO AMORE

"Nelle raffigurazioni del Santo, sin dal X sec. nell’Oriente cristiano, esso appare giovane, sbarbato e senza alcun attributo speciale, accompagnato generalmente da s. Demetrio. Con l’andar del tempo, diventa più frequente la raffigurazione del san Giorgio in corazza e con marcata caratterizzazione eroica, e spesso collocato in mezzo ad altri santi guerrieri. Dal modello iconografico bizantino dipendono le raffigurazioni musive siciliane del XII sec. (Cefalù, Monreale, cappella Palatina di Palermo).

"Appaiono nell’Occidente europeo, sin dal XII sec., raffigurazioni del santo a cavallo, nell’atto di uccidere un dragone. Tale modello venne seguito soprattutto dall’arte tardo gotica francese e tedesca e del Rinascimento italiano. Possono citarsi, quali prototipi: oltre alcune sculture del museo di Lubecca, i due pannelli di Paolo Uccello, uno nella raccolta Lanckoronski a Vienna, l’altro nella collezione Jacquemart André di Parigi; la tavola del Francia della Galleria Corsini a Roma e la piccola tavola del Louvre, opera giovanile di Raffaello.

"L’arte del Rinascimento tuttavia lo raffigura talvolta in piedi, armato e in corazza, come nella statua di Donatello per il tabernacolo di Orsanmichele, ora al Museo del Bargello in Firenze, o facendolo campeggiare dietro il mostro abbattuto, come nella tavoletta dell’Accademia di Venezia, di mano del Mantegna. In tale modo lo raffigurò anche l’incisione del Dürer del 1514.

"L’intera leggenda di san Giorgio venne affrescata nel 1377 da Jacopo degli Avanzi nella basilica del Santo a Padova, e nel 1505 da Vittore Carpaccio in S. Giorgio degli Schiavoni a Venezia. Dello stesso pittore resta anche una predella della pala d’altare di S. Giorgio Maggiore a Venezia, con ‘Storie del Santo’."

VITOLD WEHR

"«Fra i santi dell’antichità nessuno ha eclissato la gloria di san Giorgio. La sua fama si è sparsa in tutte le parti del mondo cristiano: l’Oriente e l’Occidente l’hanno celebrato con entusiasmo in prosa e in versi, in tutti gli idiomi» (Delehaye). Straordinariamente ricco è quindi il materiale che offre il folklore, sia per la leggenda che per il culto popolare.

"Per quel che riguarda lo sviluppo della leggenda, lo stesso Delehaye riconosce che essa «renferme un grand nombre d’éléments empruntés au folklore»: si deve però notare che la tradizione popolare ignora, di regola, tutta la prima parte della vita del Santo e concentra la narrazione nel solo episodio del drago, che, com’è noto, compare assai tardi nei testi agiografici. Tale episodio ha ispirato numerosi canti popolari nei vari paesi dell’Europa e specialmente del mondo slavo. In Italia una ‘orazione’ in endecasillabi epici di notevole forza e bellezza è diffusa dalla Romagna alla calabria in numerose lezioni: essa rivela sicuri rapporti con un poemetto Veneto, tuttora inedito, conservato alla nazionale di Parigi (mss. it. 1069 fol. 100-111). Un poemetto toscano in ottave, del Quattrocento, è conservato in antiche stampe e fu più volte riprodotto; esso svolge l’intera leggenda del Santo quale dà Jacopo da Varazze. Alla stessa fonte s’ispirano varie laude lirico-narrative, una conservata in un laudario toscano dei primi del Trecento (Cod. magliabechiano 11-1-22), un’altra composta da Feo Belcari e un’altra ancora da Francesco di Albizzo. Nel teatro fiorentino del Rinascimento si ebbe più di una sacra rappresentazione ispirata a San Giorgio anche perché un quartiere della città era a lui dedicato e la Compagnia di San Giorgio aveva l’incarico di ricordarne ogni anno le gesta miracolose: talora la rievocazione era fatta per mezzo di un carro processionale «con il drago che buttava fuoco dalla bocca, dalla coda e da altre parti e dietro seguiva la figliuola del re di Libia sopra una chinea bianca».

"Il culto popolare di san Giorgio è antichissimo: sorto intorno alla tomba del martire guerriero trasformata in santuario, a Lidda, sulla via di Gerusalemme, già nel sec. VI era diffuso in Sicilia, in Italia e persino nelle Galle: a Roma, Belisario lo invocava difensore della porta S. Sebastiano. Il culto ha dunque origini orientali, e in Occidente si ravvivò con le Crociate. Per alcun tempo i Dardanelli furono chiamati stretto di san Giorgio. Varie nazioni, regioni e città lo hanno patrono; come ,ad esempio, l’Inghilterra (dal 1222, Sinodo di Oxford), il Portogallo, la catalogna e l’Aragona, la Georgia, la Lituania.

"Genova, che pure lo venera come protettore, a lui ha intitolato il suo Banco: Venezia gli ha dedicato tre chiese, insigni per opere d’arte: in Italia sono 118 i comuni che portano il nome del Santo, sparsi dovunque: famosa è l’iscrizione in volgare (1135) del duomo di Ferrara a lui dedicata. Innumerevoli le chiese e cappelle intitolate al Santo: molte di esse sono meta di pellegrinaggi e oggetto di particolari forme di culto popolare.

"La data della festa, che ricorre il 23 aprile, segna per volghi di molti paesi d’Europa l’inizio della primavera, con tutte le relative usanze e manifestazioni di carattere agreste e propiziatorio, simili a quelle che si hanno per il Calendimaggio. Tra gli Slavi della Carinzia i giovani ornano di fiori un albero e lo portano in processione fra canti di gioia e musiche; principale personaggio della processione è il ‘verde Giorgio’, un ragazzo rivestito di fronde, che alla fine, viene gettato in acqua, con l’intenzione di assicurare la pioggia per i fieni e le biade; spesso il ragazzo all’ultimo momento viene sostituito con un fantoccio. Usanze analoghe si trovano in alcuni distretti della Russia, come presso gli zingari della Transilvania e della Romania, i quali attribuiscono all’albero infiorato virtù efficaci contro le malattie o propizie al parto. Anche in molti altri Paesi, san Giorgio è invocato come guaritore; in Francia e in Germania le acque delle fontane a lui intitolate sono ritenute miracolose. Protettore dei cavalieri, lo è anche dei cavalli, e, in genere, del bestiame. In Germania e nei paesi slavi è invocato come potente nemico delle streghe. Come uccisore del drago protegge anche contro i rettili. Si crede che in alcuni paesi ilsuo culto abia sostituito quello di precedenti divinità primaverili pagane: in Lituania il dio Pergrubius, in Georgia (dove la festa si celewbra il 14 agosto) il dio Lano. Accostamenti, ma arbitrari, sono stati fatti anche con il dio egizio Horus e con l’indiano Śiva.

"In Italia questi aspetti primaverili e agresti del culto popolare di s. Giorgio sono quasi del tutto scomparsi, anzi in molte regioni la sua festa passa inosservata: ma notevoli tracce si conservano in Sardegna e nell’Italia settentrionale, dal Piemonte all’Istria.

PAOLO TOSCHI"

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Torsten Dederichs su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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