L’isola, seconda parte
3 Agosto 2007
L’isola, quarta parte
6 Agosto 2007
L’isola, seconda parte
3 Agosto 2007
L’isola, quarta parte
6 Agosto 2007
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L’isola, terza parte

PARTE TERZA

CAPITOLO PRIMO

(Tre anni dopo)

Dal diario di Alexandra, 19 febbraio 1915.

Nel pomeriggio hanno suonato dal cancello sull’avenida, a un’ora in cui non aspettavamo nessuno. Poco dopo Marina è venuta ad annunciarmi che una signorina era alla porta e chiedeva di me; una sconosciuta, mai vista prima, educata e perbene, ma un po’ misteriosa.

– Come si chiama? -, domandai.

– Isabela Kocbek -, rispose Marina, scrollandosi nelle spalle.

– Straniera?

– Il nome è straniero, ma lei sembra cilena. Parla perfettamente spagnolo.

– Va bene, falla accomodare in salotto. Vengo subito.

Quel nome non mi diceva nulla, eppure, non so perché, provai istintivamente un senso di vaga inquietudine. Strane, certe intuizioni della vita. In quel momento, Alvaro era fuori e i ragazzi giocavano nel giardino sul retro.

Era un bel pomeriggio chiaro di fine estate, le ombre cadevano già più lunghe dagli alberi e dai tetti delle case, mentre la luce si posava con ineffabile dolcezza sulle superfici delle cose, come accarezzandole.

Passai in salotto e mi trovai di fronte una señorita bruna, graziosa, sui diciotto anni, vestita modestamente ma molto dignitosamente: non una ragazza del popolo, si capiva a prima vista. . Alta, ben fatta, aveva atteso educatamente in piedi, non lontano dalla porta; teneva un plico sotto il braccio. Quando entrai, mi salutò compita, presentandosi: *- [S*eñora, voi non mi conoscete. Mi chiamo Isabela Kocbeck e vengo da parte di mio padre, che avete conosciuto alcuni anni fa. Vorrei chiedervi solo pochi minuti del vostro tempo, se non vi dispiace. –

E mi guardava coi suoi occhi scuri, penetranti, come se, pur non conoscendomi, in qualche modo sapesse già di me; come se avesse cercato d’indovinare i miei pensieri, confrontandomi con quell’altra immagine che di me si era fatta, chissà come.

– Scusate, chi è vostro padre? -, le chiesi.

– Federico Kocbek. È stato confinato, per motivi politici, sull’isola di cui vostro marito era direttore, e dove anche voi risiedevate. Sono passati più di tre anni, ma dovreste ricordarvene, señora.

D’improvviso, fu come se un fulmine scoppiasse attraverso le nebbie del ricordo. Federico… l’amico di Mariano. Credo di essere violentemente arrossita, e subito dopo impallidita, pur sforzandomi di controllarmi.

Mormorai: – Prego, accomodatevi… -, e le indicai, con voce non troppo ferma, temo, il divano presso il pianoforte. Ci sedemmo alle due estremità di esso, mentre la mia volontà e la mia mente lavoravano a ritmo febbrile, per sforzarmi di comprendere il senso di ciò che mi stava accadendo.

-Sì – dissi – ora mi ricordo di vostro padre. Sta… sta bene? –

Posando le mani sulla busta che si era messa sulle ginocchia, la ragazza mi lanciò un sorriso gentile, un po’ malinconico: – Spero di sì. Vedete, señora, io non lo vedo da tempo e non so neanche dove si trovi esattamente. In Argentina, comunque, perché lui… lei sa… mio padre non aveva scontato la sua pena, quando… quando lasciò l’isola… Era il gennaio 1912, per l’esattezza. Le mie ultime notizie risalgono a circa quattro mesi fa. Sta …stava bene, vi .ringrazio. E desiderava sapere se era altrettanto di voi e della vostra famiglia. Mio padre mi ha raccontato che vostro marito era un direttore molto umano, e rispettato per questo. E che voi… eravate buona con i confinati; che vi ricorda entrambi con viva simpatia, nonostante le infelici circostanze di allora.

– Vi ringrazio. Anche vostro padre era…è… una bravissima persona. Lo ricordo bene, e, potete dirglielo, con pari simpatia.

La ragazza sembrò sospirare di sollievo. Disse: – Questo significa che non gli serbate rancore per le sua evasione. Sapete, quando mio padre seppe che, appena due mesi dopo il fatto, vostro marito lasciò l’isola e tornò qui, a Valparaìso, abbandonando il servizio dello stato… Insomma, lui temeva di essere, in qualche modo, responsabile, e sia pure involontariamente…

– Rassicuratelo, quando avrete la possibilità di mettervi in contatto con lui. Non fu per quella evasione, che mio marito lasciò il servizio… E non venne destituito; fu lui a chiedere l’esonero. Vedete, la vita sull’isola era molto sacrificata, e i nostri figli… Insomma, non era un ambiente a-adatto per loro. Dovevano frequentare le scuole, frequentare dei coetanei, tutte cose impossibili in quel luogo sperduto.

– Capisco. Un maschio e una femmina, molto graziosi, a quanto mi ha detto. Proprio in quel momento, dal giardino, venivano le loro voci spensierate.

– Sì -, confermai. – Ricardo ha già quattordici anni e frequenta il liceo. Isabela, invece… Mia figlia Isabela porta il vostro stesso nome; è curioso… Isabela ha undici anni. Frequenta la scuola media e suona, con profitto, il pianoforte. E.. la vostra famiglia? Avete…, scusate, difficoltà economiche? –

Scosse il capo, abbassando gli occhi con un sorriso: – No, grazie, señora, siete molto gentile a interessarvene. Stiamo tutti bene e non ci manca nulla. Mio padre sarà felice di sapere che lo ricordate senza malanimo. Ecco, mi ha pregato di consegnarvi questo. Ha detto che, forse, potrebbe interessarvi -; e mi porse il plico che aveva tenuto sulle ginocchia. Quando lo presi in mano, ebbi l’impressione che dovesse contenere un quaderno.

– Che cos’è? – domandai; e il cuore, non so perché, cominciò a battermi nel petto furiosamente. Di nuovo devo essere arrossita.

– Io non l’ho letto, ma deve trattarsi di una specie di diario che mio padre ha tenuto dopo la partenza fortunosa dall’isola. Lui e un suo compagno, un certo Mariano Sarmiento, riuscirono a imbarcarsi su una goletta, dopo molte peripezie. Tra l’altro, un loro compagno di evasione, un confinato "comune", morì precipitando in un burrone.

Un rombo mi era esploso negli orecchi. Avrei voluto chiedere subito, senz’altri indugi: – E del señor Sarmiento, che ne è stato? Lo sapete? – ; ma riuscii a contenermi, stringendo forte le mie dita per scaricare in qualche modo la fortissima tensione che mi s’andava accumulando nell’animo. Tutto, tutto il passato mi tornava davanti, m’investiva, mi sommergeva, come se fosse stato appena ieri, come se non avessi compiuto infiniti sforzi per tenerlo a bada durante tutto questo tempo.

Dopo una pausa, la ragazza riprese: – Señora, vi sto annoiando? Forse ho abusato fin troppo della vostra cortesia. Ho eseguito l’incarico affidatomi da mio padre, vi ho consegnato il suo diario. Ora. ..

– No, vi prego – mi affrettai a interromperla – non ve ne andate così presto. Come vi dicevo, ricordo con stima vostro padre, e anche il suo amico, don Mariano Sarmiento. Fu, per un breve periodo, insegnante di spagnolo e latino di mio figlio Ricardo. Per tutto questo tempo, non avevo mai più saputo nulla di loro: sapete, era opinione corrente che fosse impossibile e-vadere da quelle stazione penale. Mi sono sempre domandata, e con me mio marito, che ne ere. stato di loro; se erano riusciti…

– Come vi ho detto, lasciare l’isola fu cosa realmente molto difficile. Ma i particolari non li conosco nemmeno io, mio padre non ha mai voluto raccontarmeli. So solo che, per tornare sul continente, ha dovuto affrontare un viaggio lungo e avventurosissimo. Quanto all’amico di mio padre, quel señor Sarmiento, non sono in grado di darvi alcuna informazione. Io non l’ho mai conosciuto, e non mi risulta che sia con mio padre, o che lui sappia dove si trova… Comunque, è probabile che nel diario di mio padre vi sia qualche cosa di più. Per delle ragioni che non conosco, lui pensa sia giusto che lo abbiate voi… se volete accettarlo. –

Era come se la busta mi scottasse fra le mani. La rigiravo nervosamente: mi rendevo conto che accettarla, aprirla, leggere il diario, avrebbe voluto dire rituffarmi in pieno nel passato, in quel passato; rituffarmi in quei ricordi, ridestare quella sofferenza… Ne avrei avuto la forza? D’altra parte, era l’unico modo che avevo per sapere…, ed erano più di tre anni che mi logoravo per l’impossibilità di sapere. Potevo, quindi, sottrarmi alla verità? Potevo veramente scegliere, scegliere di non sapere?

Strinsi con forza la busta e risposi: – Sono onorata che vostro padre abbia pensato, lontano com’è, a farmi pervenire questo prezioso documento… Certo, inviandomelo deve aver avuto le sue buone ragioni. Non è quindi nemmeno pensabile che possa rifiutarlo, e vi ringrazio di avermelo consegnato. –

La ragazza si alzò, si avvicinò un attimo alla finestra sul giardino, dove Ricardo e Isabela stavano giocando. Isabela si dondolava sull’altalena e suo fratello la spingeva; intanto lei canticchiava allegramente.

– Avete veramente due figli bellissimi- disse, fissandoli un momento. – Vi assomigliano molto entrambi.

Poi si avviò rapidamente alla porta, e mezzo minuto dopo era sparita.

Rimasta sola, sono tornata presso la finestra sul giardino, stringendomi istintivamente la busta si petto. Vedevo i ragazzi ridere e scherzare: ancora per poco, ormai sono grandi, presto non giocheranno più. Ho visto anche la mia immagine riflessa nel vetro della finestra: mi è parso che le piccole rughe intorno agli occhi fossero più marcate dell’ultima volta. E la mia mente ha ripreso a lavorare, a lavorare febbrilmente. Quante volte, in questi tre anni, l’immagine di Mariano è tornata a visitarmi; quante volte le sue parole sono tornate a risuonarmi nell’anima. Quante volte mi sono chiesta se è vivo o morto; e, se è vivo, dove si trovi, cosa stia facendo, cosa stia pensando. Quante volte mi sono poi ritratta da siffatti pensieri, chiedendomi, gravata dai sensi di colpa, se sono stata davvero una buona moglie per Alvaro, se non gli sottraggo qualcosa quando torno col ricordo a quella breve stagione di tre anni fa, così intensa, così strana, cosi… esaltante. A volte, mi sembra che sia stato tutto un sogno. Se non fosse per quella poesia, in cui mi paragona a Nausicaa quando apparve ad Odisseo; se non fosse per le sue poche lettere; se non fosse per il mio vecchio diario di allora, tutte cose che conservo gelosamente in una vecchia scatola di latta dipinta; ebbene, potrei pensare veramente di essermi sognato tutto. Ci sono dei giorni, dei momenti, quando credo di essermi distaccata quasi del tutto de quei ricordi, nei quali il viso triste e pensoso di Mariano mi riappare davanti all’improvviso, uscendo con forza impressionante e inaspettata dalle brume del passato.

Rivedo quella sua piega un po’ amara agli angoli della bocca; quel suo sguardo profondo e malinconico; quei lampi improvvisi di durezza, quasi di crudeltà, che lasciavano altrettanto improvvisamente il posto, quando parlavamo, insieme, a un sorriso dolce e buono, che lo illuminava tutto. Ricordo quel suo ultimo abbraccio, quel nostro ultimo abbraccio così forte, non da amanti, ma da amici che soffrono indicibilmente all’idea di separarsi per sempre; e mi pare di vederlo ancora allontanarsi nella notte, uscire dalla porta e sparire senza voltarsi mai, neanche una volta.

Oppure ricordo come gli tremavano le mani, lì in. Piedi davanti a me, mentre rigirava senza posa il cappello fra le dita e attendeva una mia parola su cosa dovesse fare, quando mi espose il suo progetto di fuga dell’isola. E quando gli diedi quella mia fotografia, e lui la prese e la infilò tra le pagine di un libro, mormorando: – Questa è la cosa più preziosa che abbia mai ricevuto da qualcuno…

Oh, ma basta! Ricordi, ricordi: quanta gioia e quanta sofferenza mi portano immancabilmente. Vi sono dei momenti in cui mi bruciano come scottature sulla carne viva, e altri in cui mi pare di aver raggiunto quasi la serenità, in cui ciò che è stato si sposa misteriosamente col passato e col presente, e mi sento più forte, più matura, più consapevole: orgogliosa con me stessa, perfino, di aver sperimentato un’amicizia così rara e profonda, così bella e trasparente…

Negli ultimi mesi mi pareva, appunto, di aver raggiunto, quasi stabilmente, una tale serenità, una tele pace interiore, di aver riconciliato, dono tante fatiche, le mie contraddizioni. E d’un tratto mi rendevo conto che non era vero, che quell’equilibrio così penosamente raggiunto era tutt’altro che solido, che tutto vacillava nuovamente… Perché, altrimenti, quella buste che tenevo fra le mani mi faceva battere così il cuore all’impazzata? Sentivo perfino il bisogno di appoggiarmi e qualcosa, di sedermi, in attese di ritrovare la mia esima…

Una volta sola, in questi tre anni, ho sognato di Mariano; o, almeno, una volta sola ricordo d’averlo sognato, pur avendolo pensato, da sveglia, tanto spesso. Accadde circa quattro mesi fa, e fu un sogno inaspettato: da alcuni giorni m’ero accorta che lo pensavo un po’ meno, e con meno sofferenza. Io non volevo, e non ho mai voluto, dimenticarlo; volevo solo imparare a ricordarlo con dolcezza, riconciliata, rasserenata. Quella notte, d’improvviso, lo sognai con estrema evidenza, come non capita spesso nei sogni. Eravamo ancora sull’isola, sulla nostra isola, ai margini del bosco, e il mare scintillava non lontano negli squarci tra le fronde. L’aria era dolce e fresca, il cielo azzurro sopra noi .risplendeva nella pace del primo mattino. Camminavamo lungo il sentiero, tenendoci a braccetto, come vecchi amici, ma come mai avevamo, in realtà, fatto; ci scambiavamo parole serene che poi, svegliatemi, non ricordavo più. Ma non parlavamo di noi; non ce n’era bisogno: eravamo consci della difficoltà del nostro rapporto, eppure i nostri cuori erano in pace, sapevamo che tutto era e posto, che i conflitti, i sensi di colpa, le sofferenze erano ormai dietro le spalle, per sempre. Parlavamo, credo, del più e del meno, guardandoci ogni tanto negli occhi; ci scambiavamo impressioni e ricordi, e intanto sentivamo che le cose più importanti non erano quelle che ci stavamo dicendo, ma altre, che non era necessario dire a voce alte.

Eravamo in una sintonia perfetta, come fuori del tempo e dello spazio, e la vita, finalmente, ci sorrideva senza ambiguità, e ogni cosa appariva chiara e giusta, ogni cosa andava come era logico e bene che andasse. Mai, in tutta la mia vita cosciente, avevo provato un tale benessere, un tale senso di armonia; mai mi era sembrato di camminare così, come sospesa a un palmo da terra…

Ed ora eccomi cui, con il diario di Federico tra le mani. Forse ,in esso, c’è’ la risposta ad alcune delle mie domande. Altrimenti, perché avrebbe voluto che io lo avessi? Federico sapeva, o almeno intuiva, quel che Mariano ed io provavamo l’uno per l’altra. E allora, come potevo non cogliere una simile occasione di sapere?

Aprii la busta e ne estrassi un grosso quaderno con la copertina di tela rossa, molto malridotto dall’umidità e con le pagine spiegazzate e ingiallite. Quel quaderno doveva averne viste tante, porta va quasi l’odore di avventure lontane. Lo apersi con mano tremante…

CAPITOLO SECONDO

  1. gennaio 1912.

Il mio diario è finito in mare al momento dello sbarco; lo continuerò su questo quaderno che mi ha dato Mariano, poiché voglio annotare fedelmente e, se possibile, quotidianamente quel che ci potrà ancora accadere. Sento che stiamo vivendo un’avventura incredibile, che sarebbe sembrata fantastica anche a me, se altri me l’avessero raccontata. Queste pagine sono l’ultimo legame ideale fra noi e il mondo, dopo che la nostra goletta, la Santa Inés, ha fatto naufragio urtando contro un iceberg nelle acque desolate dell’Oceano Antartico.

Ieri la nostra scialuppa è giunta in vista di un’isola dalla scura massa basaltica, circondata da spiagge sassose e avviluppate da lunghissime alghe brune e battuta d’ogni lato dai frangenti. Il marchese di Villemer, dunque, aveva ragione, lui solo contro tutti gli altri: l’isola Dougherty esiste, e noi siamo i primi uomini ad averla ritrovata dopo anni e anni ai inutili ricerche in questi mari tempestosi, lontanissimi da qualunque terraferma. Ci siamo accostati cautamente, cercando, senza avvicinarci troppo, un punto favorevole all’approdo. Le coste apparivano alte e ripide in ogni parte ma, doppiato un capo roccioso, ci siamo accorti che una corrente marine ci stava spingendo sensibilmente verso terra.

Dapprima tentammo di riguadagnare il largo a forza di remi, timorosi di un possibile naufragio sugli aguzzi scogli della riva, ma poi il marchese esclamò: – Ma non capite? Questa corrente è la nostra salvezza! Non vedete laggiù, presso quegli scogli l’ingresso della grotta di cui parlava Bull? La nostra scialuppa è ora nel flusso di quella medesima corrente che ha portato nella laguna interna dell’isola le navi disalberate dalle tempeste! Non dobbiamo fare altro che lasciarci condurre, e servirci dei remi per evitare di urtare contro le pareti di roccia del fiordo!

La corrente si faceva sempre più forte, e in pochi minuti fummo a ridosso dell’isola. Il marchese aveva avuto ragione, ancora una volta. Davanti a noi si apriva l’ingresso della grotta, e noi, sia pure con un vago senso di timore reverenziale, ci lasciammo condurre al suo interno. Maestose stalattiti pendevano dalla volta in penombra, conferendole 1’aspetto di un antro fantastico, irreale.

Ben presto la grotta si restringeva e la nostra imbarcazione si trovò a scivolare in uno stretto corridoio di roccia, non più largo di cinquanta metri. Una incredibile luce azzurrina pioveva in quel profondo meandro, avvolgendo ogni cosa in una atmosfera fiabesca. Nessuno di noi parlava. Guardavamo a bocca aperta quello spettacolo magnifico e vagamente inquietante, mentre la scialuppa, senza bisogno di remare, avanzava dritta e sicura sempre più avanti. Non si udiva che lo sciabordio delle onde contro le maestose pareti di roccia, né vedemmo traccia delle foche, di cui Bull aveva parlato al marchese.

Dopo una decina di minuti la luce si fece più intensa, le pareti rocciose si allargarono, la volta si aprì sopra di noi, e scivolammo silenziosamente in un ampio specchio d’acque tranquille, interamente circondato da ripide e scure pareti di basalto. Era, con tutta probabilità, la laguna interna di una caldera, un antico l’edificio vulcanico di cui conservava ancora perfettamente le struttura circolare, invaso dalle acque marine che si erano aperte a forza un passaggio, durante chissà quanti millenni, attraverso la grotta azzurra e il lungo fiordo scavato nella viva roccia.

Mentre la corrente ci spingeva innanzi in quella. laguna dominata d’ogni lato dalle pareti precipiti, credo che ciascuno di noi dimenticasse la fame, il freddo e la stanchezza, tutti presi come eravamo dalla grandiosità dispiegata in quel luogo nascosto dalla natura. Ed ecco, nella nebbiolina del mattino, davanti ai nostri sguardi apparvero, addossati al lato opposto della laguna e stretti l’uno all’altro, prima cinque, poi sei, infine sette navi a vela: antiche, fatiscenti, avviluppate da liane di cordami muffiti e verdastri. Era un colpo d’occhio spettrale, ma non privo di un suo sinistro e imponente fascino. Notai che alcuni marinai, proprio come avevano fatto a suo tempo quelli dei capitano Bull, si segnarono istintivamente la fronte con il segno della croce, mormorando formule religiose. Ai loro occhi, quella non poteva essere opera che di potenze soprannaturali: demoniache, con tutta evidenza.

Ma a questo punto il marchese, alzandosi in piedi, riprese saldamente tutta la sua autorità, parlando con voce ferma e decisa: – Ascoltatemi, uomini. Quello che vedete non ha nulla di misterioso, e tanto meno di soprannaturale. Io conoscevo perfettamente quel che avremmo trovato in quest’isola: conosco la storia di quei velieri. È il mare che li ha portati qui, molti anni fa, come oggi ha portato noi, dopo che la tempesta li aveva afferrati e trascinati lontano dalle loro rotte. Ho parlato con un vecchio capitano che era già penetrato in questo luogo sconosciuto, e che mi ha fornito tutte le informazioni necessarie, comprese le esatte coordinate dell’isola. Ora, se mi obbedirete senza discutere, vi prometto che rivedrete le vostre case e le vostre famiglie, e raddoppierò il premio che avevamo pattuito. E voi, capitano Lopez, sarete indennizzato anche della perdita della Santa Inés. Però esigo la massima disciplina, e che vi fidiate ciecamente di me. A queste condizioni, mi assumo la responsabilità di condurre a buon fine questa nostra avventura, anche se ci vorranno pazienza e fatica.

Un mormorio corse per le bocche dei marinai. Un di loro, di nome Alejandro, chiese: – Ma come farete a riportarci a casa? -, e tutti approvarono.

Il marchese guardò prima lui, poi il capitano, quindi tutti gli altri, e con la massima sicurezza rispose: – Tra quei velieri che giacciono in fondo alla laguna ve ne sono un paio non troppo vecchi, e non troppo danneggiati dal tempo e dagli urti contro le rocce. Ci vorrà del lavoro, certo, del duro lavoro. Ma non capite che, come sono giunti fin qui, possono anche riprendere il mare e riportarci fino al mondo civile? Il vostro capitano è un esperto uomo di mare. E, se non sarà possibile riattare un veliero, potremo sempre costruire una imbarcazione migliore di questa scialuppa, più ampia e più solida, con il fasciarne che abbiamo qui, a nostra disposizione. Solo quello delle navi più vecchie è danneggiato irreparabilmente. Guardate voi stessi, se non mi credete!

Eravamo giunti a breve distanza dal cimitero degli antichi velieri. Io e Mariano cercammo innanzitutto, con lo sguardo, il Newcastle, e lo riconoscemmo ancor prima di leggerne il nome sulla poppa: era, naturalmente, quello coricato sulle rocce verso il lato più interno, essendo giunto all’isola Dougherty per primo. La sua sagoma di veliero del XVIII secolo, lo stato di semidisfacimento in cui si trovava, la patina di muffa verde-azzurra che ne copriva la superficie lo distinguevano subito come il più antico, e quello che offriva lo spettacolo più desolante.

Stavamo scivolando sotto bordo della fila di velieri,stretti l’uno all’altro come cadaveri mummificati, nello scricchiolio lamentoso dei cordami e delle tavole di legno. Il più esterno di tutti, che portava il nome, chiaramente leggibile, di Valdivia, non sembrava avere più d’una cinquantina d’anni e, nel complesso, non pareva in condizioni troppo malandate. Le fiancate apparivano in un discreto stato, il danno più grave sembrava costituito dal crollo dell’alberatura e dalle condizioni deplorevoli in cui erano ridotte le velature. Le altre navi, invece, quale più, quale meno, erano veramente ridotte a dei sinistri fantasmi, forse anche per la vegetazione di festoni di muffa che le avviluppava come in una torbida ragnatele

D’un tratto Domingo, il ragazzo, ebbe una specie di crisi isterica. Già da qualche minuto avevo notato, con apprensione, la nube di terrore che gli ottenebrava lo sguardo, e mi ero aspettato quel che poi, affannosamente, si mi se a gridare con voce strozzata: – Questo è un luogo maledetto! Moriremo, moriremo tutti! Come il povero Ramòn! Nessuno di noi tornerà a casa… Questo è un luogo… -, ma non poté continuare, perché il capitano Lopez lo schiaffeggiò con violenza, troncandogli la parola in bocca. Il ragazzo, allora, si rincantucciò in un angolo della scialuppa, tremando visibilmente, lo sguardo perso, ma continuando a sussurrare parole appena percettibili.

II capitano tuonava: – Maledetto imbecille! Abbiamo bisogno d’altro, in questo momento, che di pianti da femmina! Dobbiamo tenere i nervi a posto e restare tutti uniti, altrimenti è probabile che non la scamperemo… Ma se usiamo la testa e non ci perdiamo d’animo, nulla è perduto. Avete capito?-

Vi fu un momento di silenzio, poi tutti i marinai, uno dopo l’altro, assentirono, sia pure con i volti tesi e preoccupati.

Señores – riprese il marchese, rivolgendosi a me e a Mariano, – posso contare sulla vostra lealtà e sulla vostra incondizionata collaborazione?

Io e Mariano ci guardammo rapidamente, poi guardammo il capitano, e infine il marchese, facendo un convinto cenno d’assenso.

– Bene -, concluse il marchese, mentre la scialuppa accostava lentamente alla riva, proprio sotto la poppa del Newcastle. – Se qualcuno ha delle obiezioni da fare alla mia azione di comando, lo dica subito, altrimenti, se oserà intralciarmi nel mio lavoro, darò ordine che venga messo ai ferri. –

I marinai si guardarono fra loro, in silenzio. Domingo continuava a tremare e a borbottare a fior di labbra, ma più calmo, quasi rassegnato. Finalmente un marinaio, di nuovo Alejandro, a nome di tutti domandò: – Una cose sola, señor marchese. Di che cosa vivremo, mentre lavoreremo per rimettere in sesto il Valdivia? -; e tutti gli altri approvarono.

– Non morremo di stenti – replicò sicuro il marchese. – So che, sul lato esterno dell’isola, vivono innumerevoli foche, senza contare il pesce che potremo pescare. Anche se non le abbiamo viste arrivando, devono trovarsi sull’altro versante dell’isola. Me lo ha detto un capitano che giunse qui nel dicembre del 1904, poco più di cinoue anni fa. In cinque anni, un milione di foche non spariscono, tanto più che qui non hanno mai conosciuto alcuna persecuzione da parte dell’uomo. –

– E l’acqua? – insistette Alejandro. – Non è detto che troviamo una sorgente in quest’isola. A me è parsa un unico blocco di roccia vulcanica, arida e senza un filo di vegetazione. –

– Può darsi che non vi siano sorgenti – rispose il marchese, sempre con quella luce metallica nello sguardo, che soggiogava poco a poco il piccolo uditorio impaurito e malcontento -, ma questo non significa che moriremo di sete. Non avete notato quanti icebergs vagano alla deriva in queste acque? Ebbene, ognuno di essi contiene milioni e milioni di metri cubi d’acqua dolce. Come tutti sapete, sono formati di ghiaccio proveniente dai ghiacciai polari: basta scioglierlo per avere acqua potabile a volontà. Naturalmente, non dovremo cercare di prenderne uno a rimorchio. Basterà che lo accostiamo con la scialuppa e che ne asportiamo un blocco, o alcuni blocchi, del peso di qualche decina di chili. E avremo la scorta d’acqua per un bel po’ di tempo! –

Gli uomini erano perplessi, ma non contrari. La sicurezza del marchese li andava poco a poco conquistando. Ormai li aveva in pugno.

Poco dopo sbarcammo sulle riva sassosa, in quello che sembrava l’unico punto accessibile, poiché una striscia ciottolosa di circa venti metri separava il lato più interno della laguna dalla nuda parete ai roccia che saliva per tre o quattrocento metri. Se non altro, il luogo era riparato dai venti e la temperatura pareva un poco più clemente che fuori, in mare aperto,o presso la costa esterna dell’isola.

– Per prima cosa – disse il marchese ai capitano, dopo che finimmo di tirare in secco la scialuppa, ponendovi alcuni sessi per maggiore precauzione – dobbiamo ispezionare queste navi; ma non a casaccio. Cominceremo dal Valdivia, che, oltre a essere quella in migliori condizioni, è l’unica che potrebbe salpare, essendo la più esterna. Dobbiamo verificare se, con gli opportuni lavori, potrebbe riprendere il mare. Ma, prima ancora, dobbiamo vedere se è in grado di ospitarci, o se dovremo costruirci una baracca qui, sulla riva, utilizzando il legname degli altri velieri. Dobbiamo renderci conto se troveremo attrezzi, corde, tela o, magari, indumenti. Poi bisognerà ripercorrere il canale e uscire, con la scialuppa, per costeggiare l’isola alla ricerca delle foche. E cercare eventuali sorgenti d’acqua dolce. Un paio di uomini potrebbero anche studiare la possibilità di scalare queste pareti rocciose per raggiungere la costa direttamente di qui, ma senza commettere imprudenze; dubito fortemente che ciò sia possibile, tuttavia è un’ipotesi da non trascurare. Dobbiamo suddividerci in squadre e distribuirci il lavoro.-

Era sicuro, autoritario, aveva ripreso pienamente il controllo della situazione.

In tutto, eravamo undici uomini. I marinai, dopo la scomparsa di Ramon nel naufragio, erano sette, otto col capitano; poi noi due e il marchese. Una rapida ispezione a bordo del Valdivia ci permise di capire che, se riattare la nave sarebbe stata un’impresa non certo indifferente, perlomeno avremmo potuto trovarvi un riparo più che decente, se non proprio confortevole. Salimmo sul ponte e scendemmo nel boccaporto con una certa apprensione, aspettandoci di trovare qualche lugubre spettacolo; invece non vi era traccia dell’equipaggio. In compenso, nelle cabine c’erano oggetti che ci sarebbero stati estremamente preziosi: indumenti in parte ancora utilizzabili, chiodi, martelli, pialle, perfino colla da falegname.

Nella cabina del capitano, in un cassetto del tavolino, trovammo il libro di bordo. Il Valdivia era un clipper tedesco che doveva essere stata molto bello e veloce, coi suoi tre alberi e le magnifiche sedici vele spiegate al vento. Varato a Königsberg nel 1846, era salpato dall’Europa nel 1853, diretto a Tahiti per la via dello Stretto di Magellano. Il marchese, che conosceva bene la lingua tedesca, lo sfogliò rapidamente e trovò che l’ultima annotazione portava la data del 9 ottobre 1853 e vi si interrompeva bruscamente, ma rimandò la lettura approfondita ad altro momento.

Benché a bordo della scialuppa avessimo ancora un po’ d’acqua e di viveri, adesso il problema più urgente era il cibo e, soprattutto, l’acqua potabile. Per fortuna, con il clima sub-antartico dell’isola, la necessità di consumo quotidiano era modesta; tuttavia occorreva esplorare l’isola al più presto, alla ricerca di eventuali sorgenti. Ci dividemmo in squadre di due uomini: io e Mariano avremmo ispezionato le pareti della laguna, gli altri si sarebbero imbarcati per raggiungere la costa esterna, attraverso il fiordo che portava alla grotta azzurra.

Confesso che provai uno stringimento al cuore, quando vidi la scialuppa con tutti gli uomini allontanarsi sulla laguna, e sparire entro il canale fra le rocce; un senso di immensa solitudine calò su di me e sul mio compagno. Ma non c’era tempo da perdere, e iniziammo subito a percorrere la circonferenza della laguna, esaminando attentamente la parete rocciosa. Iniziammo la nostra ricognizione partendo dalla spiaggia sassosa ove eravamo sbarcati, ma ben presto dovemmo tornare indietro, perché la parete rocciosa scendeva in mare quasi verticalmente, rendendo impossibile il cammino. Allora ritentammo nel senso opposto, cioè dalla parte della prua dei velieri, ma anche lì risultava impossibile avanzare. Allora, con un binocolo trovato a bordò del Valdivia, ispezionammo le pareti dell’antico vulcano lungo tutta la sua circonferenza; e, con immensa gioia, scorgemmo il sottile rivo d’acqua di una cascatella che scendeva, di balza in balza, sul lato opposto della laguna rispetto a dove ci trovavamo, circa duecento metri a sinistra dell’imbocco del canale interno. Strano che al mattino, entrando nella laguna, non ne avessimo udito lo scroscio; probabilmente era stato coperto dallo sciabordio dela corrente contro le pareti del fiordo; o forse la nostra attenzione era stata monopolizzata dall’incredibile scenario che ci si apriva davanti, come sul palco di un immenso teatro naturale.

Sollevati da quella preziosissima scoperta, e poiché avevamo ancora qualche ora di luce a disposizione e non volevamo rimanere inattivi, decidemmo di esplorare i relitti, partendo, naturalmente, dal Newcastle. Non fu cosa agevole salire a bordo, non disponendo della scialuppa per accostare, e l’acqua era così gelida che non era neanche pensabile di raggiungerlo a nuoto. Comunque, sfruttando le rocce sulle quali la prua era andata ad incastrarsi, e poi alcune corde mezze marce che pendevano lungo il fasciame.

In coperta vi era un intrico di alberi caduti e marciti, di velature imputridite, di sartiame aggrovigliato e coperto di muffa verdastra. In alcuni punti le tavole di legno erano così logore e pregne di umidità, che il piede vi sprofondava pericolosamente, sollevando una nuvola di polvere. Avanzando cautamente, raggiungemmo il boccaporto. Un alito di decomposizione c’investì in pieno viso e quasi ci indusse a rinunciare. Ma poi rifletteranno che quella era un’occasione forse unica di ispezionare il Newcastle prima del marchese e che, fra un’ora al massimo, il buio della sera ce lo avrebbe comunque impedito; perciò ci facemmo forza, e scendemmo cautamente giù per la scaletta mezza in sfacelo.

Provai un’emozione strana e raccapricciante nel discendere quei gradini, mano a mano che la luce del tramonto si affievoliva e l’odore di muffa diveniva quasi intollerabile: era come scendere, pensai, nel regno delle ombre. Con la sgradevole impressione di andare a seppellirci vivi, penetrammo nel corridoio prodiero e iniziammo a ispezionare le cabine. Non trovammo, come avevamo temuto, scheletri né nulla del genere; tuttavia là sotto si respirava un’atmosfera strana, inquietante, che ci mise subito in allarme. Non saprei come descriverla; né io né Mariano, del resto, siamo uomini particolarmente impressionabili. Era come, non so…, era come se qualcuno ci stesse osservando. Ecco, questo. Nel gran silenzio di una nave morta da oltre un secolo, rotto solo dal gemito del fasciame a ogni flusso della debole corrente che veniva a morire contro le rocce della riva, pareva che gli angoli bui della nave fossero vivi e respirassero, minacciosi. Quando spingemmo la porta cigolante della prima cabina, i cui cardini erano incrostati da una polvere secolare, qualche cosa ci sgusciò tra i piedi, raspando velocissima sull’impiantito. Dio, che spavento! Non era che uno dei topi di cui, probabilmente, le nave doveva essere piena, ma ci vollero parecchi minuti prima che il cuore cominciasse a calmarsi e tornasse a battere regolarmente.

Non trovammo, comunque, nulla d’interessante. I solito vecchi oggetti, tutti marci e rosi dal tempo e dell’umidità. Nella cabina del capitano alcune vecchie carte nautiche ormai illeggibili, frammenti di bicchieri e bottiglie, pezzi di stoffa mangiucchiati dai topi che dovevano essere stati vestiti e cappelli. La piccola cassaforte era in un angolo sotto l’oblò, ben chiusa e, naturalmente, senza alcuna chiave in vista.. Nessuna treccia neppure del libro di bordo, a meno che i suoi resti fossero alcuni lembi di carta completamente disfatta che giacevano sparsi, qua e là, sul pavimento. In quel momento, passando per caso davanti all’oblò tutto incrostato di polvere, scorsi per puro caso la scialuppa che stava ritornando ed era appena sbucata dal passaggio interno fra le rocce. Dovemmo abbandonare le nostre ricerche in tutta fretta e sbrigarci a risalire in coperta, non senza, lo confesso, un sottile senso di sollievo. Pareva che nelle profondità del Newcastle aleggiasse un velo opprimente di tristezza e di vago pericolo. E’ certo che, quando fummo tornati all’aperto, respirammo a pieni polmoni e con immenso sollievo l’aria pure e fredda della sera incipiente.

Sulle spiaggia ci riunimmo agli altri, senza che si fossero accorti che eravamo scesi dal brigantino inglese. Avevano trovato la spiaggia delle foche, innumerevoli, e che non erano fuggite al loro arrivo, segno evidente che non avevano mai visto esseri umani; ma nessun segno di sorgenti d’acqua dolce. Su questo punto li rassicurammo noi, anche se ormai, nell’oscurità crescente, non era più possibile mostrare loro, neanche col binocolo, la cascatella de noi scoperta. Ci trasferimmo a bordo del Valdivia e ci sistemammo per la notte, attingendo ai viveri che avevano portato con noi ,e rimandando all’indomani una battuta di caccia alla foce e a una più accurata esplorazione dell’isola. Mi sembrò, durante la cena silenziosa, che il marchese ci guardasse con occhi penetranti, come per leggere sul mio viso e su quello del mio amico un indizio su quel che avevamo fatto durante la sua assenza. Ma, naturalmente, ci guardammo bene dal fare il minimo cenno alla rapida ricognizione a bordo del Newcastle. Poi Mariano ed io, trovata una cabina in discrete condizioni, ci coricammo, coprendoci con tutto quel che poteva fare allo scopo, perché il freddo era veramente terribile.

E nonostante il freddo, nonostante la stanchezza e le innumerevoli emozioni, non tardai ed addormentarmi, letteralmente schiacciato dalla fatica ma anche un po’ confortato dall’aver ritrovato, nelle immensità dell’Oceano Antartico, quel piccolo ma solido lembo di terra ferma su cui poggiare i piedi.

CAPITOLO TERZO

1° febbraio.

Stavamo dormendo profondamente, quando siamo stati destati nella maniera più drammatica da un urlo spaventoso, prolungato, che cessò improvvisamente e com’era cominciato. Anche Kariano era sveglio; in un istante ci precipitammo fuori, urtando altri marinai che uscivano dalle varie cabine.

Il grido, un grido certamente umano, era sembrato venire da fuori, e così siamo corsi tutti in coperta. Il capitano reggeva una lanterna a petrolio e stava facendo l’appello quasi subito risultò che mancava un uomo, il giovane Domingo. Tutti parlavano concitatamente, la confusione era al massimo. Il conte impo-e silenzio e domandò: – Chi dormiva vicino a Domingo? Si fece avanti un marinaio di mezza età, di nome Romualdo: – Io, señor.

– sai qualcosa di cuesta storia? Sai dov’è andato a finire il tuo compagno?

– No, señor. Domingo dormiva vicino a me. Non es verdad, Esteban? Ma quando sono stato svegliato da ouel grido che faceva accapponare la pelle, il suo posto era vuoto. Yo non sabe otro, señor.

Il marchese, con occhi lampeggianti, stava per replicare qualcosa, allorché Alejandrò, emergendo dal buio, gridò concitatamente: – Guardate! Guardate cosa ho trovato! -, e agitava in meno un basco di lana, che tutti riconoscemmo immediatamente per quello di Domingo.

– Dove l’hai trovato? -, lo interrogò il capitano.

– Venite a vedere -, rispose Alejandro; e, alla luce della lampada a petrolio, ci portammo presso il parapetto di prua. Il marinaio si fece dare dal capitano la lampada, e la abbassò fino quasi a terra: così potemmo vedere, alla sua luce tremolante, una larga pozzanghera d’acqua, proprio sul margine estremo del ponte.

– II berretto di Domingo era proprio qui -, concluse Alejandro; – infatti, il basco è bagnato. – E lo passò al capitano.

Lopez lo prese in mano e confermò, guardandoci tutti: – È vero! –

Un’espressione interrogativa passò negli occhi di ciascuno, e fu una lunga, pesante pausa di silenzio. Gli uomini tremavano, ma forse non solo per il freddo pungente della notte antartica,, D’un tratto Esteban mormorò, dando voce al pensiero di quasi tutti: – Domingo aveva ragione, poveretto. Questo luogo del demonio è sotto il potere di un sortilegio. Non avremmo dovuto venire qui. Non rivedremo più le nostre case… –

II marchese gli si avvicinò a grandi passi, lo afferrò per il bavero, e gli disse scandendo le parole, a pochi centimetri dalla sua faccia: – Stai zitto, maledetto scemo. Solo le .donnicciole credono ai diavoli e ai fantasmi. Qui non c’è nessun sortilegio. Qualcuno vuoi farvelo credere, ma la scomparsa di Domingo non ha nulla di soprannaturale. Qualcuno lo ha spacciato, semplicemente; e poiché quest’isola è disabitata, non può essere che uno di noi! –

Un mormorio di costernazione corse per le bocche di quegli uomini semplici e impressionabili.

Inaspettatamente, fu Mariano a rompere il silenzio: – Già, ma come spiegate quella pozza d’acqua presso il parapetto? Ammettiamo che Domingo sia caduto in mare o anche che qualcuno ve lo abbia gettato, dopo una colluttazione, come proverebbe l’indizio del basco caduto sul ponte. Ma che significa quella pozzanghera? E’ come se l’aggressore non sia giunto da qui, dal boccaporto, ma… da laggiù -, e così dicendo, accennò con la testa verso le scure onde del mare.

Seguì un silenzio lungo e penoso. Ciascuno sbirciava i compagni alla ricerca di un segno, di un’ipotesi; ma nessuno aveva nulla da dire. Un paio di marinai si segnarono la fronte e il petto, silenziosamente.

Infine il marchese riprese in pugno la situazione, con la sua abituale energia: – Sentite, hombres. Io, per ora, non sono in grado di spiegare i particolari di questa ingarbugliate faccende. So soltanto una cosa: ci sovrasta un pericolo, un pericolo che non possiamo sottovalutare. Per adesso, è inutile restare qui; ci stiamo congelando. Torniamo di sotto, al caldo, ma stabiliamo dei turni di guardia. Un uomo deve rimanere costantemente all’ingresso del boccaporto. Che nessuno salga da solo sul ponte, per nessun motivo. Domani studieremo il da farsi.

Il capitano si rivolse ad Alejandro: – Tu farai il primo turno. Hai un’arma? Va bene, quel coltello è meglio di niente. Fra un’ora ti darà il cambio Esteban, e così via, a rotazione, fino all’alba.

Rientrammo nelle cabine, ma è certo che nessuno chiuse più occhio. Raborividendo sotto le coperte, sono rimasto per un pezzo a discutere con Mariano gli avvenimenti della notte. – Tu che ne pensi? -, gli chiesi. – Che cosa significa il fatto che Domingo è stato aggredito del lato del mare? –

– Significa – rispose tetro il mio compagno, pronunciando le parole con la massima chiarezza – che qualcosa o qualcuno è uscito dell’acqua, lo h afferrato e gettato o trascinato giù, portandolo con sé. –

Nonostante il freddo, sentii un brivido corrermi per le ossa. – Perché trascinato? Cosa vuoi dire con questo termine? –

Mi guardò per un poco, soprappensiero; poi rispose: – Non ricordi il grido che abbiamo udito? Un grido di angoscia, di terrore…, ma, soprattutto, un grido prolungato. Sarà durato non meno di quattro o cinque secondi, forse più. Una rapida caduta in acqua, al contrario, non dura più di un secondo, forse meno.

– Può aver continuato e gridare quand’era già in acqua, per chiedere soccorso – osservai, io stesso poco convinto di una tale ipotesi.

– Ma il grido veniva de sopra, dal ponte – rispose. – Inoltre, l’acqua del mare è talmente fredda, che un uomo, cadendovi dentro, non potrebbe, secondo me, seguitare a urlare sullo stesso tono… Ci dovrebbe essere stata una pausa, dovuta all’impatto con la superficie gelida, e poi qualche secondo di silenzio, mentre il corpo andava sotto. Riemergendo, avrebbe dovuto gridare con voce diversa; e quella voce avrebbe dovuto venire del basso, cioè all’altezza delle cabine; non dell’alto.

Riflettei per qualche attimo, poi: – Ma allora… chi può essere stato? -, domandai piano, quasi interrogando me stesso.

– Senti – disse Mariano – voglio raccontarti una storia. Quando tornavano a casa dalle loro campagne militari, i soldati romani portavano, insieme agli oggetti più strani di paesi esotici, racconti affascinanti di popoli, piante e animali sconosciuti; racconti che lasciavano sbalorditi i bambini e le donne, seduti presso il fuoco, nelle lunghe sere d’inverno. I reduci della sfortunata spedizione africana di Marco Attilio Regolo, al tempo della prima guerra punica, riferirono che presso il fiume Bagrada, che sfocia fra Utica e Cartagine, vi era un rettile di tale mostruosa grandezza, da impedire all’intero esercito di Attilio Regolo di attingere l’acqua del fiume. Un coccodrillo, probabilmente; ma doveva essere un esemplare addirittura enorme.Valerio Massimo dice che in Africa apud Bagradam flumen, tantae magnitudinis anguem fuisse tradunt, ut Atilii Reguli exercitum usu prohiberet. Pensa:un intero corpo d’amata del migliore esercito del mondo, terrorizzato da un gigantesco rettile; e i soldati romani non erano precisamente degli imbelli. E Valerio Massimo aggiunge che molti soldati erano stati presi nelle sue enormi fauci e molti erano stati soffocati dalle spire della sua coda. Le frecce che gli lanciavano contro non riuscivano nemmeno a ferirlo. Per abbatterlo furono necessarie le balliste che lo tempestarono con una pioggia di grosse pietre: e il suo sangue, mescolandosi all’acqua del fiume, la infettò in modo tale che l’esercito dovette spostare il campo altrove. E un altro scrittore latino, Paolo Orosio, precisa che la sua pelle misurava centoventi piedi e che, portata a Roma, per qualche giorno suscitò la meraviglia di tutti. –

Qui Mariano fece una pausa, poi concluse: – Sai, questa storia mi ha sempre incuriosito. Mi sono sempre domandato che razza di belva potesse essere quella. –

Colpito, per un po’ rimasi senza parole. Poi dissi con esitazione, quasi temendo di concretizzare un vago terrore, con il fatto di parlarne:

– E… tu credi che… insomma, che noi si possa avere a che fare con un mostro del genere? –

– Certo non con un uomo, né con uno spirito. E nemmeno un coccodrillo, data la latitudine a cui ci troviamo. Un serpente di mare, forse. Il serpente di mare non è una leggenda, è una realtà scientifica. Certo non sarà in grado di afferrare e trascinare negli abissi un’intera nave, come pretendono certi racconti del Medioevo, e anche più recenti. Ma un uomo, è ben certo che potrebbe avvolgerlo nelle sue spire e portarselo via senza la minima difficoltà. Tra l’altro, questa potrebbe essere la ragione per cui le foche evitano completamente questa laguna, che pure è così tranquilla, riparata dalle tempeste dell’oceano. Sanno che vi si nasconde un grave pericolo.

– Mariano, accidenti, mi stai mettendo i brividi. –

– Tu – mi chiese – hai qualche altra ipotesi ragionevole? Scartando i fantasmi, ovviamente; e scartando anche il delitto.-

– No, nessuna – ammisi. – Nessun’altra ipotesi ragionevole. Mentre la tua, devo ammettere che spiega i fatti in modo esauriente. –

Ripiombammo in un silenzio assorto e pensoso, e le nostre meditazioni non avevano alcunché di allegro.

Un paio d’ore dopo, insonnoliti e intirizziti, ma incapaci di dormire, siamo andati nel locale della cucina. Il cuoco, Sebastiàn, e altri tre marinai erano già lì, presso il fuoco. Una tazza di caffè caldo e alcuni biscotti ci rianimarono un po’, poi Mariano andò a fare il penultimo turno di guardia, e a me toccò l’ultimo. In cielo le ultime stelle si andavano spegnendo, nei rari squarci fra la densa nuvolaglia. Le nere montagne intorno alla laguna apparivano tristi e opprimenti, mi davano la sensazione che fossimo dei sepolti vivi. E il mare si frangeva con ritmo sempre uguale sulle rocce della riva e contro la fiancata del clipper, imprimendogli un lieve movimento cigolante .

Al mattino ci riunimmo in coperta e tenemmo una specie di assemblea. Il marchese disse che, dopo aver ben riflettuto, era giunto alla conclusione che l’iootesi dell’omicidio doveva essere scartata. Qualcosa doveva avere assa-lito Domingo uscendo dall’acoua: un calamaro gigante, forse. In ogni caso, una creatura marina. Era quindi giunto a formulare un’ipotesi molto simile a quella di Mariano.

Il capitano Lopez era della stessa opinione: – Una volta -, disse, – sentii raccontare dell’avventura capitata e un brigantino inglese nell’Oceano Indiano. Me l’ha raccontata un capitano degno di fede, che a sua volta l’aveva sentita dalla viva voce del capitano di duella nave. Di notte, con un bel chiaro di luna, mentre navigava in vista della costa, il brigantino fu attaccato da un polipo di enormi dimensioni, che si era attaccato allo scafo con le sue innumerevoli ventose. La nave si stava inclinando pericolosamente su un lato ed era ormai quasi ferma, benché il vento soffiasse di poppa e le vele fossero tutte spiegate. I marinai tentarono di tagliare i tentacoli della bestia con le scuri, ma due di essi vennero ghermiti e trascinati giù. Solo con uno sforzo disperato, dopo quasi mezz’ora di lotta, il brigantino riuscì infine a liberarsi dalla morsa e a riguadagnare il mare aperto. Quel capitano disse che, in porto, nessuno volle credergli, ma che quella era stata l’avventura più paurosa che gli" fosse mai capitata in tutta la sua vita. I suoi capelli erano diventati completamente bianchi nei giro di una sola notte. Inoltre due uomini dell’equipaggio mancavano all’appello: era un fatto, quello, e nessuno poteva negarlo.

II marchese interruppe quel racconto impressionante con tono brusco: – Capitano, non è questo il momento di spaventare gli uomini con simili storie. Io non credo che esistano calamari in grado di afferrare, coi loro tentacoli, addirittura una nave. Adesso, pensiamo alla nostra situazione. Non possiamo trascurare delle cose più urgenti: la ricerca del cibo e dell’acqua. Abbiamo delle armi da fuoco, oltre alla mia pistola? –

– Sì, due fucili e un centinaio di munizioni – rispose Lopez.

– Bene; accertatevi che siano efficienti, e carichi, ci serviranno per la no atre difese, e specialmente per i turni di guardia notturna. Ora salperemo con la scialuppa e ci porteremo sul lato esterno dell’isola, dobbiamo uccidere due o tre foche, scuoiarle, cuocerle e salarle. Ma per la notte, con questa temperatura, non c’è altro da fare che tornare qui, a bordo del Valdivia; ed è appunto qui che si cela il pericolo. Terremo gli occhi bene aperti ed eviteremo di disperderci. Se Domingo non fosse salito i n coperta, questa notte, per chissà quale ragione, non gli sarebbe accaduto nulla. Restiamo uniti, e non avremo da preoccuparci troppo. Sapremo difenderci contro il nostro ignoto aggressore. Ci sono obiezioni?

Tutti tacquero. Così, ci trasferimmo a bordo della scialuppa, e traversammo la laguna senza quasi parlare. Prima di imboccare il passaggio fra le rocce, accostammo alla parete verticale in prossimità della cascatella che Mariano ed io avevamo individuato il giorno prima, e, dopo alcune manovre non prive di difficoltà, riuscimmo a riempire due barilotti trovati a bordo del Valdivia. Poi, ci inoltrammo controcorrente nel buio passaggio verso la grotta azzurra. Alej andrò teneva alta la lampada a petrolio, e nel suo incerto chiarore notammo, circa a metà del fiordo, un ribollire d’acqua sulla nostri destra. Subito i fucili vennero puntati in quella direzione, ma non successe nulla. Dopotutto, poteva essersi trattato di un pesce, o di una foca. In ogni caso, raggiungemmo la grotta senza incidenti e, di lì, sbucammo in mare aperto e costeggiammo le ripida costa esterna, fino a doppiare il capo orientale.

Lo spettacolo che ci si offrì a quel punto era semplicemente grandioso. Una colonia di forse un milione di foche da pelliccia, forse più, gremiva letteralmente le rocce e gli scogli battuti dalle onde. Strano, in quell’isola dimenticata ebbi per la prima volta la sensazione quasi tangibile del fatto che l’uomo, preteso signore del creato, non è che una trascurabile specie vivente fra le tante, degna di nota soprattutto per la sua nocività.

Le foche non avevano mai visto l’uomo, non fuggirono al nostro avvicinarsi. Fu sin troppo facile ucciderne tre con i fucili; solo allora, e senza troppa fretta, le compagne più vicine cominciarono ad allontanarsi, tuffandosi in acqua. Mentre quattro marinai restavano presso la riva a preparare la carne, noi altri sei ci dividemmo in tre squadre di due uomini e ci dedicammo a una esplorazione più accurata dell’isola. Dovevamo individuare eventuali sorgenti d’acqua nonché grotte o ripari naturali che si prestassero a sostituire il Valdivia come ricovero notturno. Io e Mari ano ci dirigemmo verso il settore est, il marchese e il capitano verso il centro, e altri due marinai verso ovest. L’appuntamento era presso la scialuppa, due ore prima del tramonto. Dopo aver distribuito le magre razioni di scatolette e biscotti, ci separammo, avviandoci ciascuno per la propria strada.

La temperatura non era più tanto bassa, ma il cielo era nuovamente tutto coperto, grigio come la cenere, e ben presto cominciò a nevicare. Le rocce erano nude e scivolose, tuttavia non troppo ripide, certo meno di quanto lo erano sembrate dal mare. Nella zona più bassa dell’isola, apparivano coperte di muschi e licheni; poi, a partire da circa duecento metri d’altezza, ogni forma di vegetazione cessava: a omelia latitudine, duecento metri di altezza corrispondono p 2.000 dei nostri. Un vento tagliente e cattivo ci. frustava la faccia, respingendoci quasi indietro a ogni passo. Allorché, verso mezzogiorno, abbiamo raggiunto la vetta, ci siamo accorti che tutto l’altipiano dell’isola è coperto di neve e ghiaccio. Nessun riparo naturale, nessuna sorgente; ma, in caso estremo, si potrebbe ricorrere alla neve fusa per attingere acqua potabile. Meglio che morire di sete, quantunque la cascatella scoperta sul lato interno della laguna, purché sia perenne, sembra aver risolto quel problema.

Dopo esserci rifocillati brevemente, ci siamo spinti oltre la sommità e, dopo alcune centinaia di metri, abbiamo colto il panorama formidabile della caldera vista dall’alto. L’acqua verde-azzurrina, più chiare di quella del mare aperto, disegnava una perfetta circonferenza incastonata nel grigio cupo delle rocce basaltiche. I velieri fantasma, visti di lassù, apparivano ancor più bizzarri e irreali, come disposti a quel modo da una mano desiderosa di creare atmosfere fiabesche.

Il viso di Mariano, pallido, smagrito e con la barba lunga, mi ha ricordato quello che doveva essere, molto probabilmente, anche il mio stesso aspetto. Era diventato ancor più taciturno, quasi cupo, e tuttavia sapevo che ciò noi dipendeva soltanto dalla nostra precaria e allarmante situazione. Gli ho chiesto come pensava che andrà a finire questa nostra avventura, ma che non mi citasse Virgilio e l’episodio di Laocoonte e dei draghi marini, sforzandomi così di introdurre una nota umoristica nei nostri neri pensieri.

– No, non penso più nemmeno a Virgilio – disse tristemente, scuotendo la testa. Mi sembrava profondamente cambiato, negli ultimi giorni.

– E a cosa pensi, allora?

– Secondo te? -; e mi fissava intensamente, la fronte aggrondata.

– Secondo me, a dona Alexandra. Ma lei non vorrebbe saperti così; non vorrebbe sapere che tu soffri senza riuscire a trovare sollievo. –

Fece di sì con la testa, pensieroso, come se avessi detto ciò che pensava anche lui, e tuttavia non potesse fare diversamente.

Durante la marcia di ritorno non abbiamo quasi più parlato. Siamo arrivati ultimi all’appuntamento. La carne era già stata tagliata in tante bistecche e cotta sul fuoco; per accenderlo, Sebastiàn aveva portato alcuni pezzi di legno asportati dal Valdivia. Abbiamo riferito brevemente l’esito infruttuoso della nostra escursione; la stessa cosa avevano constatato gli altri. Aveva smesso di nevicare, ma il freddo aumentava. Così, ci siamo rapidamente imbarcati sulla scialuppa e siamo tornati alla grotta, e di lì, attraverso il fiordo nascosto, al nostro rifugio nella laguna, a bordo del clipper.

E, stabiliti dei turni di sorveglianza, dopo un pasto più sostanzioso di carne di foca, ci siamo ritirati per dormire.

  1. febbraio.

Le giornate di oggi è state dedicata al riposo, tento più che fuori nevica E larghe falde e non c’è più di tornare sulla costa, per ora. Dobbiamo prima di tutto rimetterci in forze, rendere un po’ più abitabile la nostra attuale dimora, aiutare Sebastiàn ad insaccare la carne e, soprattutto, valutare le possibilità di rimettere in mare il Valdivia per tentare la traversata di ritorno.

Ad un primo, sommario esame, sembra che le difficoltà maggiori non consistano nel riparare le falle dello scafo e neppure nel rialzare o sostituire gli alberi, me nel fatto che le velature sono irrimediabilmente deteriorate, e quelle degli altri bastimenti versano, evidentemente, in condizioni ancor peggiori.

Per domani, il marchese ha stabilito un sopralluogo ‘ sugli altri velieri. Sono curioso di vedere come farà a cercare quello che lui sa a bordo del Newcastle, senza destare i sospetti degli altri. E se anche dovesse scoprire la cassaforte e vi troverà il denaro, come farà ad asportarlo all’insaputa dei marinai e del capitano?

Nel pomeriggio, anche per distrarmi, ho provato a tracciare uno schizzo, molto approssimativo, dell’isola Dougherty. Stimo che l’altitudine massima non debba superare i quattrocento metri, forse quattrocentocinquanta; la lunghezza massima, da sudovest a nordest, sarà di circa tre chilometri e mezzo, la larghezza di due. La struttura fondamentale è data dalle pareti basaltiche della caldera, saldate, all’estremità occidentale, mediante un istmo sottile, a una massa rocciosa più antica, che non presenta tracce evidenti di attività vulcanica recente. Il problema geologico più interessante è posto dal lungo fiordo coperto che mette in comunicazione la grotta azzurra con la laguna dell’antico cratere. In un primo momento avevo pensato che fosse stato scavato dalle onde marine, come la grotta, del resto; ma poi, riflettendo e discutendone con Mariano, ho cambiato idea. Sia la grotta che il passaggio interno s’innalzano con la volta molto al di sopra del libello massimo della marea; è difficile, quindi, pensare che siano stati creati unicamente dalla forza del mare. Forse sono state le acque piovane e dello scioglimento della neve a penetrare nelle fessure della roccia calcarea; questo spiegherebbe anche la presenza delle stalattiti. Quando la grotta e il canale interno erano già pronti, un innalzamento del livello marino – per esempio, alla fine dell’ultima era glaciale – ha portato le acque dell’oceano a penetrarvi. Ma io non sono un geologo, e questa è solo un’ipotesi.

La sera, prima di dormire, ho avuto di nuovo una di quelle profonde conversazioni con Mariano, così ricche e stimolanti, che mi hanno reso tanto preziosa le sua amicizia. Egli è uscito dal mutismo degli ultimi giorni, per riprendere il filo delle discussione interrotta il giorno prima, sulla vetta ghiacciate dell’isola.

Eravamo coricati nelle nostre cuccette, finalmente sazi dopo un buon pasto, e non più troppo infreddoliti: in condizioni, quindi, di vedere le cose sotto una luce un po’ più ottimista. – Sai – ha incominciato – ho ripensato alle tue parole, naturalmente. È vero quello che hai detto ieri, che dona Alexandra non sarebbe lieta di sapermi così scoraggiato e malinconico. No, lei ha un carattere riflessivo, ma anche naturalmente portato alla serenità, all’ottimismo. Oppure la sua serenità è il frutto di una faticose conquista? Comunque, io non posso essere meno coraggioso di lei; bisogna che mi scuota. Quella donna ha destato in me un’impressione profondissima, indimenticabile; in soli due mesi, ho ricevuto de lei più che da chiunque altro nella vita. No, non me ne sono innamorato perché è bella; ma perché, conoscendola, sono rimasto conquistato dalla sua incredibile bellezza interiore. Mi sono anche chiesto se non l’abbia, per caso, un po’ idealizzata. E, riflettendo bene, sono arrivato alla conclusione che no; e che, anzi, in questo caso la realtà supera la mia fantasia: mai avevo pensato di trovare in un essere umano tanta generosità, tanta bontà, tanta delicatezza.

Bene; e che fare, adesso, di un tale sentimento impossibile? Io devo fare qualche cosa della quale lei potrebbe esser fiera, fiera di me; devo trasformare la sua assenza, la nostalgia, il rimpianto, in qualcosa di forte e costruttivo, qualcosa che possa dare un senso al mio domani, breve o lungo che esso sia. So che posso farcela; so che una strada ci dev’essere. Voglio trasformare la sofferenza in dolcezza, voglio che la sua perdita irreparabile diventi il principio di un sentimento che durerà per sempre, rasserenante, fresco, lieto. Voglio volgere le spalle al mondo delle cose morte, e andare verso la vita; per lei, per rendere omaggio a lei, per dimostrarle che averla incontrata non ha portato solo dolore nella mia vita – di ciò so che si crucciava, soprattutto. Ma anzi che mi ha ridato un cuore nuovo, di carne, che sente; che mi ha spalancato davanti orizzonti sconfinati, che prima non vedevo. –

Era strano sentirlo parlare così, come avessimo avuto un roseo futuro davanti, e non, invece, una minaccia costante: quella di non fare mai più ritorno a casa; senza contare il particolare che non avevamo più una casa…

Glie lo feci notare e lui, convinto: – No, Federico: in questo momento non mi preoccupa né il fatto che siamo dei naufraghi su un’isola sperduta e inospitale, anzi, nemmeno segnata sulle carte, e di cui il mondo ignora l’esistenza; né le complicazioni che sorgeranno col marchese, inevitabilmente, quando tenterà di realizzare il suo piano; e nemmeno il nostro misterioso avversario che si cela nelle profondità oscure della laguna. Certo, non nego che siano tutti pericoli reali; ma io, in un certo senso, sento di trovarmi già oltre. Non fraintendere le mie parole; non conosco meglio di te come tutto questo andrà a finire, non possiedo doti di premonizione e tanto meno di astrologia. Non è questo. Voglio dire che ho ritrovato, che sto ritrovando uno scopo nella vita: ciò di cui andavo in cerca, senza saperlo, anche prima di conoscere Alexandra. Lei mi ha indicato la strada e mi ha reso consapevole della ricerca. Partendo dalla nostra isola, pensavo di averla perduta e questo mi rendeva disperato. Ma ora mi sta cadendo un velo dagli occhi: sento che non la perderò mai, perché l’ho qui con me, nel mio cuore, per sempre. E dunque, posso anche affrontare l’ignoto; nemmeno la creatura degli abissi mi sgomenta più di tanto. Trovando lei, ho trovato anche me stesso, cioè sono riuscito a dare un senso alla mia esistenza. Se è destino che viva ancora, vivrò per lei; non "nel ricordo di lei": si ricordano i morti, non i vivi. I vivi ci accompagnano, sempre, anche se sono lontani, anche se forse non li vedremo mai più. Hai capito, adesso? Ero inquieto, lo sono sempre stato, perché la vita – non la mia solamente, ma la vita umana in generale – mi appariva priva di scopo. Adesso l’ho trovato: è l’amore, nel senso più elevato della parola. L’amore perfetto è quello che non cerca, che non spera, che non attende alcun contraccambio. Tale, lo sento, sta diventando il mio amore per lei.-

In quel momento gli brillavano gli occhi, era di nuovo il Mariano d’un tempo; anzi, non l’avevo mai veduto tanto infervorato, tanto innamorato della vita. In quel momento mi sembrava un cavaliere antico, pronto a galoppare, lancia in resta, contro il drago che minacciava la bella principessa incatenata sulla riva del mare.

– Ieri mattina, quando siamo giunti sulla vetta dell’isola – riprese, più pacato, dopo qualche tempo – e ho visto, fra la. nebbiolina e il nevischio, lo spettacolo immenso del mare, vuoto a perdita d’occhio, delle livide onde che si accavallavano sempre uguali e si frangevano incessantemente sugli scogli, ho sentito un brivido. E’ così piccola, dunque, la vita umana, in confronto alle forze grandiose della natura? Così fragile, così insignificante? E poi mi sono detto: sì, piccola, fragile; insignificante, forse no. A una condizione: che noi riusciamo a ciarle un significato.

CAPITOLO QUARTO

3 febbraio.

Dormivamo tutti profondamente, quando un suono ci ha destati nel gran silenzio della notte: incredibile, inverosimile. Il suono di uno strumento musicale, un clavicembalo, sembrava, o forse una spinetta, o qualcosa del genere.

La prima impressione, aprendo gli occhi nel buio; col cuore che mi batteva, fu di non essere affatto sull’isola Dougherty, ma a casa, nel mio letto, in mezzo alle cose note; e ci vollero alcuni lunghi secondi perché la mia mente cominciasse a comprendere l’assurdità di quella melodia – sembrava una ciaccona, non so, m’intendo poco di musica -, anzi, l’assoluta impossibilita di quello che stavano udendo i miei’ orecchi.

Anche Mariano era saltato giù dalla sua cuccetta, ci siamo guardati con aria interrogativa ma senza dir nulla. Era una situazione così pazzesca che avrei certamente dubitato dei miei sensi, se dal corridoio non fossero giunte voci e rumore di passi. Siamo usciti dalla cabina e poi, con gli altri marinai, siamo saliti in coperta. L’uomo di guardia, Esteban, era trasecolato quanto noi; né, sulle prime, riuscivamo a capire di dove giungesse quel suono. Sembrava avvicinarsi e allontanarsi, senza ragione apparente, ma era certo un effetto del vento.

Por la Santa, Virgen! – ha esclamato il capitano, raggiungendoci in coperta, – chi diavolo si diverte a suonare l’organo in un luogo come questo?

– Non è un organo – ha risposto il marchese – ma una spinetta, un antico strumento musicale simile al clavicembalo, ma più piccolo. –

Abbiamo fatto tutti silenzio. Nella notte buia, senza stelle, la melodia della ciaccona si spandeva sulla laguna e avvolgeva ogni cosa in una sorta d’incantesimo. Era una melodia dolce, aggraziata, suonata con notevole maestria, che sembrava giungere da lontananze insondabili; ma proprio la sua leggiadria ci metteva i brividi, per il contrasto lacerante con 1’asprezza del luogo e del clima, con la solitudine di quelle latitudini australi, con la nostra stessa condizione di naufraghi abbandonati a noi stessi. Tutti ci sforzavamo di individuarne la sorgente, ma senza alcun successo: sembrava che duella musica affascinante ed armoniosa venisse da ogni lato e da nessuno; ogni tanto si spegneva, e poi ricominciava.

Infine, ad almeno venti minuti dall’inizio, dopo aver eseguito una fuga magistrale, il misterioso strumento ha bruscamente taciuto. E il silenzio, dopo, è parso ancora più inquietante e irreale, ancora più desolato.

Siamo rimasti a lungo a discutere del fatto. I marinai erano ancor più taciturni del solito: per loro, non poteva essere che un fenomeno soprannaturale, e ciò confermava la loro idea: che 1’isola, cioè, sia un luogo stregato, un luogo che porta sventura. Il marchese, Mariano ed io non ci siamo accontentati di una tale spiegazione, e ci siamo riuniti nella sua cabina, insieme al capitano Lopez che, in verità, sembrava scosso quasi quanto i suoi uomini. La cosa mi è parsa sorprendente, dopo averlo cosi deciso allorché Domingo scomparve in mare; ma poi ho riflettuto che un calamaro gigante, o serpente di mare che sia, è pur sempre una creatura del mare, un animale in carne e ossa, per quanto mostruoso; e quest’uomo è da una vita che dà la caccia alle creature marine. Invece la faccenda della spinetta è di tutt’altro genere. Qui non c’è da affrontare un pericolo a viso aperto, faccia a faccia, ma un qualcosa di sfuggente, d’incomprensibile e, forse, dal suo punto di vista, di soprannaturale.

II marchese ha iniziato chiedendoci se eravamo tutti d’accordo nell’interpretare quel che avevamo udito come un brano musicale, un suono comunque prodotto da uno strumento di fabbricazione umana, da una tastiera sollecitata da dita umane. Sì, eravamo tutti d’accordo. Non poteva essere stato uno scherzo del vento, né un qualunque altro suono naturale, prodotto casualmente da agenti naturali. Troppo distintamente l’avevamo udito, e in troppi, senza dire che era durato piuttosto a lungo. A Mariano è parso anzi perfino di riconoscerlo: gli era sembrato un brano di Pachelbel, organista tedesco del XVII secolo, celebre virtuoso di Norimberga; o, se non era lui, qualcuno che gli assomigliava molto.

Il marchese è passato quindi alla seconda domanda: – C’è qualcuno fra noi che crede agli spiriti? -; e lo chiedeva con tono formale, distaccato.

– Gli spiriti – ho risposto, levando il capitano dall’imbarazzo – non si dilettano di virtuosismi musicali, che io sappia; né si divertono a confondere i mortali giocando loro di questi scherzi.

– Be’, quanto agli scherzi… – ha mormorato Mariano, quasi per conto suo.

– Vi prego – ha ripreso il marchese – terminate il vostro discorso.

– No – si è schermito Mariano, evidentemente pentito di quanto gli era sfuggito involontariamente. – Stavo solo pensando che gli antichi greci e romani, pur così razionali, per certi aspetti, a paragone di noi moderni…

– Credevano ai fantasmi?

– Eccome. Plinio – il Giovane, in una lettera, racconta che, ad Atene, il filosofo Atenodoro andò a vivere in una casa infestata da uno spettro, che aveva già messo in fuga i precedenti abitanti. La notte appariva il fantasma di un vecchio, i capelli irti, i ceppi alle mani e le catene ai piedi. Il filosofo non si sgomentò e seguì l’apparizione fin nel cortile, dov’essa scomparve. Il giorno dopo, avvertiti i magistrati, Atenodoro fece scavare in quel punto del cortile: vennero in luce i resti di un uomo, frammisti a catene, cui venne data regolare sepoltura a spese della città. Dopo di che, il fantasma non fu più visto.

– Molto interessante – ha detto il marchese, e non si capiva se parlava seriamente, o con ironia. – Vi prego, continuate, se conoscete altre storie del genere. Potremmo ricavarne utili deduzioni.

– Sì – ha risposto Mariano, – sarebbe un lungo elenco, marchese. Ecco, me ne viene in mente un’altra.

E nemmeno il mio amico capivo se stesse parlando sul serio o se scherzasse, e perché. – Petronio, nel Satyricon, racconta un caso di licantropia, ossia della trasformazione ai un uomo in lupo. Una credenza molto vecchia, questa, e che ancora sussiste in certe parti d’Europa, specialmente orientale.

– E come no? -, sono intervenuto. – Io sono nato in una zona della Stiria a maggioranza slovena. Da noi, nei villaggi…

– Ma voi, señor, che siete un uomo colto – mi ha interrotto il capitano, visibilmente scosso – voi, che cosa ne pensate? Ritenete che l’isola possa essere popolata dagli spiriti?

Ci fu un lungo silenzio. Poi ho detto, cercando di riprendermi: – No di certo, capitano. E poi, come ho detto, gli spiriti non suonano la spinetta. –

– E voi, señor Sarmiento? – ha chiesto il marchese.

Improvvisamente serio, quasi duro, Mari ano ha risposto: – Io sono un materialista, marchese. Non credo agli spiriti non perché abbia delle obiezioni di principio a un possibile contatto fra morti e vivi, ma perché non credo nell’immortalità dell’anima. Chi è morto, è morto: per sempre. E non suona alcuno strumento. –

Un lampo metallico passò nello sguardo di Villemer. – Molto bene. Dunque, bisogna concludere che qualcuno, qualche essere umano vivo e vegeto, si trova in quest’isola dimenticata, oltre a noi. Non siamo i soli abitanti. Questo qualcuno non si limita a sopravvivere, come noi, in condizioni precarie: conduce un’esistenza comoda, con molti lussi della civiltà. Non solo; costui ha voluto farci sapere che esiste, ma non ha voluto mostrarsi a noi apertamente. Perché? – E ci ha guardati fissamente, aspettando una risposta.

– Forse – ha detto Lopez – è lo stesso che ha fatto sparire Domingo. Forse non si mostra perché ci considera suoi nemici…

– Se così fosse – ho obiettato – perché segnalarci la sua presenza a questo modo? Avrebbe dovuto rimanere nell’ombra, e colpire di nascosto…

– A meno che – replicò Mariano – non abbia voluto lanciarci il guanto della sfida: farci sapere che non ci teme, che anzi ci provoca a trovarlo. –

Il marchese pareva colpito da questa ipotesi. – E infatti, dove mai potrebbe celarsi, con la sua dannata spinetta? L’isola è nuda e vuota… Secondo voi, da quale direzione proveniva quella musica?

– Difficile dirlo – ha – risposto Mariano – il vento gioca strani scherzi, e le pareti del cratere possono creare chissà quale gioco di echi. Piuttosto, io andrei per esclusione. E così, mi pare, si arriva all’unica conclusione possibile: che lo strumento deve trovarsi a bordo di uno dei velieri… Le sue parole hanno creato un silenzio carico di disagio. Ciascuno di noi pensava: "Così vicino, dunque?". Era un’idea sgradevole, anzi, allarmante.

– Avete ragione – ha concluso il marchese. Ora andiamo a cercar di dormire un altro poco. Capitano, informate gli uomini di guardia da che parte devono guardarsi. Domattina verremo a capo di questa storia, in un modo o in un altro. Signori, vi prometto che scoveremo 1′ nitore di questo scherzo…

ammesso che si tratti solamente di uno scherzo. Buona notte. –

Poco dopo, nel corridoio, il capitano è tornato alla carica con noi due:

– Ma siete proprio sicuri, señores, che non possa trattarsi di uno spirito? Nemmeno di uno spiritello piccolo così, di un niño? Io sono certamente un hombre ignorante, ma su tali questioni, come si fa ad essere così sicuri? –

Ma non ha atteso risposta, e se n’è andato, preoccupatissimo. Nella nostra cabina abbiamo poi ripreso la discussione.

– Il capitano, in fondo, ha ragione – ho osservato. – Che ne sappiamo di certi misteri? Mariano pareva quasi divertito: – Che cos’è un mistero, per te, Federico?

– Per me, una cosa che la scienza non sa spiegare.

– Che non sa ancora spiegare, Federico. Le eclissi di Sole erano un grande e pauroso mistero. Gli uomini suonavano trombe, tamburi e perfino battevano pentole, nell’antica Cina, per mettere in fuga il drago che voleva divorare il Sole. Ora noi sappiamo che non c’era alcun drago, che è la Luna a coprire il Sole

– Ma la scienza – ho ribattuto – non arriverà mai a spiegare tutto, anche se, devo ammetterlo, ha spiegato molte cose, finora.

– Certo, non arriverà a spiegare tutto. Non è neppure nella sua natura: Essa si occupa solo dei fenomeni quantitativi e Qualitativi della materia. Ma l’universo non è fatto solo di materia… –

– Mi fa piacere sentirtelo dire, nonostante il tuo materialismo. –

Mariano ha sorriso: – Piano, Federico. L’universo non è fatto solo di materia, ma anche di energia. E l’energia è una forza naturale: l’energia luminosa, per esempio. O le onde su cui viaggia il telegrafo, il telefono. Niente anima, amigo. Quella è roba da preti.

– Nemmeno un’animuccia piccolina così? – ho chiesto, imitando il capitano.

– Ah, diavolo d’un uomo! E va bene: vuoi che parliamo del tutto seriamente? Seriamente ti dirò: le scienza non arriverà a spiegare tutto, però non si devono porle dei limiti. Essa ha il diritto di spaziare a trecentosessanta gradi, la sua ricerca è teoricamente illimitata. Avanza sempre, sempre. –

– Tuttavia – ho osservato – se la scienza si occupa dei fenomeni materiali, come potrebbe dire qualcosa di ciò che non è materiale? Come potrebbe anche solo negarne l’esistenza? Sarebbero due ordini di realtà totalmente separata, non ti sembra?-

– Eh, già. Ma se quest’altra realtà, extra-materiale, non è osservabile con gli strumenti e i metodi della scienza, vuoi dire che non è osservabile affatto… Io non posso negarla, quindi, ma nemmeno tu puoi affermarla. Si tratterebbe di un’ipotesi del tutto indimostrabile, quindi oziosa.-

– No, un momento. Chi ha detto che non possono esistere altre forme di conoscenza, oltre quella scientifica? Mariano, con te non arrivo a capire se parli sul serio, o se vuoi prendermi in giro… –

– Non parlo sul serio. Volevo metterti alla prova. Hai perfettamente ragione: può darsi che siano altre forme di conoscenza. E’ proprio questo il problema, per me. Intuisco che vi sono, ma non le conosco. "Vi sono, Orazio – dice Amleto alla fine del primo atto del capolavoro di Shakespeare – in cielo e nella terra, più cose, che non ne: .sogni la nostra filosofia." –

– Per esempio – ho chiesto -, la religione?

– Appunto. Ed è stata Alexandra a farmelo capire… Anche se io, personalmente, non sono approdato a una tale forma di conoscenza. E anzi mi sembra piuttosto, come dire, improbabile.

Abbiamo discusso ancora un poco; poi, avvicinandosi l’alba, ci siamo alzati e siamo andati in cucina, dove ci aspettava un buon caffè caldo. In breve ci siamo riuniti tutti, e il marchese ha tenuto un breve discorso: – Uomini, a quanto pare c’è qualcun altro all’isola, qualcuno che ama la musica e che si diverte a fare scherzi. Per quel che ne sappiamo, potrebbe anche aver rapito o ucciso Domingo. Dunque, massima cautela. Controllate i fucili: uno lo terrà il capitano, e un altro Alejandro, che, mi dicono, e a usarlo piuttosto bene. –

– Potete scommetterci, señor -, ha muggito quello.

– Ora – ha ripreso il marchese -, con la prima luce, procederemo a ispezionare i relitti di quelle navi, uno dopo l’altro. Solo lì può celarsi l’abitatore misterioso; solo lì, con questo clima, un delicato strumento musicale potrebbe esser difeso dalle inclemenze degli agenti atmosferici. Cominceremo dal più vicino e poi, uno per uno, giungeremo fino all’ultimo, quel brigantino mezzo sfasciato che giace sul lato più interno della spiaggia. È indispensabile che rimaniamo sempre uniti, nessuno deve distaccarsi dagli altri. Ricordate quel che è capitato a Domingo, perché si allontanò dai compagni senza dir nulla. Ora, sarebbe ancore qui, con noi. Ci sono domande? –

È seguito un lungo silenzio. Tutti ci guardavamo negli occhi, in silenzio. Ma non c’era altro da dire. Per passare sul vascello accanto al Valdivia, era sufficiente scavalcare il parapetto e compiere un balzo deciso sul ponte. L’importante era cogliere il momento giusto, perché il movimento delle onde portava i due scafi a toccarsi e a separarsi ritmicamente. Scivolare in mezzo sarebbe stato terribilmente pericoloso. Siamo passati tutti, senza incidenti; e, alla luce della lanterna, siamo penetrati nel boccaporto. Era un cutter, imbarcazione a un solo albero dotato di più fiocchi, ma un cutter di notevoli dimensioni. Era di nazionalità francese e recava, scrostato ma chiaramente leggibile, il nome di Auvergne. Nell’interno, pieno di ragnatele, non abbiamo trovato nulla d’interessante. La stiva era vuota, evidentemente era naufragato nel viaggio di andata. Dal libro di bordo, che il marchese ha preso con sé, è risultato che era partito da Nantes nel 1845 ed era diretto ad Acapulco; ma, evidentemente, la tempesta doveva averlo sorpreso al passaggio di Capo Horn, trascinandolo senza governo. Risalimmo in coperta dopo circa un’ora. Non avremmo saputo nemmeno noi indicare che cosa ci saremmo aspettati di trovare; tuttavia, esplorando i recessi più bui del veliero, avevamo sperimentato dei momenti di forte tensione, in recita, ciascuno di noi era stato convinto, nei proprio intimo, che non poteva esser quella la nave che cercavamo: troppo vicina La melodia udita nella notte veniva sicuramente da più lontano.

Passammo al veliero successivo. Anche in questo esso, fu sufficiente trasbordare eoa un salto oltre la murata. Eravamo adesso a bordo di un vascello più antico e malridotto, il cui nome semiscrostato lo qualificava come spagnolo: il Reina Isabela. Trovammo il libro di bordo, ma era illeggibile. I locali erano molto rovinati dall’umidità, e, nella sentina, l’acqua era penetrata, allagandola. Enormi festoni di polvere e antichissime ragnatele avvolgevano ogni cosa: era piuttosto curioso pensare che dei ragni riescono a vivere sull’isola, e che trovano, evidentemente, degli insetti di cui nutrirsi. Il carico doveva essere stato di grano, ma non ne potevamo essere sicuri, poiché era interamente marcito e irriconoscibile. Un tanfo spaventoso di stantio finì per ricacciarci in coperta, dopo oltre un’ora di inutili ricerche. Eravamo notevolmente tesi e stanchi, anche per la notte pressoché insonne che avevamo passata. Non ci restavano che tre velieri de esplorare (anzi due, in base a quel che sapevamo Mariano ed io: ma, naturalmente, no potevamo raccontare di aver già ispezionato il Newcastle).

Decidemmo di fare una pausa. Era necessario rinnovare la nostra provvista d’acqua, ma avevamo pochi recipienti. Tornati sul Valdivia, riuscimmo a trovare un certo numero di bottiglie e di pentole non troppo malandate; quindi il capitano, Esteban e Alejandro presero la scialuppa e si diressero verso l’altra estremità della laguna, per attingere alla cascata che scende direttamente dalle nuda parete rocciosa. Noi altri restammo a bordo del Valdivia, poiché il marchese non volle proseguire l’ispezione delle altre navi mentre il nostro gruppo era diviso. Si ritirò nella sua cabina con il libro di bordo dell’Auvergne sotto braccio, per studiarlo con calma. Un marinaio rimase di guardia in coperta.

Era un mattino freddo e grigio, ma non nevicava. Un vento umido veniva dal Sud, benché la laguna interna fossa riparata d’ogni lato; probabilmente, s’infilava attraverso il fiordo dalla grotta azzurra. Io, Mariano e gli altri tre marinai ci riunimmo nel locale adibito a cucina, dove il cuoco, Pascual, preparò un buon caffè caldo.

Lo stavamo sorbendo e intanto commentavamo l’esplorazione infruttuosa dell’Auvergne e del Reina Isabela, quando udimmo Rafael, il marinaio rimasto di guardia in coperta, mettersi a urlare disperatamente e, poi, sparare un colpo di fucile.

Il sangue ci si ghiacciò nelle vene: per un istante ci guardammo negli occhi come paralizzati. Fu Mariano, ancora una volta, a reagire per primo, slanciandosi fuori di corsa. Nel corridoio si scontrò quasi col marchese, che usciva a precipizio dalla sua cabina; quindi corremmo tutti quanti su per la scaletta del boccaporto. In coperta trovammo Rafael, col fucile fumante ancora in mano, che ci guardava come istupidito.

Villemer lo affrontò furibondo: – Che altro succede, imbecille? Perché hai sparato? Rispondi!-

Ma quello era in evidente stato confusionale, agitava la mano in direzione della laguna e non riusciva a parlare.

Pascual allora esclamò: – Guardate! Guardate la scialuppa! –

Ci volgemmo a guardare in direzione della cascata e scorgemmo subito la scialuppa che si dondolava sulle acque della laguna, sul lato opposto della caldera. Non si notava alcunché d’insolito sulla superficie: nessun ribollire del mare, nessuna onda di insolita altezza. Ma la scialuppa era vuota. Non c’era nessuno a bordo. I tre uomini che con essa erano salpati- il capitano, Esteban e Alejandro – non c’erano più, semplicemente. Per qualche secondo, nessuno riuscì a parlare. Poi il marchese afferrò Rafael per il bavero della giacca e lo scosse con violenza, sibilando: – Avanti, uomo! Dicci quello che hai visto, che cosa è successo. –

Tutti gli sguardi erano fissi su di lui, che pareva annaspare, alla ricerca delle parole, pallido e stravolto. Alla fine riuscì a soffiare: – Non lo so… Yo non sabe… Facevo le guardia rivolto dall’altra parte… Tenevo d’occhio i velieri e la spiaggia… Pensavo che un pericolo potesse caso mai venire da quella parte… D’un tratto mi è parso di sentire come un tonfo nell’acqua in direzione della laguna… Mi sono voltato… E ho visto la scialuppa così, voglio dire vuota… Nient’altro… Non ho visto altro… –

Il marchese lo lasciò andare con disprezzo, quasi con rabbia. Per un poco parve riflettere, poi incontrò lo sguardo di Mariano e gli chiese: – Ma questa non è opera di fantasmi né di lupi mannari, non è vero? Voi che ne pensate, señor Sarmiento? –

Mariano non aveva perso il suo sangue freddo. Con calma rispose:- Penso che abbiamo commesso un errore, dividendoci. Ma è anche vero che, se fossimo andati tutti con la scialuppa, probabilmente a quest’ora saremmo già tutti morti… L’ipotesi del serpente marino mi sembra ancora la più probabile; o, per meglio dire, la meno assurda. Ma non chiedetemi della spinetta. Comincio a pensare che vi siano molte presenze, su quest’isola dell’Inferno: alcune decisamente ostili, altre per ora incomprensibili. –

Il marchese disse piano, quasi parlando con sé stesso: – E intanto abbiamo perduto altri tre uomini, tra cui il capitano, che era un capace uomo di mare; e uno dei due fucili. Siamo rimasti in sette: troppo pochi per rimettere il Valdivia in grado di navigare.

– Per ora – osservai io – la cosa più urgente da fare è recuperare la scialuppa. Niente scialuppa, niente provvista d’acqua, mente più caccia alle foche; e addio a ogni speranza di andarcene di qui.

Ci guardammo l’un l’altro interrogativamente. – Ma señor – mormorò alla fine Pascual come faremo a recuperare la scialuppa?

– Non ce ne sera bisogno – intervenne Mariano – ci penserà la corrente. Ce la riporterà qui la stesse corrente che ha condotto queste navi, una dopo l’altra, tanti anni fa.

Ere vero: confesso che anch’io me n’ero scordato. Il marchese puntò il binocolo in direzione delle scialuppa, poi lo passò agli altri. Nessuna traccia degli uomini a bordo, né sulle rocce circostanti. In compenso era evidente che la scialuppa si steva muovendo, e proprio nella nostra direzione. Infetti, circa un’ora dopo, essa giunse sotto bordo, scivolando leggera sulle onde. Due marinai riuscirono ad agganciarla con delle pertiche, poi salirono a bordo. I remi erano ancore negli scalmi, e coi remi le condussero a riva, sotto la prua del Valdivia; lì ve l’assicurammo con une grosse gomena.

– Questa scialuppa è per noi questione di vita o di morte – disse brevemente il marchese. – Organizzeremo dei turni di sorveglianza: non bisogna mai perderla di vista. Non possiamo permetterci di perderla.

– Ma señor disse Rafael – anche se siamo riusciti a recuperarla, chi oserà servirsene per andare a far provvista d’acqua, o per tornare sul lato esterno dall’isola, a caccia di foche? Dopo quel che è successo ai nostri compagni…

– Idiota, preferisci forse morire di sete e di fame? Quando la gola ti brucerà e le budella ti si contorceranno per i crampi, sarai tu stesso a pregarmi di lasciarti andare! – Poi si rivolse agli altri: – E voi, buoni a nulla, avete altro di cui piagnucolare? Vi ricordo che sono il vostro capo: mi dovete obbedienza. Da soli, non sapreste soffiarvi il naso! Tu, Pascual: quanta acqua abbiamo per adesso? –

– Può bastarci per due o tre giorni, marchese.

– Allora bisogna razionarla. Niente dev’essere sprecato. Comunque, domani andremo a rifornirci alla cascata, pericolo o non pericolo. Avete inteso? Se vogliamo uscire vivi da qui, voi farete quel che dico io.-

Non sapevo se ammirare le sua decisione o se biasimare la sua durezza con i marinai, i quali, dopotutto, avrebbero anche potuto ribellarsi. Ma lui si dimostrò miglior conoscitore della loro psicologia: da quel momento parvero scuotersi dal torpore. Abituati a obbedire, avevano riconosciuto la voce dei più forte; e, in fondo, erano sollevati che ci fosse qualcuno in grado di dare ordini e di assumersi delle responsabilità

– Quanto a voi, señores – disse Villemer, rivolgendosi a me e Mariano – posso sempre contare sulla vostra lealtà e sulla vostra collaborazione? –

– Certamente, marchese – rispose Mariano – ma da pari a pari, da uomini perfettamente liberi. –

Il marchese lo fissò pensieroso, poi disse: – Seguitemi nella mia cabina insieme al vostro amico; devo parlarvi.

Poco dopo, nella cabina del marchese – che era poi la cabina del capitano del Valdivia – egli tirò fuori il libro di bordo del veliero prussiano e ci domandò: – Signori, voi conoscete il tedesco? –

Io dissi di sì, e lui riprese: – Bene: così, leggendo queste pagine, potrete avere la conferma di quanto sto per dirvi. Mi sono preso la briga di esaminare questo documento, nei giorni scorsi, e sono quindi venuto a conoscenza di alcuni fatti interessanti. Ascoltate. Nel 1853 questo clipper salpò dell’Europa diretto a Tahiti, via Capo Horn; ma giunse nello Stretto di Drake a stagione invernale ormai inoltrata – in maggio, precisamente – e i venti contrari lo respinsero. Per due settimane il Valdivia lottò coraggiosamente contro le onde gigantesche, ma alla fine il capitano Rosenberg dovette desistere e volgere la prora ad est. Doppiato il Capo di Buona Speranza, traversò l’Oceano Indiano, toccò l’Australia, e in agosto inoltrato salpò da Melbourne per affrontare l’ultima tappa del suo lungo viaggio. A Tahiti avrebbe dovuto caricare olio di cocco e un certo numero di essenze vegetali, per conto dell’Università di Berlino.

Invece ai primi di settembre, dopo aver doppiato la punta settentrionale della Nuova Zelanda, fu investito da una terribile burrasca, che lo disalberò e lo trasportò alla cieca per quindici giorni, sempre in direzione sud-est, al di fuori di qualunque rotta commerciale. A bordo, la situazione ‘era drammatica. Quattro marinai erano periti in mare; gli altri, se non giacevano nelle brande in preda al mal di mare, erano fisicamente debilitati e ormai pressoché rassegnati all’inevitabile destino.

– Quando la tempesta cominciò a placarsi, il "clipper" filava oltre i cinquanta urlanti, in direzione di Capo Horn. Rosenberg fece il punto col sestante e si rese conto di essere lontanissimo da qualunque terra abitata, in balia di una corrente marina che lo trascinava sempre più verso mezzogiorno. Alla fine di settembre giunse in viste di un’isola, non segnata sulle sue carte nautiche, a circa sessanta gradi di latitudine sud e centoventi gradi di longitudine ovest. Era questa: l’isola Dougherty. Senz’alberi né vele per manovrare, gli uomini si videro portati verso una grotta che si apriva sulla costa meridionale; poi, sbattendo qua e là, il clipper fu sospinto attraverso un canale interno, fino alla laguna, andando ad arenarsi a fianco di altri cinque velieri, fantasmi spettrali di precedenti disavventure marinare.

E qui comincia la parte più interessante del diario. Anzi, aspettate. Poiché il señor Kocbek conosce il tedesco – scommetto che lei è di origine austriaca, ha un accento inconfondibile – vi darò il libro di bordo del capitano Rosenberg e ve lo leggerete voi stessi. In effetti, le cose che in esso vengono narrate potrebbero apparire così incredibili, che solo la riflessione che furono scritte da un uomo istruito e ragionevole, il quale non sperava di salvarsi né aveva interesse ad ingannare alcuno, costituisce una sufficiente garanzia della loro attendibilità.

CAPITOLO QUINTO

Dal diario di bordo del capitano Josef Rosenberg, 28 settembre 1853.

Stamattina abbiamo avvistato una terra, un’isola di cui ignoravamo completamente l’esistenza, posta a 60° di latitudine Sud e 120° di longitudine Ovest da Greenwich. Si tratta di una scura massa rocciosa dalle ripide coste prive di vegetazione, che ci fu segnalata in distanza dal volo di migliaia d’uccelli. Il povero Valdivia, disalberato come un gabbiano senz’ali, è stato sospinto dalle correnti di ponente fin sotto la scura costa basaltica, e lì abbiamo scoperto una suggestiva grotta marina. Il relitto della nostra nave vi è stato come risucchiato e, dalla grotta dai riflessi azzurrini, è stato sospinto avanti, lungo un budello roccioso contro le cui pareti abbiamo urtato più volte, ma senza troppi danni, data la modesta velocità. Infine siamo sboccati in una laguna interna quasi perfettamente circolare, racchiusa ovunque da altissime pareti precipiti. Mai avevo visto uno spettacolo naturale così maestoso e suggestivo. Da ultimo, il Valdivia è andato ad incagliarsi dolcemente presso una piccola spiaggia sassosa accanto ad alcuni velieri che ci hanno preceduti in quest’angolo sperduto di mondo, chissà da quanti anni. Essi offrivano un colpo d’occhio veramente sorprendente, non privo di un suo sinistro fascino.

Situazione a bordo: io e il mio secondo, signor Wissmann, più dodici uomini dell’equipaggio ancora in discrete condizioni. Altri tre uomini feriti nel corso della tempesta che ha disalberato la nave, e due ammalati fin da quando doppiammo il Capo di Buona Speranza. Le provviste sono sufficienti per un mese circa. La scialuppa di salvataggio è stata gettata in mare da un’onda. Le possibilità di rimettere il Valdivia in grado di navigare sono limitate: siamo troppo pochi e ci mancano gli attrezzi adatti, nonché il legname. Il morale è piuttosto basso. La maggior parte degli uomini considera l’approdo in quest’isola sconosciuta come un semplice rinvio del nostro inevitabile destino. Anche il signor Wissmann appare quasi rassegnato; è vero che il mal di mare lo ha molto indebolito in queste ultime due settimane, come anche tutti noi altri, del resto. Le speranze di ricevere soccorsi dall’esterno sono pressoché nulle. Nessuno può immaginare che noi ci troviamo quaggiù, e inoltre, come ho detto, quest’isola non risulta registrata nelle normali carte nautiche. Se mai riusciremo a tornare nel mondo civile, ciò non potrà avvenire che con le nostre sole forze.

Dal diario di bordo del cap. Rosenberg, 29 settembre.

Ci siamo sistemati alla meglio in vista di un soggiorno forzato di alcune settimane in questo luogo misterioso. Ho fatto mettere a razione la nostra scorta di viveri e d’acqua. Una rapida ispezione sui relitti delle navi qui incagliate mi ha convinto che nessuna di esse ci può fornire del legname adatto: sono tutte troppo deteriorate dall’umidità. A bordo della più antica di esse, il brigantino inglese Newcastle, c’è, nella cabina del capitano, una cassaforte, che non ci èstato possibile aprire. Ma nessuna traccia degli equipaggi, in nessuno dei velieri. Dove sono andati a finire tutti quegli uomini?

Dal diario del cap. Rosnberg, 30 settembre.

Uno dei due ammalati è morto stamani. Lo abbiamo sepolto in mare, con una mesta cerimonia che sottolineava la drammaticità della nostra situazione.

I volti dei marinai erano tetri, terrei. Ho tenuto loro una breve allocuzione nel tentativo di scuoterli, di rianimarli, ma senza grandi risultati.

Dal diario del cap. Rosenberg, 1° ottobre.

Ho condotto una squadra di otto uomini, i più validi fisicamente, per tentare una ricognizione dell’isola, ma abbiamo dovuto desistere quasi subito. La spiaggetta sassosa termina contro la nuda parete di roccia verticale, e da nessun lato appare possibile procedere in riva alla laguna. Privi come siamo di scialuppa, anche la traversata dello specchio d’acque interno risulta impossibile. Eppure, dalla parte del mare aperto, deve essere possibile risalire le scogliere e penetrare nella parte alta dell’isola. Là, forse, potremmo trovare del cibo: foche o uccelli marini. Ma come fare?

Dal diario del cap. Rosenberg, 2 ottobre.

C’è qualcosa di strano in questa dannata isola, anche se non capisco esattamente che cosa. L’altra notte, nell’infuriare del vento, ci è sembrato di udire come dei ruggiti spaventosi di una belva: pareva una tigre. Ma, ovviamente, la cosa è semplicemente pazzesca. Chiaro che lo stato di prostrazione in cui ci troviamo comincia a giocarci dei brutti scherzi: bisognerà stare attenti a conservare i nervi a posto perché, se ci lasciamo travolgere dalla sovreccitazione, le nostre speranze di sopravvivere diminuiranno ulteriormente. Domani, anche per rialzare il morale degli uomini, inizieremo i lavori di riparazione dello scafo. Agli alberi penseremo poi. Forse il Valdivia non riuscirà mai più a vedere il mere aperto, ma intanto l’azione, il movimento non potranno che avere benefici effetti sul morale dell’equipaggio.

Dal diario del cap. Rosenberg, 3 ottobre.

Anche il secondo ammalato, il marinaio Stimme, è morto. La cosa non ha certo contribuito a risollevare gli animi.

In serata, con quattro marinai, ho voluto tornare a bordo del Newcastle. Non so perché, quel veliero mi attira in modo inspiegabile. Ecco, la prima volta che salii e bordo, ebbi come la sensazione che vi fosse qualcosa di vivo, degli occhi che ci osservavano, addirittura. Non sapevo neppure io che cose cercassi, esattamente; comunque, ho ispezionato con cura ogni locale, uno dopo l’altro. Alla fine, giunto nella sentina, nella semioscurità di un angolo che la volta precedente ci era sfuggito, il marinaio Wieder ha scorto uno strano chiarore verdastro. Ci siamo avvicinati, colmi di stupore: sopra quello che ci parve essere un cubo di marmo alto circa un metro, era posata una stranissima pietra verde, delle dimensioni ai un grosso ciottolo, dalla forma irregolare vagamente simile a una piramide. La sua superficie era liscia come vetro, e qua e là, al suo interno, brillava una sorta di luce interna verde-giallognola. Tutto l’insieme emetteva una debole luminescenza e non assomigliava ad alcun minerale conosciuto. Osservando meglio, ci rendemmo conto che il basamento non era affetto di marmo, ma di una pietra azzurrina perfettamente liscia e traslucida, tanto che si potevano intravederne gli spigoli interni. Ma era certamente un manufatto, poiché la natura non poteva in alcun modo aver prodotto una figura così regolare in modo spontaneo.

Un’intera folla di domande ci si è affacciata alla mente: chi può aver portato sulla nave la base di pietra, e di quale minerale è costituita? E la pietra verde? E’ di origine terrestre? Perché si trova in fondo a un veliero vecchio di almeno mezzo secolo e incagliato nei recessi di un’isola non segnata sulle carte geografiche? Il marinaio Halder ha preso in mano la pietra verde, ma ha dovuto posarla in fretta perché – ha detto – scottava parecchio. La sua mano era piagata come se vi si fosse posato un ferro caldo. Ordinai agli altri di non provare a .toccarla. Mentre aiutavamo Halder a fasciarsi la mano allameglio, delle grida d’angoscia ci giunsero da sopra il ponte. Siamo corsi fuori e nel giro di un minuto circa abbiamo raggiunto la coperta: silenzio assoluto. Abbiamo gridato per farci udire dai nostri compagni rimasti a bordo del Valdivia, ma nessuno ha risposto.

Allora siamo scesi sulla piccola spiaggia e di lì, sempre correndo, siamo tornati sotto bordo del nostro clipper. Non si vedeva nessuno; chiamammo di nuovo, ma invano. Trattenni gli uomini che volevano arrampicarsi subito a bordo, facendo loro notare che, se vi era un pericolo sulla nostra nave, sarebbe stata follia andare a gettarci nella gola del lupo. Che fare, allora? Non avevamo armi; non avevamo pensato a portarne con noi. Finalmente Kowalski, il nostromo (un serbo di Lusazia, si offrì di salire a bordo in avanscoperta, promettendo di adoperare ogni possibile cautela. Accondiscesi. Egli salì rapidamente a bordo, si volse a lanciarci un silenzioso saluto, e sparì in direzione del boccaporto. Cominciammo a contare i minuti.

Dopo un tempo che ci parve eterno, Kowalski tornò ad affacciarsi al parapetto, presso la scaletta di corda, pallido come un lenzuolo. Disse che sul la nave non c’era anima viva. Allora, incapaci di resistere oltre, ci siamo precipitati tutti su per la scaletta. Era vero: sul Valdivia regnava il silenzio della morte. Nessuno sul ponte, nessuno sotto coperta. Nel locale della cucina, accucciato presso il fuoco ancora acceso, stava Fru, il gatto del cuoco, e ci guardava coi suoi grandi occhi gialli: il suo pelo tremava, soffiava del naso come in preda a una forte agitazione.

La cosa più strane era la scomparsa dei tre marinai feriti, che avevamo sistemato nella parte prodiera della stiva, adibendola a infermeria. Erano scomparsi anche loro, come gli altri: ma le loro brande erano in disordine, e strane pozzanghere d’acqua conducevano da esse su su per la scaletta fino al ponte e al bordo estremo di esso, presso la murata di dritta: quel la rivolte verso il lato aperto della lagune. A parte quelle pozze, non si notavano altri segni di disordine a bordo. In cucina, per esempio, era tutto a posto, come sempre: c’era perfino una pentola a bollire sul fuoco. Quando ci siamo resi conto che erano spariti tutti, ma proprio tutti, senza lasciare alcuna traccia di sé, una paure atroce di prese, come una morsa che stringe le viscere. Il primo istinto sarebbe stato quello di fuggire: ma dove? E da che parte era venuto il pericolo? Dal mare, stando alle pozzanghere. Qualcuno o qualcosa era uscito del mare e aveva rapito tutti i nostri compagni. Il fatto che non vi fossero segni di lotta si poteva spiegare solo col fatto che dovevano essere tutti sul ponte, allorché si era verificata l’aggressione: e non avevano avuto il tempo di fuggire, né quello di opporre resistenza. I tre marinai feriti, invece:/, erano stati strappati, direttamente dei loro giacigli.

Per prima cosa, siamo corsi ad armarci. Vi erano tre fucili e due pistole a bordo: quindi ciascuno di noi ricevette un’arma. Poi abbiamo deciso di rimanere sempre insieme, barricandoci nel locale della cucina, dove possiamo tenere il fuoco acceso e dove abbiamo trasportato i viveri dalla cambusa. Un uomo a turno farà la guardia presso il boccaporto, ma senza usci re sul ponte. Fa troppo freddo fuori, specialmente di notte, e non si può resistere più ai un’ora senza restare congelati. Ora, se facessimo la guardia sul ponte, dovremmo scegliere fra il morire di freddo e lasciare, a turno, un uomo da solo in vedetta: troppo pericoloso. No, dobbiamo restare sempre uniti. I nostri nemici devono essere in molti, altrimenti non avrebbero avuto ragione dei nostri compagni in così breve tempo. E adesso siamo in attesa, un’attesa spasmodica, di quel che deve avvenire

Dal diario del cap. Rosenberg, 4 ottobre.

Attesa febbrile ma vana, non è accaduto nulla. Solo che Halder ha la febbre, delira e l’abbiamo dovuto mettere a letto. La sua mano è tutta una piaga in suppurazione, il braccio sta incominciando a diventare nerastro. Quale forza emanata della pietra verde può averlo ridotto così? Ne abbiamo discusso a lungo, ma resta un mistero inspiegabile. Deve trattarsi di una qualche forma di radiazione; ma chi può dirlo? Quanto a me, propendo a ritenere che la pietra verde sia un meteorite: che provenga dei profondi abissi dello spazio. E’ solo una sensazione, non so molto di mineralogia, ma vedo per esclusione. Non mi sembra che quella pietra sia costituita da un qualunque minerale terrestre conosciuto; e la stessa cosa si può dire per lo strano cubo azzurrognolo su cui era posta. Ma non l’ho detto agli altri, sono già abbastanza scossi e impressionati.

Dal diario del cap. Rosenberg, 5 ottobre.

Ancora nessun fatto nuovo. Ma la tensione, nei pochi superstiti, è altissima. Poiché Halder sta sempre male e, anzi, sembra peggiorare, dobbiamo ripartire i turni di guardia fra noi quattro solamente, con la conseguenza che siamo sempre indietro di sonno. La notte i turni sono di un’ora, il giorno di due ore. E il loro alternarsi segna l’unico movimento che scandisce queste giornate allucinanti, senza tempo. Per il resto, parliamo pochissimo, consumiamo anche i pasti in silenzio.

Che cosa c’è da dire? Se anche non verremo attaccati, il nostro destino è segnato: come potremo mai lasciare quest’isola? Non saranno certo sufficienti quattro uomini, oltretutto privi di materiali e strumenti adatti, a rimettere il Valdivia in grado di navigare. Quando avremo consumato tutti i viveri, che ne sarà di noi?

Intanto, perlomeno, non dobbiamo soffrire troppo il freddo. Il legno, a bordo, non manca; e finché c’è quello, avremo sempre la possibilità di mantenere il fuoco acceso, per scaldarci e cuocere i cibi.

Dal diario del cap. Rosenberg, 6 ottobre.

Halder è morto questa notte. Al mattino lo abbiamo trovato freddo, privo di vita. Durante la notte aveva delirato a lungo, poi si era assopito e avevamo creduto che ciò fosse l’inizio di un miglioramento. Lo abbiamo sepolto in mare, rapidamente, come gli altri; poi siamo tornati a barricarci sotto coperta. E ad attendere il peggio, non sappiamo esattamente cosa.

Dal diario del cap. Rosenberg, 7 ottobre.

Di nuovo, questa notte abbiamo udito i ruggiti della tigre. Se li avessi uditi io solo, penserei che sto diventando pazzo; ma li abbiamo uditi in quattro. Non si può impazzire in quattro allo stesso modo, contemporaneamente. E non era nemmeno il vento: su questo, ci siamo trovati tutti d’accordo.

La belva ha incominciato a ruggire poco dopo la mezzanotte, e, con qualche intervallo di varia lunghezza, ha proseguito fino a circa un’ora prima dell’alba. Per tutto quel tempo siamo rimasti desti e tesi come corde di violino, impugnando le nostre armi e affacciandoci di continuo al boccaporto, per cercar di capire da che parte venisse il pericolo. Ma il vento c’ingannava di continuo: ora quei suoni spaventosi sembravano provenire da lontano, ora da molto vicino; ora dal lato dei velieri naufragati, ora dalla laguna aperta.

All’alba eravamo letteralmente spossati. Inutile ogni tentativo di comprendere il significato di questi avvenimenti: essi sfuggono a qualunque logica. Le nostre menti sembrano ormai sul punto di smarrirsi. Come preferiremmo avere a che fare con un pericolo anche terribile, ma comprensibile; anche mortale, ma naturale!

Si direbbe che il destino abbia voluto farsi beffe di noi; che ci abbia condotti sani e salvi su quest’isola, solo per portarci via la vita e la ragione insieme! E nessuno saprà mai più nulla di noi, nessuno potrà mai immaginare quel che stiamo vivendo in quest’isola sventurata.

Dal diario del cap. Rosenberg, 7 ottobre.

Un’altra giornata senza fatti nuovi; siamo sempre più stanchi e logorati. Il sonno è troppo breve, la tensione continua e spossante. La mente si smarrisce nelle congetture più bizzarre, nelle immaginazioni più fantastiche.

In nome di Dio, che cosa sta accadendo su questo scoglio battuto dalle onde nell’immensità dell’oceano? Quale relazione intercorre fra la pietra verde che uccide chi la tocca, la scomparsa dei nostri compagni (e degli equipaggi delle altre navi) e i ruggiti spaventosi che gettano nello sconforto e nel terrore le nostre notti insonni?

Dal diario del cap. Rosenberg, 8 ottobre.

Ore siamo in tre.

Un altro uomo, Kowalski, è scomparso: durante il suo turno di guardia notturno. Quando il marinaio Mohr è uscito nel corridoio per dargli il cambio, semplicemente non l’ha più trovato. Abbiamo rinunciato a fare la guardia presso il boccaporto e ci siamo barricati nel nostro locale, i fucili puntati verso la porta. Ma non è accaduto nulla. Al mattino, ci siamo fatti coraggio e siamo usciti a ispezionare la nave. In coperta, dal boccaporto alla murata di dritta (quella sul lato opposto ai relitti delle altre navi), alcune grandi pozze d’acqua. Di Kowalski, nessuna traccia; e nemmeno del suo fucile. Quel che è certo è che non ha gridato, non ha sparato. È come se il mare lo avesse risucchiato.

Dal diario del cap. Rosenberg, 9 ottobre.

Di nuovo quei ruggiti spaventosi, e stavolta in pieno giorno. Non era mai successo. Non osiamo uscire fuori per renderci conto di quel che accade; siamo qui, con la porta barricata da mobili, le armi cariche e pronte. Non scaldiamo neanche più il cibo, lo mangiamo freddo. I ruggiti sono incominciati poco prima di mezzogiorno e continuano da più di due ore, a intermittenza. Impossibile capire dalla gola di quale belva possano uscire, né da che parte provengano. Fuori c’è il vento, e il vento può giocare brutti scherzi. Sento che ci stiamo avvicinando all’epilogo del nostro dramma.

Dio mio, abbi pietà delle nostre anime. Ora, forse…

.CAPITOLO SESTO

Dal diario di Federico Kocbek, 4 febbraio 1912.

Mein Gott, aveva scritto nell’ultima riga il capitano del Valdivia, con grafia incerta e tremante: e poi la frase era rimasta interrotta a metà, e l’ultima parola terminava in uno sgorbio e una macchia d’inchiostro.

Avevo letto a voce alta, nella nostra cabina, in modo che Mariano, il quale non conosce il tedesco, potesse sentire la relazione del comandante Rosenberg. Quand’ebbi terminato, ci guardammo a lungo, senza parlare.

– Tu che ne pensi? -, gli chiesi alfine, rompendo il pesante silenzio che era sceso nel piccolo locale freddo e semibuio. –

– Ne so quanto te, amico mio – rispose. – Posso solo notare che, se anche finora non abbiamo udito ruggiti di belve – ma in fondo, siamo qui da soli quattro giorni – la tecnica, per così dire, delle misteriose scomparse è sempre quella. A volte vi sono grida, a volte no. Domingo, che era debole e solo, ha gridato; il capitano Lopez e gli altri due, che erano uomini robusti e armati, sono spariti senza un grido. Ma le pozzanghere rivelano che il nostro avversario è lo stesso che rapì gli uomini del Valdivia: un avversario che veniva, e che viene, dal mare.

– Tu credi possibile che vi siano dei felini sull’isola? -, chiesi.

– Delle tigri, vuoi dire, o qualche belva dei genere? No, non mi sembra possibile. E non per il clima freddo: le tigri sono originarie della Siberia, dove ancora ne vivono in numero discreto; e talvolta, dall’India, si spingono ad alta quota sulle pendici dell’Himalaya, verso il Tibet. Ma è del tutto fantastico pensare che abbiano potuto arrivare su questa isoletta smarrita in direzione dell’Antartide. Chi ve le avrebbe portate? E poi, ricorda le pozze d’acqua: l’avversario esce dal mare. No, secondo me gli uomini del Valdivia hanno attribuito a delle tigri dei ruggiti che non sapevano come spiegare altrimenti.

– I serpenti di mare, però, non ruggiscono affatto -, osservai.

Mariano parve pensoso: – No, è vero. Non ruggiscono affatto. –

– Secondo te, perché il marchese ci ha fatto leggere questo libro? –

– E perché non avrebbe dovuto? Se che, se vuole la nostra piena collaborazione, non può semplicemente darci degli ordini, come coi marinai della Santa Inés. Deve convincerci delle sue buone ragioni. Però, non ci ha messo a conoscenza di tutti gli elementi in suo possesso.

– Che intendi dire? –

– Villemer possiede anche il libro di bordo dell’Auvergne, ricordi?

– Già, è vero – ho esclamato – me n’ero quasi dimenticato. Ma forse deve ancora leggerlo lui stesso. Comunque, glielo chiederemo. E per quel che riguarda la pietra verde, tu cosa ne pensi? –

– Sai – mi ha risposto Mariano – ho notato, ascoltando le parole del capitano Rosenberg, che quegli uomini, quasi fa, salendo a bordo del Newcastle hanno provato delle sensazioni quasi identiche a quelle che abbiamo avuto io e te, quando siamo saliti sul brigantino per esplorarlo: che la nave fosse viva, che qualcuno li stesse osservando. Noi non abbiamo visto la pietra verde; ma anche quegli uomini, in un primo tempo, non l’avevano scorta. Pare che si trovasse in un angolo buio, nella parte più profonda della stiva. Da come Rosenberg l’ha descritta, mi pare che la sua ipotesi sull’origine stellare della pietra possa considerarsi abbastanza ragionevole. Non conosco pietre terrestri che corrispondano a quella descrizione. E ciò vale, a maggior ragione, per il basamento cubico di colore azzurrino. Ma non chiedermi chi mai potrebbe averlo portato a bordo del Newcastle.

– Eppure – ho insistito – quel basamento in pietra, scolpito da mani intelligenti, mi ha dato la sensazione che la pietra verde possa essere come una sorta di oggetto di culto. Naturalmente può essere soltanto una fantasia, non saprei proprio precisarla meglio. –

Mariano parve colpito dalia mia osservazione: – Un oggetto di culto, eh? – ripeté lentamente, pensoso. – Sai, devo confessarti che anch’io, in fondo in fondo, ho pensato a qualche cosa del genere, istintivamente, quando hai letto quel punto della relazione di Rosenberg. Il cubo azzurrino farebbe pensare a una specie di altare, più che ad un semplice sostegno. Infatti, come sostegno sarebbe stato sufficiente un mobile qualsiasi. Sembra che esso non avesse solo la funzione di sostenere la pietra verde, ma quasi di offrirla allo sguardo; e forse, perché no, all’adorazione… di qualcuno… –

– Ti confesso – ho detto, stringendomi nelle spalle – che tutta questa storia mi mette i brividi addosso. Pensare che teatro di quella paurosa vicenda fu proprio questa vecchia nave naufragata, dove noi ci troviamo ora; che anche il nostro gruppo è stato vittima di misteriose e drammatiche sparizioni, come quell’altro gruppo di quasi sessant’anni fa… Insomma, è certo che un gravissimo pericolo incombe su di noi. Ma quale? E che cosa possiamo fare per prevenirlo o, almeno, per difendercene? Quali speranze abbiamo mai di lasciare l’isola Dougherty? Più ci penso e più mi convinco che ci troviamo in un vicolo cieco, proprio come Rosemberg nelle ultime giornate di quel suo diario, nell’ottobre del 1853. Secondo te, cosa possiamo fare? –

– Per prima cosa – ha risposto Mariano – sarei curioso di tornare a bordo del Newcastle; e sono certo che anche il marchese lo è. I nostri interessi, perciò, in questo momento, coincidono. Voglio vedere se la pietra verde è ancora lì; e forse, per mezzo di essa, capire un po’ quel che sta succedendo. In che modo, per adesso non lo so immaginare. –

– Pensi che perfino in questi frangenti il marchese continui a pensare alla cassaforte del Newcastle e a quel che essa contiene?

– È probabile. Vi è una sorta di lucida follia in quell’uomo, le sue maniere perfettamente ragionevoli non m’ingannano del tutto. In secondo luogo, dobbiamo chiedergli di farci leggere anche il libro di bordo dell’Auvergne. –

– Hai ragione, Mariano. Vieni, andiamo dal marchese.-

II marchese, infatti, aveva aperto sul tavolo proprio il libro che noi cercavamo. Ce lo spinse davanti fissandoci in silenzio.

Dal giornale di bordo del capitano Richet, 2 dicembre 1845.

(…) Era una bellissima notte stellata, non rara in questa stagione, a queste latitudini. Il cielo era terso e trasparente come cristallo, le stelle pulsavano come creature vive. D’un tratto, una scia luminosa ha solcato l’atmosfera e ha rigato il cielo, precipitando verso di noi. Mi trovavo sul ponte col secondo, signor D’Esperey, e con altri due marinai. Pareva che un astro si fosse staccato dal firmamento e ci stesse cadendo proprio addosso. Ma la scia luminosa descrisse un arco nell’oscurità e andò a spegnersi sulle montagne che chiudono la laguna in direzione sud. Per qualche minuto siamo rimasti in silenzio, impressionati da quel superbo spettacolo della natura. Poi., discutendone, io e il signor d’Esperey ci siamo trovati d’accordo nel ritenere di aver assistito, per un caso pressoché unico alla caduta di un meteorite proprio su quest’isola sperduta.

Poiché la scialuppa è in buone condizioni, abbiamo deciso che domani manderemo una squadra sul lato esterno dell’isola, per tentar di individuare il punto di caduta. Doveva essere molto piccolo, benché luminosissimo, poiché l’impatto con la superficie rocciosa non ha provocato alcun rumore o vibrazione. Probabilmente si è trattato di un piccolo frammento di meteorite, che già era rimasto praticamente disintegrato, disintegrandosi, al suo ingresso nell’atmosfera terrestre.

Non credo, quindi, che troveremo un vero e proprio cratere; tuttavia sono assai curioso di vedere e di toccare con le mie mani una pietra piovuta quaggiù dagli infiniti spazi siderali.

Dal giornale di bordo del cap. Richet, 3 dicembre 1845.

Questa mattina il signor d’Esperey èsalpatoo, con sei uomini, sulla lancia e si è diretto, attraverso il canale fra le rocce, verso il lato esterno dell’isola, alla ricerca del misterioso meteorite o delle sue tracce. Ma ormai è notte e non è rientrato nella laguna.

Comincio a pensare che sia stato un errore quello di dividerci così in due gruppi. Ora rimaniamo in dieci sull’Auvergne e, privi della lancia, siamo praticamente imprigionati i questa laguna interna; anzi, siamo pressoché prigionieri a bordo della nostra nave, disalberata e gravemente danneggiata. Possiamo solo sperane che qualche contrattempo abbia ritardato il ritorno dei nostri compagni, e che domani li vedremo riapparire all’estremità del canale.

Dal giornale di bordo del cap. Richet, 4 dicembre.

Anche oggi, nessun segno di vita da parte del gruppo guidato dal mio secondo. Ormai la cosa è oltremodo preoccupante: per loro e per noi. Se almeno potessimo uscire a nostra volta, per andare alla loro ricerca!

Dal giornale di bordo del Richet, 5 dicembre.

Sono vittima di un violento attacco di febbre, che mi tiene inchiodato al letto. Gli uomini, che già negli ultimi giorni avevano mostrato segni d’indisciplina, hanno perso ogni ritegno. Si ubriacano e giocano a carte, immemori del fatto che solo dalla disciplina può venire la nostra salvezza. O forse si comportano così proprio perché hanno perso la speranza. Adesso che d’Esperey è scomparso e io sono ammalato, non c’è nessuno che possa farli ragionare, che possa incoraggiarli e additare loro una via da seguire.

Dal giornale di bordo del cap. Richet, 6 dicembre.

Non so che pensare: probabilmente, nella notte, sono stato vittima di allucinazioni e delirio causato dalla febbre molto alta. Mi è parso, a un certo punto, di udire delle urla stranissime, disumane, simili piuttosto ai muggiti di un toro infuriato, ma molto più forti e selvaggi di quelli che potrebbe emettere un vero toro. Quando Marcel, l’unico marinaio del quale possa ancora un poco fidarmi, è venuto nella mia cabina per vedere come stessi, gli ho domandato se non avesse, per caso, udito o visto qualcosa di strano nella notte. Mi ha risposto che gli uomini, ubriachi, hanno dormito tutti profondamente, mea che lui aveva bevuto poco ed è stato svegliato, effettivamente, da alcuni versi molto strani. Aveva pensato che fossero degli elefanti marini, ma gli era anche sembrato strano udirli qui, all’interno della laguna, perché abbiamo osservato, fin dal nostro arrivo, che nessuna foca si spinge in queste acque, e che perfino gli uccelli marini, a quanto pare, evitano di planare a caccia di pesci in questa parte interna dell’isola. Del resto, tutto intorno, non vi sono che nude rocce strapiombanti. Dove potrebbero dunque fare il nido?

Dal giornale di bordo del cap. Richet, 7 dicembre.

La febbre continua a salire, scrivo con grande difficoltà e non so fino a quando potrò continuare a compilare questo giornale. Del resto, che importanza può mai avere?

Nel pomeriggio, Marcel mi ha detto che Pierre e Jacques, i più agili nell’arrampicarsi alle vele, hanno deciso di tentare la scalata delle pendici interne del cratere. Vogliono raggiungere la parte alta dell’isola e da lì cercar di capire quel che è accaduto al gruppo della scialuppa. Inoltre sperano di recuperare la lancia e di tornare, con essa, qui all’ancoraggio in fondo alla laguna. Ma è tutta una pazzia, nessun uomo potrebbe riuscire ad arrampicarsi su per quelle rocce basaltiche. Ho detto a Marcel che deve assolutamente dissuaderli, ma mi ha detto che ciò sarà impossibile. Ormai ciascuno fa quello che vuole, a bordo dell’Auvergne; non vi è più alcuna forma di autorità riconosciuta, né di accordo comune fra gli uomini.

CAPITOLO SETTIMO

Continua il diario di Federico Kocbek, 4 febbraio 1912.

Così s’interrompeva il giornale di bordo del capitano dell’Auvergne: bruscamente e definitivamente. Nessuno aveva pensato di proseguirlo, dopo che lui era morto o, semplicemente, non era più stato in grado di scrivere.

Il marchese ci guardò, quindi ci chiese cose ne pensassimo. Osservai che i due giornali di bordo si completavano a vicenda, solo che Rosenberg, per qualche motivo, non dovette trovare quello di Richet; forse la sue ispezione a bordo dell’Auvergne era stata troppo frettolosa.

– Vi propongo – ha detto allora Villemer – di recarci al più presto possibile sul Newcastle. Oltre a verificare le cassaforte, qualcosa mi dice che laggiù troveremo la risposta ad alcune delle domande che attualmente ci assillano. Siete d’accordo? –

Lo eravamo, e abbiamo stabilito di effettuare l’esplorazione domattina stessa e di portare con noi anche gli uomini del Santa Inés, per evitare di dividerci. D’ora in poi, infatti, bisognerà che restiamo sempre tutti uniti, in ogni momento.

5 febbraio 1912.

La notte è trascorse senza altri incidenti, anche se abbiamo dormito tutti pochissimo, e non solo per i frequenti turni di guardia in coperta. Alle prime luci del mattino, dopo una rapida colazione a base di caffè bollente, abbiamo raggiunto il Newcastle per la via più lunga e malagevole, ma più sicura, della spiaggia sassosa. Erano con noi i quattro marinai superstiti: Pascual, Rafael, Joaquìn e Felipe, ai quali avevamo spiegato che, in base ai giornali di bordo dell ‘Auvergne e del Valdivia, avevamo ragione di credere che a bordo del vascello inglese saremmo venuti in possesso di un bandolo per comprendere la nostra intricata situazione, e, forse, per dipanarla.

Penetrati nella cabina del comandante, trovammo la solida cassaforte là dove io e Mariano l’avevamo lasciata. Non ci volle molto per constatare l’impossibilità di aprirla senza ricorrere a un esplosivo. Osservavo con attenzione il marchese: strano a dirsi, non pareva molto emozionato, né quando la trovammo, né quando ci rendemmo conto ch’era impossibile forzarla. Abbiamo poi esplorato gli altri locali, sempre con estrema circospezione e tenendo spianate le armi; infine siamo penetrati nella sentina. Procedevamo carponi, sciaguattando nell’acqua che ci arrivava alle caviglie, nella semioscurità, semisoffocati da un opprimente odore di legno putrido e di aria chiusa. Le nostre lanterne gettavano fasci di luce negli angoli più reconditi, facendo fuggire alcuni topi di straordinarie dimensioni, che digrignavano i denti contro di noi e lanciavano squittii e soffi feroci.

Ed ecco, a un tratto, abbiamo scorto un debole chiarore nell’angolo più oscuro. Ci siamo avvicinati cautamente, e abbiamo trovato il cubo azzurrognolo descritto nella relazione del capitano Rosenberg, provando un’emozione molto forte. Ma la pietra verde non c’era. In compenso, sulla sua superficie superiore appariva un’ombra scura e opaca, che si stagliava nettamente rispetto alla misteriosa sostanza del cubo, così lucida da apparire semitrasparente; un’ombra che ricordava, anche per l’alone sfumato che ne segnava gli orli, una specie di bruciatura. Come se un oggetto incandescente fosse stato poggiato in quel punto.

Per qualche minuto abbiamo esaminato attentamente il cubo: era indubbiamente un manufatto, i suoi spigoli ben squadrati rivelavano l’opera di un essere intelligente. Poi abbiamo cercato tutto attorno, alla ricerca della pietra verde; ma non ne abbiamo trovato traccia. A quanto pare, dopo il 1853 qualcuno o qualcosa è stato a bordo del Newcastle e ne ha asportato l’oggetto più importante. Ma chi? E perché? A quel punto ho osservato che il marchese appariva straordinariamente agitato: continuava a frugare dappertutto, non sapeva darsi pace di quella sparizione. Non ho potuto fare a meno di pensare che appariva molto più contrariato dalla scomparsa della pietre verde, che non dalle impossibilità di esaminare il contenuto della cassaforte. Io e Mariano ci siamo scambiati un’occhiata furtiva: anche lui aveva notato la stessa cosa.

Alla fine, e non senza un senso di autentico sollievo, abbiamo lasciato quel locale opprimente e un po’ sinistro, accompagnati dallo sgocciolio dell’acqua fra le travi marcite e dallo scorrazzare dei topi, che tornavano a prendere possesso del loro regno fatiscente. Chissà di che cosa si nutrono! A meno che non si divorino fra di loro…

Risaliti in coperta, abbiamo fatto il putito della situazione e abbiamo deciso di esplorare gli ultimi due velieri su cui non eravamo mai saliti, posti fra il Newcastle e il Reina Isabela. Siamo saliti a bordo per primo di quello più vicino alla nave spagnola, un brigantino a palo di nazionalità britannica, il Princess Adelaide. Non vi abbiamo trovato assolutamente niente d’insolito o d’interessante, a eccezione del fatto che, anche lì, mancava qualsiasi resto umano; ma a ciò, ormai, eravamo preparati. Né vi era traccia del giornale di bordo.

Sull’ultimo veliero, l’americano Savannah che era coricato contro la fiancata del Newcastle, ci attendeva invece una sorpresa. La nave, un brigantino-goletta varato negli Stati Uniti d’America nel 1812 (così ci ha detto il marchese, in base alle sue ricerche d’archivio) era anch’esso privo del libro di bordo e così pure del carico, forse gettato a mare dall’equipaggio e durante la tempesta che lo trascinò fin qui. A bordo si notava un certo disordine, che (sensazione non meglio definibile), forse, non era spiegabile solamente con il normale degrado di un bastimento naufragato cent’anni prima e rimasto esposto alle intemperie di un clima ostile. Inoltre si sentiva un odore acre, stranissimo, diverso da quello del fasciame putrido e dell’aria stantia che regnava sugli altri velieri. Questo era più forte, più selvaggio, e non sapeva solo di vecchie cose morte, ma anzi suggeriva la presenza di visitatori più recenti. Infine, lungo tutto il corridoio del ponte inferiore si notavano grosse pozzanghere d’acqua, la cui posizione destava non poca perplessità. Infatti, il ponte superiore era abbastanza in buono stato; e, se quelle pozzanghere non si erano formate con l’acqua pio-vana filtrata dalle travi del soffitto, donde provenivano?

Ciascuno di noi avvertiva una sensazione strana, indefinibile ma inequivocabilmente minacciosa. Confesso di aver provato una stretta allo stomaco, così, senza cause apparenti ben precise, ma sono certo che anche gli altri avvertivano qualcosa del genere. I volti erano pallidi e tesi, i gesti nervosi; istintivamente parlavamo sottovoce, cosa che non avevamo fatta sulla Princess Adelaide e nemmeno sul Newcastle. Avvicinandoci, poi, alla botola della sentina, ci accorgemmo che, verso poppa, il ponte inferiore si apriva in un ampio squarcio di forma vagamente circolare, del diametro di almeno tre metri.

Ci siamo avvicinati cautamente, perdessi e inquieti. Non era stata una roccia aguzza del basso fondale a produrre quella falla; e noi, al di sotto, si apriva la sentina. Pure, prima ancora di gettare la luce di una lampada nello squarcio, abbiamo udito il rumore della risacca. Ed ecco, mentre il marchese illuminava duella buia voragine, abbiamo udito un diverso sciabordio provenire dal basso e, proprio nel momento in cui scorgevamo una seconda falla, anche più ampia, sul fondo della chiglia, l’ancora del mare ha incominciato a incresparsi e a gorgogliare sotto di noi. Ci siamo scambiati delle rapide occhiate d’allarme, e ho notato che più d’una fronte era imperlata di sudore, nonostante la temperatura fosse così bassa che il nostro fiato produceva delle nuvolette di vapore. Improvvisamente, dalla buia cavità è uscito un sordo brontolio, cupo, gutturale; e in pochissimi istanti è salito di tono, trasformandosi in un verso di belva spaventoso e innaturale. Per un secondo siamo rimasti come paralizzati; poi ci siamo precipitati disperatamente verso la scaletta del boccaporto, urtandoci e spingendoci. Nella confusione, la lampada è caduta, rompendosi sul pavimento, ed è stato quasi al buio che, infine, siamo giunti all’aria pura, sul ponte di coperta. Solo lì ci siamo fermati un attimo, anche per renderci conto se eravamo inseguiti.

L’urlo di belva non si udiva più; dal corridoio in fondo alla scaletta veniva avanti, pallido ma senza correre, Mariano. Non mi ero accorto che fosse rimasto indietro; avrei pensato ch’era caduto, inciampando, durante la nostra fuga precipitosa, se non lo avessi visto venire verso di noi senza eccessiva fretta. Reggeva ancora in mano la sua lampada. Ci ha guardati con aria inespressiva, e ha detto soltanto: – Non si vede più nulla; l’acqua è tornata tranquilla -; e non mostrava né paura, né disprezzo per il nostro smarrimento, ma solo uno sguardo duro, un’espressione concentrata. È stato allora che abbiamo udito l’odore, di bruciato, e abbiamo scorto il fumo che saliva dal sottoponte. Quasi subito abbiamo capito quel che doveva essere accaduto; la lampada che era caduta a terra doveva aver provocato un incendio. Ci siano guardati l’un l’altro, incerti.

– Forse è meglio cercare di spegnerlo subito – ho osservato, sul punto di rompere le esitazioni e avviarmi giù per la scaletta. Ma il marchese mi ha afferrato per un braccio, dicendo: – No! È troppo pericoloso! E poi, non sappiamo neppure che specie di pericolo potrebbe minacciarci, là sotto. –

– Ma se il Savannah va a fuoco, le fiamme si estenderanno anche alle altre navi; e brucerà pure il Valdivia, dove abbiamo i nostri viveri e che è il nostro solo riparo su quest’isola inospitale!

Ma proprio in quel momento, quasi a confermare la saggezza delle parole del marchese, l’urlo di belva si fece nuovamente udire: più forte, più feroce, più prolungato. Senza dire altro, siamo corsi alla murata e ci siamo calati a terra; poi, in tutta fretta, correndo lungo la spiaggia ci siamo affrettati al Valdivia.

– Presto – ha detto il marchese -, prendiamo tutto quel che possiamo trasportare sulla scialuppa: viveri e acqua innanzitutto; e indumenti, coperte, legna per il fuoco. Dobbiamo essere pronti a salpare con la scialuppa entro cinque minuti.

L’urlo spaventoso si levava ancora, a tratti, non si capiva se più vicino o sempre alla stessa distanza; e dal Savannah, adesso, si vedeva levarsi una nuvola di denso fumo nero, che il vento spingeva velocemente verso di noi. Poco dopo abbiamo visto innalzarsi anche le fiamme, e abbiamo compreso che, in poco tempo, tutti i velieri sarebbero stati arsi dal fuoco, inesorabilmente.

Saliti a bordo, in pochi minuti abbiamo afferrato le cose più necessarie; io e Mariano abbiamo preso anche le nostre sacche da viaggio; e poco dopo eravamo tutti a bordo della scialuppa, e stavamo remando vigorosamente verso il lato opposto della laguna. Quando ci siamo trovati al centro di essa lo spettacolo delle antiche navi a vela avvolte dalle fiamme e da una gigantesca nuvola di fumo era bello e spaventoso al tempo stesso. Lingue di fuoco si levavano ora anche dal Princess Adelaide, dal Reina Isabela e dall’Auvergne; il Valdivia stava per essere raggiunto a sua volta; solo il Newcastle, essendo sottovento, per il momento non era attaccato dalle fiamme. nugoli di scintille s’innalzavano rapidissime al di sopra del cimitero dei velieri, trasformato in un inferno di fuoco, e si disperdevano verso il cielo grigio al disopra del vasto cratere. E cos1 altro potevamo fare, se non dirigerei verso il fiordo e la grotta azzurra, per poi uscire in mare aperto e cercare un approdo verso la spiaggia

delle foche? Nella laguna non si poteva rimanere; inoltre, anche non espresso a parole, il pensiero di tutti correva alla sorte del capitano, di Esteban e Alejandro. Così, remando contro la corrente, abbiamo imboccato lo stretto passaggio coperto e circa un’ora dopo, col cuore in tumulto per le forti emozioni provate, siamo giunti in prossimità del punto dove eravamo sbarcati alcuni giorni fa, e abbiamo preso terra. Il mare era mosso e l’approdo non è stato facile; per un vero miracolo non abbiamo sfasciato la lancia sugli scogli, il che sarebbe stata una perdita irrimediabile. Abbiamo tirato in secco la scialuppa e abbiamo acceso un fuoco presso la riva per scaldarci e cuocere un po’ di carne di foca. Il crepuscolo st>«va scendendo veloce, e al di sopra della vetta dell’isola si levava una densa colonna di fumo nero: ciò che restava degli antichi velieri. Poi ci siamo infagottati alla meglio e abbiamo cercato di dormire: ma il freddo, il timore e l’incertezza del domani ci hanno concesso un riposo assai breve e agitato. Al bagliore del nostro bivacco, ho steso queste note.

Prima di coricarmi, non ho potuto fare a meno di chiedere a Mariano: – Non avevi paura laggiù, sulla nave americana? Perché ti sei attardato a quel modo? –

Mi ha guardato come soprappensiero, e ha risposto: – Prima o dopo, arriva il momento in cui uno si stanca di scappare, di scappare sempre, Federico. Volevo vedere che cosa sarebbe accaduto; volevo vedere se potevo fidarmi di me. –

– Che cosa vuoi dire? -, ho insistito. – Spiegati, non ti capisco. –

– Eppure è semplice. Quando hai compreso quale sia il senso della tua vita, smetti di aver paura. No, mi correggo: hai ancora paura, me riesci a dominarla. Gli uomini hanno paura della morte perché sentono oscuramente di essere insoddisfatti della propria vita. Sentono che non hanno risposto alle domande fondamentali della propria mente e del proprio cuore, che non sono riusciti a dare uno scopo al proprio esistere. Per questo sono impreparati, vorrebbero ancora del tempo; anche se, in fondo, quasi sempre intuiscono che non sapranno adoperarlo nel modo giusto. –

Le sue parole mi hanno lasciato a lungo pensieroso. – Vuoi dire – gli ho chiesto infine, con stupore – che quando si è riusciti a dare uno scopo alla propria vita, non importa più di morire? Ma è contraddittorio…-

II mio amico ha sorriso nel buio. Intuivo il suo sorriso, più che vederlo; e non potevo non provare rispetto per un uomo capace di sorridere nella nostra situazione, così drammatica e incerta.

– No, Federico. E poi, forse ho sbagliato a generalizzare. Queste cose, ognuno deve cercarle per conto proprio. Dirò .solo di me, allora. Io non dico che, avendo trovato il senso della mia viti, non m’importa di vivere o di morire. Al punto in cui sono arrivato, non posso non amare la vita; e la amo, infatti, più di quanto non l’abbia mai amata prima. Perfino più di quando ho conosciuto Alexandra e ho scoperto, poco a poco, i tesori inestimabili del suo cuore; perfino più di quanto non l’amavo in quei giorni esaltanti, nella colonia penale, quando la vedevo quasi ogni giorno, e i miei dì e le mie notti erano pieni di lei. Perché allora, mescolato alla dolcezza di quella scoperta, di quella felicità, vi era un non so che d’amaro: la consapevolezza che un tale amore era umanamente irrealizzabile, l’impossibilità di dare uno sbocco ai miei sentimenti, la facile previsione che tutto avrebbe dovuto comunque finire. Adesso, invece, è come se avessi ritrovato Alexandra per sempre, è come se sapessi che non la perderò mai, mai più; anzi: è sapere che non la perderò più. Quindi, la mia gioia è infinitamente più piena e matura, non ho paura che qualcosa me la possa togliere. E amo la vita appassionatamente, perché le ho trovato uno scopo: farne un continuo dono per lei, per A-1 ex andrà. Non c’è più posto per l’amarezza, nel mio cuore.

– Ma allora – ho obiettato – più che mai dovresti aver paura di perderla, questa vita. Invece, stamattina, hai agito come se non t’importasse. ..-

Mariano ha scosso la testa, ma pacatamente: – Non mi sono spiegato. Così come non ho più paura di perdere Alexandra, nemmeno ho più paura di perdere la vita. Non dico che la voglio gettare; anzi. Ma quando il fiume è arrivato a gettarsi nel mare, il suo scopo è raggiunto: è la pace. Le sue acque non saranno mai più distinguibili da tutte le altre acque del mondo.

Ha scoperto che la sua separatezza era solo apparenza, illusione; che ogni cosa è parte del tutto, e che nel tutto ogni cosa trova il suo completamento, la sua realizzazione. E la sua fine, anche. O, magari, il suo vero inizio: tutto dipende dalla prospettiva in cui ci si pone. –

È strano, ma in quel momento mi è sembrato di incominciare a capire quel che voleva dire il mio amico.

E anch’io, inspiegabilmente, mi sono sentito – almeno in parte – rasserenato. O, almeno, più aperto alla speranza.

CAPITOLO OTTAVO

6 febbraio 1912.

Una bella giornata, insperatamente: tiepida e soleggiata. Abbiamo tenuto consiglio sul da farsi, tanto più che abbiamo poca acqua e che la carne di foca, ormai, ci sta nauseando. Due marinai, Rafael e Joaquin, vorrebbero che si tentasse la sorte mettendoci in mare con la scialuppa, nella speranza di raggiungere qualche terra abitata o in quella di essere salvati da qualche nave di passaggio: impossibili l’una e l’altra, data la posizione isolatissima in cui ci trovi amo, lontana da qualunque rotta commerciale. A maggioranza, quindi, abbiamo deciso di restare e cercar di procurarci i mezzi per sopravvivere.

Ma a che scopo, ha obiettato Joaquìn, visto che nessuna nave passerà mai di qui e che, rimanendo sull’isola, ci condanniamo a un perpetuo esilio? Il marchese ha risposto che non conosciamo a sufficienza l’isola e le sue risorse e che, pertanto, non si può escludere che riusciamo a organizzarci in maniera accettabile per un soggiorno anche prolungato; e che, comunque, al modo di lasciare l’isola penseremo in un secondo tempo, perché salpare con la scialuppa è comunque un passo disperato: significa affrontare le morte, con novantanove probabilità su cento. Mariano taceva.

Io ho osservato al marchese che, in ogni modo, restando sull’isola dovremo guardarci da un pericolo costante, tanto più minaccioso in quanto di dubbia natura.

– Il pericolo, secondo me – ha replicato lui – è localizzato in una parte ben precisa dell’isola: la laguna interna; e comunque proviene dall’acqua. Sono convinto che qui, e a maggior ragione più in alto, lungo le pareti esterne del cratere, siamo perfettamente al sicuro. Se si tratta di un serpente marino o di una qualunque altra creatura acquatica, non può certo arrampicarsi su per queste balze: anche ammesso che sia in grado di uscire dalla laguna. Ora dobbiamo scoprire i nidi degli uccelli marini: l’inverno antartico si avvicina rapidamente e, con esso, possiamo star certi che migreranno tutti verso il nord. Dobbiamo procurarci della carne di uccello per variare la nostra dieta, e delle uova; e anche del pesce, naturalmente. Certo, la mancanza di verdura e frutta si farà sentire, alla lunga; ma per qualche mese non dovrebbe costituire un problema troppo grave. –

Mi è sembrato che cercasse di cambiare argomento, ma Pascual ha insistito: – Secondo voi, che razza di bestia poteva essere? Io non penso che una creatura del mare possa emettere urla di quel genere. No, non è possibile! –

– E che ne sai, tu? – lo ha investito il marchese, con occhi lampeggianti.- Hai forse mai visto un serpente di mare, lo hai mai sentito urlare? O un calamaro gigante? –

A questo punto sono intervenuto io: – Marchese, nemmeno a me sembra possibile che un abitante dell’ambiente acquatico abbia potuto lanciare quelle urla. –

Mi ha guardato fissamente, e poi ha ribattuto: – Dunque, non avete visto l’acqua agitarsi e gorgogliare, attraverso lo squarcio nella chiglia del Savannah? E non era da lì che provenivano quelle dannate urla? –

– Sì, certo che era da lì -hanno approvato gli altri marinai; ma non Pascual, che continuava a scuotere la testa, dubbioso. E poi ha aggiunto ostinatamente: – Per me, quelli erano i ruggiti di una tigre! –

Ma sorrisi di compatimento sono apparsi sui volti dei suoi compagni. I

l marchese ha ripreso in pugno saldamente la situazione: – Comunque sia, questo per ora è un problema che dobbiamo accantonare; ne abbiamo altri di più urgenti. Fra mezz’ora ci metteremo in marcia verso la parte alta dell’isola e cercheremo di raggiungere la parte nord, che l’altra volta non abbiamo esplorato. Forse i nidi degli albatri e dei cormorani si trovano lassù; forse potremo scoprire un’altra sorgente d’acqua potabile. Ne abbiamo bisogno.-

E,con queste parole, ha chiuso la discussione.

La ricognizione verso la parte alta dell’isola è stata faticosa, ma la bellezza selvaggia e grandiosa del paesaggio, mano a mano che salivamo in quota e il panorama dell’isola e dell’oceano si allargava ai nostri piedi, ci ha ampiamente ricompensati della fatica. A circa duecento cinquanta metri d’altezza la neve non si era più sciolta ma, girando lentamente attorno alle pendici del cratere, ci siamo resi conto che il versante nord è notevolmente riparato dai venti dominanti del sud-ovest, e tutto il margine settentrionale della sommità della caldera è apparso libero da ghiaccio e neve.

Come aveva previsto il marchese, lassù abbiamo trovato una numerosissima colonia di uccelli marini, albatri la maggior parte. Ne abbiamo uccisi sette e ci siamo procurati un buon numero di uova. Abbiamo posto il bivacco un centinaio di metri al di sotto della vetta, in un ripiano roccioso che pareva un minuscolo anfiteatro spalancato sull’immensità grigioverde dell’oceano spumeggiante, alcune centinaia di metri più in basso. Mentre gli uomini preparavano un fuoco per cuocere uno dei cormorani (ci eravamo portati un po’ di legna allo scopo), Mariano ed io ci siamo staccati dal gruppo per spingerci fino alla vetta. Lì giunti, abbiamo dovuto aggrapparci alle nude rocce scivolose, perché il vento che soffiava da mezzogiorno era fortissimo.

Distesi carponi, abbiamo contemplato lo spettacolo fantastico della laguna, giù giù sotto di noi. Il fuoco aveva distrutto tutti i velieri; anche il Newcastle, benché sottovento, alla fine non aveva potuto sottrarsi al comune destino. Non restavano che delle carcasse carbonizzate e annerite, quasi irriconoscibili. Peccato soprattutto per il Valdivia: ci ha fatto da casa e da rifugio, e ora non abbiamo più un tetto sopra la testa. Le acque appena increspate della laguna brillavano nella chiara luce del mezzogiorno; ma, osservandole, non ho potuto fare a meno d’essere attraversato da un brivido.

– Tu che ne pensi? – ho chiesto a Mariano. – Chi è il nostro nemico? –

– Sai, non sono più sicuro che si tratti d’un serpente di mare. Il suo grido faceva pensare a tutt’altro, casomai a un mammifero. Pascual ha ragione. –

E’ strano, Mariano; non avevo interpretato così il suo silenzio, durante la discussione del mattino. – E perché non l’hai detto? – , gli ho domandato. Ma luii è stretto nelle spalle con gesto significativo.

– E a che cosa sarebbe servito? – ha risposto. – Ognuno crede a quel che ha deciso in cuor suo di credere. E poi, che importanza può fare? –

– Su questo punto – ho replicato – non sono d’accordo, per me fa importanza, e molta, cercar di capire quale specie di maledizione ci stia perseguitando su questo scoglio sperduto nell’oceano. In base a ciò, potrei stabilire delle strategie difensive.-

II mio amico ha sghignazzato: – Adesso usi il linguaggio militaresco dei nostri vecchi amici della colonia penale. Strategie difensive, addirittura! Non è che ti senti un po’ Napoleone, parlando in questo modo? –

– Se non fossimo in una situazione pressoché disperata – ho osservato, accettando lo scherzo – direi che ti sta perfino tornando il buonumore.-

– E perché no? -, ha fatto lui. E davvero non riuscivo a capire se stesse parlando sul serio, o per celia. Ma lassù, in cima alla vetta dell’isola, coi liberi venti che ci scompigliavano i capelli, mi pareva d’essere più vicino alla verità, o almeno al bisogno di verità. Per questo ho voluto ritornare sul discorso delle sera prima, e gli ho chiesto, del tutto seriamente, stavolta:

– Se non ti spiace, c’è una cosa che volevo chiederti. In che senso hai detto che… che la señora Alexandra non ti sarà mai più tolta? Che l’hai ritrovata per sempre? Non è per oziosa curiosità che te lo domando. Questo problema, di non perdere le cose che ci sono care anche se la vita sembra volercele negare, mi ha sempre affascinato. –

Lui è rimasto un po’ in silenzio, ma non sembrava seccato della mia domanda, anzi non pareva nemmeno tanto meravigliato.

Dopo un tempo cosi lungo che pensavo fosse preso de pensiero tutti suoi, ha detto con semplicità: – Guarda che non mi sono rimbambito con una forma consolatoria di spiritualismo. Ero materialista, e lo rimango. Alexandra è la sposa di un altro, e questo è un fatto; e c’è un altro fatto: lei lo ama; e va bene. Dunque lei è sua, e non mia. E tuttavia – qui ha fatto una breve pausa, e il suo viso s’è illuminato di una dolcezza del tutto inaspettata, come carezzasse un soave pensiero – in una certa maniera interiore, che io sto sperimentando adesso, Alexandra è più mia di quanto non lo sarebbe, se fosse mia moglie. O per meglio dire: il mio e il tuo sono superati, a un certo livello del voler bene. Io non provo alcun sentimento di gelosia nei confronti di don Alvaro, non mi sento in competizione con lui; e sento che anche Alexandra mi ha voluto e mi vuole bene, in una certa maniera profonda, senza nulla togliere ai sentimenti che prova per lui. Esiste una regione alta, dove soffiano liberi i venti, come oggi in questa stupenda giornata di Sole, sulla vetta dell’isola in capo al mondo – dove non c’è posto per la gelosia, l’istinto del possesso è superato, e tutto quel che rimane è sentimento disinteressato e libero, istinto di donare senza nulla chiedere in cambio, comunione perfetta di anime.

Parlo come un maledetto romantico, vero? Ma io detesto il romanticismo. Oh, credo di non essermi spiegato affatto.

– No, al contrario – ho risposto, ed era vero – credo di aver capito. Sì, ti parrà strano, ma credo di aver capito quel che intendi dire. –

Abbiamo raggiunto gli altri e, dopo aver mangiato (la carne di cormorano era dure e stopposa, ma graditissima dopo l’eterna carne di foca, così grassa e nauseabonda), abbiamo preso la via del ritorno. Poco prima di sera abbiamo raggiunto la nostra base, presso la scialuppa che avevamo lasciato bene addentro sulle spiaggia, riempiendola di sessi per ulteriore sicurezza.

Col crepuscolo è ritornato un freddo pungente: abbiamo acceso il fuoco, ma la legna è quasi terminata e sarà un vero problema procurarci dell’altro combustibile, dato che sull’isola non crescono alberi e nemmeno arbusti.

Finalmente, rotto dalla fatica, mi sono addormentato di un sonno pesante e senza sogni, rattrappito contro il fianco della scialuppa ,il sacco da viaggio per

cuscino e una vecchia coperta trovata sul Valdivia come materasso.

CAPITOLO NONO

Dal diario di Alexandra, 2 febbraio 1915.

Questi vecchi fogli ingialliti mi stanno suscitando emozioni fortissime. Mi torna davanti tutto un passato che ho cercato non di dimenticare, ma di tenere faticosamente a bada. E tuttavia sento che è un bene, che è stata 1; Provvidenza a mandarmi quella strana ragazza con questo quaderno dalla copertina di tela consunta. Era tempo che facessi anch’io i conti con questo passato che non passe, che non vuoi passare; era tempo che trovassi anch’io il coraggio e la volontà di non scappare più, come ha detto Mariano a Federico.

Sì, è vero; viene il tempo che un uomo, o una donna, devono smettere di scappare de sé stessi, e guardare bene a fondo nel proprio intimo, costi quel che costi. Per troppo tempo ho evitato di dare un nome a quel che mi si agitava nell’animo. Scoprire che Mariano ha saputo farlo con tanta lucidità fin da allora, e che è riuscito (in mezzo a quei pericoli!) a trovare una leva per spostare quel che provava per me su di un piano limpido ed elevato, rasserenandosi e imparando ad amare di più la vita, mi è stato di immenso conforto. Come se mi avesse mandato un messaggio di fede nel domani, attraverso le immense distanze dei tempo e dello spazio!

Ho pianto, lo confesso, ai gioia e di consolazione; sentimenti repressi tanto a lungo hanno trovato di colpo una via d’uscita, una strada verso la comprensione e la serenità. Avevo il cuore lacerato, perché l’ultima immagine di lui era quella ai un uomo che se ne va tutto solo, triste e sconsolato, verso l’ignoto, con un enorme peso di rammarico e di rimpianto sulle spalle. Ora invece so che quell’uomo ha saputo rialzarsi, che è stato capace di imporre un ordine al disordine, di dare un senso all’assurdo, una speranza alla disperazione. Sì, era assurdo lo scherzo giocatoci dalla vita: farci incontrare così, e scoprire e innamorare, quando io già amavo un altro e condividevo la mia vita con lui, il padre dei miei bambini. Una ironia, sembrava: una sofferenza inutile e crudele, per entrambi. Ma adesso vedo che Mariano, dopo molta sofferenza, ha saputo andare oltre questo appetto contingente della nostra vicenda terrena; ha saputo comprendere che l’incontro fra due anime, quando è puro e disinteressato, è un amore che non finisce mai; che non collide con gli altri" sentimenti e con gli altri doveri; che da pace e gioia di vivere, per sempre.

E’ quello che anch’io, oscuramente, ho sempre sentito nel profondo del mio cuore, ma con molti turbamenti, con rimpianti, con sensi di colpa e cadute. La mia pena veniva in gran parte dal fatto di non sapere se lui aveva trovato la pace, se aveva trovato il modo di trasformare tutta quella sofferenza in qualcosa d’altro. Ma ora so che la mia immagine è rimasta sempre vicino a lui, ispirandogli non vuote nostalgie e amari rimpianti, ma un sentimento forte e positivo verso la vita; proprio lui, che ere di natura fondamentalmente malinconica fin da quando l’ho conosciuto.

Benedico il Signore per questa scoperta, che mi consola di tre anni di angoscia sorda e impotente; benedico la vita che ci ha fatti incontrare; benedico quel sentimento forte e pulito che ci ha legati sin del primo momento, e che conserverò per sempre, con amore e gratitudine, nell’angolo più intimo e vero del mio cuore.

No, non è stata un’ironia, non è stato un discutibile scherzo della vita l’averci fatti incontrare in quel momento del nostro cammino terreno.

È stato un dono grande e prezioso, di cui mi ritengo fortunata di essere stata giudicata degna da qualcuno che tutto vede e tutto guida verso il meglio.

CAPITOLO DECIMO

Dal diario di Federico Kocbeck, 7 febbraio 1912.

Oggi, esplorando la costa in direzione sud-ovest, cioè in direzione della grotta azzurra, abbiamo scoperto una caverna che si apre nel fianco della dorsale rocciosa, a circa quaranta metri sopra il livello del mare. È di forma irregolare: stretta all’inizio, tanto che il suo ingresso non supera e mezzo di larghezza, si allarga poi e forma alcuni anfratti di notevole estensione, spingendosi per alcune decine di metri all’interno del fianco della montagne. Le volte non è mai più bassa della statura di un uomo, in alcuni punti e1 ‘innalza anche di parecchi metri da terra. Pietrisco molto fine e sabbia forme il pavimento. In mancanza di meglio, abbiamo deciso di farne il nostro ricovero: almeno siano al riparo dal vento; e, verso il fondo della grotta, dove la temperatura è decisamente meno rigida. Il fumo del bivacco, inevitabilmente, ci darà qualche fastidio; ma è sempre meglio che affrontare l’inverno ormai vicino all’aria aperta. Per prima cosa abbiamo trasferito tutte le nostre cose nella caverna. Poi abbiamo messo le scialuppa in mare e l’abbiamo portata a riva al disotto della grotta, e infine l’abbiano trascinata, non senza molta pena, fin dentro il nostro nuovo rifugio. Non possiamo correre il rischio di vedercela sparire; è, quasi, la nostra unica speranza di salvezza. Nel pomeriggio ci siamo messi alla ricerca di una sorgente, anche se non corriamo il pericolo di morire di sete. Possiamo sempre attingere alla ne ve e al ghiaccio delle pendici superiori del cratere, senza contare che, extrema ratio, possiamo sempre tornare con la barca fino alla cascatella nell’interno della laguna, quasi sul far della sera l’abbiamo trovata, e anche questo ha rialzato di molto il nostro morale: piccola e stentata, ma freschissima e limpida, essa scende gorgogliando dalle rocce quasi all’altezza dell’istmo che separa il corpo principale dell’isola Dougherty dalla tozza propaggine sud-occidentale, una bassa montagna rocciosa che non fa parte del sistema dell’antica caldera. Con nostro grande stupore, in quel punto abbiamo scoperto anche una stentata vegetazione sub-antartica: muschi, licheni e perfino qualche selaginella nana. Oh, gioia immensa di rivedere un po’ di verde, dopo settimane di mare sconfinato e poi di nuda roccia vulcanica» è un niente, in confronto alla meravigliosa ricchezza di forme della flora dell’altra isola, alle felci gigantesche, ai boschi eleganti e frondosi, rifugio di uccelli variopinti. Ma solo chi, come noi non ha più visto una creatura vegetale per quasi un mese, può comprendere la sensazione struggente che ci hanno dato quei miseri segni di una poverissima vegetazione subpolare!

8 febbraio l9l2.

Dopo aver passato finalmente una notte all’asciutto, ci sismo divisi in due gruppi alla ricerca di cibo. Ora ch non ci sentiamo più in pericolo immediato, abbiamo deciso che non è più indispensabile rimanere sempre tutti uniti, come quando eravamo nella laguna. I quattro marinai sono andati lungo la riva del mare per cercar di pescare del pesce, mentre io, Mariano e il marchese abbiamo ripreso In ricognizione dell’isola, diretti al promontorio sud-occidentale, oltre la sorgente scoperta ieri sera.

A mezzogiorno circa abbiamo raggiunto l’estrema punta dell’isola, e lì, dopo aver consumato un frugale pasto in riva all’immensità dell’oceano, il marchese ha deciso di mettere le sue carte in tavola.

– Signori – ha incominciato – devo ammettere di non avervi detto tutta la verità circa le mie intenzioni. Ora so di avere a che fare con uomini leali e di parola; ma capite bene che non ci si può fidare del primo arrivato. Inoltre, gli ultimi avvenimenti hanno modificato non poco la nostra situazione, quindi è giusto che voi sappiate esattamente come stanno le cose, anche per farmi sapere se potrete continuare a darmi la vostra collaborazione. – Le parole erano gentili, ma la luce sinistra del suo sguardo non si era affatto attenuata.

– Dovete sapere – ha proseguito – che il denaro del Newcastle non era, e non è mai stato, il vero scopo che mi ha condotto qui, all’isola Dougherty. Non sono nemmeno sicuro che quel denaro esista, anche se lo ritengo probabile. Ma ho preferito farvi credere che proprio quella fosse la causa del mio interesse per quest’isola, perché era la cosa più credibile. Gli uomini farebbero qualsiasi cosa per la ricchezza, non è vero? Non potevo mettervi subito a parte dei miei piani. Tuttavia vi ho accennato a una grande causa alla quale mi sono votato, e ora bisogna che vi parli di questo. Avrete certamente letto, nella relazione del capitano Rosenberg, la storia della misteriosa pietra verde da lui trovata a bordo del brigantino inglese; come pure, in quella capitano Richet, del meteorite precipitato sull’isola nel 1845, ossia otto anni prima. Ebbene, ritengo di essere in grado di soddisfare la vostra curiosità in proposito e, per prima cosa, vi posso confermare che il meteorite caduto nel 1845 e la pietra verde trovata dal capitano del Valdivia nel 1853sono il medesimo oggetto. –

Mariano ed io lo stavamo ascoltando con la massima attenzione: sentivamo che una parte dell’intricato mistero stava per cadere davanti ai nostri sguardi. Ma, proprio in quel momento, il marchese è stato bruscamente interrotto: un ruggito spaventoso, un ruggito di belva infuriata e gigantesca, è risuonato al di sopra delle rupi sovrastanti, da qualche punto non lontano dell’isola. Siamo ammutoliti di colpo, guardandoci l’un l’altro, pallidi.

Pareva, inequivocabilmente, il ruggito di una tigre scatenata!

(Fine della terza parte)

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Ylanite Koppens from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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