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I poli nella letteratura: Crouzat, Jenkins, Zavatti

Proseguiamo la nostra panoramica della letteratura in relazione alle tematiche e alle ambientazioni polari, con tre scrittori della seconda metà del Novecento: un francese, un sudafricano e un italiano. I primi due, autori di due romanzi di successo, rispettivamente "L’isola in capo al mondo" (da cui fu tratto un film abbastanza noto) e "Mare, vento, ghiacci"; il terzo, non romanziere, ma studioso ed esploratore, autore fra l’altro di un "Viaggio all’isola Bouvet" che, già nel titolo, evoca situazioni ed atmosfere tipici della letteratura di viaggi esotici.

g) HENRY CROUZAT E "L’ISOLA IN CAPO AL MONDO".

Con una battuta un po’ crudele, si potrebbe definire quello di Henri Crouzat il classico caso di uno scrittore che ha avuto un grane futuro dietro le spalle. Infatti, solo pochi anni dopo l’uscita nelle librerie francesi del suo primo romanzo, il cinema si impossessa del soggetto e lancia un film piuttosto ambizioso che ne riprende fedelmente anche il titolo: L’île du bout du monde (l’isola in capo al mondo), nel 1959. La vicenda raccontata è un misto di esotismo e di dramma psicologico, che si può riassumere così: "Su un’isola deserta si rifugiano quattro naufraghi: tre donne e un uomo. Le violente passioni che si scatenano eliminano una alla volta le tre donne. Soltanto l’uomo si salverà." (1) Forte di un cast internazionale che comprende star come Christian Marquand (il protagonista maschile), Rossana Podestà, Dawn Addams e Magali Noël (le tre protagoniste femminili; o forse sarebbe meglio dire le deuteragoniste) e di una certa larghezza di mezzi economici, il regista Edmond T. Gréville – che si è già fatto notare nel 1948 con Nodo scorsoio, una produzione britannica sul mondo della droga e della prostituzione nel quartiere londinese di Soho, ma che da una decina d’anni non ha fatto più parlare di sé – ritenta la carta del successo con questo film altamente drammatico, alla cui sceneggiatura ha collaborato l’autore del romanzo. (2) Marquand ha già recitato in Lucrezia Borgia (1953), Attila (1954), Piace a troppi (1956), Un colpo da due miliardi (1957) e Teste calde (1958); la Podestà, che qualcuno ha definito "…fresca, giovane e seducente, rara fusione d innocenza e sensualità" (3), che si è rivelata nel 1951 con Domani è un altro giorno, sembra lanciata verso i vertici della popolarità dopo aver interpretato – fra l’altro – Le ragazze di San Frediano nel 1954 ed Elena di Troia nel 1955; la Addams viene dai trionfi di Un re a New York di Charlie Chaplin (1957) e Magali Noël aveva fatto sensazione uscendo nuda dall’acqua (ma in controluce, sicché il nudo si era solo intravisto) in Teste calde (1958). Paiono esservi, dunque, tutte le premesse per un buon successo della pellicola; invece – nonostante il bis della Noël sirena al bagno, l’accoglienza è inferiore alle aspettative…

La critica, a dire il vero, non lo recensisce in maniera del tutto sfavorevole; scive Paolo Mereghetti:

"Scampati al naufragio di una nave ospedale, un giornalista francese (Marquand), un’infermiera italiana (Podestà) e una inglese (Addams) e una segretaria canadese (Noël) si ritrovano su di un’isola deserta del Pacifico: le gelosie femminili e la lotta per la sopravvivenza scatenano l’inevitabile competizione. Poteva essere un pretesto per scavare nella psicologia e nell’erotismo degli esseri umani, ma finisce per scivolare in un voyeurismo continuamente censurato (solo nell’edizione francese si vede, fugacemente, la Noël che nuota nuda). Anche se la regia di Gréville sa tenere sempre viva la tensione. Ispirato al romanzo di Henri Crouzat, che collabora anche alla sceneggiatura di Louis A. Pascal e del regista." (4)

Ma chi è Crouzat, e che libro è quello che lo ha proiettato improvvisamente nel firmamento della prouzione cinematografica internazionale? Come scrittore, la sua vocazione è stata piuttosto tardiva. Nato ad Albi, in Provenza, nel 1912, ha compiuto diversi viaggi fra Europa ed Africa, formandosi una mentalità internazionale. Combattuto fra la passione per la marina da guerra e quella per la carriera diplomatica, ha preso parte alla seconda guerra mondiale. Esordisce nella letteratura con L’île au bout du monde, che appare in libreria nel 1954 per i tipi delle Éditions du Seuil di Parigi. L’editore ha fiutato un successo, e così è; il libro piace al pubblico e viene tradotto in diverse lingue. In Italia è tradotto dalla Rizzoli, nella importante collana di narrativa Sidera, nell’aprile dello stesso anno, con la traduzione di Maria Gallone e illustrazione di copertina di Tabet; nel 1963 è già arrivata al record della sesta edizione: merito anche del film (con una nota attrice italiana) che nel frattempo è stato distribuito nelle sale cinematografiche.

La vicenda del romanzo non è ambientata in un’isola del Pacifico (come nel film), ma nella parte meridionale dell’Oceano Indiano; e non è un’isola immaginaria e standardizzata, ma ha una precisa identificazione geografica: è Amsterdam o (secondo altra denominazione) Nuova Amsterdam, e fa parte delle Terre Australi e Antartiche Francesi (T. A. A. F.). "Sono circa 395.500 chilomertri quadrati suddivisi in tre distretti dell’Oceano Indiano, formati dagli arcipelaghi delle Kerguelen e di Crozet e dalle isole di Sain-Paul e di Amsterdam e da un distretto, quello della Terra Adelia, nel continente antartico." (5) E che non si tratti di un’ambientazione fittizia è confermato dalla presenza, nel volume, di una preziosa carta geografica di grande formato, corredata da alcuni profili dell’isola, riproduzione della carta nautica francese n. 5769, che conserva il sapore delle antiche stampe ottocentesche; e infatti è la medesima che illustra la Nouvelle Géographie Universelle di Elisée Réclus, il grande geografico e teorico dell’anarchismo. (6)

Veramente si potrebbe obiettare che l’isola Amsterdam, trovandosi alla latitudine di 37° nell’emisfero Sud, non può considerarsi sub-antartica né, tano meno, antartica, in senso stretto; tuttavia la sua posizione isolatissima, la violenza dei venti dell’Ovest (i famigerati "quaranta ruggenti", tanto temuto al tempo della navigazione a vela) e la mancanza di qualsiasi terra fra essa e l’Antartide, a parte la sua vicina Saint-Paul (meno di 100 km. a sud) ne rendono il clima di tipo temperato freddo e quasi sub-antartico; impressione rafforzata dall’estrema povertà della vegetazione arborea. (7) Ecco come la descrive una giornalista francese, che l’ha visitata una ventina d’anni fa:

"A meno di cento chilometri più a nord si fa scalo all’isola di Amsterdam, anch’essa, come Saint-Paul, risultato dell’emersione di un vulcano sottomarino. Qui opera la stazione permanente Martin de Viviès, creata nel 1949-’50 per le esigenze del Servizio meteorologico francese. I suoi abitanti, una trentina in tutto, hanno la fortuna di poter ammirare, sul lato orientale della costa, l’unica specie d’albero delle Terre Australi: la Phylica nitida, sorta di pino marittimo i cui rami, piegati dai venti, si distendono orizzontalmente.

"È qui inoltre che si può osservare l’uccello più raro del mondo, l’albatro d’Amsterdam, per lungo tempo confuso con l’albatro urlatore. La sua popolazione non supera i cinquanta esemplari e la specie è oggetto di attenti studi da parte degli zoologi della base. Un’altra curiosità di Amsterdam è rappresentata da una graziosa specie di otaria, riconoscibile per il muso e il petto macchiati di giallo. Pressoché sterminate in poche decine di anni dai cacciatori di foche che facevano commercio delle loro pelli, le otarie hanno da poco ricolonizzato l’isola e ve ne sono ormai migliaia sparse sulle nude rocce battute dai venti. Sulle alture si può osservare una mandria di un migliaio di buoi ormai inselvatichiti, conseguenza dello sbarco, avvenuto più di un secolo fa, di un contadino che portò con sé alcuni capi di bestiame. Nonostante che questi bovini costituiscano un vero flagello per la già scarsa vegetazione locale, non si ha il coraggio di sterminarli dato che rappresentano l’unica riserva di carne fresca per gli abitanti delle basi.

"L’isola di Amsterdam è l’ultima tappa del nostro gelido itinerario, ma alla gioia del ritorno si mescola un’insidiosa nostalgia che i ‘vecchi’ del T. A. A. F. conoscono bene…" (8)

Scoperte dalla spedizione di Magellano che tornava verso l’Europa dopo la morte dell’ammiraglio, nel 1522, Saint-Paul e Amsterdam giacciono, dunque, sul margine della fascia dei grandi venti occidentali e sono soggette a continui, bruschi cambiamenti meteorologici. (9) Hanno dovuto inoltre molto soffrire, nel corso del XIX secolo, per le distruzioni ambientali e specialmente floristiche, provocate direttamente o indirettamente dall’uomo. Ad esempio, gli albatros dell’isola Amsterdam sono stati quasi condotti all’estinzione solo perché fra i marinai europei si era diffusa la "moda" di applicare alle loro pipe un cannello ricavato da un osso di quell’uccello.

Osserva U. Scaioni: "Lo sterminio delle foche e dei pinguini obbedì a ragioni economiche: quello degli albatros servì soltanto a riempire il tempo libero dei cacciatori. Un altro flagello si abbatté su queste isole: moltitudini di topi seguirono gli sbarchi degli uomini e si lanciarono all’assalto dei nidi degli uccelli marini, facendone una vera razzia. La natura non aveva provveduto a creare in quei luoghi i naturali nemici dei topi che potessero limitarne i danni. I topi poterono così compiere indisturbati le loro scorribande ai danni degli uccelli, e a nulla valse la presenza di gatti, pure sbarcati dalle navi, perché questi preferirono dedicarsi anch’essi ai gustosi nidi di uccelli, piuttosto che alle loro tradizionali vittime. Se l’introduzione dei topi in quelle terre fu accidentale, del tutto volontario fu invece lo sbarco di maiali, ovini e bovini, che rifornivano i cacciatori di carne fresca. I maiali diventarono veri e propri specialisti in procellarie, un piccolo passeraceo del quale scoperchiavano col grugno i nidi sotterranei, distruggendo uova e pulcini. Pecore e mucche invece si diedero da fare con la vegetazione locale che annoverava poche specie, assai abbondanti e adatte al clima ma assolutamente ‘impreparate’ a svolgere il ruolo di pascolo per erbivori, dato che queste specie di animali non erano mai state presenti in quelle isole. Come risultato, i territori prima ricoperti da folta vegetazione furono ridotti a steppe semidesertiche, specialmente a Nuova Amsterdam. Per completare l’opera, questa stessa isola fu devastata nel 1950 e nel 1959 da giganteschi incendi, scoppiati per l’incuria di qualche occasionale visitatore." (10)

Abbiamo detto che, nel romanzo di Crouzat, l’isola è ben caratterizzata in senso geografico e naturalistico, tanto che si può affermare che essa non è un semplice sfondo della vicenda, un elemento paesaggistico di contorno, ma costituisce il cuore della storia, anzi ne è essa stessa, a ben guardare, la vera protagonista. Ci è sembrato giusto, pertanto, riservare al romanzo di Crouzat un posto nella nostra panoramica storica sulla presenza dei temi polari nella letteratura occidentale, a dispetto della sua posizione geografica e climatica che solo in senso generico si può considerare sub-antartica.

"Un uomo e tre donne – scrive M. Gallone – sono i personaggi di questo romanzo; un uomo giovane, abbastanza ingenuo perché le donne si divertano a prendersi giuoco di lui, ma abbastanza forte perché se ne innamorino, naufraga, durante l’ultima guerra, con tre bellissime infermiere inglesi [mentre nel film, come abbiamo visto, sono una italiana, una inglese e una canadese; e solo le prime due sono infermiere]; e i quattro superstiti approdano sulla classica isola deserta. L’isola esiste veramente, il libro ne riporta perfino la carta topografica. E l’isola è veramente la protagonista della vicenda, la divinità impassibile che assiste al dramma di queste creature. Liberate dalle convenzioni sociali e dai freni della civiltà, immerse in un mondo selvaggio nel quale le esigenze primordiali giganteggiano sovrane, esse si abbandonano a poco a poco alla violenza scatenata degli istinti, che culmina nella catastrofe finale. La gioia, il dolore, l’amore e l’odio appaiono qui allo stato puoe, non raddolciti da alcuna sfumatura; ed ogni pagina porta in sé il fuoco selvaggio che brucia e sconvolge i sentimenti e le passioni stesse che l’hanno acceso. Ma una vera e profonda significazione morale nasce dal libro, che pure potrebbe sembrare soltanto un inno pagano alle forze oscure che agitano l’uomo; ed è la necessità di mantenere sempre accesa, a qualunque costo, la fiammella dell’amore puro, della pace delle anime in una terra desolata; senza di essa, tutto è bassezza e rovina. E un’altra idea è adombrata nel romanzo: l’inestinguibile nostalgia d’ogni creatura per un’isola lontana e irraggiungibile, un’isola che in realtà vive soltanto nell’illusione del nostro cuore." (11)

Il fatto che tutta la storia si svolga entro la breve circonferenza di un’ isola oceanica piccola e disabitata e che i personaggi siano quattro all’inizio e uno solo alla fine (perché le tre donna muoiono una dopo l’altra) conferisce alla struttura narrativa un caratttere particolarissimo, quasi claustrofobico, a dispetto degli orizzonti marini sconfinati e dei vasti cieli nuvolosi. In effetti, la situazione complessiva e lo stesso ritmo narrativo ricalcano piuttosto l’atmosfera e gli schemi dell’opera teatrale, del dramma. L’azione è ridotta al minimo: non vi sono elementi estranei che possano turbare il groviglio delle passioni che legano in una spirale distruttiva gli abitanti provvisori dell’isola, scampati a un naufragio. Solo la prima parte del romanzo, delle cinque in cui è suddiviso (rispettivamente Patrizio, L’isola, Katleen, Vittoria, Joan) si svolge su una scena più ampia: narra le vicende del protagonista maschile, un giovane ufficiale dell’esercito francese che, con il suo reparto, si trova coinvolto nella rotta del maggio 1940 e s’imbarca a Dunkerque per l’Inghilterra. Un anno dopo, pilota d’aviazione, viene ferito sui cieli della Germania e trasferito in marina, ove s’imbarca sul Timberley Castle, una nave-ospedale che deve recarsi in Oriente via Capo di Buona Speranza. Giunta in pieno Oceano Indiano, essa viene silurata da un sommergibile tedesco che poi infierisce con raffiche di mitragliatrice sui naufraghi. Unici superstiti sono Patrizio e tre infermiere inglesi, tutte molto graziose, ma ciascuna dotata di un diverso tipo di fascino: un po’ come le tre donne della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso – Clorinda, Erminia e Armida – rappresentano in effetti tre diverse sfaccettature di uno stesso mistero femminile. Già sulla scialuppa, fin dalle prime ore, si manifestano i primi attriti: le ragazze vorrebbero fare rotta verso l’Africa, lontanissima; ma Patrizio si impone e approda all’isola Amsterdam che, benché disabitata, è a breve distanza dalla loro posizione.

Sull’isola si scatenano i giochi delle attrazioni, delle repulsioni, dell’istinto sessuale e del desiderio (Julien Greene direbbe: della fame dell’altro). Lontani dai condizionamenti e dai freni della civiltà, i quattro personaggi paiono regredire al livello dell’umanità primitiva, pur conservando una certa apparenza di persone civili. È come se le pulsioni dell’inconscio, represse nella vita ordinaria, avessero trovato un varco in quella situazione eccezionale per venire a galla; e la competizione fra le tre donne, a confronto delle quali Patrizio non appare che un ingenuo, si scatena senza esclusione di colpi. Vengono in mente le pagine famose de Lord of the flies (Il signore delle mosche) di William Golding – che è del 1954, dunque contemporaneo al romanzo di Crouzat – in cui un gruppo di ragazzini, scampati a un disastro aereo su un’isola selvaggia, si imbarbariscono fino ai livelli estremi della ferocia sanguinaria. Ma se quella di Golding è una classica utopia negativa, come lo è l’ancor più celebre 1984 di George Orwell, L’isola in capo al mondo non si spinge fino agli estremi del pessimismo esistenziale perchè, nonostante l’egoismo e l’avidità dei personaggi tendano a prevalere, in essi restano pur sempre un residuo di solidarietà e una capacità d’amare che, se pur stravolti dalle condizioni di ossessivo isolamento, a tratti riscattano la crudezza degli appetiti nella darwiniana strenght for life.

I tre caratteri femminili sono disegnati con abilità non convenzionale. Joan è sensuale, intelligente, estremamente decisa, dotata di una ferrea volontà dietro un’apparenza di fragilità fisica; quando vuole qualcosa non conosce ostacoli perché, in fondo, è una passionale. Kathleen è dolce, affettiva, generosa, leale, trasparente ma insicura; si sente inadeguata e par quasi ignorare i tesori di sensibilità che il suo animo racchiude. Vittoria, infine, è altera e sdegnosa, un tipo di bellezza aristocratica che disdegna i suoi occasionali compagni di avventura; eppure Patrizio, che da subito ne è attratto, intuisce il suo segreto: che sotto quel ghiaccio vi è un cuore capace di slanci ardenti. Il dramma finale si prepara e si consuma lentamente in questo ribollire di giochi incorciati, dove tutti sospettano di tutti e nessuno è quel che appare esteriormente. Quanto a Patrizio, egli passa dalle braccia dell’una a quelle dell’altra convinto di avere il controllo della situazione, e non si rende conto che, ogni volta, non è che un giocattolo nei disegni complessi e tortuosi delle sue compagne. Alla fine Joan, personaggio quasi satanico nella sua egoica linearità, uccide Kathleen con la scure, facendo poi credere che è stata assalita da un toro selvaggio (sull’isola vi sono alcune mandrie di bovini rinselvatichiti); indi elimina Vittoria, che per un periodo è stata la sua amante, e che ora aspetta un figlio dall’uomo: e di entrambi i delitti riesce ad apparire innocente. L’arrivo di una nave (dopo oltre un anno dallo sbarco dei naufraghi, mentre nel film i tempi sono brevissimi) segna però la fine dei piani di Joan: la quale, comprendendo che il ritorno alla civiltà segnerebbe la fine del suo dominio su Patrizio, decide di farla finita, non senza prima essersi presa il piacere di narrargli per filo e per segno – stando sull’orlo di un precipizio – i retroscena ch’egli ignora completamente.

"Finalmente sull’isola eravamo rimasti noi due soli. – dice Joan all’uomo. – Naturalmente bisognava ancora che io prevenissi un tuo timido tentativo di suicidio, non troppo violento, del resto, perché in findo tu ti ami troppo per farti sul serio del male; e ancora una volta bisognava che pazientassi, lasciassi agire il tempo.

"Dunque il mio regno, il mio regno assoluto, quello che aspettavo dal giorno del nostro sbarco sull’isola, era finalmente giunto. Ti ho avuto per me sola e come io ho voluto. Mai ho avuto l’impressione di essere tanto forte. Dominavo ogni cosa, e per dimostrarlo a me stessa, non potendo creare, mi compiacqui di distruggere. Con ebbrezza ho demolito tutto ciò che tu avevi costruito con pazienza e con amore. Ogni tua nuova disfatta rafforzava il mio potere, ogni tuo regresso ribadiva la mia autorità. Perché adesso ero io sola a comandare. Tu credevi di agire a tua guisa? No, ero io che ti guidavo e mi divertiva abbassare il sentimentale che tu sei al rango di creatura bruta.

"Come ho approfittato di quei momenti, Patrizio! Tu non sai la gioia che mi hai data…

"Un giorno ho avuto una grande paura… davanti alla nostra grotta arrancava una nave da guerra, come quella di stamane. Subito ti ho trascinato dalla parte opposta, e, poiché il tempo era cattivo, dovettero giudicare l’isola deserta e se ne andarono senza neppur tentare una ricognizione.

"Ma adesso quest’altra tu l’hai veduta, e gli uomini stanno per arrivare. Non voglio vederli. Come potrei tornare tra la folla dopo questa vita che ho avuta?" […]

"Tra qualche istante saranno arrivati. Quando li scorgerò da lontano mi butterò. Non sarà neppure necessario che tu segnali la mia presenza sull’isola. Tutti mi credono morta nel naufragio, e non ho famiglia. Non ho nessuno che ma ami. Patrizio, nessuno…capisci che cosa significa questo? Nessuno! La mia è stata una vita vuota, tutti mi hanno sempre trattata come una cagna… forse se tu mi avessi amata avrei cercato di vivere! Ma tu porti disgrazia, Patrizio mio, e fai tanto male senza saperlo, tanto, tanto male…

"Quando morrò voglio che tu mi guardi, voglio che tu non stacchi lo sguardo da me, che tu segua il mio corpo mentre cadrà e che tu vi appoggi sopra tutta la forza del tuo sguardo per farlo caderte più in fretta.

"Patrizio, ti ho amato sino a morirne e a uccidere, ma non sopporterei più di perderti. Io sarò la tua terza vittima. Arrivano, Patrizio, arrivano! Guardami bene, amore mio, guardami diritto negli occhi, non mi lasciare… addio, Patrizio, quanto ti ho amato…-.

"Ella barcollò per un attimo, come ebbra, le mani giunte sul petto, fragile e minuta nel gran vento del largo: quindi il suo corpo s’inclinò, e lentamente, gli occhi fissi nei miei, ella cadde. Le sue labbra erano dischiuse in un sorriso incantevole e purissimo, un sorriso che non le avevo mai veduto. Sembrava giovanissima… parve per un attimo aleggiare per l’aria, poi il suo corpo rimbalzò su una sporgenza rocciosa. Intesi un urlo decrescente: – Patri…zio – e, fantoccio smembrato cadente nel vuoto, ella disparve ai miei occhi dietro una roccia a strapiombo." (12)

Nel finale, specialmente in quella richiesta di Joan di essere accompagnata dall’odio dell’uomo nel suo volo mortale, vì è un’atmosfera che ricorda la conclusione de L’étranger (Lo straniero) di Albert Camus, pubblicato nel 1942: "Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, non mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio". (13)

Dicevamo, tuttavia, che il vero protagonista della vicenda è l’isola, con la sua natura selvaggia ed aliena, che assiste impassibile all’affannoso agitarsi delle passioni dei personaggi: ed è questa la ragione per cui abbiamo inserito questo romanzo nella panoramica della letteratura di soggetto polare. Vale la pena di citare la descrizione iniziale che il Crouzat fa di quel luogo remoto e inospitale, che ha qualcosa del documentario naturalistico ma anche, fra le righe, di quel particolare clima esistenzialista che si respira lungo tutte le pagine del libro. Non vi traspare alcun amore per la natura; la fauna dell’isola è guardata con l’occhio superficiale e sprezzante di chi ritiene che il mondo sia privo di senso e che, semmai, vada guardato col metro esclusivo dell’utile umano. Quella spiaggia brulicante d’innumerevoli pinguini, quel cielo quasi oscurato da una moltitudine di uccelli dallo stridìo assordante dipingono un quadro certamente suggestivo; ma la fretta giornalistica porta l’autore a cadere in un vero infortunio zoologico. Poiché tra gli abitanti dell’isola egli confonde le otarie (o, magari, gli elefanti di mare), con i trichechi i quali, invece, si trovano solo nel Mar Glaciale Artico.(14)

"L’isola si presentava come una immensa scogliera di basalto nero, striata a tratti di rosso, incredibilmente alta. Sapevo che misurava più di ottocento metri di altezza e che sulla vetta si stendeva un vasto pianoro che era impossibile scorgere.

"Già da diverso tempo ci stava circondando un vero nugolo di uccelli di tutte le specie che si erano uniti ai nostri compagni e facevano ora un baccano infernale. L’immensa scogliera nera pareva fremere davanti a noi del movimento delle loro ali, ed era come percorsa da un lungo brivido quando un gruppo compatto si levava in volo. Sapevo che la parete sud-orientale era inaccessibile, ma che il lato opposto offriva una possibilità di sbarco. Costeggiai con il canotto le rive scoscese dell’isola, cercando con lo sguardo il punto di sbarco che avevo veduto segnato sulle carte, e che mi pareva situato a nord-ovest; ma avevo un bel seguitare a costeggiare la scogliera, non vedevo nulla all’infurori di quella gigantesca muraglia assolutamente inaccessibile, sulla quale cresceva una vera foresta di giunchi.

"Più lontano la cintura di scogli si abbassò finalmente, sembrando riprendere il livello del mare. Curvo sui remi, spingevo il canotto, sempre circondato da una nuvola di uccelli, verso il punto agognato." […]

"Soltanto lo sbalordimento del primo viaggiatore che sbarcasse sulla luna si potrebbe paragonare a quello che provai io allorché presi contatto col suolo dell’isola di Nuova Amsterdam, con la sola differenza che la luna, come affermano gli astronomi, è priva di abitanti.

"Intorno a noi, invece, la vita brulicava, eravamo circondati da migliaia e migliaia di pinguini, stretti in file serrate. Era un vero miracolo che si scostassero per lasciarmi passare. Alti un metro circa, avevano il dorso rivestito di un sontuoso mantello di corte dai riflessi corvini, e sul ventre, faceva bella mostra di sé uno sparato di un candore così abbagliante che avrebbe potuto benissimo servire per la propaganda pubblicitaria di una celebre marca di sapone. Su ciascun lato, e sulla testa, erano adorni di una bizzarra e inattesa macchia arancione che faceva pensare alle cuffie da notte delle nostre nonne. Il loro aspetto era quello grave, compassato e dignitoso di un presidente di tribunale nel pieno esercizio delle proprie funzioni. Il lungo becco appuntito levato in aria, sembrava che mi studiassero curiosamente, che mi squadrassero come farebbe un maggiore medico durante una visita di controllo. A conti fatti non mi dovettero trovare di loro gradimento perché un certo numero di loro, più sussiegosi che mai, dondolandosi sulle corte e grosse zampe, il ventre obeso tutto portato in avanti, i moncherini delle ali allargati in segno di disperazione o di disgusto, preferì tornare in acqua. Gli altri, una volta soddisfatta la curiosità, non si curarono più di noi, e ci volsero decisamente la schiena, non senza aver prima manifestato con energici ‘urr, urr, urr’ tutta l’indignazione suscitata in loro dalla nostra presenza.

"Dal largo la corta spiaggia mi era parsa disseminata di numerose rocce. Ora di rocce ve n’era sì qualcuna, ma vi erano pure quelli che io avevo scambiati per massi, e cioè enormi, maestosi, giganteschi trichechi. Benchè sapessi del loro temperamento pacifico, il loro aspetto mi causò a tutta prima un vero terrore. Immaginate dei corpacci di varie tonnellate, dall’aria tutt’altro che rassicurante, che vi guardano incolleriti e manifestano la loro disapprovazione per la vostra visita inopportuna con la stessa acredine che può avere una giovane sposa per il vecchio zio che venga ad augurarle la buonanotte in camera la sera delle nozze… Per giunta erano francamente brutti. I loro occhi neri e completamente tondi, come tracciati col compasso, erano privi di palpebre e riflettevano unicamente un’intensa ma rassicurante stupidità. Sono sempre stato convinto che tutta l’esistenza interiore di una creatura, la sua cattiveria e la sua bontà, sia concentrata negli occhi: negli occhi di quei trichechi non vi era se non un vuoto assoluto, una idiozia totale, una passività beata. Il più piccolo serpentello dallo sguardo crudele mi avrebbe fatto arretrare; ma, una volta valutato l’avversario, quei poveri mucchi di carne oleosa mi fecero soltanto ridere. Eseguivano, tuttavia, come se stessero sul palcoscenico, tutto quello di cui erano capaci per intimidirci: sbandieravano all’aria una ridicola proboscide da elefante nano che gonfiavano emettendo ruggiti sincopati, sfortunatamente intramezzati da sternuti ridicoli che facevano spalancare le loro vaste gole rosa dalle quali sporgevano enormi canini appuntiti, i quali, in altri animali, avrebbero ispirato il più profondo rispetto: drizzavano i baffi come condottieri del Rinascimento e ancheggiavano goffamente alla maniera dei fidanzati di campagna quando si recano a chiedere ufficialmente la mano della promessa sposa. Quando ci avvicinammo, quelle comiche montagne di carne se la diedero a gambe, fuggendo ventre a terra, tardi, nobili e grotteschi insieme.

"Ciò che tuttavia sussisteva di loro e s’imponeva alla nostra attenzione era un lezzo di olio rancido e di putridume che emanava da tutta quella massa di animali accalcati entro uno spazio ristretto e che ammorbava l’atmosfera.

"Eravamo circondati da una immensa folla di uccelli. Non ero in grado di riconoscerli tutti, e francamente sarei stato incapace di raccapezzarmi se non mi avessero soccorso le letture recenti unite alle mie cognizioni di storia naturale. Quei piccioncini bianchi dal becco chiuso in una buffa guaina nera erano chioni, e megalestri si chiamavano quei grandi gabbiani scuri dall’aria feroce. Gli enormi uccelli bianchi intenti alla cova sulle alture erano sicuramente albatri di una specie diversa da quella cui erano appartenuti i nostri compagni di viaggio, e quegli altri, dal collo lungo e dal becco largo, erano smerghi.

"Ma che folla, che folla, per l’amor del cielo! E io che avevo creduto l’isola deserta!"(15)

Naturalmente, è possibile interpretare tutta la vicenda del romanzo anche in chiave simbolica e filosofica. L’isola in capo al mondo sarebbe, in questo caso, una metafora della vita, un po’ come il teatro di Pirandello vuol essere un tentativo di rappresentazione del teatro della vita umana. Nel corso di una conversazione con il filosofo russo P. D. Ouspensky, avvenuta nella casa di cura ove si era ricoverata alla ricerca di un’impossibile guarigione dalla tubercolosi giunta all’ultimo stadio, la scrittrice neozelandese Katherine Mansfield disse, poche settimane prima di morire: "Ho compreso che questo è vero, e che non vi è altra verità. Voi sapete che da lungo tempo ho considerato tutti noi, senza eccezione alcuna, come naufraghi perduti su di un’isola deserta, ma che non lo sanno ancora. Ebbene, quelli che sono qui lo sanno. Gli altri, là, nella vita, pensano ancora che una nave arriverà domani e che tutto ricomincerà come ai bei tempi. Ma coloro che sono qui sanno già che non ci saranno ‘bei tempi’. Sono molto felice di essere qui." (16) Forse Patrizio e le tre donne approdati sulla desolata isola Amsterdam non sono che una metafora della condizione umana, caratterizzata – secondo l’autore – da solitudine, angoscia, famelico bisogno di aggrapparsi all’altro per cercare un sostegno alla propria fragilità e finitezza. E anche questa chiave di lettura ci riporta, come altri elementi già notati, in pieno clima esistenzialistico.

Un’ultima cosa ci rimane da dire a proposito di questo scrittore che, per un momento, ha sfiorato la celebrità, ma poi è stato rapidamente dimenticato, tanto che invano il lettore ne cercherebbe il nome sul Le Robert o nella Storia della letteratura francese di P. Abraham e R. Desné, abituali strumenti di consultazione del Francese di media cultura. Nel 1959, a quarantasette anni, per la seconda volta Crouzat giunge a un passo dal successo vero con un secondo romanzo, Aziza de Niamkoko, in cui può mettere a frutto le sue esperienze di viaggio nell’Africa Nera. Sono gli anni in cui l’impero coloniale francese (e non solo quello francese) sta incominciando a sgretolarsi; l’Algeria è in piena guerra d’indipendenza e il Vietminh, a Dien Bien Phu, nel 1954 ha inflitto una decisiva sconfitta all’armata d’Indocina. In questo clima un po’ crepuscolare, venato di nostalgie esotiche, furoreggiano romanzi di facile lettura, come Il sole nel ventre di Jean Hougron; e anche l’Africa evocata da Aziza de Niamkoko, con la sua vicenda sentimentale, incontra un certo favore di pubblico. Questa volta, però, non si tratta di un successo internazionale; il libro non viene tradotto in Italia e, dopo qualche anno, sparisce anche dalle librerie francesi. Passano ben ventisette anni e, nel 1986, è la televisione ad interessarsene, intuendo – in ritardo – le possibilità di adattamento al linguaggio del piccolo schermo; e così ne ricava un telefilm dal titolo Azizah, la fille du fleuve (Aziza, la figlia del fiume), per la regia di Patrick Jamain e interpretato da Julien Guiomar, Patrice-Flora Praxo, Jean-François Garreaud e Patricia Cartier.

In conclusione, si può parlare di un "caso Creuzat" come si può parlare di un "caso Charriére" (l’autore del romanzo Papillon che, nel 1969, raggiunse – come e più de L’isola in capo al mondo – una enorme celebrità grazie alla trasposizione cinematografica). Henri Crouzat è stato uno di quei personaggi estrosi e inquieti che, nel clima febbrile degli anni Cinquanta, dominati dagli esistenzialisti e dalle figure possenti di Sartre e di Camus, hanno saputo cogliere e interpretare il malessere di una intera generazione, quella che aveva fatto la seconda guerra mondiale e ne era uscita svuotata e ansiosa al tempo stesso. Ma solo per un momento.

h) GEOFFREY JENKINS E "MARE, VENTO, GHIACCI".

Mare, vento, ghiacci è la traduzione italiana, uscita nel 1971 per i tipi dell’editore Longanesi, del romanzo A Grue of Ice dello scrittore sudafricano Geoffrey Jenkins. Nato nel 1920 a Port Elizabeth, nella parte anglofona del paese, è però cresciuto nel Transvaal a maggioranza boera ed ha percorso una promettente carriera nel mondo della stampa: vice-direttore di un giornale in Zimbabwe, si è poi affermato come giornalista sia in Gran Bretagna che in Sud Africa. Intanto ha continuato a coltivare la sua grande passione per il mare e per le barche, acquisendo una conoscenza di prima mano nel campo della navigazione. Nel 1959, giunto alla soglia dei sessant’anni, vuol provare a cimentarsi con la narrativa e scrive il suo primo romanzo: A Twist of Sand, da cui più tardi (nel 1968) verrà tratto un film con Richard Johnson e Honor Blackman. È un successo immediato e i libro sale in vetta alle classifiche, divenendo un vero e proprio best-seller; molti altri ne seguiranno, venendo tradotti in 23 lingue per un totale di oltre cinque milioni di copie.

Prima di morire a ottantun anni, nel 1921, Jenkins pubblica altri quindici romanzi di successo, e cioè: The Wartering Place of Good Peace (1960); A Grue of Ice (1962), The River of Diamonds (1964); Hunter-Killer (1966); Scend of the Sea (1971); A Cleft of Stars (1973); A Bridge of Magpies (1974); South Trap (1979); A Ravel of Waters (1981); The Unripe Gold (1983); Fireprint (1984); In Harm’s Way (1986); Hold Down a Shadow (1989); A Hive of Dead Men (1991) e A Daystar of Fear (1993). Un secondo film è stato tratto dalla narrativa di questo autore, precisamente da In Harm’s Way, tre anni dopo la pubblicazione del romanzo; esce nelle sale cinematografiche con il titolo di Dirty games, nel 1989. Un terzo film avrebbe dovuto esser ricavato nel 1966 da una sceneggiatura per il personaggio di James Bond, scritta a quattro mani con Ian Fleming per gli studi Glidrose. Ma, dopo la morte di Fleming, la cosa non è andata in porto e il manoscritto non è più stato pubblicato.

Lo straordinario successo editoriale di Geoffrey Jenikins, comunque, pur essendo un fatto di portata mondiale, ha riguarato prevalentemente i paesi di lingua inglese. Il pubblico italiano ha conosciuto questo scrittore sudafricano attraverso la traduzione di quattro dei suo romanzi: A Twist of Sand, il cui titolo è stato cambiato, per esigenze editoriali, in quello di L’U-Boot scomparso; e A Grue of Ice (col titolo, come si è già detto, di Mare, vento, ghiacci); The River of Diamonds (Il fiume dei diamanti); e I denti dello squalo.

Scrive Mario Monti nella Presentazione del primo di questi due libri: "Non a caso Geoffrey Jenkins e Ian Fleming, l’inventore di James Bond, furono chiamati assieme a lavorare nel Ministero degli Esteri inglese durante la guerra. A quell’epoca, Jenkins, nato a Port Elizabeth nel Sud Africa,era soltanto un noto giornalista, autore, a diciassette anni, di un libro di storia. Nell’U-boot scomparso, il suo primo romanzo che lo portò in pochi giorni a una popolarità folgorante, Jenkins presenta in modo magistrale con una prosa molto più raffinata, diversi personaggi e diversi spunti che in Fleming diventeranno motivi schematici per altrettanti libri, soprattutto della serie bondiana. Ad esempio, per la prima volta nella narrativa, se la si vuol chiamare così, spionistica, o di avventure, moderna, ecco un covo indipendente di persone che vivono isolate, in un nascondiglio segreto, protetto con tutti i mezzi dell’inventiva umana e con armi potenti, e organizzato, secondo una linea di disciplina ferrea, da una sorta di capo che ha ancora in mente la conquista del mondo con una scoperta scientifica: nel nostro caso, il comandante di un sommergibile atomico tedesco. Il vantaggio da una parte, e all’altra lo svantaggio (perché meno accettabile ai palati grossolani) di Geoffrey Jenikins, è che mentre Fleming anche nelle trame meglio congegnate si affida a meccanismi infantili e quasi da fiaba, spesso negando al lettore spiegazioni accettabii, Jenkins domina questo gioco fantastico con una logica e una varietà di particolari realistici e tecnici che reggono anche all’esame più severo. In altre parole, la fiaba può essere trasformata anche domani in realtà. Ad esempio, il sommergibile scomparso si trova non in una fantastica zona o regione inventata dall’autore, ma in un preciso punto della costa africana, dove banchi di sabbia, correnti impetuose e venti fanno deviare le rotte delle navi. Allo stesso modo, il protagonista di questo romanzo può avvicinarsi al suo obiettivo ,non soltanto perché ha l’esperienza di comandante di un sommergibile inglese distintosi nell’ultima guerra, ma anche perché, come spesso accade nelle famiglie britanniche, ha seguito la carriera marinara ubbidendo a una tradizione secolare e ha trovato in certe carte ereditate una mappa precisa della Costa degli Scheletri. Per quanto riguarda la sensualità del protagonista di Jenkins, in un certo senso è meno disincantata e perciò meno meccanica di quella del povero Bond, costretto dalla fretta a un’azione indiscriminata; ma, come è facile comprendere, è certamente più intensa e evocativa. Dobbiamo chiedere scusa agli ammiratori di Fleming per questo confronto, necessario tuttavia per inquadrare con precisione la narrativa di Geoffrey Jenkins. " (17)

La storia è narrata in prima persona dal protagonista, il capitano Bruce Wetherby, che durante la seconda guerra mondiale è stato comandante nella Reale marina britannica. Adesso egli si trova nell’isola di Tristan da Cunha con un amico ed ex commilitone, il marinaio Sailhardy, impegnato nella ricerca di una misteriosa corrente marina calda, il Piede d’Albatro, che a intervalli irregolari solca le acque dell’Atlantico meridionale, trascinando con sé milioni e milioni di microscopici esseri viventi che formano il plancton. Nel corso di tali ricerche, improvvisamente, lui e Sailhardy vengono rapiti e portati a bordo di una modernissima nave-officina per la caccia alle balene, l’ Antartica, di proprietà del miliardario sir Frederick Upton. L’operazione di trasbordo è eseguita da una ragazza, Helen, che pilota con sovrana maestria un elicottero e che si rivela essere la figlia di Upton. Ella è molto diversa al padre: intelligente e profondamente sensibile, pur sotto un’apparente scorza di impassibilità; mentre Upton è né più né meno che la versione moderna di un antico filibustiere, un uomo senza scrupoli né princìpi, che che pare possedutoto da un’ansia febbrile, da un segreto di cui è spasmodicamente alla ricerca. Fra Helen e Bruce Wetherby si instaura quasi subito un rapporto di reciproca simpatia che, gradualmente, sfocerà in un sentimento d’amore.

Upton conosce già Wetherby di fama: durante la guerra, nelle acque dell’isola Bouvet, questi ha colato a picco la famosa nave corsara tedesca Meteor. Ma, soprattutto, ha scoperto casualmente un segreto che vale una fortuna: che nelle acque dell’isola vi è la zona di riproduzione della Balena Azzurra. Ora Upton ha convocato alcuni comandanti di baleniera a bordo della sua ammiraglia e li esorta a seguirlo in una lucrosissima battuta di caccia che, però, è formalmente illegale perché le acque territoriali norvegesi, cui Bouvet appartiene, si estendono per un raggio di ben duecento miglia e pertanto coprono tutta la zona di riproduzone dei cetacei. In realtà, Upton ha ben altri piani per la mente e la storia della caccia alla Balena Azzurra è soltanto una facciata; tuttavia i capitani si mostrano entusiasti del progetto e decidono di seguirlo. Tutti tranne uno, Mikklesen, che lancia l’allarme radio alle autorità norvegesi; il messaggio viene raccolto dal cacciatorpediniere Thorshammer che si lancia immediatamente all’inseguimento, pur essendo ancora abbastanza lontano. Da questo momento in poi, l’azione si fa particolarmente rapida e incalzante e si svolge sotto la costante minaccia da parte della nave da guerra norvegese.

Upton ha bisogno di Wetherby perché lui solo ha visto, durante la guerra, un’isola-fantasma che è stata avvistata dal capitano George Norris dello Sprightly nel 1825 e, di nuvo, dal capitano J. Fuller nel 1885: l’isola Thompson. Ebbene Upton è certo che quell’isola contenga ricchissimi giacimenti di cesio, un metallo rarissimo necessario alla corsa spaziale ingaggiata fra Stati Uniti d’America e Unione Sovietica; e ora, con l’aiuto dell’inglese, vuole localizzarla. Per il momento, però, non rivela a nessuno i suoi piani; sarà solo in seguito, quando la situazione precipiterà bruscamente, che Wetherby e gli altri comprenderanno i veri scopi del miliardario. A bordo dell’Antartica, infatti, l’ex capitano inglese fa la conoscenza – oltre che col capo-rampioniere Walter, uomo di fiducia di Upton e "cattivo" della situazione, con un radiotelegrafista tedesco, Pirow, che era a bordo del Meteor e che, durante la guerra, con i suoi falsi messaggi-radio (attività in cui era abilissimo) aveva provocato l’affondamento di molte ignare navi alleate. Anche adesso Pirow dà un saggio della sua straordinaria abilità, depistando momentaneamente il Thorshammer e assicurando quindi alla flottiglia di baleniere un temporaneo vantaggio. Ma ecco che la situazione improvvisamente precipita per un fatto imprevisto: un idrovolante del Thorshammer viene abbattuto da una raffica di mitraglia sparata da Walter, che però fa ricadere la colpa su Wetherby; mentre Pirow imita alla perfezione i messaggi di aiuto di un ipotetico canotto di salvataggio con a bordo i membri dell’equipaggio dell’idrovolante. Mentre ciò accade, il mare ghiaccia quasi senza preavviso e l’Antartica rimane bloccata nella morsa del pack, che la stritola e ne provoca l’affondamento.

Intanto i capitani delle baleniere, informati per radio dalle autorità dell’abbattimento dell’idrovolante, tornano indietro e fanno prigionieri sia Upton con Walter e Pirow, sia Wetherby con Salihardy ed Helen (ormai si sono delineati questi due terzetti: diciamo pure, tanto per capirci, i "buoni" e i "cattivi"). Ora decidono di aspettare l’arrivo del Thorshammer all’isola Bouvet; ma Pirow rivela a Wetherby che il Meteor, durante la guerra, ha deposto un campo di mine nelle acque dell’isola. Intanto matura la delicata storia d’amore fra l’ex capitano inglese e la bella aviatrice, in contrasto con l’estrema drammaticità della situazione e con la violenza selvaggia degli uomini e della stessa natura.

"Helen ruppe il lungo silenzio. – Non poteva finire in quel modo, non è vero, Bruce?

"Scossi la testa. La sua faccia era tesa, gli occhi non avrebbero potuto essere più belli.

"- No – dissi. – ma domani la soluzione potrebbe essere un’altra- Le dissi del campo di mine posato dalla Meteor. Per un poco ella non rispose, poi allungò una mano, afferrò la mia ricoperta dal guanto e la serrò in una stretta che rivelava tutti i suoi sentimenti.

" – Se non fosse per te, Bruce, credo che odierei quest’oceano e le sue creature, le sue opere. Non ha mai soste, non cade mai, vero? È parte di te, e forse ben più che soltanto una parte. Dico bene? Per questo non posso odiarlo.-

"Mi chinai e la baciai leggermente sulle labbra. Vidi riflessa nei suoi occhi l’immagine di un’esplosione di luce solare ai limiti dell’orizzonte.

" – No – scattò – non lo faranno, non voglio! – Allungò una mano verso i comandi del motore- Non lo faranno, finché io sono in grado di portarti via! –

"La trattenni, acennando a Brunvoll che teneva lo Schmeisser puntato.

" – Prima che i rotori si mettano in moto, cara Helen, ci verrà addosso una scarica da quell’aggeggio – l’ammonii. – Non credere che Reidar Bull, Hanssen e Brunvoll scherzino. Fanno sul serio e non esiterebbero. –

"- Siamo stati afferrati ambedue in un ingranaggio pauroso- ella esclamò, con calore. – Siamo nel mezzo di un oceano immenso, vuoto, solitario quanto nessun altro, e pure qualcuno ci ha imprigionati in una rete che ci allontana l’uno dall’altro. –

"- Una rete tesa da tuo padre -, volli aggiungere

"- Lo so, lo so – ella acconsentì. – Ma tanto io che tu sappiamo che mio padre non ne è la sola causa.-

"- L’isola Thompson -, suggerii.

"- L’isola Thompson -, ella ripetè, quasi con un singhiozzo. – Dio mio! Quanto detesto il suono di quel nome!" (18)

Quando l’Aurora, che trasporta i prigionieri sotto la sorveglianza del capitano di una delle baleniere, Reidar Bull, giunge nei pressi di Bouvet, va a urtare una delle mine tedesche e affonda rapidamente. Bruce Wetherby, con l’amico Sailhardy e con il terzetto Upton-Walter-Pirow, riesce a sbarcare fortunosamente con una scialuppa e a raggiungere, tra enormi difficoltà, una baracca-rifugio costruita su una rupe, dopo aver aperto un sentiero nel ghiaccio e rischiato più volte di precipitare. Il mattino dopo si ode il rumore di un elicottero: Helen è stata costretta da Reidar Bull a condurlo sull’isola, per catturare nuovamente i cinque uomini. Ma mentre l’elicottero atterra, la fune del rampone scagliato da Walter s’impiglia fra le pale e trancia di netto la testa al norvegese. Adesso Helen si è ricongiunta con Bruce, ma la loro situazione non è migliorata. Upton, che è letteralmente sconvolto dall’idea di raggiungere a ogni costo l’isola Thompson per impadronirsi dei depositi di cesio e non si cura affatto delle condizioni di sua figlia, li tiene prigionieri sotto la minaccia delle armi; nel complesso si dimostra più spietato e irriducibile dello stesso Walter. Tuttavia il breve soggiorno nella baracca sull’isola Bouvet, circondati dai venti fischianti e momentaneamente isolati dal mondo intero, Bruce ed Helen vivono una parentesi affascinante della loro tormentata vicenda, ingentilita dal salvataggio di un cucciolo di foca che Helen decide di prendere con sé, e da quello di un albatro rimasto ferito dalla micidiale unghiata di una foca-leopardo.Alla fine, nonostante lo scatenarsi di una violentissima bufera, tutto il gruppo è costretto da Upton a prendere il mare sulla scialuppa. La traversata è spaventosa: su un’imbarcazione scoperta, sollevati dalle gigantesche onde dell’Antartico, intirizziti dal freddo, gli uomini vagano alla ricerca del nulla: perché Wetherby, che si rende conto delle conseguenze che avrebbe la competizione mondiale per lo sfruttamento del cesio, ha giurato a se stesso di non rivelare a nessuno la vera posizione dell’isola e, quindi, fornisce a Upton coordinate volutamente sbagliate.

"Con il sopraggiungere del pomeriggio, il vento raggiunse una velocità non inferiore ai cinquanta nodi orari, quasi al massimo della scala di Beaufort. Se avessimo potuto alzarci in volo, l’avremmo fatto più che volentieri, ma purtroppo, date le circostanze, non ci rimaneva altro che cercar di restare a galla. Per tre giorni la baleniera scappò davanti alla tempesta come un animale impaurito. Non c’era possibilità di fermare, di trattenere, di guidare l’imbarcazione. Sailhardy e io ci scambiavamo i turni al timone. Seduti sull’alta poppa, stavamo chinati in avanti quasi piegati in due, e il vento ci buttava sulla schiena raffiche di ghiacciuoli, di neve e di acqua di mare gelata, con la violenza e l’insistenza di un fucile mitragliatore, o dei tacchi di una danzatrice spagnola. A volte mi sorprendevo quasi a singhiozzare sotto quelle lunghe, eterne scariche spietate, tanto che pensavo di non riuscire più a resistere; sinché finalmente subentrava, penoso, un intervallo di quiete, che però era seguito poco dopo da un’altra scarica selvaggia, che falciava ogni cosa le si parasse davanti. Appena avvertivo i blocchi di ghiaccio, le brevi piattaforme e i piccoli iceberg che ci passavano velocissimi accanto nella luce incerta, che dal grigio pallido del giorno piombava nell’oscurità più completa della notte. Dovunque andassero a cadere gli spruzzi di acqua, questa vi rimaneva ghiacciata, sino a che i nostri visi, l’albero, i sedili, il graticolato del fondo e la tela delle fiancate furono ricoperti da uno strato compatto. Il movimento continuo e violento dell’imbarcazione impediva nel modo più assoluto di accendere il fuoco e i nostri pasti si riducevano perciò a operazioni pietose, nelle quali il cibo veniva tolto dallo scatolame con le dita. Walter e Upton stavano nella parte pontata di prora, con l’albatro, mentre Pirow rimaneva a poppa, con la radio. Nel vano che questi occupava era buio, tanto che si sarebbe potuto crederlo morto, se non fosse stato per gli occasionali ticchettii che si udivano, quando continuava nel suo compito d’ingannare il Thorshammer. Le coste irregolari e il ruvido fondo della barca rendevano il sonno un inferno e il freddo spietato penetrava attraverso il tessuto impermeabile e il vello dei sacchi a pelo. Avevo steso la vela grande color ocra assicurandola al ponteggio di poppa fino a uno dei banchi e sotto di quella vivevamo Helen, Sailhardy e io, noi due ultimi dandoci il cambio al timone. La foca cucciolo stava nel sacco a pelo con Helen e offriva nel gelo di tutto l’ambiente una minuscola zona di calore. Quando nel corso della notte precedente avevo chiamato Sailhardy e mi ero infilato nel mio sacco, mi aveva molto impressionato udire Helen parlare nel delirio." (19)

Oltre che un abile tessitore di trame intricate e di fili narrativi sapientemente intrecciati, animati da frequenti colpi di scena, Jenkins è uno scrittore di notevole efficacia nella descrizione della grandiosa e terribile bellezza della natura nei tempestosi mari antartici. Spettacolare e al tempo stesso poetica è la descrizione di un fenomeno luminoso rarissimo, di cui i personaggi del romanzo sono spettatori, il cosiddetto ‘Arco di Parry’. Improvvisamente la tempesta si placa, il mare ridiviene calmo e una strana luminescenza si diffonde all’orizzonte.

"Quasi impercettibilmente, la luce cominciò a cambiare. Le fiamme luminose dell’Aurora australe, che abbracciavano l’intero emisfero, si ritirarono a poco a poco verso la loro matrice di ghiaccio. L’intero lobo superiore del cielo divenne tutto una grande estensione di luce, che si espandeva in un arco immenso disposto non da nord a sud come l’Aurora australe, ma da est a ovest. Quel fregio gigantesco era d’un bianco pallido, ma sullo sfondo pareva volesse assumere una colorazione. Era qualcosa di cui mai avrei osato sperare di essere spettatore: il rarissimo Arco di Parry. Come la celebrazione gloriosa della nostra liberazione, della nostra salvezza, se pure di liberazione e salvezza si poteva parlare.

"Dissi ad Helen che cos’era ed ella si drizzò a sedere. Il bianco pallido dell’Arco di Parry venne a poco a poco penetrato e adornato di tante luci rosse, scarlatte, verdi, viola, azzurre, poi l’arco stesso divenne doppio, dispiegando una pirotecnica di colori da togliere il fiato, e si distese attraverso tutto il cielo, allungandosi in un’ellisse che pareva congiungere il Mare di Weddell all’Australia.

"- Dio mio! -, esclamò Upton, dalla prua.

"Il chiarore proveniente dall’Arco di Parry aveva una luminosità sufficiente a rivelare a perdita d’occhio uno spettacolo grandioso e pauroso. Tutto l’orizzonte, dalla parte di sopravvento, era una massa gigantesca di iceberg, alti dai trecento ai cinquecento metri. Dietro di essi s’innalzava a un’altezza ancora maggiore, superiore a quella delle rupi della stessa grande Barriera di Ross, una parete bianca. Ci trovavamo in una baia, larga una cinquantina di miglia, circondata dai ghiacci. A circa cinque miglia a poppa, verso dritta, l’estremità nord-occidentale del continente galleggiante, perché quasi proprio d’un continente si poteva parlare, sospingeva dentro l’Oceano australe uno sperone massiccio. In quella luminosità incerta, era impossibile dire dove cominciasse e dove finisse, e inoltre verso sinistra pareva s’innalzasse un banco di fitta nebbia."(20)

Una corrente marina favorevole, l’elusivo Piede d’Albartro, porta l’imbarcazione dentro il fiordo dell’isola Thompson.. Qui i protagonisti vedono lo spettacolo fantastico di un cimitero di navi (simile a quello realmente scoperto da Shackleton negli Stretti di Re Haakon, nella Georgia Australe, nel 1916) e, sbarcati, verificano la presenza del cesio, oggetto delle brame maniacali di Upton. Ma non c’è tempo da perdere: il Thorshammer, ormai, è in arrivo; e il folle avventuriero decide di accoglierlo a cannonate, poiché sull’isola è in postazione, e perfettamente efficiente, un cannone piazzato a suo tempo dal comandante della Meteor. Così, quando l’indomani il ciacciatorpediniere compare all’ingresso del fiordo, il tiro micidiale del cannone, manovrato da Upton e Walter, lo mette rapidamente a mal partito. A quel punto Bruce riesce a salire a bordo con Sailhardy ed Helen e, forte della sua esperienza bellica, punta un pezzo d’artiglieria contro il ghiacciaio che, rovinando a valle, travolge Upton, Walter e Pirow. Il romanzo si conclude con la decisione di Bruce di non dir nulla all’equipaggio norvegese riguardo al cesio, il rarissimo minerale che già tanti drammi ha provocato e che potrebbe scatenare chissà quali conflitti internazionali.

Giunto alla conclusione, il lettore non può fare a meno di chiedersi se l’isola Thompson – la vera protagonista del romanzo – esista veramente o se sia solo una finzione letteraria, oppure una di quelle isole-fantasma di cui sono piene le antiche cronache della navigazione a vela: le Auroras, le isole Pepys, l’isola Saxemberg, Nimrod, Emerald, Dougherty. (21) Ebbene, Geoffrey Jenkins è convinto che l’isola Thompson esista davvero – anche se, ovviamente, i depositi di cesio sono solo un’invenzione per dare mordente alla storia. Infatti, nell’Avvertenza posta in apertura del libro, egli scrive: "L’isola Thompson esiste. La sua posizione, tuttavia, nelle acque dell’Antartide sferzate dalle tempeste, a circa milleseicento miglia a sud della punta più meridionale del continente africano, costituisce uno dei grandi misteri del mare.

"L’isola fu scoperta dal capitano George Norris, comandante del battello britannico Sprightly adibito alla caccia alle foche, il 13 dicembre 1825. Sessant’anni dopo l’isola venne nuovamente avvistata da un capitano americano, Joseph J. Fuller. Dal tempo della sua scoperta a opera di Norris, parecchi famosi marinai e spedizioni equipaggiate di tutto punto sono andati alla ricerca di quell’isola, che però, se si eccettua l’avvistamento fortunoso del capitano Fuller, non venne più in seguito localizzata.

"Il capitano Norris, non soltanto disegnò una carta dell’isola Norris, ma ne tratteggiò una decina di schizzi da diverse angolazioni. Ho avuto modo di esaminare quella mappa e quegli schizzi e anche il testo della relazione verbale fatta da Fuller ai suoi tempi all’American Franklin Institute. Pretoria, 1962." (22)

i) SILVIO ZAVATTI E IL "VIAGGIO ALL’ISOLA BOUVET".

Dopo l’avventura a sfondo "giallo" collocata da Geoffrey Jenkins sull’isola Bouvet, torniamo a questa stessa isola con una avventura a sfondo scientifico affidandoci, questa volta, alla penna di un uomo che i Poli li conosceva non solo con la fantasia dello scrittore, ma con la passione e la direetta esperienza del ricercatore, del geografo, dell’etnologo: Silvio Zavatti.

Non è questo il luogo per tracciare una biografia completa di Silvio Zavatti, tanto più che la rivista Il Polo gli ha recentemente dedicato un numero monografico, frutto di un Convegno di studi che ha richiamato un cospicuo numero di studiosi di cose polari, che hanno avuto occasione di conoscerlo e di apprezzarne le alte doti scientifiche ed umane. (23) Ci limiteremo pertanto a ricordare solo per sommi capi la sua esaltante esperienza di studioso ed esploratore. Romagnolo, nato a Forlì il 10 novembre 1917, diplomato all’Istituto Nautico di Ancona nel 1937, è per due anni capitano di lungo corso su una nave inglese e in quell’occasione, giovane di venti anni, nelle acque dell’Oceano Indiano meridionale vede farglisi avanti il suo primo iceberg. È una rivelazione: da quel momento la passione per le cose polari lo afferra e non lo lascerà mai più. Richiamato alle armi nella seconda guerra mondiale, dopo il 1943 prende parte alla guerra partigiana sull’Appennino Tosco-Emiliano e, a guerra finita, è nominato vicesindaco della sua città natale. Per qualche anno svolge l’incarico di preside dell’Istituto Magistrale Stella Maris di Civitanova Marche (ha conseguito, studiando da privatista, la maturità classica nel 1940) e si dedica con la consueta generosità, oltre che all’insegnanento – da lui sentito come una vera missione – alla filologia classica, pubblicando, fra l’altro, un fresco e pregevole commento al quinto libro dell’Eneide di Virgilio. (24) Al tempo stesso, però, non trascura gli studi polari; fin dal 1944 ha fondato l’Istituto Geografico Polare e la rivista Il Polo, organizzando spedizioni di ricerca nelle regioni artiche e antartiche. Nel 1958, alla vigilia dell’Anno Geofisico Internazionale, mette a punto un progetto che, mediante la realizzazione di una stazione meteorologica sull’isola sub-antartica di Bouvet, dovrebbe permettere all’Italia di prendervi parte come membro a pieno titolo.

Ecco come egli stesso ricorda quell’episodio: "L’Italia, ufficialmente, non è mai stata presente nell’Antartide [lo è, infatti, solo dal 1985, n. d. r.], ma nel 1880, anno in cui il tenente di vascello Giacomo Bove tentò di organizzare una spedizione nell’Antartide, gli italiani sono stati saltuariamente presenti, sotto vari titoli, nel sesto continente. Medici, operai, giornalisti hanno fatto parte di numerose spedizioni argentine e nel 1957-58 il tenente di vascello (ora capitano di corvetta Franco Faggioni) fu aggregato alla base neozelandese costruita a Mc Murdo Sound. Nel 1959 l’Istituto Geografico Polare, con un contributo del governo italiano, ha organizzato nel’isola Bouvet, una spedizione scientifica divisa in due fasi: la prima aveva lo scopo di indagare se l’impianto di una base scientifica permanente fosse possibile e la seconda – da realizzare in un secondo tempo – doveva procedere alla costruzione della base e al primo ciclo delle ricerche. Della prima fase, felicemente portata a termine, facevano parte Silvio Zavatti e Giorgio Costanzo.

"Malgrado difficoltà di ogni genere, fu possibile effettuare due sbarchi: uno nell’isola Lars, a poche centinaia di metri dall’isola Bouvet, e un altro immediatamente a sud di Capo Norvegia dove fu scoperta una piccola baia (cui venne dato un nome italiano) che può permettere, pur con qualche difficoltà, lo sbarco del materiale occorrente alla costruzione di una base scientifica. L’autore di questo volume fece varie osservazioni meteorologiche." (25) Ma qualche anno dopo, in un altro libro, tristemente aggiungeva: "Purtroppo non fu possibile realizzare la seconda fase del progetto perché non si poterono raccogliere i mezzi finanziari necessari (poco più di venti milioni!). La costruzione della base avrebbe permesso all’Italia di installarsi in un’isola antartica e di far parte delo SCAR [ossia lo Special Committee for Antarctic Research]. La Repubblica sud-africana ha progettato ora la costruzione di una base scientifica sull’isola Bouvet." (26) Zavatti deve pertanto limitarsi alla fase preliminare del progetto, con lo sbarco nell’isola e la verifica della possibilità di erigervi una stazione scientifica permanente; poi la cosa finisce lì e la fase operativa del progetto rimane inattuata.

Dopo aver pubblicato, nel 1958, quel gioiello di precisione cartografica che è l’Atlante Geografico Polare, nel 1961 conduce la sua prima spedizione etnologica fra gli Eschimesi o Inuit di Rankin Inlet, nell’Artide canadese, dando inizio a quella lunga amicizia con essi che si concretizzerà, fra l’altro, in una serie di pubblicazioni sui loro usi e costumi, sulla loro poesia, sulla loro cultura materiale e spirituale. (27) Nel 1962 si reca in Lapponia, con Walter Minestrini e Vladimiro Riccobelli, per studiare uno dei popoli europei meno conosciuti: i Sami (o Lapponi); nel 1963 è in Groenlandia, nella regione di Angmagssalik, sempre per lo studio del folclore e delle tradizioni eschimesi. Nel 1970 organizza il Congresso Internazionale Polare e nel 1983 è invitato come relatore al Congresso Polare di Parigi; sospende le spedizioni ma prosegue, anzi intensifica, il lavoro scientifico, contribuendo notevolmente alla diffusione delle tematiche polari nel nostro Paese.

Ma ecco come egli stesso tracciava, nel 1967, una sua breve biografia: "Zavatti, Silvio. Esporatore italiano, nato a Forlì il 10 novembre 1917. Vivente. Nel 1959 guidò una missione in Antartide e sbarcò due volte, con Giorgio Costanzo, nell’isola Bouvet dove scoprì una nuova baia. Nel 1961 condusse una spedizione etnografica nell’Artide Canadese e nel 1962 guidò una missione etnografica in Lapponia: lo accompagnavano Waltrer Minestrini e Vladimiro Riccobelli. Nel 1963 guidò una spedizione scientifica nella regione di Angmagssalik (Groenlandia orientale) durante la quale scoprì il più antico graffito eschimese conosciuto nel mondo. Il dr. Massimo Cirone, membro della spedizione, eseguì le prime indagini psicologiche mai fatte sugli Eschimesi." (28)

Un cenno a parte merita la sua ricca produzione letteraria per la gioventù, nel cui ambito si colloca una monografia sull’esploratore James Cook che, per la verità, fa un’ottima figura anche sugli scaffali di una biblioteca per adulti. Il suo stile è scarno, vigoroso, efficacissimo; senza tanti giri di parole riesce a rendere i colori, le sensazioni, l’atmosfera dei grandi viaggi oceanici, immergendo in pieno il lettore nella vicenda narrata. A titolo di esempio, riportiamo la drammatica descrizione delle ultime ore di vita di Cook, vittima di una scaramuccia con gli indigeni delle Isole Hawaii il 14 febbraio del 1779.

"Appena giunto alla costa, Cook fu informato che era accaduto un altro grave incidente. L’ufficiale che comandava la scialuppa della Discovery lanciata all’inseguimento della piroga, giunse a terra quando gli indigeni erano già fuggiti e allora sequestrò la piroga che, sfortunatamente, apparteneva a Parrea, uno dei capi più autorevoli dell’isola. Ne nacque un acceso alterco e uno dei marinai buttò a terra Parrea con un colpo di remo alla testa. Quando i nativi videro a terra il loro capo, fecero piovere sugli Inglesi una fitta pioggia di pietre che li obbligò a ritirarsi precipitosamente e a salvarsi a nuoto su uno scoglio lontano. Gli indigeni presero la scialuppa, la saccheggiarono e l’avrebbero distrutta se Parrea stesso non li avesse dispersi e non avesse fatto cenno agli Inglesi di ritornare tranquillamente a terra. Essi lo fecero e Parrea chiese perdono per l’accaduto, riconsegnò la scialuppa e tutti gli oggetti che potè recuperare e domandò, con molta ansia, se Cook lo avrebbe ucciso per quanto era accaduto. L’ufficiale lo rassicurò ed allora Parrea gli strisciò contro il naso il suo, come segno massimo di amicizia.

Cook fu molto addolorato per quei fatti e disse a King che sperava di non essere obbligato a ricorrere ai modi violenti, ma aggiunse anche che non si doveva far credere agli indigeni di aver avuto un qualsiasi vantaggio sugli equipaggi. La guardia a terra, comandata da King, venne raddoppiata e Cook risalì a bordo della Resolution. Nella notte la scialuppa della Discovery venne rubata e la mattina dopo King, recatosi a bordo, vide Cook che stava caricando il suo fucile a due canne e gli disse che si doveva recuperare assolutamente tutto quanto era stato rubato. Decise pertanto di far arrestare tutte le piroghe che tentavano di uscire dalla baia e di prendere come ostaggi il re e tutta la sua corte. Scese in una scialuppa insieme a un ufficiale di nome Philips e a nove marinai e King salì su un’altra scialuppa, dopo che Cook gli ebbe raccomandato di calmare gli animi degli indigeni., di non dividere mai il suo distaccamento e di fare buona guardia.

"Fu l’ultima volta che il tenente King vide il suo capitano!

"Cook scese a terra e s’incamminò verso Kowrowa, luogo di residenza del re. Gli fu facile convincere il re e i suoi due figli a seguirlo a bordo della Resolution, tanto più che nel frattempo King aveva parlamentato col gran sacerdote e lo aveva assolutamente tranquillizzato sulle intenzioni di Cook. Già i due principi erano saliti nella scialuppa, quando la sposa favorita del re, di nome Karee-Kabareea, scongiurò piangendo il re di non partire e altri due capi forzarono il re a sedersi sulla spiaggia e a non partire.

"A quella vista una moltitudine enorme di indigeni si strinse intorno al re e agli Inglesi, in un modo tale che i soldati non avrebbero potuto far uso delle loro armi se ce ne fosse stato bisogno. Il comandante del distaccamento chiese allora a Cook il permesso di schierare gli uomini a una trentina di metri da quel luogo e poté farlo senza alcuna noia da parte degli indigeni.

"Il re intanto era profondamente spaventato e la moltitudine espresse chiaramente la sua intenzione di difendere con le armi in pugno il suo vecchio re. Cook allora comprese che senza spargimento di sangue non avrebbe potuto portare a termine il suo progetto, ma vi rinunciò per quella sua innata avversione al sangue che lo distinse ovunque. Gli indigeni, così, ebbero un altro vantaggio, ma le cose sarebbero finite con soddisfazione di tutti se non fosse intervenuto un altro sanguinoso episodio a farle precipitare. Sparando contro alcune piroghe che tentavano di abbandonare la baia, i marinai uccisero uno dei capi più influenti dell’isola. La notizia di quella morte si sparse fulminea nel villaggio dove Cook aveva ricondotto il re e allora in un baleno gli uomini vestirono gli abiti guerrieri. Uno di essi brandì un grosso sasso e si buttò su Cook, il quale tentò di calmarlo. Visti inutili i suoi sforzi, gli sparò contro un colpo a pallini che non lo ferì perché era ricoperto di una spessa maglia e quel fatto, straordinario per gli indigeni, aumentò il coraggio dei nativi. Allora Cook sparò a palla ed uccise il guerriero. La battaglia si scatenò e gli Inglesi dovettero retrocedere. Quattro marinai vennero raggiunti e fatti a pezzi e altri tre feriti. Contro Cook nessuno osava combattere fino a quando mantenne il volto verso di loro, ma quando si voltò per un attimo verso i canotti ordinando che cessassero il fuoco e si accostassero per imbarcare i superstiti, un guerriero lo colpì alle spalle con un pugnale e lo fece cadere con la faccia al mare. Allora il corpo già inanimato di Cook venne trascinato fra le grida di giubilo dei guerrieri e il pugnale passò di mano in mano perché venisse affondato in quel corpo ormai senza più vita!" (29)

Ma è tempo di passare al libro di Silvio Zavatti che qui vogliamo prendere particolarmente in considerazione, ossia quel Viaggio all’isola Bouvet che nel titolo sembra ricalcare le antiche relazioni dei navigatori ed esploratori europei del 1700, a cominciare da quel capitano Cook che lui ammirava tanto e al quale aveva dedicato uno dei suoi libri più appassionanti. (30)

Diciamo subito che gli aspetti tecnici della spedizione sono stati esposti dall’autore in articoli su riviste specializzate (31), pertanto il volume pubblicato dalla Casa editrice Giuseppe [M]{.smallcaps}alipiero di Bologna, nel 1960, non ha finalità propriamente scientifiche. Si tratta piuttosto di una pubblicazione per ragazzi, e infatti compare per i tipi di un editore specializzato nel settore giovanile, con il quale aveva già pubblicato, appena due anni prima, una concisa ma molto ben scritta storia dell’esplorazione dell’Antartide. (32) Inoltre il volume non si propone un resoconto completo dello sbarco e della ricognizione effettuata sull’isola Bouvet, ma il racconto di tutti il viaggio lungo le coste dell’Africa, dal Mediterraneo, al Mar Rosso, all’Oceano Indiano e poi giù, fino alle gelide acque antartiche. Vi è un corredo di disegni in bianco e nero di A. La Rocca e di alcune belle tavole a colori (di Lavosier), ma delle fotografie che arricchiscono il volume, una sola si riferisce all’isola Bouvet (e mostra la spiaggia rocciosa , donde si gettano in mare decine di foche).

Il viaggio si divide in quattro parti. La prima, da Genova a Mogadiscio (allora capitale del governo fiduciario italiano sulla Somalia per conto delle Nazioni Unite), via Canale di Suez, si svolge a bordo della modernissima nave bananiera Marzia Tommellini Fassio della flotta Fassio. La seconda, da Mogadiscio a Durban, nella provincia del Natal, si svolge sul lentissimo piroscafo da carico Sistiana del Lloyd Triestino, che col mare grosso fa appena tre miglia all’ora; e tocca i porti di Mombasa nel Kenya, Dar-es-Salaam nella Tanzania, Beira e Lorenzo Marques nel Mozambico (allora colonia portoghese e non ancora sconvolta dalla guerriglia indipendentista) e infine – dopo una tempesta "forza sette" – entra nel porto di Durban, nell’Unione Sud-africana (che poco dopo, il 15 marzo 1961, si staccherà dal Commonwealth con il nome di Repubblica Sud-africana). La terza parte del viaggio, la più breve, ha luogo in due tappe che si svolgono entrambe in aereo: da Durban a Port Elizabeth e di qui a Città del Capo. Questa fase africana del viaggio si svolge in un continente che sta rapidamente cambiando, sotto la spinta dei movimenti indipendentisti che affretta il processo di decolonizzazione; Zavatti, comunque, ha modo di rendersi conto di quanto sia contraddittoria la posizione dei residenti europei, dagli Italianio della Somalia fino ai Sudafricani bianchi, specialmente quelli di origine boera, che ondeggiano fra una sincera amicizia per gli indigeni e atteggiamenti di superiorità che vanno fino all’aperto razzismo. L’Africa sta cambiando, e sta cambiando molto in fretta, a volte in maniera incomprensibile; la racconterà, a suo modo, il regista Gualtiero Jacopetti con il suo celebre – e discusso – Africa addio, del 1966.(33) La quarta e ultima parte del viaggio, quella propriamente antartica, avviene a bordo di una baleniera sud-africana che deve raggiungere la propria flottiglia e il cui capitano s’impegna a riprendere Zavatti e Costanzo nel viaggio di ritorno. Il viaggio di andata dura cinque giorni ed è caratterizzato da un mare infuriato dalla tempesta, che causa parecchie difficoltà all’equipaggio e ai due Italiani. La partenza avviene da Città del Capo, la sera del 16 marzo 1959; e le nude scogliere dell’isola sono in vista all’alba del 22 marzo.

Quello che Zavatti, nel suo libro, non dice, è che prima di indirizzarsi verso Bouvet, egi aveva accarezzato due altri progetti più ambiziosi, entrambi falliti per mancanza di mezzi economici e di adeguati appoggi politici: uno nella sezione della Penisola Antartica rivendicata dal Cile, e precisamente nell’isola Vieugué; l’altro (cui l’autore fa un rapido cenno a pag. 27) nella Terra Regina Maud, nel settore norvegese del continente. Scrive Gianluca Frinchillucci: "Sul piano scientifico Zavatti, avendo l’appoggio del Governo cileno, aveva preparato i piani per una spedizione in Antartide sin dal 1949, con l’idea di portare l’Italia tra i ghiacci del "Continente Bianco". Come si legge nella relazone della preparazione della spedizone stessa, l’isola di Vieugué (64°40′, 65°10′ S) era stata suggerita dal governo latino-americano anche se, come scriveva Zavatti, ‘l’isola di Vieugué è geograficamente e scientificamente sconosciuta e i suoi limiti sono incerti […] L’isola, posta entro il settore antartico inglese, è rivendicata dal Cile.’

"L’appoggio all’iniziativa giunse dal vice-ammiraglio De La Fuente,Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate Cilene, mentre il sottosegretario agli Affari Esteri cileno, ManuelRicco, concesse il permesso per realizzare la base. Purtroppo però, non fu possibile raccogliere i tre milioni (dell’epoca) necessari per porre in essere la spedizione. Zavatti, tuttavia, non si arrese e continuò a sperare e cercare. Una nuova opportunità fu rappresentata dalla proposta del maggiore Costanzo, già veterano dell’Antartico, per organizzare una spedizione nella Terra Regina Maud (settore antartico norvegese). Nemmeno in questo caso, però, c’erano i finanziamenti e il maggire Costanzo e l’ing.Orengo (altro promotore della spedizione antartica) coinvolsero Zavatti per l’organizzazione e la ricerca dei fondi.

"Numerosi giornali si occuparono dell’iniziativa, che prevedeva una durata di circa quattro mesi con la partecipazione di 10-11 unità; benché il trasporto fosse assicurato da una baleniera norvegese, i costi furono comunque stimati intorno ai 100 milioni.

"Anche il tentativo di esplorare la Terra della Regina Maud fallì per motivi economici e Zavatti decise di organizzare, con l’Istituto Geografico Polare, un viaggio nell’isola di Bouvet, allo scopo di verificare la possibilità di costruirvi una stazione meteorologica." (34)

Ed ecco finalmente l’isola in vista, l’isola tanto agognata, quel roccioso e temibile avamposto dell’Antartide che Zavatti e Costanzo hanno tanto anelato di raggiungere, benché il comandante della baleniera avesse cercato di dissuaderli, sostenendo che sarebbero morti prima che la nave fosse tornata a riprenderli. Lo sbarco, comunque, avviene sull’isolotto Lars, dopo una serie di tentativi infruttuosi che, per un momento, fanno balenare lo spettro del fallimento prima ancora di aver incominciato la missione. Ma cediamo la parola a Zavatti.

"In un’alba grigia e tempestosa avvistammo Capo Circoncisione, la punta che, fra i veli e gli scrosci di una burrasca, apparve a Bouvet il 1° gennaio 1739.Il capitano diminuì la velocità della nave: il mare era pieno di insidie visibili e no e l’occhio magico del radar non bastava a far sparire le apprensioni.

"Pensai a Bouvet, pensai alla sua gioia e al suo orgoglio per quella scoperta che nella fantasia dei contemporanei si allargò fino a diventare un continente [ossia la Terra Australe Incognita], pensai all’ora di trepida commozione di tutti gli scopritori e mi dispiacque di essere nato in un mondo dove la scoperta sensazionale era finita per sempre.

"L’atmosfera era abbastanza chiara e pensai con gioia alla possibilità di sbarco, ma tutto non poteva filare come l’olio e la nebbia, la maledetta, indivisibile compagna della Bouvet, scese improvvisa, fredda, fitta intorno a noi a nascondere tutte le cose.

"Quando, leggendo i resoconti dei viaggi di Giacomo Cook, mi ero incontrato nella descrizione delle fitte nebbie che avevano travagliato, a quelle latitudini, la navigazione dei suoi scafi, avevo avuto a volte l’impressione che il racconto fosse stato a bella posta esagerato.

"Ora, però, ricevevo la più clamorosa smentita ai miei dubbi fugaci ed avevo un’altra prova della serietà scientifica del grande navigatore inglese.

"La navigazione si fece più attenta e pareva che gli occhi volessero forare quel muro impalpabile per prevenire i pericoli. Nessuno parlava più: l’attenzione occupava tutte le facoltà e diventava passione. Sembrava che il silenzio stesso si animase e si mutasse in preghiera al mare, ai ghiacci, agli scogli perché non spezzassero il nostro sogno e ci lasciassero entrare nel loro regno. La preghiera fu ascoltata o la volontà umana fu più forte delle insidie? Forse tutte e due le cose sono vere. Continuammo a navigare, altalenanti sulle onde lunghe, ma meno rabbiose. Sotto la carezza della nebbia il mare andava calmandosi. A mezzogiorno la nebbia si alzò e davanti a noi stava l’isola Lars, biancastra per la spuma delle onde che si rompevano sui suoi scogli. Accostammo fino al limite massimo e decisi di tentare uno sbarco. I nostri zaini erano pronti, pronta era la nostra tenda e prontissima la prodigiosa macchina da presa del maggiore Costanzo: ma soprattutto erano pronti i nostri spiriti!

"Il capitano fece calare in mare un canotto ed ordinò a quattro marinai di accompagnarci: ci avvisò che egli si sarebbe portato al largo per non correre pericoli e che sarebbe ritornato la mattina dopo a prenderci. Non volle venire con noi, non volle abbandonare la sua nave, proprio come un padre farebbe col figlio!

"Uomo meraviglioso che non dimenticherò mai più!

"Ballando una danza di tipo piuttosto sostenuto, ci accostammo all’isola con la segreta paura di non potervi mettere piede. Invece fummo fortunati perché girandovi intorno trovammo un branco di foche che il maggiore Costanzo filmò e una spiaggetta dove ci fu relativamente facile sbarcare.

"Il canotto si allontanò veloce e noi rimanemmo soli!

"Soli in una immensità di oceano, su uno scoglio che risuonava degli urli e dei belati delle foche, soli coi nostri pensieri e le nostre speranze che in quegli istanti ingigantirono in noi e c risvegliarono dal torpore in cui eravamo caduti. […]

"Lo sbarco non era stato facile e gli scogli affioranti erano stati una continua minaccia per la nostra fragile imbarcazione.

"Non fu impresa di poco conto trovare una strada relativamente sicura per giungere sulle coste dell’isola Lars e molti tentativi fallirono.

"Una prima volta un’ondata ci ghermì e ci innalzò sulla sua cresta con un rollìo pauroso che ci fece temere per le nostre vite e una seconda volta sfiorammo la punta aguzza di uno scoglio e rimanemmo col fiato sospeso nella certezza che avremmo udito lo scroscio dell’imbarcazione.

"Non avvenne nulla e i nostri occhi dicevano chiaramente la felicità che ci dominava!

"Un terzo tentativo fallì quando già eravamo convinti di averla spuntata: una corrente impetuosa, forse di marea, faceva ribollire le acque, tanto che era impossibile compiere qualsiasi sbarco.

"Ma la quarta volta, quando ormai si era fatta strada la convinzione che sarebbe stato un bene desistere dai tentativi e quando ormai i nostri indumenti avevano provato senza tregua la rude e gelida carezza delle acque, riuscimmo a sbarcare." (35)

Di fatto, la permanenza sull’isola Lars non dura un giorno, ma due giorni e due notti, a causa del mare cattivo; e poi vi sarà anche un breve sbarco sull’isola Bouvet; ma, nel complesso, sia l’una che l’altra appaiono desolatamente tetre e inospitali, quantunque non sembri impossibile – disponendo di mezzi adeguati – installarvi, in un secondo momento, una stazione meteorologica permanente. Cediamo ancora la parola – anzi, la penna – a Silvio Zavatti:

"L’isola Lars era disperatamente solitaria: avevamo timore di parlare per non rompere qul silenzio che aveva qualcosa di sacro. Imbacuccati nella nostra tenuta polare, sembravamo esseri venuti da un altro mondo e automi mossi da una forza misteriosa.

"Anche le rocce sotto i nostri piedi erano quasi invisibili [a causa della fitta nebbia] e dovevo quasi inginocchiarmi per osservarle: basalti, nudi e e scivolosi, a volte taglienti, che stavano a testimoniare l’origine vulcanica dell’isola. Nei millenni passati, dove allora c’era il deserto di ghiaccio, c’era stato, forse, un inferno di fuoco e un continuo brontolare di fuochi sotterranei. […]

"Prima dell’alba uscii dalla tenda. Ero indolenzito e quasi rattrappito dal freddo…Camminai per riscaldarmi e ci riuscii, malgrado la nebbia fosse diventata ancora più fitta e ancora più fredda! Il mare era diventato invisibile, ma si sentiva che doveva essere tempestoso perché madava il suo muggito continuo, pauroso, ossessionante.

"Per quel giorno, mi dissi, la nave non sarebbe venuta a prenderci e chissà quante altre ore avremmo dovuto trascorrere nella soltudine completa dell’isola. […]

"A giorno fatto riprendemmo le nostre esplorazioni, ma il panorama era sempre quello, sotto il denominatore comune della nebbia! Arrivato all’estrema punta orientale dell’isola, salii su una collinetta di basalti, alta forse una trentina di metri, e dalla cima ebbi la dolce sorpresa di scorgere un piccolo tratto della Bouvet, senza nebbia. Era la Punta Cato la cui sommità era fuori dal mare di nebbia. Il maggiore Costanzo, col teleobiettivo, diede qualche giro di manovella, ma dovette smettere subito perché la nebbia si alzò come comandata da esseri fantastici e ricoprì tutte le cose.

Quella rapida visione, però, era stata sufficiente ad elettrizzarci e a sciogliere la nostra loquacità. Pensammo di spingerci coi nostri mezzi alla Bouvet e ci mettemmo ad esplorare la costa orientale dell’isola Lars nella speranza di trovare lo stretto braccio di mare, che la separava dalla Bouvet, coperto di solido ghiaccio. Invece i ghiacci erano pochi e spezzati e senza un’imbarcazione non saremmo mai giunti sull’altra sponda! […]

"La nave, bella come non mai, ci apparve all’improvviso di tra la nebbia e il capitano fu felice di rivederci. Riprendemmo la navigazione verso il Nord e accostammo, fino all’estremo possibile, alle coste della Bouvet.

"Verso mezzogiorno, uno squarcio improvviso di sole, rapido come un baleno, ci fece scorgere Capo Norvegia. Poi la nebbia scese di nuovo, come un fumo che il vento sospingesse dalla ciminiera di unag rande fabbrica. Dissi al capitano che desideravo sbarcare a Capo Norvegia ed egli, dopo qualche titubanza, acconsentì ad accostare ancora e a mandare un canotto, su cui imbarcammo prontamente, in una piccola baia immediatamente a Sud di Capo Norvegia (che noi chiamammo Baia Tupini, in omaggio al ministro che col suo interessamento aveva reso possibile la missione). Mettemmo i piedi sulla Bouvet e vi restammo alcune ore: poche per la nostra ansia, ma sufficienti a confermarci nell’idea che la costruzione di una base meteorologica era possibile anche se irta di ostacoli.

"La baia aveva alle sue spalle una piccola spiaggia di sabbia e ciottoli, lunga un centinaio di metri e profonda da venti a venticinque.

"Sembrava un angolo di Paradiso in quell’inferno di rocce ripide e lisce come muraglie." (36)

NOTE

1) Dizionario dei Film. Tutto il cinema di tutti i paesi (a cura di P. Farinotti), Milano, Rusconi, 1980, vol. 2, p. 812.

2) Gréville ritenterà di sfondare una terza (e ultima) volta nel 1960 con Le mani dell’altro, adattamento del romanzo di Maurice Renard, in cui un pianista (Mel Ferrer), in seguito a un incidente, si sottopone a un intervento di trapianto delle mani che, però, sembrano essere quelle di un assassino giustiziato lo stesso giorno, e che lo spingono a uccidere.

3) KAUFMAN, Hank-LERNER, Gene, Hollywood sul Tevere, Milano, Sperling& Kupfer, 1982, p. 76.

4) MEREGHETTI, P., Il Mereghetti. Dizionario dei film 2004, Milano, Baldini Castoldi Dalai ed., p. 1.210.

5) AUCANTE, Maryse, Le isole dove regnano pinguini e albatri, su Atlante, marzo 1985, p.32.

6) LAMENDOLA, Francesco, Eliseo Reclus, un geografo per l’anarchia, su Umanità Nova del 12 giugno 1988.

7) LAMENDOLA, Francesco, Il limite antartico della vegetazione arborea, su Il Polo,nr. 3 del 1986, pp.; Id., La flora sub-antartica di Mas a Fuera, su Il Polo, nr. 1 del 1989.

8) AUCANTE, Maryse, op. cit., p. 38.

9) AUBERT DE LA RUE, E., Les Terres Australes, Paris, Que sais-je?, 1967, pp. 209-238.

10) SCAIONI, Ugo, La rivoluzione industriale, vol. 16 dell’enc. Il pianeta dell’uomo, Milano, Mondadori, 1976, pp. 95-96.

11) GALLONE, Maria, Presentazione all’ed. ital. de L’isola in capo al mondo, cit.

12) CROUZAT, Henri, L’isola in capo al mondo, Milano, Rizzoli, 1963, pp. 351-353.

13) CAMUS, Albert, Lo straniero, Milano, Bompiani, 1984, p. 150.

14) PASQUINI-Pasquale-GHIGI, Alessandro, La vita degli animali, Torino, U.T.E..T., 1974, vol. 1, pp. 972.973.

15) CROUZAT, Henri, cit., pp. 56-57; 59-61.

16) OUSPENSKY, Piotr Demianovich, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Roma, Astrolabio, 1976, p. 425.

17) JENKINS, Geoffrey, L’U-boot scomparso, Milano, Longanesi & C., 1967, pp. 5-6.

18) JENKINS, Geoffrey, Mare, vento, ghiacci, Milano, Longanesi & C. (traduzione di Luciano Savoia), 1971, pp. 214-215.

19) Ibidem, pp. 281-282.

20) Ibidem, pp. 291-292.

21) Cfr. LAMENDOLA, Francesco, Il mistero delle Isole Auroras, su Il Polo, vol. 3 del 2004, pp. 25-39; Id., Terra Australis Incognita, vol. 3 del 1989, pp. 51-58.

22) JENKINS, Geoffrey, Mare, vento, ghiacci, cit., p. 1.

23) Atti del Convegno "Silvio Zavatti. L’uomo e l’esploratore", su Il Polo, vol. 3 del 2006.

24) LAMENDOLA, Francesco, Silvio Zavatti filologo classico, in Il Polo, vol. 3 del 2006, pp. 72-76; ZAVATTI, Silvio (a cura di), Eneide, libro V, Messina-Firenze, G. D’Anna Ed., 1949.

25) ZAVATTI, Silvio, I Poli, Milano, Feltrinelli, 1963, pp. 202-203.

26) ZAVATTI, Silvio, L’esplorazione dell’Antartide, Milano, Mursia, 1974, pp.212-213.

27) ZAVATTI, Silvio, Poesia eschimese, Roma, Ed. Missioni O. M. I., 1966; Id., Il misterioso popolo dei ghiacci, Milano, Longanesi & C., 1977:, Id., Gli Eschimesi, su L’Universo, n. 3 e 4 del 1965; e, per l’etnografia degli Amerindi, Canti degli Indiani d’America (a cura di S. Zavatti), Roma, Newton Compton ed., 1977.

28) ZAVATTI, Silvio, Dizionario degli esploratori e delle scoperte geografiche, Milano, Feltrinelli, 1967, p. 298.

29) ZAVATTI, Silvio, I viaggi del capitano Cook, Milano, Schwarz, 1960, pp. 201-203.

30) Cfr. COOK, James, account of a Voyage Round the World in the Years 1768-71, in Voyages di J. Hawkesworth, vol. 2 e 3, 1773; COOK, J., A Voyage Towards the South Pole and Round the World, ed. J. Douglas (2 voll.), 1784; COOK, J.-KING, J., A Voyage to the Pacific Ocean… for making Discoveries in the Northern Emisphere, ed. J. Douglas (3 voll.), 1784. Vedi anche: COOK, J., Voyages dans l’émisphère austral, ecc., Paris, 1778-85, vol. 8; LEBRUN, H., Voyages et Aventures du cap. Cook, Paris, 1852.

31) ZAVATTI, Silvio, Verso l’isola Bouvet avamposto del Polo, in Paese Sera, Roma, 7 maggio 1959; La missione antartica italiana, in Le vie del mare, Milano, sett. 1959; L’Italia si è affacciata per la prima volta all’Antartide, in L’Universo, Firenze, sett.-ott. 1959; La missione italiana all’isola Bouvet, in Collectors’ Post, Milano, sett.-dic. 1959; Ritorno della missione antartica italiana, in Le vie del mare, Milano, febbraio 1960; La Missione Antartica Italiana all’isola Bouvet, in Rivista aeronautica, Roma, nr. 2, 3, 4 del 1960

32) ZAVATTI, Silvio, Dove soffia il blizzard, Bologna, Malipiero, 1958.

33) Cfrf. TURRONI, Giuseppe, Come realizzare un film documentario, Milano, Il Castello, 1966, pp. 67-69.

34) FRINCHILLUCCI, Gianluca, Silvio Zavatti e l’esplorazione dell’isola Bouvet, in Il Polo, vol. 1-2 del 2002, pp. 69-70.

35) ZAVATTI, Silvio, Viaggio all’isola Bouvet, Bologna, Malipiero, 1960, pp. 44-47.

36) Ibidem, pp. 49-53.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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