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Il paradosso della fede: «Timore e tremore» di Kierkegaard

"Non v’è dubbio che «Timore e tremore» appartenga ai grandi capolavori di Kierkegaard. Scritta nel 1843 (…), l’opera è come una breve sinfonia che contiene, felicemente armonizzati e fusi, tutti i i motivi dominanti del pensiero e dell’arte di Kierkegaard. Scritta in quello stile agile e narrativo che caratterizza anche «Aut-aut» e «La ripresa», veri romanzi filosofici, «Timore e tremore» racchiude già pienamente consapevole e compiuta la critica del sistema e dell’hegelismo, il Leit-motiv kierkegaardiano della vera religiosità e dell’essenza paradossale della fede, non riducibile in alcun modo a categorie extrareligiose come la logica, l’estetica o l’etica, il motivo, anch’esso centrale, del «singolo» nella sua solitudine angosciosa di fronte al paradossale mistero di Dio. (…)

"È questo uno dei testi più indicativi e caratteristici del pensiero di Kierkegaard. Nella figura di Abramo «cavaliere della fede», nella situazione estrema, al di là del bene e del male, del vero e del falso, in cui Abramo mette a durissima prova la sua fede, abbiamo un ritratto esemplare dello stadio religioso dell’esistenza e un compendio o uno scorcio di tutta quanta la riflessione kierkegaardiana. Corrisponde alla tendenza più intima di una filosofia esistenziale, come quella kierkegaardiana, incarnare in un personaggio, reale o fantastico un momento ben focalizzato nella galleria delle possibilità e degli atteggiamenti chela vita offre all’uomo. E nel ritratto di Abramo, dell’uomo che sacrifica al comando di Dio il proprio bene più alto, l’ultimo figlio ottenuto quasi per grazia al culmine degli anni, scorgiamo non già un autoritratto fedele dell’uomo Sören Kierkegaard, bensì una proiezione ideale, un ritratto immaginario di quell’homo religiosus che il pensiero kierkegaardiano, in tutte le fasi del suo svolgimento, ha tracciato come valore supremo dell’esistenza."

REMO CANTONI, Saggio introduttivo a «Timore e tremore»

Sören Kierkegaard scrive Timore e tremore nello stesso anno in cui pubblica, l’uno dopo l’altro, Aut-aut, Due discosi edificanti, la ripresa, Tre discorsi edificanti, Quattro discorsi edificanti. E il 1843, un anno veramente prodigioso nella vita del Nostro; due anni prima aveva rotto il fidanzamento con Regina Olsen ed era partito per Berlino, ad ascoltare le lezioni di Schelling; l’anno dopo pubblicherà le Bruciole di filosofia (la sua opera più importante in senso strettamente filosofico) e Il concetto dell’angoscia. Fra il 145 e il 1855, l’anno della morte (era nato a Copenaghen nel 1813), pubblicherà ancora moltissimi scritti, ma non più con quella incontenibile "eruzione" del biennio 1843-44, e impegnerà molte energie, fino al totale esaurimento fisico, in una disperata battaglia contro il luteranesimo della Chiesa ufficiale, accusandolo di filisteismo e ipocrisia e ribadendo sempre, con estrema coerenza, il concetto della fede come "scandalo" e rifiuto di ogni convenzione esteriore. In senso filosofico, le sue opere più importanti dell’ultimo decennio saranno Stadi sul cammino della vita (1845, che comprende In vino veritas, mirabile dialogo sulla falsariga del Simposio platonico ), Postilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di filosofia» (1846) La malattia mortale (1849).

Kiertkegaard amava pubblicare le sue opere sotto una varietà di pseudonimi che, nell’apparente diversità dei personaggi, possono sconcertare – di primo acchito – il lettore che lo accosti per la prima volta, ma che rivelano un fitto intreccio di posizioni complementari di una filosofia in perenne movimento, sempre insoddisfatta di sé stessa e sempre protesa alla ricerca della verità; oltre a mostrare la propensione dell’Autore per una sorta di gioco intellettuale per le «maschere» che, però, non sono mai un ozioso gioco letterario, quanto piuttosto una precisa strategia pedagogica basata su un’esigenza profonda di autenticità e scavo interiore, di una prodigiosa ricchezza umana e intellettuale che non si lascia circoscrivere nei limiti angusti di un pensiero univoco e sistematico. Anche per Timore e tremore l’autore si serve di uno pseudonimo, quello di Johannes de Silentio, che firma per esteso l’ironica e raffinata Introduzione: perché Kierkegaard si serve spesso dell’ironia ed è uno scrittore efficacissimo, che sa graffiare quanto basta per scuotere il pesante perbenismo dei lettori e la sussiegosa presunzione degli accademici di professione. Kierkegaard, come Platone, non è solo un grande filosofo, ma anche un grande scrittore; e il fatto che egli si serva volutamente di uno stile letterario per esprimere la sua concezione filosofica può ingenerare l’errata convinzione che egli sia più un artista che un pensatore. In realtà, egli è stati un genio che ha padroneggiato con eguale sicurezza e profondità tanto l’arte dello scrittore, quanto la profondità del pensiero; e ha scelto intenzionalmente di veicolare il suo pensiero in forma apparentemente semplice e dimessa, per polemica contro i «professori» à la Hegel e perché intimamente convinto che la filosofia deve scendere dai libri ed entrare nella vita, farsi vita essa stessa, e cercare di spiegarne il senso o, almeno, indicarle una direzione e uno scopo.

N. B. Per le citazioni, seguiremo la traduzione di Franco Fortini e Kirsten Montanari Gulbrandsen, Edizioni di Comunità, Milano; e, successivamente, Newton Compton Editori, Roma, 1976.

INTRODUZIONE.

Nell’introduzione, Kierkegaard esordisce immediatamente e quasi brutalmente con un ironico ma estremamente deciso attacco contro il clima filosofico e, più in generale, spirituale, instaurato dalla crisi del post-hegelismo verso la metà dell’Ottocento.

"L’epoca nostra – afferma – organizza una vera e propria liquidazione nel mondo delle idee come in quello degli affari. Ogni cosa può essere comprata a prezzi tanto bassi, che è possibile domandarsi se finalmente ci saranno acquirenti. Ogni agente della speculazione, coscienziosamente preoccupato di segnare le tappe della significativa evoluzione della filosofia; ogni libero docente, insegnante, studente, ogni filosofo, dilettante o qualificato, non si limita più al dubbio radicale, ma va «oltre».sarebbe forse intempestivo e scortese chiedere loro dove vanno di questo passo; ma si mostrerebbe un’indubbia cortesia considerando cosa certa ch’essi abbiano dubitato di tutto, perché altrimenti sarebbe almeno strano affermare che vanno oltre. Ciascuno di loro ha compiuti quel movimento preventivo; e, secondo ogni apparenza, con tanta facilità che non giudicano più necessario aggiungere la minima parola di spiegazione. Invano si cerca, con cura minuziosa, un piccolo chiarimento, un indizio, la minima prescrizione dietetica circa la condotta che dev’essere seguita in una simile enorme impresa.«Ma lo ha fatto forse Cartesio?» (…)

"Quel che per i Greci, che di filosofia, un poco, se ne intendevano, era compito dell’intera esistenza 8siccome la pratica del dubbio non s’acquista in pochi giorni né in poche settimane); il punto cui perveniva il vecchio lottatore ormai fuori dai combattimenti, dopo aver serbato l’equilibrio del dubbio attraverso tutte le tentazioni, dopo aver infaticabilmente negato la certezza dei sensi e quella del pensiero e sfidato senza debolezza i tormenti dell’amor proprio e le insinuazioni della simpatia; quel compito è oggi il punto di partenza di ognuno.

"Ai giorni nostri, non ci si ferma alla fede, si va oltre. Che se poi volessi domandare dove si voglia arrivare, certo mi farei considerare uno sciocco; ma invece darei prova di gentilezza e di cultura se ammettessi che ciascuno ha la fede, perché altrimenti sarebbe un po’ strano dire che va «oltre». Non era così una volta; allora la fede era compito assegnato all’intera esistenza; perché, si pensava, l’attitudine a credere non si acquista in pochi giorni o in poche settimane."

Kierkegaard, che rifiuta per sé l’appellativo di filosofo e che si presenta solo come uno «scrittore dilettante», prevede che la sua sorte sarà quella di essere del tutto ignorato, in un mondo di sapienti che già conoscono tante cose più di lui. Ammette, inoltre, di non essere il portatore di un pensiero sistematico, per cui sarà compito sin troppo facile sezionare e demolire il suo libro con una minuziosa acribia professorale. I suoi critici potranno sempre dire: "non è sistema, questo; non ha nulla a che vedere col sistema"; ed egli è pronto ad ammetterlo, sottomettendosi di buon grado al giudizio di ogni cavillatore sistematico.

La struttura dell’opera è la seguente. Dopo l’Introduzione, vi è un capitolo intitolato Atmosfera, diviso in quattro bevi sezioni, che ricostruisce il fatto del sacrificio di Isacco; poi un Elogio di Abramo, visto come la perfetta incarnazione del «cavaliere della fede»; seguono tre Problemata, ovvero questioni, introdotte da una Effusione preliminare, e cioè: 1, Esiste una sospensione teleologica della morale?; 2., Esiste un dovere assoluto verso dio?; e 3., Si può giustificare moralmente il silenzio di Abramo con Sara, Eliezer e Isacco? Infine chiude l’opera un breve Epilogo.

ATMOSFERA

Il titolo di questo capitolo è quanto mai appropriato: Kierkegaard, volutamente, dà l’incipit con la tipica proposizione formulare delle favole (che fu tanto cara al suo compatriota e contemporaneo Hans Christian Andersen, così come a generazioni e generazioni di bambini): «C’era una volta…». Al tempo stesso, il lettore vi scorge subito una velata allusione autobiografica, poiché ben presto appare chiara che l’autore sta parlando di se stesso e della sua infanzia, quando qualcuno – il padre, probabilmente – gli leggeva brani della Bibbia, e la storia di Abramo e Isacco doveva averlo particolarmente colpito, proprio perché esemplare del "paradosso" della fede.

"C’era una volta un uomo che durante la sua infanzia aveva udita la bella storia di Abramo messo alla prova da Dio, che, vittorioso della tentazione, riusciva a conservare la fede e a ricevere, contro ogni previsione, suo figlio per la seconda volta. In età matura, rilesse con cresciuto stupore quel racconto, perché la vita aveva separato quanto era unito nella pia semplicità dell’infanzia. Man mano che egli invecchiava, il suo pensiero tornava più di frequente a quella storia, con una passione sempre più grande; e tuttavia, la comprendeva sempre meno…"

Questo è un tema caro a Kierkegaard: la meravigliosa apertura dell’infanzia, la disponibilità ad accogliere il mistero e il paradosso senza sforzo apparente; e, per contro, la dura, legnosa rigidità del Logos dell’adulto, che offusca le semplici verità apprese un tempo per rendere tutto più complicato, incomprensibile.

"Il suo sogno sarebbe stato quello di partecipare al viaggio di tre giorni, quando Abramo se n’andava sul suo asino, con la propria tristezza davanti a sé, e Isacco al fianco. Gli sarebbe piaciuto essere presente al momento nel quale Abramo, levando lo sguardo, vide all’orizzonte la montagna di Moriah, al momento in cui rimandò gli asini e salì al monte, solo col suo figliolo; perché era preoccupato, non degli ingegnosi artifizi dell’immaginazione, ma, ma degli spaventi del pensiero."

Poi Kierkegaard rievoca (con le parole della Bibbia) il comando di Dio ad Abramo di offrirgli in olocausto il figlioletto; rievoca la partenza dei due, di primo mattino, il commiato da Sara, la marcia a dorso di mulo fino al monte Moriah, l’inizio della salita. Isacco, guardando suo padre, capisce quel che lo attende e comincia a scongiurare suo padre di risparmiargli la vita. Isacco dapprima lo esorta a proseguire il cammino con fiducia,; poi, improvvisamente, lo getta a terra e gli grida che non lo sacrificherà per offrire un sacrificio a Dio, poiché lui, Abramo, è un idolatra e fa quel che gli pare. Isacco, sentendosi perduto, prega Dio e lo invoca come il suo unico, vero Padre; a lui chiede misericordia. Abramo, dal canto suo, è sollevato: ha finto di disprezzare Dio perché Isacco, prima di morire, non perdesse la fede in Lui, cosa che sarebbe avvenuta se avesse detto al figlio che si apprestava ad ucciderlo per obbedire a un ordine divino.

È difficile, giunti a questo punto, respingere la tentazione di leggere queste righe in filigrana, ritrovandovi la più intima e sofferta esperienza della vita di Kierkegaard: la rinunzia volontaria al matrimonio con Regina Olsen, la rottura del fidanzamento e l’averle voluto far credere che ciò avveniva per amore di un’altra, in modo che lei se ne facesse una ragione e attribuisse a lui solo ogni colpa, Con quel gesto, Kierkegaared volle proteggere la fanciulla amata dal suo stesso amore, perché sapeva che, altrimenti, ella non avrebbe mai cessato di amarlo, né avrebbe accettato la sua decisione: solo così, assumendo un comportamento incomprensibile, egli sarebbe riuscito a distaccarla da sé, e ciò le avrebbe permesso di non sacrificare la sua vita, di poter ancora essere felice accanto a un altro – come poi era avvenuto. Il sacrificio della cosa più cara al mondo – il figlio Isacco per Abramo, l’amore di Regina per Kierkegaard – accompagnato da un ulteriore, gravosissimo sacrificio: quello delle sue vere intenzioni, per alleviare la sofferenza dell’altro: tale l’analogia inevitabile tra la storia dell’antico patriarca ebreo e quella del giovane filosofo danese, uniti dal peso di un segreto che essi devono portare tutti soli, lontani dalla comprensione (e dalla compassione) del mondo.

"Quando il bimbo dev’esser svezzato, la madre si tinge di nero il seno, perché sarebbe cosa crudele che esso restasse desiderabile quando il bambino non deve più trarne nutrimento .Così il bambino crede che sua madre è mutata, ma la madre è sempre la stessa ed il suo sguardo è sempre pieno di tenerezza e di amore."

Anche Regina (e i parenti di lei) credette che Sören fosse mutato; lui l’aveva respinta, e al danno aveva aggiunto la beffa: l’aveva lasciata per un’altra donna. Ma non c’era nessun’altra donna. Egli preferì farle credere che non l’amava più, perché lei soffrisse di meno; o, se non altro, perché consumasse il suo dolore più in fretta, e poi se ne liberasse: come il bambino che dev’essere svezzato. Ma l’esperienza della rinuncia volontaria e della parte del fatuo seduttore avevano segnato Kierkegaard per sempre: da quel momento, egli non conobbe mai più la gioia e la sua vita interiore fu quella di un vecchio.

"Da quel giorno, Abramo fu vecchio; non poteva dimenticare quel che Dio aveva preteso da lui. Isacco continuò a crescere. Ma l’occhio di Abramo si era fatto cupo; non vide mai più la gioia."

Anche il Nostro visse la rinuncia a Regina come una specie di pretesa di Dio nei suoi confronti; per tutta la vita continuò a sperare che Dio, all’ultimo momento, avrebbe trasformato il suo dolore in gioia, proprio come era accaduto ad Abramo sul monte, sacro il Moriah.

Con una serio efficacissima di stacchi e di riprese, con uno stile cadenzato e malinconico altamente poetico e suggestivo, Kierkegaard rievoca l’atmosfera in cui si svolse l’esperienza fondamentale nella vita di Abramo: la sua disponibilità ad eseguire l’ordine divino di offrirgli in olocausto il suo unico figlioletto, avuto in tarda età ed amato sopra ogni altra cosa.

"Era una sera silenziosa. Abramo cavalcò ancora, solo, verso il monte Moriah. Piegò a terra il suo volto chiedendo perdono a Dio, perdono d’aver voluto sacrificare Isacco, perdono d’aver dimenticato il suo dovere di padre verso suo figlio."

A sera, la madre vide Isacco tornare con il padre e si affrettò loro incontro. Nessuno era stato testimone di quella drammatica giornata, quando Abramo aveva estratto il suo coltello per sacrificare il fanciullo. Ma Isacco, Isacco aveva capito ogni cosa; e, silenziosamente, senza più parlarne con alcuno, aveva perduto la fede.

ELOGIO DI ABRAMO

Segue l’Elogio di Abramo: un capitolo di tale potenza evocativa, di così grande bellezza e letteraria e sottigliezza psicologica, che è praticamente impossibile farne un semplice riassunto. È di una densità straordinaria: ogni frase, ogni riga, ogni parola hanno una forza e una ricchezza di sfumature che lasciano senza fiato; e, quel che più colpisce, una sicurezza di tratto e una linearità di direzione, quali raramente si trovano uno scrittore e meno ancora in un filosofo. È come se Kierkegaard procedesse con passo leggero e sicuro camminando sull’acqua, sorretto dalla sola fede, come San Pietro sul lago di Tiberiade nel noto episodio evangelico. Già solo l’attacco è di un vigore e di una profondità eccezionali: la sua perfezione architettonica e la sua assoluta mancanza di sia pur minime sbavature ricorda l’austera, geometrica perfezione delle composizioni per organo del grande Johan Sebastian Bach. In esso, Kierkegaard descrive quale sarebbe la condizione umana se non vi fosse Dio e se non vi fosse una meta trascendente nel viaggio della vita; e la fa da maestro par suo, evocando immediatamente un’atmosfera carica di pathos, di straordinaria intensità e serietà sia etica che psicologica.

"Se l’uomo non avesse una coscienza eterna, se al fondo d’ogni cosa ci fosse solo una potenza selvaggia e ribollente che produce ogni cosa, il grande e il futile, nel turbine d’oscure passioni; se il vuoto senza fondo, che nulla può colmare, si nascondesse sotto le cose, che cosa sarebbe la vita, se non disperazione? Se così fosse, se non ci fosse alcun sacro legame che unisse gli uomini, se le generazioni si rinnovellassero come le fronde dei boschi, spegnendosi l’una dopo l’altra come il canto degli uccelli nelle foreste; se le generazioni attraversassero il mondo come la nave l’oceano o il vento il deserto, atto cieco e sterile; se l’oblio eterno sempre affamato non trovasse altra potenza alcuna tanto forte da strappargli la preda per la quale è in agguato, che vanità e che desolazione sarebbe la vita! [Leggiamo in agguato e non in aggiunta perché si tratta certamente di un refuso; cfr.anche: Kierkegaard, Opere, a cura di Cornelio Fabro, Firenze, Sansoni Editore, 1993, p. 45].

Kierkegaard, che aveva una grande conoscenza della filologia classica, anche se non amava farne sfoggio particolare, certamente avrà avuto una reminiscenza omerica in quel rinnovarsi delle stirpi come le foglie della foresta che ricorda il discorso di Glauco a Diomede nel VI canto dell’Iliade, 146-149.

Poi l’Autore afferma che, al contrario, «nessuno sarà dimenticato, di coloro che furono grandi», e che certo l’eroe è un uomo grande, ma anche il poeta ha un compito grande, benché apparentemente umile: quello di bussare di porta in porta per destare ovunque la stessa ammirazione che lui stesso nutre per l’eroe, sottraendolo così all’oblio, desideroso di cancellarne il ricordo. Ma chi è, poi, l’eroe? Chi è colui che può dirsi "grande"? E risponde:

«No, nessuno sarà dimenticato di quelli che furono grandi; ma ciascuno fu grande a suo modo, ciascuno in proporzione alla grandezza che amò. Perché chi amò se stesso fu rande nella propria persona e chi amò altrui fu grande perla sua dedizione; ma chi amò Dio fu il più grande di tutti.

"Ognuno rimarrà nel ricordo; ma ognuno fu grande secondo quello che sperò. Uno fu grande sperando il possibile; un altro sperando l’eterno; ma chi sperò l’impossibile fu il più grande di tutti.

"Ognuno rimarrà nel ricordo, ma ognuno sarà grande secondo l’importanza di quel che combatté. Perché chi combatté contro il mondo fu grande trionfando sul mondo, e chi combatté contro sé stesso fu più grande per la vittoria su sé stesso, ma chi lottò contro Dio fu il più grande di tutti."

E qui comincia l’elogio di Abramo vero e proprio. In che cosa consistette la grandezza di Abramo? Nel credere, contro ogni speranza, alla promessa di Dio. La sua grandezza non inizia con l’eroica disponibilità a sacrificare suo figlio Isacco, ma con l’eroica disponibilità a partire dalla Mesopotamia per dirigersi verso la "terra promessa".

"Ci furono uomini grandi perla loro energia, per la saggezza, la speranza o l’amore. Ma Abramo fu il più rande di tutti: grande per l’energia la cui forza è debolezza, grande per la saggezza il cui segreto è follia, grande per la speranza la cui forza è demenza, grande per l’amore che è odio di se stesso. Fu per fede che Abramo lasciò il paese dei suoi padri e fu straniero in terra promessa. Lasciò una cosa, la sua ragione terrestre, e un’altra ne prese: la fede. Altrimenti, pensando all’assurdità del suo viaggio, non sarebbe partito. (…)

"Fu per fede che Abramo ricevette la promessa che tutte le nazioni della terra sarebbero state benedette nella sua posterità. Il tempo passava, la possibilità rimaneva. Abramo credeva. Il tempo passò, la speranza diventò assurda, Abramo credette. È pur esistito nel mondo colui che ebbe una speranza. Il tempo passò, la sera fu al suo declino e quell’uomo non ebbe la viltà di rinnegare una speranza, così anch’egli non sarà mai dimenticato. (…)

"Grande è coglier l’eterno, ma è più grande cosa riavere il transeunte, dopo averne fatta rinuncia.

"Poi i tempi furono compiuti. Se Abramo non avesse creduto, sicuramente Sara sarebbe morta di dolore, e lui, roso dalla tristezza, non avrebbe compreso l’esaudimento, ma ne avrebbe sorriso come di un sogno giovanile. Ma Abramo credette, e perciò rimase giovane. Perché chi spera sempre il meglio invecchia tradito dalla vita, e chi si dispone sempre al peggio è presto consunto; ma chi crede serba una eterna giovinezza. Sia benedetta questa storia! Perché Sara, benché anziana d’età, fu abbastanza giovane per desiderare le gioie della maternità; e Abramo, malgrado i suoi capelli grigi, fu abbastanza giovane per desiderare d’esser padre."

La promessa divina sembra adempiuta; Sara ha avuto un figlio maschio, premessa a quella numerosa posterità che ad Abramo era stata annunziata; la gioia è scesa sulla sua casa. Ma ecco che arriva una nuova, terribile prova; ecco che tutto è di nuovo in forse, e un’angoscia terribile entra nel cuore di Abramo: Dio lo mette alla prova con una nuova, perentoria richiesta: sacrificargli il figlio unigenito.

"Così, dunque, tutto era perduto, oh sciagura atroce più che se il desiderio non fosse mai stato esaudito. Così il Signore si prendeva giuoco di Abramo! Ecco che, dopo aver realizzato l’assurdo con un miracolo, voleva veder annientata l’opera sua. Che pazzia! (…)

"Tuttavia, Abramo credette; e credette per questa vita. Certo, se la sua fede fosse stata rivolta esclusivamente ad una vita avvenire, si sarebbe sbarazzato più facilmente di tutto, per uscir al più presto possibile da un mondo a cui non apparteneva più. (…) Ma Abramo aveva la fede per questa vita…"

Abramo ebbe un unico figlio e lo amò con tutto sé stesso; Giacobbe ne ebbe dodici e ne amò uno solo. Proprio quell’unico figlio, a lungo desiderato e giunto, infine, contro ogni umana ragionevolezza, ora Dio glie lo chiedeva in olocausto. Se Abramo fosse stato un grande secondo la misura degli uomini, sarebbe salito sul Monte Moriah e avrebbe sacrificato sé stesso, pregando Iddio di accettare quell’estremo sacrificio, e non l’altro, quello dell’unico figlio. Ma la grandezza di Abramo era superiore alla misura umana, ed egli, col cuore serrato nella morsa dell’angoscia, levò il coltello contro Isacco. Egli non dubitò: la richiesta veniva a Dio, dunque bisognava obbedire. E credere. Così, in virtù di quella fede erica, Abramo fu degno di riavere ogni cosa: il figlio gli venne lasciato, e non gli sarebbe stato richiesto mai più. Aveva superato la prova e vinto la battaglia: per questo si era guadagnato una gloria eterna, che mille lingue continuano a celebrare a secoli e secoli dalla sua morte.

PROBLEMATA

Nella Effusione preliminare a questa parte entrale del libro, Kierkegaard riflette sul significato che la storia di Abramo dovrebbe avere nella vita di un cristiano d’oggi. Immagina un predicatore che la racconta, un peccatore che la ascolta, e mostra come la tendenza ormai prevalente è quella di appiattire e di banalizzare l’enormità dello scandalo che la fede comporta, sotto una vernice borghese e rassicurante. Certo, si dice e si ripete che Abramo era pronto a sacrificare a Dio il meglio di ciò che possedeva; ma, con ciò, si presenta come cosa generica e quasi ovvia una decisione straziante, apparentemente assurda e, oltre tutto, apparentemente immorale che Abramo dovette prendere sulla sola scorta della fede. Infatti,

«se la fede non può giustificare il fatto di voler uccidere il proprio figliuolo, Abramo cade sotto il giudizio comune. Che poi, se non si ha il coraggio di andare fino in fondo al proprio pensiero e dichiarare Abramo un assassino, è meglio sempre acquistar quel coraggio piuttosto che perdere il tempo in panegirici immeritati. Dal punto di vista morale, la condotta di Abramo si esprime dicendo ch’egli volle uccidere Isacco, e dal punto di vista religioso, dicendo ch’egli volle sacrificarlo. È questa la contraddizione angosciosa capace di produrre l’insonnia e senza questa angoscia, tuttavia, Abramo non è l’uomo che è."

Per parte sua, Kierkegaard si dice in grado di andare sino al fondo di un’idea, senza spaventarsene; o, almeno, di avere semmai abbastanza coraggio da ammettere che un’idea, ad un certo punto, gli fa paura. Lo stupisce, però, e lo sconcerta la disinvoltura con la quale i credenti dicono di poter comprendere la storia di Abramo; perché in essa vi è, al contrario, qualche cosa di umanamente incomprensibile e perfino di repulsivo. Né manca una frecciata, incidentale, contro Hegel e la sua dialettica; la frecciata principale, però, è contro la faciloneria di quei filosofi, magari "cristiani", che dicono di trovare più semplice la storia di Abramo che il sistema hegeliano.

"Dev’essere difficile comprendere Hegel; ma Abramo! Uno scherzo. Superare Hegel, è un prodigio; ma superare Abramo, nulla di più facile! Per conto mio, ho impiegato gran tempo nello studio del sistema hegeliano, e credo anzi di averlo abbastanza capoto. Sono persino tanto temerario da credere che, quando malgrado tutti i miei sforzi, non arrivo ad afferrare il suo pensiero in taluni passaggi, ciò voglia dire che il mio autore non è abbastanza chiaro con sé medesimo. Io compio quello studio assai facilmente, in modo affatto naturale, né esso mi dà il mal di capo. Ma, quando mi metto a riflettere su Abramo, sono come annientato. Ad ogni istante i miei occhi cadono sull’inaudito paradosso ch’è la sostanza della sua vita. Ad ogni istante sono respinto indietro e, malgrado il suo appassionato accanimento, il mio pensiero non può penetrar quel paradosso neppure per un capello. Tendo ogni muscolo nella ricerca di una via di uscita. E, simultaneamente, sono paralizzato.(…)

"Ho visto con i miei propri occhi cose terribili e non sono indietreggiato per spavento; ma so benissimo che, se lo ha affrontate senza paura, il mio coraggio non è quello della fede e non è nulla al suo confronto. Io non poso fare il movimento della fede, non poso chiudere gi occhi e gettarmi a testa bassa, pieno di fiducia nell’assurdo. Ciò mi è impossibile; ma non me ne glorio. Ho la certezza che Dio è amore…"

Kierkegaard ammette che, se la chiamata del dio di Abramo fosse giunta a lui, sarebbe salito sul Monte Moriah e avrebbe sacrificato il suo unico figlio: ma lo avrebbe fatto con infinita rassegnazione, sulla base del fatto che Dio è amore ma, nella sfera del temporale, non vi è un linguaggio comune tra Lui e noi. La rassegnazione è solo un surrogato della fede: quella di Abramo è stata la vera fede, la fede carica di speranza; non l’enorme stanchezza della rassegnazione: un movimento progressivo dell’anima, non una specie di resa incondizionata. Perciò, il Nostro si sente molto più piccolo di Abramo, anche se altri – dall’esterno – potrebbero giudicare diversamente. La grandezza di Abramo consiste nel fatto che egli credette per assurdo, e contro ogni umana speranza.

"Credette per assurdo, perché non si poteva trattare di un calcolo umano. E l’assurdo era nel fatto che Dio, domandandogli quel sacrificio, avrebbe revocato la sua esigenza un momento dopo. Salì il monte, e persino nell’attimo in cui levò il coltello credette – che Iddio non gli avrebbe chiesto Isacco. Certo Abramo fu sorpreso per la soluzione della cosa, ma, con un doppio movimento, egli aveva già raggiunto la sua condizione originaria, e perciò ricevette Isacco con gioia anche più grande della prima volta.(…)

"Se fosse stato un uomo diverso, avrebbe forse amato Iddio, ma non avrebbe creduto; perché amar Dio senza aver la fede, significa rispecchiarsi in sé stessi, ma amar Dio con la fede, significa rispecchiarsi in Dio

"Questa è la vetta sulla quale è Abramo."

Poi Kierkegaard descrive come potrebbe essere, secondo lui, un «cavaliere della fede» dei nostri giorni, pur precisando che un uomo simile non l’ha mai incontrato e che, se lo incontrasse, lascerebbe ogni cosa per correre a vederlo e ammirarlo, senza stancarsene mai. Potrebbe essere, dunque, un uomo dall’apparenza comunissima; un uomo dall’aspetto di un agente delle tasse, uno che se ne va passeggio per la via, vestito da bravo borghese, e che s’interessa di ogni cosa camminando con passo sicuro, senza disdegnare le prelibatezze della cucina che sua moglie suole preparargli. Nulla, dall’esterno, lascerebbe trapelare il suo segreto; nulla tradirebbe la sua natura eccezionale, dissimulata sotto l’apparenza ella più comune normalità.

"Eppure (è una cosa da diventar furioso, almeno di invidia) quest’uomo ha compiuto e compie a ogni istante il movimento infinito. Egli vuota nell’infinita rassegnazione la melanconia profonda della vita. Conosce la beatitudine dell’infinito. Ha provato il dolore della totale rinunzia di quanto si ha di più caro al mondo. Nondimeno, gusta il finito con la pienezza di movimento di chi non ha mai conosciuto nulla di più elevato. Vi dimora senza traccia del tirocinio che l’inquietudine e il timore fanno subire, e ne gode con tale certezza che sembra non vi sia per lui nulla di più sicuro che questo mondo finito. Eppure tutta l’immagine del mondo che egli produce è una creazione nuova, dovuta all’Assurdo. Si è infinitamente rassegnato a tutto, per poter tutto riacquistare in virtù dell’Assurdo. Compie costantemente il movimento ma con una tale precisione e sicurezza che ne ricava incessantemente il finito, senza che neppure per un istante sia possibile supporre qualcosa di diverso."

Se già in queste ultime righe si può intravedere qualche cosa di autobiografico (non nel senso che Kierkegaard si ritenesse un cavaliere della fede, ma nel senso che aspirava ad assomigliare a un tale modello), poco dopo il riferimento alla sua personale – e, per certi aspetti, misteriosa – vicenda con Regina Olsen diviene abbastanza esplicito.

"Un giovane dunque si innamora di una principessa. Tutta la sostanza della sua vta è in quell’amore. E tuttavia la situazione è tale che l’amore non può realizzarsi né tradurre la sua idealità in realtà.

"I miserabili schiavi, ranocchie sprofondate nelle paludi della vita, gridano, naturalmente: «Che follia, quell’amore! La ricca vedova del birraio è un partito proprio altrettanto conveniente e serio». Ma lasciamoli tranquillamente gracidare nel loro fango Il cavaliere dell’infinita rassegnazione non li ascolta. Non rinuncia al suo amore neppure per tutta la gloria del mondo. (…)

"Quando egli ha così completamente assorbito l’amore e vi si è sprofondato , ha ancora il coraggio di tutto osare e rischiare. Abbraccia la vita con uno sguardo, riunisce i suoi rapidi pensieri , che, simili a colombe di ritorno alla colombaia, accorrono ad un minimo cenno; agita su di loro la bacchetta magica ed essi si disperdono ad ogni punto dell’orizzonte. Ma quando ritornano tutti, come tanti tristi messaggeri, per annunziargli l’impossibilità, egli rimane tranquillo, li ringrazia, e, rimasto solo, intraprende il suo movimento.(…)

"Il suo amore per la principessa è diventato per lui l’espressione di una amore eterno. Ha assunto un carattere religioso. Si è trasfigurato in un amore che ha per oggetto l’essere eterno, che certo ha rifiutato di esaudire il cavaliere, ma l’ha, nondimeno, tranquillizzato, dandogli la coscienza eterna della legittimità del suo amore, sotto una forma di eternità che nessuna realtà può strappargli. Gli sciocchi e i giovani si vantano che tutto è possibile all’uomo. Che errore! Dal punto di vista spirituale, tutto è possibile; ma nel mondo del finito, ci sono molte cose impossibili. Eppure il cavaliere rende possibile l’impossibile, esprimendolo spiritualmente; ma egli lo esprime spiritualmente mediante la rinuncia. Il desiderio, che voleva condurlo nella realtà e che si è urtato nella impossibilità, ripiega nel fòro intimo; ma non per questo è perduto né dimenticato. Talvolta il cavaliere prova entro di sé gli oscuri impulsi del desiderio che ridestano il ricordo; talvolta lo provoca lui stesso. Perché è tropo fiero per ammettere che quanto fu sostanza della sua vita intera soia stata una faccenda effimera. Egli serba giovane quell’amore che cresce così in età e in bellezza! E non ha affatto bisogno d’un intervento del finito per favorire la crescita del suo amore. Fin dal momento in cui ha compiuto il movimento, la principessa è perduta. (…) Egli ha capito il profondo segreto. Che cioè, anche nell’amore, bisogna bastare a sé stessi. Non si interessa più, in un mondo finito, di quel che fa la principessa; e ciò prova appunto ch’egli ha compiuto il movimento infinito. Questa è l’occasione di vedere se il movimento dell’individuo è vero o è bugiardo. (…) Il cavaliere non abbandona la propria rassegnazione, conserva al suo amore la freschezza del primo momento. Non l’abbandona mai; e proprio perché ha compiuto il movimento infinito. La condotta della principessa non saprebbe turbarlo; soltanto le nature inferiori trovano in altrui la legge delle loro azioni, e fuori di sé le premesse delle loro risoluzioni. In cambio, se la principessa è nella stessa disposizione di spirito, vedrà sbocciare la bellezza dell’amore. Essa entrerà da sé nell’ordine dei cavalieri, dove non si è ammessi per votazione, ma di cui è membro chiunque abbia il coraggio di presentarsi da solo. (…)

"La rassegnazione infinita è l’ultimo stadio precedente la fede, di modo che chiunque non ha fatto quel movimento non ha la fede. Perché è soltanto nella infinita rassegnazione che io posso prendere coscienza el mio valore eterno, ed è soltanto allora che si pone il problema di afferrare l’esistenza di questo mondo in virtù della fede. "

Fin qui, Kierkegaard ha descritto sé stesso e la propria situazione spirituale dopo la rottura del fidanzamento con Regina. È consapevole di aver raggiunto solo uno stadio provvisorio, quello della infinita rassegnazione, che non è ancora la fede. Ora egli ritorna all’esempio del cavaliere della fede (quello che potrebbe avere benissimo l’aspetto di un agente delle tasse, un discreto appetito e una moglie che gli prepara buoni cibi per la cena), e mostra come costui sia in grado di compiere il movimento infinito nello stadio finale e risolutivo: quello nella fede.

"Vediamo ora il cavaliere della fede nel caso citato. Egli agisce esattamente come l’altro; rinuncia infinitamente all’amore, sostanza della sua vita. Si placa nel dolore. Allora accade il prodigio. Fa un movimento ancor più sorprendente di tutto il resto. E dice: «Io credo nondimeno che avrò colei che io amo, in virtù dell’Assurdo, in virtù della mia fede che ogni cosa è possibile a Dio». L’Assurdo non fa parte delle differenze comprese nel quadro della ragione. Non è identico all’inverosimile, all’inatteso, all’imprevisto. Nel momento in cui il cavaliere si rassegna, egli si convince dell’impossibilità secondo i criteri umani. Tale è il risultato dell’esame razionale che egli ha l’energia di compiere. In compenso, dal punto di vista dell’infinito, la possibilità sussiste, per via della rassegnazione; ma questo possesso è al tempo stesso una rinunzia, senza essere tuttavia un’assurdità per la ragione, perché questa conserva il diritto di sostenere che nel mondo finito, dove è sovrana, la cosa è e resta una impossibilità. Il cavaliere della fede ha, di quella impossibilità, una coscienza altrettanto chiara: la sola cosa capace di salvarlo è l’Assurdo, che egli concepisce per fede. Riconosce dunque l’impossibilità; e simultaneamente crede l’Assurdo. Perché se egli si immagina di aver la fede, senza riconoscere con tutto il suo cuore e con tutta la passione della sua anima l’impossibilità, egli inganna sé steso e la sua testimonianza non può essere ricevuta in alcun modo poiché egli non è nemmeno giunto alla infinita rassegnazione."

La fede, dunque, non è l’istinto del cuore, ma il paradosso della vita. La rassegnazione, da sola, non implica ancora la fede, ma solo la rivelazione della coscienza eterna.. Per rassegnarsi non è necessaria la fede: essa è invece necessaria per ottenere qualcosa al di là della propria coscienza eterna. Per mezzo ella fede e in virtù dell’Assurdo, il cavaliere della fede sa che riceverà in premio l’oggetto della sua rinunzia; mentre il cavaliere della rassegnazione non osa spingersi così lontano, e torna a rifugiarsi nel proprio dolore, nel dolore della rinuncia.

"Eppure dev’essere cosa magnifica ottenere la principessa. Io me lo ripeto sempre. E il cavaliere della rassegnazione che non se lo dica è un bugiardo che non ha mai conosciuto il desiderio e non ha conservato la gioventù del desiderio nel suo dolore. Forse ve ne sono, di quelli che troverebbero comodo vedere disseccarsi il desiderio e smussarsi la freccia del dolore: ma costoro non sono dei cavalieri. Un’anima ben nata che si sorprendesse in questi sentimenti si disprezzerebbe e ricomincerebbe e soprattutto non sopporterebbe d’essere lo strumento del proprio inganno. Eppure dev’essere cosa magnifica ottenere la principessa. Eppure il cavaliere della fede è il solo che sia felice, l’erede diretto del mondo finito, mentre il cavaliere della rassegnazione è un vagabondo straniero."

E qui Kierkegaard ritorna ad Abramo, e spiega perché sia così difficile parlare di lui in modo edificante, senza cadere nel ridicolo. Anche Abramo ha saputo rinunciare alla cosa che più amava al mondo, non con infinita rassegnazione ma con fede infinita, in virtù dell’Assurdo: per questo è stato un uomo grande, grandissimo.

"Se dovessi parlare di lui, rappresenterei anzitutto il dolore della prova. Vorrei succhiare come una sanguisuga tutta l’angoscia, la sofferenza e il martirio del dolore paterno per poter rappresentare quello di Abramo che tuttavia, in mezzo a tante afflizioni, continuava a credere. Vorrei allora ricordare che il viaggio durò tre giorni e una buona parte del quarto, e quei tre giorni e mezzo, io li farei durare infinitamente più a lungo delle migliaia di anni che ci separano dal patriarca. A questo punto ricorderei che, a parer mio, ciascuno può ancora far marcia indietro prima di salire a Moriah, può ad ogni istante pentirsi della sua decisione e tornare sui propri passi. Così facendo non correrà il pericolo di destare in taluno la voglia di essere provato come lo fu Abramo.

"Ma se si vuole smerciare un’edizione popolare ed economica di Abramo e diffidare al tempo stesso la gente dal fare come lui, si è semplicemente ridicoli.

PROBLEMA 1: ESISTE UNA SOSPENSIONE TELEOLOGICA DELLA MORALE?

La morale, osserva Kierkegaard, è il Generale che vale per tutti; riposa in sé stessa, senza nulla di esterno che sia il suo télos, il suo fine, poiché è essa il télos di tutto quanto la circonda. L’indivisuo, considerao nella sfera del sensibile, ha il suo télos nel Generale. Questo è il suo compito etico: esprimere sé stesso nel Generale, dissolvere in esso la propria individualità. Se questo è il télos dell’uomo e della sua vita, allora la morale non può essere abbandonata, cioè teleologicamente sospesa, perché in tal casa sarebbe anche perduta. Ma allora Hegel ha perfettamente ragione quando sostiene, nella sua Filosofia del Diritto, che tale determinazione «è una forma morale del male»; ma ha torto quando, parlando della fede, non protesta vivamente contro la venerazione che circonda la figura di Abramo, che dovrebbe essere esecrata come quella di un assassino. La fede, infatti, è quel paradosso per cui l’Individuo si isola e si porta al di sopra del Generale. Ma poiché, dice Kierkiegaard, da Hegel in poi si fa un gran chiacchierare della fede, senza chiarirne veramente il concetto, è necessario darne una definizione adeguata.

"La fede è, appunto, il paradosso secondo il quale l’Individuo, come tale, al di sopra del generale, è in regola di fronte a questo, non come subordinato, ma come superiore, e, nondimeno (si badi bene) in modo tale che l’Individuo, dopo essere stato come tale subordinato al Generale, diventa allora, per mezzo del Generale, l’Individuo come tale, superiore a quello; in modo che l’Individuo come tale è in un rapporto assoluto con l’Assoluto. Questa posizione sfugge alla mediazione, che si effettua sempre del Generale. Essa è e resta eternamente un paradosso inaccessibile al pensiero. La fede è questo paradosso, altrimenti (conseguenza che prego di voler ricordare continuamente per non dover infastidire il lettore ad ogni passo) altrimenti la fede non è mai esistita perché c’è sempre stata; in altre parole, Abramo è perduto."

Dunque, la storia di Abramo comporta una sospensione teleologica della morale. D’altra parte, la storia di Abramo è unica nel suo genere; né l’Antico Testamento, né la cultura greca ci presentano nulla di paragonabile ad essa. Abramo è veramente solo, senza predecessori, senza alcun precedente che possa fargli da bussola: solo con il suo dramma umano di padre al quale è chiesto da Dio, per motivi incomprensibili e apparentemente gratuiti, il sacrificio della sua creatura.

"(…) se, mentre u vento favorevole conduceva a vele spiegate la flotta verso il porto, Agamennone avesse spedito il messo a cercare Ifigenia per il sacrificio; se Jefte, senza esser legato a un voto dal quale dipendesse il sacrificio del popolo, avesse detto alla figlia: «Piangi per due mesi sulla tua breve giovinezza perché dopo io ti immolerò»; se Bruto avesse avuto un figlio senza macchia e avesse nondimeno inviato i littori per dargli la morte, chi li avrebbe compresi? Se, in risposta alla domanda: «Perché fate così?», avessero detto: «È una prova, ala quale siamo sottoposti, sarebbero forse stati compresi meglio?» (…)

"A questo punto, se si vuol comprendere Abramo, appare la necessità di una nuova categoria. Il paganesimo ignora questo genere di rapporto con la divinità; l’eroe tragico non entra in relazione privata con essa. Per lui la morale è il divino, onde il paradosso lo riconduce al Generale per via di mediazione.

"Abramo si rifiuta alla mediazione. In altri termini: non può parlare. Dal momento in cui parlo, io esprimo il Generale e, se taccio, nessuno può comprendermi. Se Abramo vuol esprimersi nel Generale, deve dire che la sua situazione è quella del dubbio religioso; perché non c’è nessuna espressione più alta, ricavata dal Generale, che stia al di sopra del Generale che egli trasgredisce.

Perciò egli mi spaventa, pur suscitando la mia ammirazione. Chi rinnega se stesso e si sacrifica al dovere, rinuncia al finito per afferrare l’infinito. E va con sicurezza. L’eroe tragico rinuncia al certo per il più certo e lo sguardo di chi lo contempla si posa fiducioso su di lui. Ma colui che rinuncia al Generale per afferrare una cosa più elevata che non è il Generale, che cosa fa mai?E se non fosse altro che una crisi? E se la cosa è possibile, ma l’individuo si inganna, che salvezza ci può essere per lui?».

Qui Kierkegaard tocca un tasto veramente delicatissimo. Perché noi possiamo dire, a posteriori, che la chiamata di Abramo era autentica e che egli è stato grande, grandissimo nel rispondere senza riserve alla richiesta di Dio: Ma prima che, sul Monte Moriah, Iddio all’ultimo istante gli fermasse la mano armata di coltello, chi avrebbe potuto esser certo che egli non s’ingannava, che la voce da lui udita non era frutto di una mente esaltata? Come può, il mistico, essere assolutamente, totalmente certo che quanto ode nel silenzio della sua anima venga proprio da Dio? È noto che, per i giudici di Calais, le "voci" di Giovanna d’Arca erano di provenienza diabolica; ed essi la condannarono al rogo come una strega. Anche nel bel romanzo di William Goldin La guglia il reverendo Jocelyn è il tipo dell’esaltato religioso che conduce, con fede incrollabile, i suoi seguaci verso la catastrofe: eppure quella fede è grandissima, ammirevole: e la richiesta divina non sembra – in quel caso – in contrasto con alcuna legge morale. Quale sottile confine separa dunque la visione autentica da quella inautentica, il fervore religioso dall’esaltazione e dal delirio? E se, in nome di una chiamata inautentica, l’individuo viola la legge morale e la viola nel più crudele dei modi, uccidendo il suo unico figlio: chi potrebbe mai allontanare dal capo di Abramo una eterna maledizione da parte di tutte quelle lingue che ora, invece, lo lodano incondizionatamente? Viene la qui la terribile solitudine di Abramo, la tragicità del suo silenzio, l’impossibilità di parlare con alcuna, meno che mai con Sara o con lo stesso Isacco. Egli è completamente, disumanamente solo: solo di fronte a Dio, solo di fronte al paradosso della fede, all’Assurdo. Certo, egli poteva anche essersi ingannato; poteva anche essere un pazzo, che tutti avrebbero poi, maledetto come un assassino.

"Ma se il solitario che salì la costa di Moriah, la cui cima è tanto più alta della pianura di Aulide di quanto il cielo è alto sulla terra, non è un sonnambulo che cammini tranquillamente lungo l’abisso, mentre, appié del monte, l’amico suo leva lo sguardo, tremando d’angoscia, di venerazione e di spavento, senza osare chiamarlo; se quell’uomo avesse la ragione turbata, se si fosse ingannato!

Certo, l’Individuo che, ispirato, sfida il Generale, cioè la morale, può sempre farsi forte della bontà dei risultati della sua azione, Ma i risultati, appunto, vengono dopo, dopo che la legge del Generale è stata infranta; e allora? La conclusione possibile, per Kierkegaard, è una sola: non esiste mediazione, non esiste alcun mezzo per comprendere la prova cui fu sottoposto Abramo, il mistero della lotta terribile che dilaniò la sua anima di credente.

"Nel tempo che precedette il risultato, o Abramo fu, ad ogni istante, un assassino, oppure noi siamo in presenza di un paradosso che sfugge a ogni mediazione.

"La storia di Abramo comporta anche una sospensione teleologica della morale. In quanto Individuo egli ha sormontato il Generale. Questo è il paradosso che si rifiuta alla mediazione. Non è possibile spiegare né come vi entri né come vi esca. Se il caso di Abramo non è questo, egli non è neppure un eroe tragico: è un assassino. È una sciocchezza seguitare a chiamarlo padre della fede e parlarne a gente preoccupata soltanto di parole. L’uomo può diventare un eroe tragico con le sue sole forze, ma non un cavaliere della fede. Quando un uomo prende il cammino, difficile, in un certo senso, dell’eroe tragico, molti possono essere in condizione di dargli un consiglio; ma chi segue la stretta via della fede, nessuno può aiutarlo, nessuno può comprenderlo. La fede è un miracolo: eppure, da quel miracolo, nessuno è escluso. Perché ciò in cui ogni vita umana trova la sua unità, è la passione: e la fede è una passione."

PROBLEMA 2: ESISTE UN DOVERE ASSOLUTO VERSO DIO’

Dobbiamo riportare, fin da subito, le parole di Kierkegaard, poiché non sarebbe possibile esprimersi con più incisività e con più chiarezza di quanto sa fare lui solo, nelle sue pagine più ispirate, come appunto questa,

"La morale è il Generale e, come tale, è anche il Divino. Si ha dunque ragione di dire che ogni dovere è, in fondo, un dovere verso Dio. Ma se non è possibile dire nulla di più, si finisce con l’affermare che, parlando rigorosamente, non ho nessun dovere verso Dio. Il dovere diventa dovere quando è riferito a Dio, ma, nel dovere in sé e per sé, io non entro affatto in rapporto con Dio. Così, per esempio, è dovere amare il prossimo: è dovere, in quanto questo amore è riferito a Dio. Eppure, in questo dovere, io non entro in rapporto con Dio, bensì col prossimo che amo. (…) Se si pensa di amare Iddio altrimenti, quell’amore diventa sospetto come quello di cui discorre Rousseau ,per il quale un uomo ama i Cafri invece di amare il suo prossimo."

Dopo un’altra frecciata contro Hegel, accusato d’inconseguenza nell’esaltare Abramo come "padre della fede" partendo da una premessa razionalistica (cfr. Logica, II, 2, 3), Kierkegaard enuncia vigorosamente l’essenza del paradosso rappresentato da Abramo, spingendo la sua riflessione verso vette ancora più alte.

"Il paradosso della fede consiste dunque nel fatto che l’Individuo è superiore al Generale, in modo che (per ricordare una distinzione dommatica oggi raramente impiegata) l’Individuo determina il suo rapporto col Generale mediante il suo rapporto con l’Assoluto e non già il suo rapporto con l’Assoluto mediante il suo rapporto col Generale. Si può anche formulare il paradosso dicendo che esiste un dovere assoluto verso Dio; perché, in questo dovere, l’Individuo si riferisce, in quanto tale in modo assoluto, all’Assoluto. In queste condizioni, quando si afferma che amare Iddio è un dovere, si esprime una cosa diversa a quella detta prima; perché, se questo dovere è assoluto, la morale scende al livello del relativo. Nondimeno, non consegue che la morale debba essere abolita; essa riceva piuttosto un’espressione affatto diversa, quella del paradosso di modo che, ad esempio, l’amore verso Dio può condurre il cavaliere della fede a dare al suo amore verso il prossimo l’espressione contraria a quanto, dal punto di vista morale, è il suo dovere.

"Se non è così, la fede non ha il suo posto nella vita, essa non è che una crisi; ed Abramo è perduto, in quanto ha ceduto ad essa.

"Questo paradosso non si presta ad esser mediato: perché riposa sul fato che l’individuo è esclusivamente l’Individuo. Quando vuole esprimere il suo dovere assoluto nel Generale e prender coscienza di quello in questo, riconosce d’essere in crisi e, malgrado la sua resistenza a questo turbamento, non arriva a compiere il sedicente dovere assoluto; e, se non lo compie, pecca, benché la sua azione traduca realiter quello che era il suo dovere assoluto."

Come dire che, se Abramo avesse giudicato sé stesso e l’azione che si apprestava a compiere sul Monte Moriah dal punto di vista morale, avrebbe dovuto compierla con cattiva coscienza, sentendosi un assassino, il che sarebbe equivalso a non compierla affatto: perché un’azione ordinata personalmente da Dio non può essere un male, bensì un qualcosa che sta al di sopra della morale, senza per questo abolirla. La fede è abbandono assoluto alla volontà di Dio; nessuna mediazione con la morale corrente è possibile, perché la sfera del religioso è distinta e superiore a quella dell’etica. «O l’Individuo diventa cavaliere della fede assumendo su di sé il paradosso, o non lo diventerà mai». Quindi, fra lo stadio dell’etica e quello della religione non vi è continuità, ma un salto, e – dal punto di vista umano – uno scandalo: lo scandalo della fede. Anche la chiamata di Maria Vergine, aveva detto Kierkegaard nell’esaminare ilproblema1, è scandalosa da un punto di vista puramente umano. Poi cita un famoso passo del Vangelo di Luca (XIV,26), ove Gesù ammonisce che "se alcuno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la sua moglie, i suoi figliuoli, i suoi fratelli, le sue sorelle e la sua stessa vita, non può essere mio discepolo». Dura è questa parola, eppure – sostiene Kierkegaard -non bisogna avere la viltà di volerla interpretare in maniera puramente allegorica o edulcorata. Perché una dottrina che, «quando sembra spaventare, fa marcia indietro e balbetta questa dottrina non val la pena che ci si alzi per seguirla».

Ancora una volta, per meglio chiarire il suo pensiero, Kierkegaard si serve del confronto fra la situazione dell’eroe tragico e quella del cavaliere della fede, paragonando le rispettive difficoltà e le rispettive solitudini.

"L’eroe tragico ha presto finito, presto termina il suo combattimento; compie il movimento infinito e trova la sicurezza nel Generale. Il cavaliere della fede invece non conosce riposo, la sua prova è continua, in ogni momento ha la possibilità di tornare indietro, pentendosi, in seno al Generale; e questa possibilità può essere crisi e può essere verità. Non può domandare a nessuno una spiegazione; perché altrimenti sarebbe fuori del paradosso. (…) L’eroe tragico può anche concentrare in un punto decisivo la morale che egli ha sorpassato teleologicamente; ma trova per questo un appoggio nel Generale. Il cavaliere della fede, in tutto e per tutto, non dispone che di sé stesso; da ciò il terribile della sua situazione. (…)

"Solo l’Individuo può decidere se si trova davvero in una crisi o se è cavaliere della fede."

A causa della solitudine tremenda a cui viene a trovarsi quando entra in relazione personale con l’Assoluto, il cavaliere della fede – osserva molto giustamente Kierkegaard – non diverrà mai un maestro per nessun altro; egli è e può essere solamente un testimone. Da ciò la sua profonda umanità, che ce lo rende caro nonostante il tremendum che lo avvolge come una nube. Ma non soltanto il sacrificio d’Isacco è un paradosso; la fede in quanto tale lo è, dal momento che il gesto di Abramo non è altro che un totale atto di fede, cioè di abbandono a Dio. Qui troviamo già, in nuce, quegli argomenti che, poi, Kierkegaard svilupperà ed espliciterà senza riguardo per gli altri o per sé stesso, nella durissima battaglia che condurrà contro il perbenismo ipocrita della Chiesa di Danimarca, basato – a suo giudizio – sulla negazione di un tale paradosso e di un tale scandalo, in una banalizzazione dell’assoluto rapporto con Dio.

"Dunque o c’è un dovere assoluto verso Dio, e, in questo caso, si tratta del paradosso che abbiamo descritto, secondo il quale l’Individuo ,come individuo, è al di sopra del Generale, e, come tale, in un rapporto assoluto con l’Assoluto; oppure non c’è mai stata fede, perché c’è sempre stata, ovvero anche Abramo è perduto, a meno che non si debba spiegare il testo di Luca (XIV) come ha fatto l’elegante esegeta, e interpretare nello stesso modo i passi corrispondenti e analoghi", ossia in modo edulcorato e puramente simbolico.

PROBLEMA 3. SI PUÒ GIUSTIFICARE MORALMENTE IL SILENZIO DI ABRAMO CON SARA, ELIEZER E ISACCO?

A questo interrogativo, che di primo acchito potrebbe sembrare il meno drammatico o comunque il meno pressante dei tre, Kierkegaard dedica invece molto più spazio che ai primi due. Se Hegel avesse ragione di porre la categoria della fede sullo stesso piano di quella dell’estetica, egli osserva, allora bisognerebbe ammettere che non esiste alcuna legittima interiorità nascosta, nessun legittimo incommensurabile, e tutto ciò che è morale dovrebbe anche, per ciò stesso, poter essere apertamente manifestato. Ma allora Hegel avrebbe torto nel definire Abramo il padre della fede; mentre ciò è vero per il fatto che la fede giace su un altro piano di realtà.

Poi Kierkegaard svolge una riflessione preliminare sull’essenza del dramma, sia antico che moderno, facendola precedere da un preambolo sul concetto dell’interessante, di cui massimo esempio umano sono stati il personaggio di Socrate e la sua intera vita. L’essenza del dramma, come già aveva osservato Aristotele nella sua Poetica, è costituita, come per la favola, da due elementi: la peripezia e l’agnizione, ossia il riconoscimento finale della cosa o del personaggio nascosto. Poi il nostro Autore fa una serie di esempi poetici, più o meno immaginari di situazione drammatiche, nelle quali sia implicata l’idea di un silenzio significativo da parte di una persona, che comporta un carico di responsabilità morale nei confronti della situazione e di altre persone. Agamannone, per esempio, nell’Ifigenia in Aulide di Euripide, deve sacrificare la figlia: l’estetica esige da lui il silenzio, «perché sarebbe indegno di un eroe andar chiedendo consolazione»; inoltre, per delicatezza verso le donne (la figlia e la moglie),deve tener celato il più a lungo possibile il proprio progetto. Davanti alle lacrime di Ifigenia e di Clitennestra, l’eroe si trova in grave difficoltà; ma Euripide, per salvare la dimensione estetica del dramma, fa in modo che un vecchio servitore sveli a Clitennestra il terribile segreto del marito; così il modo di agire di quest’ultimo acquista un senso, e ogni cosa torna al suo posto: Agamennone non è un sovrano senza cuore che vuole uccidere la figlia senza una ragione, ma un uomo che si piega al duro volere degli dei.

Però l’etica, osserva Kierkegaard, non conosce simili espedienti di natura estetica; nel dramma di Agamennone, annunciare apertamente la sua volontà di sacrificare la figlia richiede un coraggio sovrumano. E sovrumana è anche la forza d’animo necessaria per mantenere il segreto, perché il silenzio è una manifestazione del paradosso nei due sensi del divino e del demoniaco.

"Il silenzio è la trappola del demonio; più lo si mantiene, più il demonio è terribile. Ma il silenzio è anche la condizione nella quale l’individuo prende coscienza della sua unione con la divinità."

Poi, sempre citando Aristotele (dalla Politica, questa volta), Kierkegaard rievoca un curioso aneddoto : quello di un fidanzato di Delfi, al quale gli auguri avevano predetto una sventura dopo che si fosse sposato. Il giovane, allora, ruppe il fidanzamento e non si sposò (e noi possiamo capire, anche in questo caso, il particolare interesse di Kierkegaard per una simile storia: gli ricordava troppo la sua propria vicenda con Regina Olsen). Proprio quando, in processione, si stava recando alla casa della fidanzata per prenderla con sé, decise di on farlo e proseguì oltre, spezzandole il cuore per l’infelicità. Avrebbe dovuto spiegarle il significato della sua decisione, rivelandole la profezia di malaugurio? Oppure avrebbe fatto meglio a tacere, e sposarla lo stesso? Oppure, ancora, avrebbe dovuto tacere e non sposarla, come di fatto avvenne? L’etica ordinerebbe al fidanzato di parlare, di spiegare, fidando a buon diritto che gli altri comprenderanno la sua situazione, qualunque cosa egli decida circa il matrimonio; ma egli può anche tacere, ponendosi al di sopra dell’etica, in un rapporto personale con la divinità. Ma, in questo caso, egli potrebbe anche ingannarsi; potrebbe anche cadere in un mondo di pure fantasticherie.

Quindi Kierkegaard prende in esame la famosa storia di Agnese e del tritone. In essa, come sembra confessare a sé stesso in una pagina del Diario in cui commenta quella pagine di Timore e tremore, appare chiaro che si tratta di una trasfigurazione della sua vicenda sentimentale con Regina Olsen.. Infatti, dopo aver sedotto la fanciulla quasi per gioco, il tritone rimane profondamente commosso dall’amore fiducioso, incondizionato di lei, che vorrebbe davvero portarla per sempre con sé nel suo regno sottomarino; ma non può, perché dovrebbe iniziarla «al mistero della sua esistenza, dirle che in realtà egli è un mostro»; allora, disperato, decide di scomparire negli abissi del mare e fa credere alla fanciulla di aver voluto ingannarla. È perciò condannato al silenzio sulle vere ragioni di quell’abbandono e sulla natura dei suoi sentimenti per lei, un silenzio che non l’etica, ma solo la religione, possono sciogliere.

"Io posso dunque comprendere i movimenti del tritone, mentre Abramo mi resta inintelligibile; perché è appunto per paradosso che il tritone arriva a voler realizzare il Generale. Se, infatti, egli resta nel suo segreto, e impara tutti i tormenti del pentimento, egli diviene allora un demone ed è, come tale, annientato. Se resta nel suo segreto, ma giudica imprudente darsi da fare per la liberazione di Agnese, subendo il martirio della schiavitù del pentimento, trova la pace, certo; ma, per questo, è perduto. Se invece si manifesta e si lascia salvare da Agnese, è allora il più grand’uomo che io possa immaginare. Perché l’estetica, nella sua leggerezza, è la sola cosa che crede di lodare la potenza dell’amore, accordando ad un uomo perduto [ad un uomo, non a un tritone: questo lapsus calami tradisce il vero corso dei pensieri dell’Autore!] l’amore di una innocente fanciulla, che in questo modo lo salva; ma solo l’estetica commette l’errore di credere eroina Agnese, mentre questo epiteto va bene per il tritone. Egli non può dunque appartenere al tritone; a meno che, dopo aver compiuto il movimento infinito del pentimento, non ne faccia ancora un altro: il movimento in virtù dell’Assurdo. Egli può, con le proprie forze, compiere il primo, ma vi si sfinisce; e quindi gli è impossibile tornare indietro da solo ed afferrare la realtà. Se non si ha abbastanza passione, non si effettua né l’uno né l’altro di quei movimenti, se si sciupa la vita a pentirsi un po’, credendo che il resto andrà da sé, allora vuol dire che si è rinunciato una volta per tutte a vivere nell’idea."

Da questo brano noi possiamo capire alcune cose che, altrimenti, ci restano incomprensibili. Agnese, ossia Regina, era una fanciulla di sentimenti squisiti, ma non un’eroina; non avrebbe avuto la forza di comprendere e accettare il segreto del tritone, cioè di Kierkegaard. Pertanto quest’ultimo doveva trovare solo in sé stesso la forza di custodire il segreto e anche la sofferenza per aver illusa e abbandonata la dona amata. Egli ebbe questa forza, ma consumò nello sforzo tutte le sue energie; avrebbe voluto poter compiere il passo successivo, affidare a Dio la sua pena e trovarvi il premio insperato, come Abramo ebbe da Dio, in virtù della sua fede, il premio della salvezza di Isacco; ma non riuscì a compiere del tutto un tale movimento interiore. Rimase così sospeso, aspirando a divenire egli stesso un cavaliere della fede, ma non riuscendo mai a oltrepassare del tutto lo stadio di cavaliere della rassegnazione.

Straordinariamente acuto è poi il passaggio in cui Kierkegaard, che era un attento osservatore dell’animo femminile, lascia trasparire la consapevolezza che, se il tritone ha sedotto Agnese, non perciò ella è rimasta perfettamente estranea al processo che lo ha portato a invaghirsene; e molto appropriate sono le sue considerazioni sul ruolo che la donna, in generale, svolge nel fenomeno della seduzione, che non è mai del tutto univoco ma risulta piuttosto da un sottile e, per certi versi, ambiguo gioco di corrispondenze.

"Egli può sedurre Agnese, cento Agnesi, può affascinare ogni fanciulla, ma Agnese ha vinto ed è perduta per lui. Essa può appartenergli soltanto come una preda; lui, non può darsi con fedeltà a nessuna fanciulla; perché non è altro che un tritone. Mi sono permesso un piccolo mutamento, per il tritone, a un certo punto; in fondo ho un po’ imbellito Agnese; perché nel racconto essa non è completamente innocente, e d’altronde ci sarebbe non-sens, adulazione e offesa verso il sesso femminile, a immaginare una seduzione nella quale una fanciulla non ha nulla, assolutamente nulla da rimproverarsi Per modernizzare un po’ il mio vocabolario, l’Agnese della leggenda è una donna avida di interessante [la categoria considerata in precedenza dall’Autore, e di cui il massimo esempio umano era, per lui, Socrate], e ogni donna come lei può sempre esser sicura che un tritone non è lontano; perché i seduttori la indovinano, per così dire, a occhi chiusi, e si gettano su di lei come lo squalo sulla preda. E quindi è una enorme sciocchezza (o forse si tratta di una voce diffusa dal tritone)dire che una sedicente educazione preservi le fanciulle dai tritoni. La vita è più giusta, nella sua eguaglianza verso tutti; il solo aiuto contro il seduttore, è l’innocenza."

Poi Kierkegaard si sofferma brevemente sulla storia biblica di Tobia, concentrando però l’attenzione sul personaggio di Sara che, a suo giudizio, è la vera eroina della situazione. Anche in questo caso, le sue osservazioni appaiono straordinariamente acute e originali.

"Come cavaliere dal cuor coraggioso, Tobia agisce arditamente; ma ogni uomo che non ha quel coraggio è un vigliacco, tanto ignorante dell’amore quanto della sua condizione d’uomo; non sa che cosa valga la pena di vivere, non ha neppur compreso il piccolo mistero per il quale è meglio dare che ricevere; non la minima idea della grandezza di questo pensiero, che è meglio dare che ricevere; non ha la minima idea della grandezza di questo pensiero, che è molto più difficile ricevere che dare, voglio dire, quando si è avuto il coraggio di accettare la privazione senza diventar vile al momento della sventura. No, l’eroina di questo dramma è Sara. È a lei che voglio avvicinarmi, come non mi sono avvicinato mai ad una fanciulla o come non ho mai avuto, nel mio spirito, la tentazione di avvicinarmi a quelle delle quali ho letto la storia. Perché, quale amore verso Dio non è forse necessario, per volersi lasciar guarire, quando, fin dal principio, , si è tanto disgraziati senza propria colpa, quando si è un esemplare tanto mancato di umanità! Quale maturità morale ci vuole per assumere la responsabilità di permettere all’essere amato una simile impresa? [cioè, permettere a Tobia di sposarla, sapendo che il demonio Asmodeo lo ucciderà, come ha già fatto con i sette mariti precedenti]. Che fede in Dio per non odiare il momento seguente l’uomo al quale essa deve tutto!"

Infine, dopo aver preso in esame il dramma di Faust e Margherita, Kierkegaard torna a quello di Abramo, da cui si era temporaneamente allontanato solo per meglio lumeggiare i risvolti nascosti ed inquietanti della sua situazione, del suo silenzio con gli uomini (Sara, Eliezer e Isacco) e della sua immensa fede in Dio. Di nuovo l’Autore riprende il paragone fra Abramo e l’eroe tragico, per sottolineare quanto sia più ardua la sua posizione, quanto più costretto alla solitudine e all’incomprensione il suo animo.

"L’autentico eroe tragico si sacrifica al Generale con tutto quel che gli è proprio; tutti i suoi atti e i suoi impulsi appartengono al generale; egli è il manifestato, e, in questa manifestazione, è il figlio prediletto dell’etica. La sua situazione non si applica però ad Abramo che non fa nulla per il Generale e rimane nascosto.

"Eccoci ancora di fronte al paradosso. O l’Individuo può, come tale, essere in rapporto assoluto con l’Assoluto, e allora la moralità non è lo stadio supremo; o Abramo è perduto. Non è un eroe, né tragico né estetico.

"In queste condizioni può ancora sembrare che non ci sia nulla di più facile del paradosso. Debbo dunque ripetere che, se lo si crede davvero, non si è affatto un cavaliere della fede, perché la sofferenza e l’angoscia sono la sola legittimazione concepibile, benché non sia possibile darle un’accezione generale; perché in questo modo si sopprime il paradosso.

"Abramo tace. Ma egli non può parlare. In questa impossibilità consistono la sofferenza e l’angoscia. Perché se, parlando, non posso farmi comprendere, io non parlo, anche se peroro giorno e notte senza posa. Questo è il cado d’Abramo; egli può dir tutto, eccetto una cosa, e, quando non può dirla in modo da farsi intendere, non parla. La parola conforta, perché mi permette di tradurmi nel Generale. Abramo può dire le più belle cose di cui sia capace la lingua umana, circa il suo amore per Isacco. Ma ha un’altra cosa nel cuore: ha una cosa più profonda, la volontà di sacrificare suo figlio, perché così è messo alla prova. Siccome nessuno può comprendere quest’ultimo punto, nessuno potrà pure comprendere il primo.

Segue una riflessione di natura estetica su quale sia l’ultima parola che si addice a un eroe tragico al culmine della situazione drammatica, e quale sia stata la parola pronunziata da Abramo. La parola di Abramo fu il silenzio: in questo, anche, si esprime la sua disumana solitudine e, per conseguenza, la sua grandezza.

"Si vede chiaro, a questo punto, che è possibile comprendere Abramo, ma soltanto come si comprende il paradosso. Posso benissimo ,per quel che mi riguarda, comprendere Abramo; ma al tempo stesso m’accorgo che non ho il coraggio di parlare e tanto meno di agire come lui. Non per questo dico che sia poca cosa quel ch’egli ha compiuto, quando è invece il solo prodigio.

"E che cosa pensarono i contemporanei dell’eroe tragico? Ch’egli era grande; e fu ammirato. E quel venerabile collegio di spiriti nobili, quel giurì che ogni generazione istituisce per giudicare la precedente, s’è espresso nello stesso modo. Ma non ci fu nessuno che comprendesse Abramo. E tuttavia a che cosa egli giunse? A rimanere fedele al suo amore. Ma chi ama Iddio non ha bisogno di lacrime né di ammirazione; dimentica la sofferenza nell’amore e in modo così totale che neppur resterebbe in lui traccia del suo dolore, se Iddio non se la ricordasse, perché Egli vede nel segreto, conosce la sofferenza, conta le lacrime e non dimentica nulla.

"O dunque esiste un paradosso per il quale l’Individuo è, come tale, in un rapporto assoluto con l’Assoluto; oppure Abramo è perduto."

EPILOGO

Nell’Epilogo, Kierkegaard riprende i temi introduttivi del libro. Con la graffiante ironia di cui è maestro, torna al tema -a lui caro – del regresso intellettuale e spirituale tipico della modernità, mascherato (come per il Leopardi de La ginestra o il fiore del deserto ) da saccente e boriosa presunzione.

"Una volta, essendo troppo diminuito, in Olanda, il prezzo delle spezie, i mercanti, per rialzarlo, fecero gettare in mare alcuni carichi. Si trattava di un imbroglio perdonabile e forse necessario. Ma noi abbiamo forse bisogno di un imbroglio simile nel mondo dello spirito? Siamo talmente sicuri di essere giunti al più alto punto, che non ci resti se non pienamente immaginare di non essere a quel punto, per aver tuttavia di che passare il tempo? È questo l’inganno di cui ha bisogno la generazione presente, era questa la virtuosità alla quale doveva essere educata o non ha essa invece spinto ad una sufficiente perfezione l’arte di ingannare se stessa?"

E risponde, con una domanda retorica, che la presente generazione ha invece bisogno di recuperare una fondamentale serietà nei confronti della vita, di vedersi amorosamente indicare i compiti cui essa è chiamata, di coltivare il nobile slancio dell’anima verso mete belle e al tempo stesso difficili. E afferma che, in tale senso, ogni generazione deve ricominciare il proprio lavoro come se fosse la prima: e noi possiamo ben concludere (anche se Kierkegaard non lo dice) che la concezione evolutiva del tempo è ingenua e arrogante, non è vero che il sapere e la saggezza di accumulano poco alla volta, come briciole di pane ammassate dalle formiche l’una dopo l’altra. Questo, infatti, sarebbe un movimento dialettico, che procede per sintesi degli opposti e comporta un progresso lineare o, in ogni modo, un progresso; mentre la vita, per Kierkegaard, è possibilità, angoscia, salto (in avanti, ma forse anche all’indietro): non et-et, ma aut-aut: questo o quello.

Ora, la generazione di metà Ottocento pretende di essersi spinta oltre in ogni campo del sapere e della vita, e dunque anche nel campo della fede. Oltre la fede stessa, cioè oltre il paradosso. Ma questo, per Kierkegaard, non è possibile: «se una generazione mostra una simile audacia, vuol dire che in essa c’è qualcosa di sbagliato». Il paradosso della fede, l’Assurdo dell’assoluto incontro dell’Individuo con l’Assoluto, è al limite estremo delle possibilità umane; e, anzi, solo pochissimi vi sono giunti, forse uno solo: il padre della fede, Abramo. La fede è la più alta passione dell’uomo: al di là di essa, da un punto di vista umano, c’è il nulla; parlando umanamente, solo l’Assoluto in quanto tale può propriamente collocarsi al di là delle fede, poiché esso si colloca al di sopra di tutte le cose finite.

"«Bisogna andar oltre, bisogna andar oltre». Questo bisogno di «andare oltre» è antico sulla terra. Eraclito l’Oscuro, che lasciò i suoi pensieri nei suoi scritti e i suoi scritti nel tempio di Diana (quei pensieri erano stati la sua armatura nella vita e perciò li sospese nel tempio), Eaclito l’Oscuro ha detto: «Non ci si può bagnare due volte nel medesimo fiume». Eraclito l’oscuro aveva un discepolo, costui non si fermò a quel pensiero, andò oltre e aggiunse: «Non ci si può bagnare neppure una volta». Povero Eraclito, che aveva un discepolo simile! La frase di Eraclito fu, con quella correzione, trasformata in una frase eleatica, negatrice del movimento. Eppure quel discepolo desiderava soltanto essere un discepolo di Eraclito che andasse oltre il maestro e non tornasse a quel che il maestro aveva abbandonato».

Con questa brillante osservazione, caustica ma sorridente, Kierkegaard conclude il suo libro.

Aggiungiamo soltanto che il titolo di essa, Frygt og Baeven (Timore e tremore), riprende un passo di San Paolo nella Lettera ai Filippesi (2, 12): «Datevi da fare per la vostra salvezza con timore tremore».

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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