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I poli nella letteratura: Herzen, Petrescu, Pelizzari

Proseguiamo la nostra rassegna con altre tre figure di scrittori delle cose polari: il russo Aleksandr Herzen, il romeno Cézar Petrescu e l’italiana Ginevra Pelizzari. Autori assai diversi fra loro: il primo è stato essenzialmente uno studioso di fisiologia, ma animato da una vivace curiosità per ogni aspetto del mondo e della vita; il secondo occupa un posto emiente fra gli scrittori della Romania nella prima metà del Novecento ed è stato un grande animatore della vita culturale del suo Paese; l’ultima ha legato il suo nome a un fortunato libro di narrativa per ragazzi e, per il resto, non ha fatto parlare di sé. Ma tutti e tre sono autori di opere che hanno potentemente contribuito alla diffusione dei temi polari nella cultura europea contemporanea, sia pure sotto differenti punti di vista: rispettivamente Una gita a Jan Mayen; Fram, l’orso polare; e Mabel tra gli Esquimesi.

ALESSANDRO HERZEN E "UNA GITA A JAN MAYEN".

Il nome di Aleksandr Herzen (1812-1870) è familiare a quanti conoscono, anche superficialmente, la storia della Russia moderna: è quello del massimo esponente del populismo russo, amico di Michaìl Bakunin e fondatore del leggendario giornale La Campana. (1) Qui però non vogliamo parlare di lui, ma del maggiore dei figli che ha avuto da Natalia Ogareva (1817-1852), lui pure di nome Aleksandr, nato in Russia, a Vladimir, il 13 giugno 1839 e morto in Svizzera, a Losanna, il 24 agosto 1906, dopo una vita errabonda e irrequieta. Dopo di lui nascono Natalia, nel 1844 (morta nel 1936) e Olga, nel 1850 (morta nel 1853, come pure due fratelli maschi che muoiono prima di diventare adulti). Dopo una giovinezza trascorsa in Gran Bretagna, Alessandro Herzen junior si trasferisce in Svizzera, a Berna, come tanti altri esuli russi di idee liberali o democratiche, cui non sorride l’idea di vivere in Russia sotto l’autocrazia zarista. Nella capitale della Confederazione Elvetica egli segue i corsi del fisiologo tedesco Maurizio Schiff, laureandosi in medicina nel 1861. Quando, due anni dopo – nel 1863 – Schiff si trasferisce in Italia come professore di anatomia e fisiologia a Firenze e fonda, in via Gino Capponi, il Laboratorio di fisiologia umana, Herzen lo segue e lavora nella capitale provvisoria del Regno d’Italia come suo assistente. L’attività dei due studiosi, però, dà esca a una violenta polemica sulla vivisezione. Nel 1873 si giunge addirittura a un processo, poiché alcuni nobili fiorentini accusano lo Schiff di turbare la quiete a causa di certi «ululati strazianti e grida di dolore […degli] animali viventi come cani, gatti, ed ogni altra specie di animali». Herzen partecipa alla polemica con uno scritto vivace e battagliero intitolato Gli animali martiri, i loro protettori e la fisiologia:. (2) In esso, fra l’altro, sostiene che «Gli animali martiri degli esperimenti fisiologici sono poca cosa rispetto agli animali martiri delle altre attività dell’uomo (sostentamento, comodo, lusso, "ghiottoneria", ignoranza, capriccio, ferocia e vanagloria, divertimento)». Da Firenze e dall’Italia, la polemica si amplifica e rimbalza in tutta Europa, coinvolgendo importanti giornali stranieri, tra i quali il Times di Londra e il Daily News; né accenna a placarsi se non dopo la partenza di Schiff dalla città in riva all’Arno. Il suo giovane assistente, comunque, ha potuto farvisi numerose amicizie, tanto che quando – nel 1876 – Schiff lascia Firenze, egli viene chiamato a ricoprire la cattedra del maestro. Herzen rimane all’Istituto di Studi superiori per altri cinque anni, fino al 1881, quando il suo temperamento inquieto lo spinge a lasciare l’Italia, per andare ad insegnare all’Accademia di Losanna. Egli si muove nel contesto del positivismo di fine Ottocento e, come epistemologo, elabora una forma di materialismo dinamico, analogo a quello professato, allora, dal fisiologo olandese Jakob Moleschott (1822-1893), autore di importanti studi sulla respirazione dei tessuti e sulla fisiologia dei nervi cardiaci, e dal geologo e chimico norvegese Johan Herman Lie Vogt (1858-1932), autore di studi fondamentali sui processi di cristallizzazione nelle scorie dei forni. Tra le sue opere scientifiche ricordiamo almeno Analisi fisiologica del pensiero umano, pubblicata a Firenze nel 1879, e – in francese – Le cerveau et l’activité cérebrale, edita a Parigi nel 1889. (3)

A noi, della sua esistenza cosmopolita dei suoi molteplici interessi culturali, importa qui il periodo fiorentino, perché nel corso di esso egli decide di partecipare ad una spedizione scientifica verso l’Artide e precisamente all’isola di Jan Mayen, nel 1861. Sperduta fra la Norvegia e l’Islanda, l’isola (372,5 kmq.) è leggermente più grande di Maiorca, la maggiore delle Baleari e, benché geograficamente appartenga all’Europa, trovandosi a 71° di latitudine Nord e a 8°30′ di longitudine Ovest rientra nella zona polare, in pieno Mare di Groenlandia. (550 km. a Nord-est dell’Islanda).. Ha pressappoco la forma di un femore lungo 53,7 km. ed è allineata da Nord-est a Sud-ovest, con le due parti montuose collegate da un istmo di soli 2,5 km. che ospita due lagune d’acqua dolce. La sommità meridionale, chiamata Sörlandet, tocca gli 843 m. con la Elisabethtoppen (che però, a quella latitudine, corrispondono a un’alta montagna delle Alpi), mentre la parte settentrionale o Norlandet, assai più vasta, culmina nel massiccio vulcanico del Beerenberg, a 2.277 metri s. l. m., ricoperto da una calotta glaciale, con una decina di lingue che scendono fino al mare. Il cratere, largo più di 1 km., ha una cavità profonda 200 m. e interamente riempita di ghiaccio; dai 300 m. di quota le sue pendici sono coperte di neve e ghiaccio. L’ultima eruzione del vulcano risale al 1732; poi, nel 1818, è stata osservata una notevole fuoriuscuta di vapori, che in piccola parte sono ancora visibili. Le coste dell’isola sono alte e precipiti, innalzandosi da fondali profondi tra i 2 e i 3.000 m.; le ripe presentano in più punti un’altezza di 300 metri e sono a strapiombo, specialmente sul versante settentrionale e orientale del Beerenberg.(4)

Scoperta da Henry Hudson nel 1608, che la chiamò con il suo nome, Jan Mayen fu riscoperta e ribattezzata più volte negli anni successivi, ha ricevuto il suo nome definitivo da un capitano olandese nel 1614. Il clima è il bizarro risultato dell’incrociarsi di due correnti marine, una calda e una fredda: la Corrente del Golfo e la Corrente della Groenlandia orientale. Le temperature medie invernali registrano una media di – 6°, quelle estive fra 5° e 6°. D’inverno l’isola è interdetta alle navi a causa del pack, e questa è una delle ragioni per cui, benché sia stata più volte raggiunta da cacciatori e coloni, non è mai stata abitata permanentemente fino al 19121, quando i Norvegesi vi hanno installato una stazione radio e meteorologica. Tra il 1958 e il 1963 vi è stato costruito un campo di atterraggio per gli aerei destinati a rifornire i meteorologi che lavorano nella stazione, situata presso la costa occidentale; ma, quando la vista la spedizione scientifica italiana del 1861, questa terra isolata e sperduta, una delle più solitarie del mondo, non è popolata che da una fauna ricchissima di uccelli marini e migratori e di mammiferi (5) Tra questi ultimi, la volpe artica sulla terra e le foche nel mare erano quelli maggiormente cacciati dall’uomo. La flora vanta la presenza di 51 specie complessive.

Questa, dunque, l’isola che Aleksandr Herzen visita nel 1861, quando ha soli 22 anni ma un forte spirito d’osservazione e una marcata curiosità scientifica. Parla e scrive l’italiano piuttosto bene; ma la sua relazione di viaggio non viene pubblicata che nove anni dopo, sul Bollettino della Società Geografica Italiana, col titolo assai modesto di Una gita a Jan Mayen. (6) Ma è tempo di cedere la parola al giovane Herzen, nel cui racconto sentiamo lo stupore e al tempo stesso l’acutezza dello sguardo di una mente pervasa di spirito scientifico.

"Da quando abbiamo lasciato la Norvegia, noi non abbiamo letteralmente veduto che il cielo e l’acqua; il 10 e l’11 [agosto 1861] abbiamo ancora trovato dei porci marini (Phocaena) e qualche balena; i primi venivano a centinaia a giuocare, a far capitomboli ed a nuotare cercando chi primo passasse la prora dello schooner; le balene al contrario, non si facevano vedere che da lontano; era al disotto della loro volontà occuparsi di noi; esse si divertivano a lanciare maestosamente un potente getto d’acqua colle loro nari, ed a percuotere le onde colla loro immensa coda, producendo un suono similea lontanissimo cannoneggiamento. Rari uccelli avevano ancora attraversata l’aria, tutti palmipedi, soprattutto dei gabbiani di differenti specie. Qualche Cyanaea ed Aurelia, le meduse più comuni di queste regioni furono gli ultimi animali invertebrati che noi potemmo scoprire nell’acqua ed anche questi finalmente sparirono…

"A misura che avanzavamo, la Procellaria glacialis diveniva di più in più frequente; noi non l’avevamo scorta che rarissimamente lungo la costa norvegiana, e sempre da lontano. Qui potevamo studiarne a piacere il volo e le abitudini. È un uccello grande come un gabbiano ordinario, d’un bianco giallognolo con mantello grigio. Il suo volo è pesante ed imbarazzato, allorché vuole elevarsi, ma graziosissimo, elegante e rapido allorché sdrucciola sulla superficie dei cavalloni, inclinando le sue ali immobili secondo l’ondulazione loro e sfiorando qualche volta colla punta di una di esse la cresta aguzza d’un’onda più alta… Non potevamo a meno di meravigliarci del loro numero, e soprattutto della facilità colla quale essi trovavano di che nutrirsi, mentre, colla più grande attenzione, ci era impossibile scoprire nell’acqua la più piccola traccia di esseri viventi…

"[Il giorno 19, a tavola] il capitano ci dichiarò con sicurezza ch’egli aveva verificato il suo calcolo, e che noi dovevamo in questo stesso giorno, verso le 4 dopo mezzogiorno, o battere le rocce di Jan Mayen colla prua della nave od oltrepassare l’isola senza vederla a causa della nebbia. Vi fu un momento di silenzio, non sapevamo che dire, tutti desideravamo girar di bordo, ma nessuno aveva il coraggio d’essere il primo a proporlo francamente. Il capitano si alza da tavola e va sul ponte, per vedere se tutto è in ordine; noi restiamo un poco pensierosi, e continuiamo a masticare in silenzio. Ad un tratto il capitano apre con fracasso l’invetriata della nostra cabina e grida con tutta la forza dei suoi polmoni: – Venite, salite, presto, si vede Jan Mayen! -. Ci alziamo subito, con un sol movimento, i piatti rotolano, i bicchieri si rompono, il cane si getta sopra la salsa rovesciata e noi ci precipitiamo sul ponte.

"- Dove, dove?-. – Là, là…nella nebbia. – – Ma non vedo nulla!-. È troppo tardi, tutto è sparito, si è scoperta un momento la cima del vulcano, ma la cortina nebbiosa si è subito rinchiusa…un momento dopo la nebbia si dirada in un punto che il vento scaccia dinanzi a sé, si apre, si chiude, si riapre di nuovo, e sparisce. Di nuovo una lacuna nelle nubi, si avvicina alla montagna, ma tornerà a chiudersi come le altre prima di lasciar intravedere… Ah! Eccola! Una maestosa vetta, coperta di neve e di ghiaccio, apparisce nell’azzurro del cielo, brillante, diafana; ma la nebbia l’inviluppa nuovamente, e noi attendiamo invano la grazia d’un secondo colpo d’occhio. In quel momento il cielo si oscura, la nebbia diviene d’uno spessore impenetrabile. Al livello del mare si stendeva una zona d’un violetto carico, quasi nero; vi si distingueva di tanto in tanto la schiuma delle onde lanciata ad un’altezza prodigiosa; le onde non battevano evidentemente su d’una riva unita, ma venivano a rompersi con violenza contro rupi scoscese o contro i bordi taglienti d’una cintura di ghiaccio…

"[L’indomani] il mare rassomigliava meno che nei giorni antecedenti al piombo liquido, la nebbia lasciava distinguere i contorni delle nubi, ornati delle tinte calde e vive dell’aurora, di quando in quando ci sembrava scoprire, dietro le masse di nebbia che scorrevano silenziosamente lungo le onde, qualche cosa d’immobile, un’indicazione di ghiaccio, un’ombra di rocce; l’orizzonte si rischiara al Nord-est; le colonne di nebbia spariscono una dietro l’altra, diventano diafane, passano più rapidamente davanti i contorni ancora incerti, ma sempre più determinati, e qualche momento più tardi abbiamo davanti a noi il Baerenberg in tutta la splendidezza della sua nudità, arrossendo ai primi raggi del sole. La sua enorme sommità, a 7.000 piedi al disopra il livello del mare, coperta di neve, brillava gaiamente al sole e rifletteva delle tinte ardenti d’oro, e di rosa delicato; nove ghiacciaie [ la forma maschile "ghiaccio" non aveva ancora, alla metà dell’Ottocento, soppiantato quella femminile in uso già dal settecento, "ghiacciaia": nota di F. Rodolico] increspate e fesse serpeggiavano sui fianchi della montagna, trasparenti come smeraldo fin nel mare; le ondate schiumanti venivano a rompersi qua, contro i ghiacci ridenti e diafani, là contro le rocce nere e lugubri. Il mare era d’un celeste carico, il cielo ancora pallido, un silenzio assoluto regnava intorno a noi, non vi era traccia alcuna d’essere umano, era un momento veramente grandioso e noi restammo molto tempo senza parlare…

"[Nella] mattinata… la costa diviene più distinta; incontriamo più frequentemente dei pezzi di ghiaccio strappati ai piedi delle ghiacciaie; gli uccelli marini di tutte le specie diventano più numerosi ed in mezzo ad essi l’antica nostra conoscenza, la Procellaria glacialis; dei piccoli uccelli neri nuotano, s’immergono e spariscono; dei grandi uccelli bianchi volano pesantemente; la nostra venuta mette tutta questa popolazione dalle piume, in un’agitazione straordinaria; è un andare e venire, correre, tuffarsi, nuotare senza posa, e tutto questo con un’aria profondamente seria, come se adempissero ad un loro sacro dovere. Le loro opinioni a nostro riguardo, circa alle nostre intenzioni pacifiche o bellicose non si accordavano niente affatto, almeno a giudicarne dai suoni stridenti de abbominevolmente falsi che uscivano dai loro becchi largamente aperti, la produzione dei quali sembrava sovente costasse loro uno sforzo considerevole. Speravo ancora, ed il mio cuore si contraeva a questa folle speranza, incontrare in qualche lontano ridotto l’ultimo rappresentante della nobile razza degli Alca impennis!

"A misura che noi ci avvicinavamo, l’aspetto della montagna diveniva sempre più fantastico e variato. Le rocce mostravano, su di un fondo uniformemente opaco, delle tracce ora rosse, ora gialle, indicanti i diversi strati della lava; vi erano dei punti d’un verde bellissimo, ma non potevamo distinguere se era erba, muschio, o qualche massa minerale. Le superfici liscie che le ghiacciaie presentavano al mare, si elevavano perpendicolarmente, come mura di smeraldo, si sentiva di quando in quando affondarsi qualche massa di ghiaccio, diveniva evidente che noi non potevamo abbordare, le onde urtavano le rocce con tal violenza, , che non osavamo nemmeno tentare la prova; esse ammucchiavansi di più come per prendere uno slancio e gittarsi quindi confusamente da una roccia all’altra, per coprire colla loro schiuma le più ardite aguglie…

"[Solo dopo qualche giorno fu possibile lo sbarco] sopra una lunga diga posta fra il mare ed un piccolo lago d’acqua dolce, che ha forse trenta metri di larghezza per due chilometri di lunghezza. Si può traversare a guado in quasi tutti i punti… I grandi uccelli bianchi, i soli che io desideravo possedere, non si lasciarono avvicinare; corsi invano un’intiera ora, il fucile sempre armato, senza arrivare a tirare un colpo solo; mi misi allora a cercare delle piante e delle pietre. Non si vedeva che di quando in quando qualche piccola pianta mal cresciuta, che uscivano appena dalle screpolature della lava; le loro foglie erano quasi secche e pallide; sembravano avessero paura di mostrarsi al giorno e cercassero qualche briciola d’un nutrimento parco in quei fessi oscuri, dove il vento dimentica per caso un po’ di polvere. Sulla lava stessa non vi era che qualche traccia di vegetazione crittogama, un muschio giallognolo copriva il lembo umido delle colline: ma il nero ed il grigio predominavano dappertutto. Regnava un silenzio perfetto: niente si muoveva; soli, gli ammassi di lava mi circondavano sparpagliati nel modo più strano, essi stessi di forme fantastiche e stravaganti, rassomiglianti alle ruine di una città abbandonata, costrutta da esseri favolosi, estranei a noi; quelle punte, quegli angoli taglienti mi facevano l’effetto d’edifizi, di torri, di chiese, resti affondati d’un mondo del tutto diverso. Dimenticai me stesso per qualche tempo in mezzo a quelle forme misteriose e m’immaginai che davanti a me passasse la processione magica che Heine vide, dalla capanna d’Uraka, allorché andò ad uccidere Atta Troll, il terribile orso di Ronceval [episodio del poemetto satirico Atta Troll del grande poeta tedesco Enrico Heine, 1799-1856; n. di F. Rodolico] … Un grido sperduto mi richiamò da tali fantasticherie: uno dei grandi uccelli bianchi, oggetto dei miei desideri, circolava al disopra della mia testa; impugnare il fucile e sparare fu affare d’un istante; l’uccello cadde ai miei piedi; lo credetti morto, ma quando andai a prenderlo, ebbe ancora la forza di mordermi fortemente il dito; era una specie di gabbiano piuttosto raro…

"Dopo il pasto, decidemmo di traversare l’isola al punto più stretto e meno elevato, onde vedere la costa del Nord. Prendemmo i nostri fucili nella vaga speranza d’incontrare delle volpi, le cui tracce erano così numerose intorno a noi. Marciando, trovammo rimasugli d’uccelli evidentemente divorati dalle volpi, ma non potemmo trovare una sola di queste… Mi contentai di avanzarmi fino al punto culminante del colle, ove ebbi sull’Oceano glaciale, la vista la più estesa. Con mia grande sorpresa vidi svolgersi a me davante, verso il Nord-ovest, un mare perfettamente chiaro, un orizzonte lontano che non presentava alcun indizio di ghiaccio. La linea tremante dell’orizzonte non era interrotta che in due punti: all’est della corona colossale del Baerenberg ed all’Ovest da una collina, un cratere secondario, la cui tinta nera contrastava colla bianchezza di quella faccia…

"Infrattanto il sole si avvicinava all’orizzonte, le lave prendevano una tinta d’un rosso carico, come se esse si riscaldassero nuovamente e volessero muoversi, ardenti, distruggendo spietatamente tutto quanto esse incontrassero sul loro cammino." (7)

Da queste pagine si ricava l’impressione di uno scrittore che sa equilibrare l’aspetto scientifico della relazione di viaggio, prendendo nota degli strati geologici e delle specie di uccelli, con quello propriamente letterario, mostrando capacità di tratteggiare scene umoristiche, come quella del cane che si getta sopra la salva rovesciata; poetiche, come quella della prima luce dell’alba che si fa strda tra la nebbia, animando il grandioso paesaggio dell’isola; e quasi di evocazione surreale, come quello scenario di rocce che, nel gran silenzio, pare animarsi dei profili d’una ciclopica città perduta. Ricaviamo inoltre l’impressione che Herzen abbia intrapreso la lunga e rischiosa crociera nei mari nebbiosi a nord della Scandinavia inseguendo un suo sogno segreto e quasi inconfessabile: la riscoperta dell’alca gigante, speranza rivelatasi purtroppo illusoria. Infatti, come scrive il naturalista svizzero Vinzenz Ziswiler, "L’irresponsabile razzia [delle uova] fu fatale già nel secolo scorso all’alca gigante (Alca impennis). Questa – la più grande della famiglia degli Alcidi, le cui ali, come nel pinguino, non erano più atte al volo, era già sterminata intorno al 1850. Solamente pochi e preziosi esemplari conservati nei musei permettono oggi di farci un’idea di questo uccello." (8) Dispiace invero quel colpo di fucile nel magico, arcano silenzio di Jan Mayen, e quel grande uccello colpito a morte, senza un’ombra di rincrescimento, per amore della scienza; così come, anni dopo, in nome della scienza sosterrà il buon diritto di vivisezionare le cavie nel Museo di Storia naturale di Firenze… Ma tant’è,: nonostante qualche venatura romantica (si noti, ad esempio, quel riferimento ad Heinrich Heine), Herzen è pur sempre uno scienziato positivista, che avrebbe considerato una forma di sentimentalismo quella di impietosirsi per il destino di qualche uccello artico. In ciò sta il limite della sua impostazione culturale, almeno dal nostro punto di vista di uomini del XXI secolo: ora che i ghiacci dell’Artico si stanno sciogliendo, ora che tante e tante altre specie animali e vegetali sono andate estinte a causa della "civiltà"; ora che gli sconvolgimenti climatici e ambientali rischiano di privarci, per sempre, di un pianeta ospitale e accogliente in cui vivere.

CÉZAR PETRESCU E "FRAM, L’ORSO POLARE".

Cezar Petrescu nasce nella Moldavia settentrionale, a Cotnari, non lontano da Iasi, il 14 dicembre 1892. Giovanissimo, inizia la sua attività letteraria come giornalista e come scrittore, collocandosi d’istinto fra i cosiddetti neoseminatoristi, verso i quali lo attrae l’amore per la terra e, al tempo stesso, la preoccupazione per la difesa della sua identità minacciata da modelli di vita estranei, urbani e internazionali. Spirito conservatore, contemplativo, pessimista, ideale prosecutore della strada tracciata dal suo grande conterraneo, Mihail Sadoveanu, e tuttavia pervaso da un’inquietudine spirituale autenticamente sentita e da un’ansia di rigore e di pulizia morale mai smentita nella sua lunga carriera, Petrescu assomiglia un po’ a tanti personaggi dei suoi romanzi e racconti. E’ il classico provinciale ingenuo e sognatore, pieno di illusioni sulla bontà degli uomini e sulla funzione quasi apostolica dell’intellettuale, che si trasferisce nella grande città occidentalizzata, Bucarest, per dare la scalata al successo letterario. Osservatore attento e penetrante della realtà, buon conoscitore d’uomini cui lo predispone una innata capacità d’intuizione psicologica, odia l’ipocrisia borghese, la furbizia dei filistei, le piccole meschine manovre di chi non ha talento, ma è abbastanza cinico e sfrontato per farsi comunque avanti; e percepisce emozioni e atmosfere grazie a una sensibilità estremamente acuta, quasi dolorosa.

In lui c’è un contrasto, un intimo dissidio che è poi quello della Romania di quegli anni decisivi: dal padre valacco ha ereditato uno spirito eminentemente pratico, dinamico, vigoroso e intraprendente; dalla madre moldava l’attitudine al ripiegamento interiore, al bisogno di solitudine e di silenzio, all’anelito di evasione dalla grigia e piatta atmosfera della realtà quotidiana, nei regni bellissimi del sogno e della fantasia. Vive in un’epoca di trapasso e, sensibile come tutti i veri artisti, è egli stesso un uomo di trapasso: cioè un uomo diviso fra opposte esigenze spirituali, allarmato e spaventato dal fosco avvenire che avanza col cosiddetto "progresso", e tuttavia in qualche modo cosciente dell’impossibilità di un puro e semplice ritorno al passato, cui pure il suo cuore desideroso di pace anela incessantemente. Come il Petrarca del Secretum, che come lui visse in un’epoca di faticosa transizione tra un passato che non vuol morire e un futuro che stenta ad affermarsi, potrebbe dire di sé stesso: "Quel doppio uomo che è in me."

Infatti la sua vita movimentata, i frequenti spostamenti, i bruschi passaggi dalla povertà alla ricchezza e viceversa, le metropoli occidentali, i porti del Vicino Oriente, le stesse apparentemente opposte esigenze del suo estro letterario: un realismo disadorno e antiromantico e, contemporaneamente, un’attrazione invincibile per l’ignoto e il mistero: tutto questo ne fa lo scrittore romeno la cui vita più ricorda quella di Jack London, e non solo per il dato biografico esteriore ma anche per quella consapevole fragilità dissimulata dietro una facciata di energico e infaticabile volontarismo. E a Jack London somiglia anche per l’amaro pessimismo, mitigato solo dal senso rasserenatore della madre natura; mentre la donna, in Petrescu (come in London) non è e non può essere elemento rasserenatore, poiché non sa mantenere le promesse seducenti del suo fascino misterioso e si rivela anch’essa, anzi, parte della dolorosa disillusione, del drammatico disinganno che la vita implacabilmente riserva anche a coloro che si erano illusi di dominarla a piacere.

E dopo Jack London, Honoré de Balzac. Con Balzac esiste una sintonia quasi perfetta sia nell’atteggiamento realistico di chi vuol cogliere tutta la realtà senza infingimenti; sia nell’ambizione di poterla abbracciare, analizzare e descrivere in ogni sua manifestazione, in ogni classe sociale e in ogni tipo umano; sia, infine, nell’identificazione col giovane ingenuo di belle speranze che la dura realtà del mondo, e particolarmente della grande città smaliziata e corrotta, riporta bruscamente dalla poesia alla prosa più arida e meschina della vita umana: come il protagonista di Illusioni perdute del grande romanziere francese. In lui c’è una curiosità spontanea verso il dato umano, verso il meccanismo, per così dire, delle passioni, dell’ambizione, della brama di vivere da cui, schopenhauerianamente, d’istinto, si ritrae pieno di angoscia, scoraggiamento e delusione. Sente che il male è lì, in quell’ardente desiderio di vita, in quell’attaccamento irrazionale alle cose, in quella volontà di successo e di godimento che si trasforma in un meccanismo feroce, spietato e che lancia gli uomini gli uni contro gli altri, per superarsi e sopraffarsi a vicenda. Intuisce tutta la bruttezza di un modo di essere puramente egoistico e utilitaristico, di una ricerca illimitata di felcità che si traduce, inevitabilmente, in uno scacco bruciante e traumatico. "I want to be happy", risuonano le note della canzone americana nell’ edificio di Calea Victoriei; e questa umanità che si affanna disperatamente in una ricerca del piacere senza fine e senza pace, suscita in lui una reazione di pena profonda, di rammarico impotente, ma anche, si direbbe, di ripulsa e di disgusto, come davanti a uno spettacolo di pagliacci mal riuscito, chiassoso e volgare. Certo, vi è anche una buona dose di filosofia leopardiana in tutto ciò: il male non è solo nel fatto di desiderare incessantemente, di bramare senza limiti una felicità che per sua stessa natura non può che essere indefinita e illimitata, dunque irraggiungibile; il male è a monte e sta proprio nel fatto di esistere, di esserci. Per dirla con Heidegger, siamo esseri-per-la-morte ed il nostro dramma sta nel Da-sein, nella colpa originaria di esserci.

L’evento decisivo nel percorso umano e letterario di questo Autore non è un evento privato, ma una grande, irreparabile tragedia collettiva: la prima guerra mondiale, al rombo dei cui cannoni tutta la patriarcale vita romena viene scossa dalle fondamenta, e un’intera generazione viene assassinata spiritualmente: sarà il tema della sua opera forse più famosa: Intunecare. Quando il governo Bratianu, dopo lunghe e tormentose incertezze, dichiara guerra all’Austria-Ungheria ed invade la Transilvania, nell’agosto 1916 (trascinato sia dalla conquista italiana di Gorizia, sia dagli effimeri successi dell’offensiva Brusilov in Galizia e Bucovina), Cezar Petrescu è un giovane di ventiquattro anni che, come tanti suoi coetanei, viene arruolato e spedito al fronte. Grande è l’entusiasmo della borghesia nazionalista, ma scarso quello dei contadini, assillati (proprio come era accaduto in Italia l’anno prima) dalla preoccupazione di dover lasciare i campi abbandonati nel pieno del ciclo agricolo, e troppo poveri, sfruttati e analfabeti per comprendere le rivendicazioni territoriali, che vanno molto al di là della Transilvania poiché comprendono le contee esteriori di Szatmàr (Satu Mare), Bihor e Arad, o Piccolo Alföld, sin nei pressi di Szeged, il Maramures e l’intero Banato. E solo nove anni prima quei contadini si erano ribellati alla loro intollerabile condizione di servaggio, e avevano visto i fucili dell’esercito rivolgersi e sparare contro di loro! Le illusioni di una facile e rapida vittoria s’incrinano e vanno in pezzi nel giro di poche settimane. Dopo una serie di battaglie disperate per impadronirsi dei passi carpatici prima che la neve li blocchi, le truppe austro-tedesche del generale von Mackensen riescono a sboccare nella pianura valacca e il 6 dicembre entrano a Bucarest, sgombrata in fretta e furia sotto un tempo piovoso e inclemente. Il dispositivo militare romeno è stato spazzato via in poco più di tre mesi. La nazione, però, non si arrende: nell’ora della catastrofe (come l’Italia un anno dopo, a Caporetto) ritrova orgoglio e unità e decide di proseguire la lotta, nonostante il naufragio di tante speranze. Il governo si trasferisce a Iasi, il fronte si stabilizza dietro il Siret e l’esercito si riorganizza, durante l’inverno, nella Moldavia.

Nell’estate del 1917 gli Austro-Tedeschi muovono nuovamente all’attacco: ma questa volta non hanno di fronte le truppe impreparate e mal dirette dell’anno prima, bensì un esercito rinnovato nello spirito, nelle armi e nei rifornimenti. Operando per linee interne e, questa volta, ben diretto a livello di comandi, l’esercito romeno compie il piccolo miracolo di vincere una serie di gloriose battaglie difensive, mandando a vuoto gli ambiziosi piani del nemico. Ma dopo le rivoluzioni russe del 1917, e specialmente dopo quella di Ottobre, il venir meno della copertura sul fianco destro rende impossibile sfruttare il successo e costringe il governo a chiedere l’armistizio nel dicembre e a firmare l’onerosa pace di Bucarest, il 7 maggio 1918. Ma non è finita: in autunno si annuncia il crollo degli Imperi Centrali, preceduto dalla resa di Turchia e Bulgaria; il 9 novembre l’esercito romeno riprende la lotta e il 28, ad Alba Iulia, i consigli nazionali delle terre "irredente" proclamano l’unione con la Romania. Essa viene poi ratificata nel trattao di pace di Saint-Germain-en-Laye del 10 settembre 1919, che accoglie gran parte delle rivendicazioni romene.

Nel 1921 Petrescu fonda, insieme a Gib Mihaescu, la rivista Gandirea che, come sul piano artistico Gandirea vuole essere il punto di riferimento dei valori della tradizione (quindi, ancora una volta, del mondo rurale, ma in una fase storica in cui esso è minacciato dall’avanzata chiassosa e disgregatrice della società affaristica e industriale di stampo americaneggiante), sul piano culturale e, indirettamente, sociale essa promuove un esperimento veramente notevole: l’alleanza dell’elemento nazionale, che in genere tende a divenire nazionalistico, con l’elemento religioso bizantino-ortodosso. È chiaro che i tradizionalisti avvertono tutta la crisi di valori, tutto l’abisso spaventoso di relativismo nichilista che si è aperto come conseguenza della prima guerra mondiale; essi percepiscono chiaramente che l’Europa, ferita a morte e confusa, sta rischiando di perdere la propria anima, e che un paese come la Romania, retto ancora da strutture sociali di tipo patriarcale, subirà in modo anche più brusco e traumatico il passaggio verso i tempi nuovi, dominati dall’ossessione edonistica e dalla frenesia produttivista. Coerente con le sue idee, fin dal 1937 lo scrittore aveva disertato l’atmosfera convulsa e moralmente disordinata della capitale per ritirarsi in una grande villa di campagna a Busteni, alle pendici meridionali delle Alpi Transilvaniche, lungo la strada che da Ploiesti sale verso Predeal. Dopo la fondazione della Repubblica popolare, nel 1947, Petrescu (come il suo maestro ideale, Sadoveanu, e la grande maggioranza degli intellettuali romeni), decide di rimanere in patria, guardando in viso i tempi nuovi. Ma, come scrittore, egli ha concluso la sua fase veramente creativa tra la fine degli anni Trenta e la metà degli anni Quaranta; l’ultimo libro importante è Tapirul, del 1946. Egli ha solo cinquantaquattro anni, ma l’intensa attività letteraria lo ha come precocemente logorato. Muore a Bucarest il 9 marzo del 1961. La casa dello scrittore è stata trasformata nel Museo commemorativo "Cezar Petrescu" che contiene, tra l’altro, oltre 10.000 fra libri e riviste, dono della sua famiglia. (9)

Il valore dell’opera letteraria di Cézar Petrescu è disuguale e, anche se in alcune parti risente di una certa fretta giornalistica e indulga in facili effetti, vi è senza dubbio un nucleo poetico autentico, che lo colloca fra i maggiori artisti romeni del Novecento. Equilibrato e condivisibile, nel complesso, ci pare il giudizio, pur severo, di uno dei massimi esperti italiani di letteratura romena, Gino Lupi: "Benché il mondo di Cezar Petrescu sia letterario, pur introducendo episodi di vita contemporanea, l’atmosfera e gli ambienti di campagna, di provincia, della capitale, risultano evidenti e reali, dominati dalla tristezza derivante (anche quando l’argomento evade dalla realtà nel campo dell’ultrasensibile) dalla convinzione della vittoria del male sulle forze buone innate nell’uomo." (10)

Tra le sue opere, un posto preminente spetta a Intunecare (che si può tradurre in italiano con L’imbrunire quanto al significato letterale, Ottenebramento quanto a quello spirituale, e con Oscuramento oppure L’ombra che scende, con riguardo ad entrambi), che è considerato il miglior romanzo romeno sulla prima guerra mondiale. (11) Ricordiamo poi Comoara regelui Dromichet (Il tesoro del re Dromichet), del 1931; Aurul negru (Oro nero), in cui "la ricerca petrolifera è denunciata come una violazione dei ritmi naturali, inizio di un processo di contaminazione che investirà tanto la natura che l’uomo" (Rosa del Conte); Oras patriarhal (Città patriarcale), del 1931, che riprende temi e situazioni di uno dei primi libri di Petrescu, Drumul cu plopi (La strada dei pioppi) del 1924; Apostol (L’apostolo), del 1933, in cui un giovane maestro, che torna dalla città per svolgere quest’azione missionaria, urta contro gli ostacoli creati da un’amministrazione corrotta e da una coalizione d’interessi meschini."; e tre volumi deicati alla grande rivolta contadina del 1907, intitolati semplicemente 1907. Nel ciclo della società romena tra le due guerre, e più in particolare della "capitale che uccide" spicca per ampiezza di ricostruzione sociologica e per vigore narrativo Calea Victoriei (che è il nome del più importante viale di Bucarest), ove è descritto con spietato realismo il processo di decadenza morale che la società bucarestina vive all’indomani della pur vittoriosa conclusione della guerra 1916-18. (12)

Oltre al genere realistico e sociale, Petrescu ha coltivato un filone narrativo di tipo visionario e fantastico; tra queste ultime opere si segnalano Omul din vis (l’uomo del sogno), del 1926, Omul care si-a gasit umbra (L’uomo che ha ritrovato la sua ombra), del 1929; Aranca, stima lacurilor (Aranca, il fantasma dei laghi), "che — come è stato osservato — ha il sapore di una nordica ballata romantica trasportata nel nostro irriverente Novecento"; Adevarata moart a lui Guynemer (La vera morte di Guynemer), pure del 1929 (13); Baletul mecanic (Il balletto meccanico), del 1931. (14) Ma l’opera forse migliore di questo ciclo è il romanzo Simfonia fantastica (La sinfonia fantastica), un piccolo gioiello di acutezza psicologica sospeso tra Freud e Pirandello, con un sottofondo inquietante che lo percorre come un brivido incontrollabile.(15)

Petrescu si è dedicato anche alla narrativa per l’infanzia (ma con una vena di pensosa malinconia che trascende i confinispecifici di questo genere letterario), in particolare col romanzo Fram, ursul polar (Fram, l’orso polare), di cui vogliamo qui occuparci in modo particolare. Fram, un orso bianco simpatico e intelligentissimo, è la maggiore attrazione del circo Struschi, sempre in viaggio da una città all’altra d’Europa. Le sue acrobazie, il suo comportamento spiritoso e quasi umano fanno impazzire d’entusiasmo tutto il pubblico dei bambini, verso i quali mostra una particolare predilezione. Tutto cambia improvvisamente quando Fram, senza causa apparente, cade in preda a un inspiegabile torpore, diventa pigro ed apatico, e sembra aver totalmente disimparato quei difficili esercizi che mandavano in visibilio grandi e piccini. In breve, sembra essersi chiuso in un suo mondo interiore pieno di malinconia, che nessuno riesce a capire e ove a nessuno è permesso di entrare.Il diretttore del circo, che gli vuol bene, chiama un esperto di orsi che individua subito la causa del mutamento: Fram è stato afferrato dalla nostalgia per la sua terra natale, lassù, tra i ghiacci eterni, e per la vita libera e selvaggia rimasta in qualche angolo della sua memoria. Non uscirà mai più da quella patetica malinconia, se non verrà restituito alla sua condizione di animale selvaggio. E il direttore, che in fondo è un brav’uomo, grato per quanto Fram ha dato al circo nei suoi tempi migliori, sia pure con dispiacere decide di ricambiare il suo vecchio "amico", facendolo imbarcare su una nave rompighiaccio che deve salpare da Amburgo, diretta al Polo Nord, con precise istruzioni di rimetterlo in libertà. E così avviene.

Mano a mano che la nave si avvicina alla zona artica, Fram sembra ridestarsi da un lungo sogno e comincia, impaziente, a fiutare l’aria fredda che viene dal settentrione. E quando la nave giunge in vista di un’isoletta rocciosa, l’orso viene fatto sbarcare e si allontana subito con gioia, fra la commozione dell’equipaggio, per ricominciare una nuova vita, pieno di speranza. L’incontro coi suoi simili, però, è una grandissima delusione. Fram è ormai un animale profondamente umanizzato: l’aggressività e la stupida ferocia degli altri orsi lo disgustano, e quella lunga, eterna notte polare, abitata solo dai riflessi lunari sul gelido paesaggio bianco, sotto un cielo vuoto e spaventoso, lo riempie di angoscia e di un insopportabile senso di abbandono e solitudine. Inoltre, odia la violenza e non vorrebbe uccidere; l’idea del sangue gli ripugna: ma ha fame, terribilmente fame. Tenta senza successo di fare amicizia con gli altri orsi, ma è respinto come un intruso e anzi aggredito. Riesce a difendersi con facilità e ad avere la meglio, grazie ai trucchi e alle mosse impensate imparati negli anni del circo; ma il suo cuore è colmo di tristezza e di amarezza. Capisce che l’unica legge esistente lassù è la legge del più forte, che deve uccidere per riuscire a sopravvivere, per non essere ucciso a sua volta. E quella legge, per lui, è intollerabile: non vuole uccidere, ne prova un orrore e un ribrezzo indescrivibili. Deve farlo, però, per difendersi; ma lo spettacolo dell’orsacchiotto che si accanisce sull’orso morente colma la misura del suo disgusto. Riesce, per qualche tempo, a nutrirsi con le prede già uccise dai suoi simili, ma ormai ha capito che quella vita non potrà mai fare per lui: solo tra gli uomini ha imparato il calore di una diversa legge di vita, regolata non dal mors tua, vita mea, ma dal calore degli affetti e specialmente dalla freschezza e dalla gioiosità spontanea dei bambini, il cui ricordo gli punge il cuore di nostalgia come, negli ultimi tempi della vita al circo, il ricordo lontano dei suoi genitori e dei ghiacci immacolati dov’era nato.

Un giorno, incontra due cacciatori di orsi che il freddo e la fame hanno ridotto all’impotenza: esausti, semicongelati, non aspettano altro che la morte. Erano stati sbarcati dalla stessa nave che aveva ricondotto Fram nell’Artide ma, a causa di una bufera, non avevano potuto rientrare alla loro base, una capanna di legno che avrebbe rappresentato la salvezza. Allora Fram li copre con la sua calda pelliccia e li salva dal congelamento. Poco dopo la nave ritorna per prenderli a bordo; c’è un momento di esitazione: ai due uomini dispiace lasciare per sempre il loro salvatore. No, la sua vita non può essere fra quelle distese vuote e desolate, ma solo fra gli uomini, dove ha imparato la dolcezza dei sentimenti ed è diventato qualcosa di diverso da un grosso plantigrado ottuso e feroce.

"I due cacciatori entrarono nella capanna per vedere se non avessero dimenticato nulla. Quando uscirono, Fram era scomparso; lo cercarono, lo chiamarono.

"-Peccato. Avremmo dovuto prender congedo da lui… Hai visto come erano stupiti tutti i marinai?

"Egon salì in cima a una rupe per guardar in giù. Di lassù, si vedevano anche le due barche ferme accanto alla riva.

"- Guarda! — disse sbalordito. — Volevi sapere dov’è Fram: è già imbarcato. Ci ha preceduti.

"Infatti, era salito in barca. Voltava le spalle all’isola. Attorno a lui, i marinai cercavano di mandarlo via; ma Fram stava immobile, inchiodato nella barca.

" — Ma allora… – cominciò Otto.

" — Allora — completò Egon — lo prendiamo con noi. È il suo desiderio.Non lo dice, ma lo dimostra abbastanza chiaramente.

"I due cacciatori scesero dalla riva rocciosa. I remi cominciarono a dividere l’acqua, verso la nave ancorata al largo.

" — Caro Fram, non giri neppure gli occhi? — gli chiese Egon. Non dici neppure addio al tuo paese? Bada, questa volta è per sempre…

"Ma Fram, voltando le spalle ai deserti polari, guardava innanzi a sé, verso il mondo lontano, oltre i ghiacci e le acque." (16)

Le pagine del romanzo più ricche di poesia sono, probabilmente, quelle in cui l’Autore descrive l’origine della improvvisa e apparentemente inspiegabile malinconia che ha preso il prodigioso orso Fram, grande attrazione del circo Struschi e beniamino del pubblico infantile di mezza Europa: la nostalgia dei luoghi natali. Il confuso ma potente ricordo della sua prima infanzia tra i ghiacci è penetrato inaspettatamente nel suo animo di animale addomesticato, sconvolgendo dolorosamente la sua vita sinora felice. Fram, come tanti personaggi di Petrescu, è uno sradicato; ma il ritorno al paese dei ghiacci ne farà uno sradicato anche maggiore: scoprirà di non essere più capace di vivere tra gli animali selvaggi, in una natura dura e spietata, e vorrà tornare nel paese degli uomini, dove ha scoperto di possedere sentimenti "umani"che ormai sono parte integrale della sua vita. È il solo caso, nella narrativa di Petrescu, in cui il conflitto fra natura e cultura si risolve a favore di quest’ultima. Ma ciò avviene perché egli ha idealizzato l’animale "buono", estrema versione del mito del buon selvaggio; mentre gli altri orsi, quelli che Fram incontra al Polo, incarnano gli eterni difetti umani: stupidità, egoismo, violenza cieca.

Si noti, in questa pagina, di quanta delicatezza è capace l’Autore nel descrivere il rapporto fra l’orsacchiotto e la sua mamma: è una scena squisita, che ricorda irresistibilmente il celebre quadro "Le due madri" del pittore Giovanni Segantini: la madre umana e la madre bovina, ciascuna col suo piccolo accanto, nel tepore dolce della stalla, entrambe còlte nell’intimità e nel mistero toccante della maternità.

"Quando, molto tardi, chiudeva gli occhi, Fram faceva sempre lo stesso sogno.

Era la storia di poche e incerte vicende, di un’infanzia lontana che per molto tempo aveva dimenticata.

La storia di un orsacchiotto bianco, preso piccolo da Eschimesi nelle regioni polari, portato da un marinaio in un porto delle terre calde e venduto ad un circo.

L’orsacchiotto si dimostrò subito più sveglio dei suoi fratelli; meno timido, più forte, più audace. Imparava in fretta. Fece amicizia con gli uomini; capì quello che faceva loro piacere e quello che non gradivano, quello che volevano che facesse e quello che non volevano.

Divenne il famoso Fram, l’orso polare, orgoglio del circo Struschi e gioia dei ragazzi; l’orso gigantesco che si presentava solo nell’arena a svolgere il suo programma senza bisogno di domatore, che inventava ogni volta qualcosa di nuovo, e capiva lo scherzo e conosceva la pietà.

S’era dimenticato di quanto aveva lasciato lontano, nei deserti di neve e di ghiaccio, dove la notte durava sei mesi e il giorno altri sei: dove un giorno e una notte significavano un anno. Se n’era dimenticato. Mai il suo pensiero tornava lassù. Viveva fra gli uomini, era il loro amico, il loro favorito; sapeva leggere il desiderio e la gioia nei loro occhi; forse capiva anche i loro dolori nascosti, allo stesso modo che carezzava sempre e viziava i bimbi poveri della galleria.

Ora, all’improvviso, quel mondo così lontano nello spazio e nel tempo, si risvegliava in lui; e veniva a ricercarlo nel sogno.

E il sogno era sempre lo stesso.

Prima, una tenebra impenetrabile, una notte gelida e umida, in una caverna di ghiaccio. Là era nato Fram, nell’isola in mezzo al mare congelato; era nato di notte, e la notte dura la metà dell’anno. Il sole non nasce mai; nel cielo gelido brillano solo le stelle, e talora la luna. Ma per lo più regna una profonda oscurità, perché la luna e le stelle sono coperte da nubi; e la bufera trasporta vortici di neve ululando, gemendo e sibilando; il ghiaccio scricchiola: è una furia spaventosa che fa accapponare la pelle. Come tutti gli orsacchiotti, Fram era nato senza occhi; li aveva messi solo dopo cinque settimane.

Nella grotta, la tormenta non penetrava; si sentiva solo l’urlìo di fuori; ma c’era ghiaccio sotto, ghiaccio sopra, ghiaccio lucente sulle pareti. Dormiva appallottolato in un covo caldo caldo: la pelliccia dell’orsa lo copriva e lo riparava dalle punture del freddo.

Cercava col muso la sorgente di latte caldo del seno materno; si sentiva lavare dalla lingua, carezzare dalla zampa della mamma. Qualche volta si svegliava solo; l’orsa mancava. Era andata in cerca di cibo. Lui, tutte queste cose non le poteva capire. Si svegliava all’improvviso nel buio e nella solitudine; cominciava a gemere piano, a chiamare, a lamentarsi. Si spaventava della sua stessa voce. Stava atterrito e triste col muso schiacciato contro le pareti della caverna. Aveva freddo. Fuori, il ghiaccio esplodeva, la bufera rovesciava i grandi blocchi candidi; gli pareva di sentire dei passi. Si addormentava mezzo gelato. Si svegliava tardi, riscaldato, avendo goduto nel sonno una specie di felicità: la pelliccia calda era accanto a lui; accanto a lui la sorgente di latte; e una zampa morbida come la seta lo carezzava avvicinandoselo al petto. Capiva che era tornata la creatura grande e buona che lo proteggeva; e anche lui cercava di leccarle il muso, riconoscente; ma era così goffo e grullo! Allora non si rendeva conto di tutte le cure che gli prodigava la mamma, con quanta pena si allontanava da lui e che se ne andava solo quando era vinta dalla fame, in cerca di preda. (17)

GINEVRA PELIZZARI E "MABEL TRA GLI ESCHIMESI".

Il caso di Ginevra Pelizzari, autrice del fortunato romanzo Mabel tra gli Esquimesi, è piuttosto emblematico di una certa disattenzione della critica letteraria nei confronti degli autori di libri cosiddetti "per ragazzi". Qulla stesa critica, si badi, che è larga di elogi verso i cosiddetti "classici", specialmente stranieri; e che non si rende conto che i classici non formano una sorta di circolo esclusivo, chiuso a riccio verso ogni possibile nuovo arrivato, ma una categoria in movimento, sempre aperta ad accogliere validi apporti. Ben lo intuisce la Casa editrice Fratelli Fabbri di Milano che nel 1961, nella collana Libri magnifici che già ospita le opere di autori come Mark Twain, L, M. Alcott, F. Molnàr, H. Malot, C. Dickens e altri, pubblica Mabel tra gli Esquimesi di una scrittice pressoché sconosciuta, ma di talento: Ginevra Pelizzari. È un successo folgorante, di pubblico e di vendite; molto meno di critica, nonostante i suoi indubbi meriti letterari. Si può dire che, negli anni ’60, non vi sia quasi biblioteca pubblica che non acquisti il libro, arricchito dalle belle illustrazioni a colori del pittore Bartoli; la sua copertina che raffigura la scena del rito propiziatorio della caccia, con gli Esquimesi in cerchio attorno al fuoco e Mabel, vestita da caribù, che si muove sotto la minaccia simbolica dell’arco di Icoluki, con la freccia incoccata, rimane impresso nell’immaginario di migliaia di persone della generazione degli anni Cinquanta. Quel che ha nuocito alla memoria di quest’opera, forse, è stato il rapido cambiamento del gusto e degli stili di vita sopravvenuti dopo il cosiddetto boom industriale; in capo a pochi anni i libri, i film e i programmi televisivi che veicolavano esplicitamente valori morali quali la bontà, la lealtà, il senso della giustizia, sono apparsi come relitti di una pedagogia troppo moralistica, troppo all’antica. E sono stati dimenticati in fretta, a vantaggio di opere inneggianti una filosofia di vita più legata al carpe diem, più maliziosa e scanzonata nei confronti el mondo e, soprattutto, più agnostica di fronte alle grandi questioni etiche. Se sia stato un bene o un male, ciascuno potrà giudicarlo in base alle proprie convinzioni; qui ci limitiamo a registrare il veloce mutamento di costume, che offre la sola possibile spiegazione dell’oblìo in cui sono caduti tanti romanzi per la gioventù, a cominciare da quello di cui ci stiamo occupando.

Oltre a Mabel tra gli Esquimesi, Ginevra Pelizzari ha legato il suo nome ad altre opere letterarie: alcuni libri per bambini (18), sia prima che dopo il suo maggior successo, e alcune versioni per la gioventù di classici per l’infanzia e l’adolescenza: le Novelle di Andersen e il romanzo Capitani coraggiosi di Rudyard Kipling. (19) Oggi la scrittrice è ricordata da un Concorso di pittura, giunto alla quinta edizione, L’isola che non c’è.

Nel suo romanzo più famoso la Pelizzari dimostra doti di scrittura piana e avvincente; specie nella seconda parte sa svolgere e intrecciare i fili delle vicende parallele dei protagonisti, che si perdono e infine si ritrovano dopo molte peripezie. Certo, si notano alcune ingenuità e alcune concessioni a un gusto un po’ retorico e, come oggi si direbbe, eurocentrico (Isumatak, per dirne una, è un capo tribù Esquimese alto e slanciato che, per ammissione della stessa autrice, non somiglia per nulla agli uomini della sua razza); ma sarebbe ingenerosa – e antistorico – voler giudicare il libro con i canoni dei nostri giorni. Il gusto, come dicevamo, è cambiato in fretta, sia per quanto riguarda lo stile che per quanto riguarda i contenuti; e, sia detto fra parentesi, non è certo che sia cambiato sempre in meglio.

Mabel è una ragazzina bionda, dolce e sensibile, figlia di emigranti italiani in California. Orfana di madre, segue quasi sempre suo padre – il gigantesco Tommaso Neri, detto Tom Black – con la Santa Maria, nelle sue battute di pesca nell’Artico. Il la vicenda ha inizio appunto con la piccola baleniera che, sballottata dalle onde del mare in tempesta, sta per fare naufragio nella Baia di Hudson. Quando il timone cede e una grande falla prodotta da un iceberg, già riparata a suo tempo, si apre nuovamente e l’acqua irrompe nella stiva, i marinai comprendono che la nave è perduta e, indossati i giubbotti salvagente, si gettano in mare. Anche il capitano Tom Black si tuffa con la piccola Mabel e lotta a lungo contro le onde, sempre sorretto dalla speranza di toccare la riva bassa e sabbiosa della baia; ma alla fine un’ondata glie la porta via e li separa irreparabilmente. Semiaffogata, intirizzita, esausta la bimba cerca di tenersi a galla e di continuare a nuotare, alla fine, svenuta, è gettata a riva dalle onde. È la fine di giugno, e il giorno polare dura ventidue ore; anche la notte è chiara e illuminata da una luce crepuscolare.

Qualche ora dopo il dodicenne Icoluki, figlio del capo di una tribù di Esquimesi, passando lungo la riva con il suo forte cane Ighiu, scorge la fanciulla e, dopo averla sottratta alle onde, la porta, sempre svenuta, al suo villaggio. Il padre del ragazzino, Isumatak, è momentaneamente assente: si è recato a Fort Churchill per vendere le pellicce cacciate durante l’inverno e per acquistare tabacco, tè, farina per la trib. In compenso nella tenda c’è sua madre, la buona Anaki, che frizionando il corpo gelato di Mabel e fornendole un mobido e caldo vestito di caribù, la fa rinvenire. Mabel, in preda alla febbre, chiede insistentemente di suo padre; e Icoluki torna in riva al mare per cercarlo: ma invano. La ragazzina è estremamente angosciata; per fortuna al villaggio c’è, in quel momento, un missionario francese, padre Alfonso, che la consola e la assiste con affetto paterno, incoraggiandola a sperare che Tom, prima o poi, verrà trovato.

Per Mabel ha inizio uno strano periodo della sua vita, il periodo esquimese. Presto si ristabilisce in salute e si accompagna volentieri a Icoluki, ragazzo dall’animo semplice e generoso; intanto comincia a familiarizzarsi con il tipo di esistenza che conducono i suoi ospiti. Una cosa, però, non riesce ad accettare: la legge crudele che domina in quelle regioni del Nord, ove la dolcezza viene scambiata per debolezza e la bontà sembra a volte un lusso superfluo. In particolare, un giorno prende le difese di Ighiu che, quasi impazzito per la fame, ha rubato un pezzo di carne al suo padronicino il quale stava per ucciderlo a frustate. Curato dalla bimba e da padre Alfonso, il cane lentamente guarisce e si affeziona a quella creatura che, per la prima volta nella sua vita, ha mostrato della pietà nei suoi confronti.

Un giorno torna al villaggio Isumatak (che significa Colui-che-pensa, per la sua intelligenza), accolto con gioia da tutti. La sua indole si rivela subito nobile e aperta ed egli decide di adottare Mabel come una figlia. Con lui e con gli altri viene condotta a una battuta di caccia alla foca; e lì ha la rivelazione che, in quelle regioni inospitali, le leggi della sopravvivenza passano sopra al sentimento ella pietà e che per vivere bisogna uccidere. Commovente è la pagina in cui la Pelizzari descrive l’uccisione di una femmina di foca e del suo cucciolo da parte dei cacciatori esquimesi.

"Due foche infatti, due grossi maschi, erano usciti allora allora dall’acqua. Girarono attorno i loro occhi bovini con sospetto, annusarono l’aria: non sentirono l’odore dell’uomo perché il vento spirava dal mare, non videro i cacciatori sdraiati a terra e confusi con l’arena. Dietro i due maschi avanzarono le femmine e un piccino. I loro corpacci dalle zampe a forma di pinne si movevano con lentezza e con pesantezza, ogni movimento sembrava costasse loro pene indicibili.

"Non si allontanarono molto dall’acqua, pronte a tuffarsi a capofitto al primo cenno di pericolo.

"Mabel guardava i bestioni sdraiati al pallido sole e i cacciatori ancora immobili come statue. Distingueva innanzi a tutti Isumatak, per la lunghezza della persona: lo vide ad un tratto spostarsi, strisciava con quel dondolio che caratterizza l’andaiura ella foca. I compagni lo seguirono, imitando ogni suo movimento. Le foche non badavano ad essi: erano tutte intente a godersi il sole. Il cuoricino di Mabel batteva, batteva: sarebbe bastato un suo rido per salvare i cinque animali; aveva già aperto la bocca per urlare quando si ricordò le parole di padre Alfonso: l’Esquimese non poteva vivere senza cacciare la foca.

"Tacque e attese. Gli uomini guadagnavano terreno lentamente: eccoli, erano giunti a pochi passi dalle foche. Uno dei maschi li udì, gettò un muggito di avvertimento e si tuffò nell’acqua. Troppo tardi gli altri cercarono di seguirlo: quattro arpioni furono gettati con violenza, e tre colpirono il segno. Una femmina, la madre del piccino, non era stata ferita. Con un muggito di dolore la povera bestia, di solito timida e paurosa come tutte le foche, si slanciò in avanti per difendere il suo piccolo ferito, a costo della propria vita. Per la sua creatura la madre sfidava un pericolo terribile e rinunciava alla salvezza che le offriva il mare. Muggendo di furore cercò di avventarsi contro i cacciatori: era grottesca nei suoi movimenti, sublime nel suo amor materno.

"Non ebbe modo di fare che un breve tratto. Fu colpita brutalmente dall’arpione nel mezzo della colonna vertebrale. Si fermò di schianto, volse il capo dagli occhi morenti verso il figlioletto, pure agonizzante,, e si accasciò sull’arena. Mabel stretta a Ighiu piangeva dolorosamente: aveva intuito tutta la tragedia di quelle due bestie che si amavano, che erano felici, e per le quali violentemente, in pochi istanti, tutto era finito.

"I cacciatori si allontanarono lenti, ridendo e chiacchierando; Mabel li seguì a distanza, mesta e pensierosa. Giunse al villaggio subito dopo gli uomini e si sedette per terra, accanto al cane." (20)

La vita al villaggio prosegue insieme all’adattamento di Mabel, fra una gita in kaiak lungo i fiumi e una battuta di caccia al caribù; ma la fanciulla dall’animo gentile non riesce ad accettare sino in fondo la dura legge della sopravvivenza. Il suo senso di fratellanza quasi francescano verso tutti gli animali, la spinge a liberare una lepre caduta nella trappola di un cacciatore: e ciò provoca il risentimento implacabile di questi, l’indiano Occhi di fuoco, che già nutriva un vecchio rancore nei confronti di Isumatak e che aveva avuto un incidente con Ighiu, che lo aveva morsicato per difendere Mabel e Icoluki, da lui minacciati.

Un giorno, mente Mabel è da sola nella foresta in cerca di lamponi e di mirtilli, Occhio di fuoco la rapisce e la porta con sé, al suo accampamento.

Quando Icoluki si rende conto che a Mabel dev’essere accaduto qualcosa, si reca dall’angecok, lo stregone, per avere una traccia; ma non ottiene alcun aiuto; allora, con giovanile incoscienza, si mette a cercarla da solo, senza nulla dire ad alcun altro. Mabel, intanto, supplica invano il suo rapitore di renderle la libertà: questi ha deciso di venderla a un capo indiano, non tanto per il guadagno che conta di ricavarne, quanto per vendicarsi delle presunte offese ricevute dalla famiglia di Isumatak. Ma Icoluki, con l’aiuto di Ighiu che ha fiutato la traccia, dopo una lunga marcia ha raggiunta a sua volta l’accampamento indiano ove la sua sorella adottiva è stata condotta, riesce a introdursi nella tenda, a liberarla e a condurla via con sé. I due ragazzi e il cane fuggon,in piena notte, nella foresta; sfuggono a un orso grigio, e all’alba s’imbattono in Isumatak che si è messo alla loro ricerca. Il capo esquimese vorrebbe vendicarsi uccidendo i rapitori, ma questi gli sfuggono; l’avventura di Mabel, comunque, si è risolta nel migliore dei modi.

Sopraggiunge l’inverno, con il gelo e le nevicate abbondanti. La tribù si costruisce gli igloo con i blocchi di ghiaccio e Isumatak, per tenere alto il morale dei suoi membri, indice una grande festa invernale che deve propiziare la prossima stagione di caccia. Il malvagio stregone, infatti, ha profetizzato che gli spiriti della foresta, adirati per la presenza del missionario bianco, faranno sparire la selvaggina e la tribù rischierà la morte per fame. Ma ecco la descrizione della festa invernale, piena di colore di vita:

"Finalmente il canto cessò e il rullo dei tamburi pure. Cominciarono le danze dei singoli. Icoluki e alcuni suoi amici eseguirono quella della foca. Si sdraiarono sul pavimento, poi cominciarono a muovere il busto, col caratteristico dondolìo della foca; si mossero così alquanto goffamente imitando alla perfezione l’andatura lenta ed inelegante della bestia. Soffiavano, sternutivano, muggivano con tanta maestria che l’assemblea scoppiò a ridere sgangheratamente. Terminarono il balletto fingendo di tuffarsi nel mare, per dare una maggior evidenza al tuffo, Icoluki, da quel monellaccio che era, fece un balzo contro quelli seduti sulle larghe piattaforme e arrivò su essi con le mani tese in avanti e il capo in giù. Le donne strillarono, e gli uomini imprecarono, nessuno si fece alcun male: Isumatak però afferrò il rampollo per un orecchio e lo prese a pedate con poca gentilezza, sì che il povero Icoluki strillò come una gallina spennata.

"Mabel rideva a più non posso re come lei ridevano tutti coloro che non avevano subito il colpo da parte di Icoluki, ché gli altri, brontolando corrucciati, avrebbero piuttosto aiutato Isumatak a dare una lezione al monello.

"Ora toccava a Mabel: la sua svelta personcina, per quanto infagottata nelle vesti ampie, era graziosissima.

"La nobiltà della razza a cui apparteneva splendeva nel viso dall’ovale puro, roseo come il petalo di un fiore di pesco; in esso brillavano i grandi occhi azzurri, che solo alla razza bianca appartengono. La più bella tra le bimbe esquimesi non avrebbe potuto esser paragonata a lei nella grazia, nell’agilità, nella vivacità dei movimenti.

"Giunta nel mezzo della sala, fece un bell’inchino che venne interpretato come il principio della danza. Poi cominciò la fantasia: si avanzò piano imitando la marcia cauta, prudente del caribù; intanto volgeva la testa ora a destra ora a sinistra, quasi a voler intercettare i suoni più lontani e più deboli, poi fissò un punto: là era il nemico. Si diede allora a correre, veloce e leggera. Dopo aver corso due o tre volte attorno alla stanza, si fermò: il pericolo pareva scongiurato; si diede allora a trotterellare lietamente fingendo di brucar l’erba. Ma ecco di nuovo il nemico: Icoluki, il cacciatore, giungeva a passi felpati con l’arco teso e la freccia incoccata. Il caribù si vide perduto: balzò in avanti, seguito sempre più dappresso dal fanciullo, fin che la freccia lo colpì. Qui era il punto tragico della danza; quando la freccia, ben s’intende smussata, toccò il caribù, questi diede un balzo in avanti quasi più velocemente volesse fuggire, ma la ferita doveva essere mortale: cadde sulle ginocchia e si diede a lambire la parte colpita, poi cercò di rialzarsi. Impossibile. Gli occhioni di Mabel pieni di un’angoscia immensa si rivolsero verso l’alto quasi in una suprema invocazione. Frattanto il cacciatore giungeva con il coltello sguainato nella mano, un’aria di ferocia giubilante nel volto. Gli occhi supplichevoli si volsero verso di lui, le mani si tesero in muta preghiera, ma il coltello non si arrestò e colpì la vittima: con un singhiozzo il povero caribù cadde disteso a terra. Rialzò la testa ancora a guardare il cacciatore quasi a rimproverargli la crudeltà, poi, dopo un ultimo sussulto, rimase immobile.

"L’imitazione era stata perfetta: Mabel aveva visto morire tanti caribù, in quella giornata memoranda sul fiume Kazan, che ora senza difficoltà poteva imitare le loro tragiche movenze. Si alzò con le lacrime agli occhi tanto s’era immedesimata nella parte, mentre l’assemblea scoppiava in grida incomposte: aveva seguito con appassionata attenzione, con interesse grandissimo la fantasia eseguita dalla fanciulla, che, con la sua realistica interpretazione, aveva dato punti ai più abili danzatori della tribù. Isumatak la sollevò fra le braccia ridendo e la tenne sospesa così, sopra la sua testa, con orgoglio, poi la fece seere accanto a sé tenendole una mano sulla spalla." (21)

Ma l’inverno, il terribile inverno artico, porta con sé la carestia. Con una temperatura di quaranta gradi sotto zero, Isumatak è costretto a praticare la caccia alla foca sul ghiaccio, mentre la tribù soffre terribilmente la fame. Negli igloo regna sovrana la desolazione; molti Esquimesi, imprevidenti, non si sono curati di metter da parte delle scorte, ed ora è necessario uccidere tutti i cani per sfamare i disgraziati – tutti tranne Ighiu, che ha mostrato di essere un cacciatore di gran valore; e i cani dello stregone, che nessuno osa toccare per paura delle sue maledizioni.. Anche alla porta di Isumatak viene a bussare la morte: la buona Anaki, dopo aver ceduto a un assalto di isterismo artico, muore, confortata da padre Alfonso; le sue ultime parole sono di affetto e i sollecitudine per il figlio e il marito. Lo stregone, a causa del missionario, rifiuta di partecipare alla cerimonia funebre e ripete a Isumatak, ma invano, l’esortazione sbarazzarsi di padre Alfonso. Poi, durante al termine del mesto rito, Ighiu strappa il guinzaglio al padroncino e fugge, forse intuendo che il suo destino sarebbe di finire ucciso per placare la fame degli uomini.

Quella notte Mabel e Icoluki, ridotti agli estremi dalla fame, riescono a rubare uno dei cani dell’angecok; e Isumatak, dapprima adirato, ne distribuisce poi le carni a ciascun membro della tribù. Poi, renendosi conto che attendere ancora vorrebbe dire perdere le ultime forze, il capo esquimese parte dal villaggio per tentare un’estrema battuta di caccia. Durante la sua assenza si delinea, però, una drammatica congiura: lo stregone sobilla quegli uomini denutriti e disperati, persuadendoli che la causa delle loro disgrazie è la presenza dello "stregone bianco" e della "piccola strega bionda". Solo uccidendoli la tribù otterrà di placare la collera di Sedna, e questo farà ritornare la selvaggina e i tempi felici. Per caso, Mabel ha ascoltato i preparativi della congiura e avverte il missionario; questi decide di rimanere al villaggio, mentre Mabel e Icoluki, scortati dallo zio di questi, Imoloki, correranno ad avvertire Isumatak del pericolo che incombe su di loro. Il terzetto è appena partito, che padre Alfonso si trova ad affrontare la collera di tutta la tribù.

"Alzò il braccio in segno d’addio e volse loro decisamente le spalle tornando verso il suo iglu. Si inginocchiò dinanzi al crocefisso e pregò a lungo per i suoi amici e per le anime di coloro che si accingevano ad ucciderlo.

"Una voce lo distolse dalla preghiera.

"- padre, padre! – qualcuno lo chiamava dal di fuori.

"Si alzò rivolgendo uno sguardo al Redentore per chiedergli aiuto e forza e uscì all’aperto, dove alcuni Esquimesi pallidi e macilenti lo attendevano armati di fiocine: in mezzo ad essi l’angecock lo guardava con occhio sinistro in cui brillava la malvagia gioia dell’uomo perverso che sta per soddisfare il suo odio.

"Lo stregone si avanzò verso il missionario e gli disse:

"- Sedna vuole la tua morte.

" – Chi è Sedna? Non la conosco.

"- È la dea del mare e degli animali. Per colpa tua ora moriamo di fame: tu non ami Sedna, dici di non conoscerla e gli animali non ci vengono più mandati da lei.

"- Angecok, tu sai che la carestia fa ogni anno la sua comparsa in queste terre.

"- Tu ne hai la colpa.

"- Io? Tu menti, angecok.

"- Il tuo sangue calmerà Sedna e richiamerà gli animali; noi torneremo a cacciare e non morremo di fame – così dicendo si avanzò di un passo verso il missionario e lo afferrò per un braccio.

"Gli altri Esquimesi, che erano rimasti timorosi e incerti, si rinfrancarono e, con le fiocine in mano, circondarono il prete: negli occhi torbidi brillava la gioia di uccidere.

"- Fratelli Esquimesi, – sussurrò il missionario – io so che l’angecok mente; non ascoltatelo: pregate invece Dio che ci aiuti in questo terribile momento!

"Un urlo furioso uscì dal petto dello stregone, che si avanzò minaccioso e con la fiocina colpì fortemente il capo del missionario. Questi stralunò gli occhi e cadde riverso sulla neve, che rosseggiò del suo sangue." (22)

Intanto, sotto un cielo grigio come la cenere, senza armi e senza viveri, i due ragazzini con Imoloki stanno procedendo nella loro marcia disperata fra il ghiaccio e la neve. Per fortuna, lungo la strada riescono ad uccidere prima un gabbiano, poi una volpe; ma la stanchezza, la fame e lo scoraggiamento mettono a durissima prova il coraggio della piccola Mabel. Isumatak, frattanto, seguendo la pista di una volpe ha individuato le racce di un orso bianco che la sta seguendo: terribile avversario, ma, forse, fonte di salvezza per la tribù affamata. In un drammatico scontro, dopo che ilo ha mancato con il fucile, Isumatak affronta l’orso armato del solo coltello e sta già per soccombere, quando gli giunge l’aiuto provvidenziale del bravo cane Ighiu, sbucato fuori da chissà dove, che vola coraggiosamente al soccorso del suo padrone.

"In un attimo [l’orso] gli fu vicino e l’uomo sentì l’alto fetido avvolgerlo e soffocarlo, vide gli occhietti furibondi scintillare minacciosamente, e infine il suo corpo fremette al contatto di quello del mostro. Alzò il coltello e cercò di immergerlo nel collo della bestia: la folta pelliccia attenuò il colpo che la mano malferma di Isumatak aveva vibrato. L’Esquimese cercò di sfuggire alla stretta delle zampe formidabili, ma scivolò sulla neve indurita e cadde; prontamente si rialzò, mentre l’orso cercava di stringerlo nella sua stretta per spezzargli la colonna vertebrale; indietreggiò tenendo alzata la mano armata e seguendo con gli occhi spalancati e atterriti i movimenti del nemico.

"L’orso si era rizzato sulle zampe posteriori e barcollando e dimenando il capo si avvicinava di nuovo a lui grugnendo e mostrando le zanne giallastre in un riso feroce. L’uomo avvezzo e rotto ad ogni fatica, ad ogni pericolo, in quell’istante ebbe paura perchè si sentiva troppo debole per un simile avversario: ebbe paura per sé e pèer tutti coloro i quali avrebbero atteso invano il suo ritorno, che per essi avrebbe potuto significare la vita. Allora, inconsciamente, lanciò il grido d’aiuto che s’usava nella sua tribù: ebbe appena il tempo di emettere il grido che l’orso gli fu addosso col suo enorme corpaccio e lo afferrò nell’abbraccio mortale.

"Isumatak conficcò il coltello dalla larga lama tagliente, una, due, tre volte, poi sentì che il respiro gli mancava per la pressione fatta al suo torace, vide una nebbia rossa davanti agli occhi, le forze lo abbandonarono ed egli cadde in ginocchio.

"In quell’istante una massa grigiastra balzò agilmente al suo fianco e poi alla gola dell’orso, e questo abbandonò la sua vittima per occuparsi del nuovo venuto. Isumatak ebbe così modo di vedere il suo salvatore: era Ighiu, un Ighiu magro, feroce, che,, attaccato alla gola dell’altro animale, non lasciava la preda; le sue mascelle d’acciaio avevano colpito giusto e lentamente andavano avvicinandosi alla vena iugulare che il folto pelo proteggeva. L’orso dondolava la testa e con le zampe possenti stringeva il corpo snello del cane cercando di abbassarsi, tanto da afferrare con i denti una parte qualunque della bestia.

"Isumatak, rimessosi alquanto grazie all’aiuto provvidenziale, balzò di nuovo in piedi e con il coltello colpì ripetutamente l’orso, che abbandonò la preda urlando di dolore e poi di schianto cadde al suolo.

"L’Esquimese, non più sostenuto dalla forza nervosa ora che il pericolo era cessato, si accasciò ansimando accanto alla vittima; Ighiu gli stava vicino e lo guardava con occhi fosforescenti, la coda fra le gambe, le orecchie dritte, la testa china verso di lui, col sangue che gli sgorgava dalle ferite, per fortuna lievi: sembrava aspettasse una parola di benvenuto o una amichevole manata sulla schiena. Isumatak lo guardò non appena il suo cuore riprese a funzionare normalmente e il respiro ritornò regolare, senza affanno: gli pose affettuoso una mano sul capo e gli solleticò lievemente le orecchie in segno di amicizia. Il cane socchiuse gli occhi e dimenò la coda, arricciando il labbro superiore quasi volesse azzannare il viso el padrone che, alzato verso di lui, gli sorrideva.

"- Mio bravo Ighiu, mi hai salvato la vita… Forse hai fame. A te! – si alzò e principiò a scuoiare la bestia enorme che puzzava di selvatico, mentre il cane lo guardava con occhi intenti e bramosi." (23)

Intanto, una bufera di neve si è scatenata sul terzetto che si era messo alla ricera di Isumatak; e mabel, rimasta indietro, sta per soccombere al gelo e allo sfinimento, quando viene soccorsa dal bravo Ighiu, che l’aiuta a riprendersi e la riscalda col suo mantello. A questo punto la narrazione fa un passo indietro e ci riporta al momento in cui padre Alfonso è stato colpito dall’angecok ed è caduto a terra, sulla neve. La sua ferita non è grave; ma gli Esquimesi, per ordine, dello stregone, lo conducono legato fuori del villaggio a morire di freddo o divorato dai lupi, per placare la collera della dèa Sedna. All’alba, mentre il delirio lo sconvolge, ecco giungere un uomo gigantesco, che scioglie le sue funi e lo rianima con dell’acquavite: è Tom Black, il padre di Mabel, che tutti ormai (compreso il lettore) credevano morto. Dopo il naufragio della Santa Maria, era stato gettato a riva non lontano da Mabel; ma i due non si erano rivisti, e Tom era stato soccorso da un’altra tribù di Esquimesi. Ora ha ucciso un’alce, con il quale è in grado di soccorrere tutta la tribù affamata di Isumatak; e, poco dopo, torna al villaggio di questi, accompagnato dal missionario. Lo stregone ne è indignatoe di nuovo incita i compagni all’omicidio; ma, quando padre Alfonso chi è l’uomo che lo accompagna e Tom, dopo aver distribuito alcuni grossi pezzi di carne, conduce gli uomini a recuperare il resto dell’alce, i sentimenti di tutti si piegano in favore dei nuovi arrivati. Così i due bianchi, accompagnati da due Esquimesi, partono senza perder tempo alla ricerca di Mabel.

Al termine di una marcia angosciante, Tom e il sacerdote raggiungono Imoloki e suo nipote, ma solo per sentirsi raccontare che, durante la bufera, essi hanno smarrito la fanciulla e ora non sanno più che fine ella abbia fatto. Reprimendo un moto di disperazione, Tom e padre Alfonso, con la guida di Imoloki e di Icoluki, riprendono la marcia alla ricerca di Mabel. Forse non la troverebbero mai, se Ighiu non li raggiungesse e non riuscisse a far capir loro che devono seguirlo. Segue il gioioso e quasi incredulo ritrovamento del padre e della figlia amatissima. Ma c’è ancora qualcosa che manca al sospirato lieto fine: quale sarà stato il destino di Isumatak? Suo figlio vuole assolutamente andare a cercarlo e il gruppo decide di dividersi: padre Alfonso con Imolokii accompagneranno Icoluki nella ricerca, mentre Tom con Mabel, ancora troppo debole, ritornerà al villaggio. Ma non ce n’è bisogno: il mattino dopo, annunciato da Ighiu, anche Isumatak fa ritorno e tutti si rimettono in marcia verso il villaggio.. Durante la notte, mentre fanno sosta in un igloo improvvisato, vengono svegliati da un baccano inquietante.

"Durante le ultime ore della notte Isumatak fu svegliato da un ringhio di Ighiu e si sollevò a mezzo ad ascoltare: sentì alcuni ululati sinistri, poi un urlo umano che lo fece balzare in piedi. Aveva ancora accanto a sé il fucile di padre Alfonso, lo afferrò e si lanciò all’aperto.

"Una pallida luna che stava per tramontare illuminava il campo di neve, ed egli vide distintamente un uomo in ginocchio che si difendeva contro sei grossi lupi: uno l’aveva azzannato ad un braccio, e la fine del disgraziato pareva prossima. Isumatak, generoso e pieno di coraggio, pensò di salvare quel poveretto: lanciò un grido, e a quel richiamo due lupi gli corsero subito contro affamati e feroci. L’Esquimese li freddò uno dopo l’altro, poi di corsa si avviò verso il tragico gruppo, seguito da Ighiu.

"Trasse dalla guaina il suo coltelo da caccia dalla lama affilatissima e lunga, e si lanciò addosso ad una delle belve, mentre Ighiu ne assaliva un’altra. Il lupo preso di mira da Isumatak era quello che aveva azzannato il braccio sinistro dell’uomo; in un attimo, vedendo il nuovo nemico, lasciò la presa e gli si avventò contro mirando alla gola, ma sbagliò il colpo e addentò la pelliccia del giacchettone. Fu trafitto da quattro colpi e gettato lontano.

"In quel momento, gli occhi di Isumatak incontrarono il viso dell’uomo, illuminato dalla luna; ebbe un sussulto: Occhio di fuoco, il suo feroce nemico, gli stava dinanzi! Ebbe per un istante il pensiero di abbandonarlo al destino, ma poi la sua generosità ebbe il sopravvento ed egli si slanciò contro un alro lupo, col coltelo in pugno.

"l’Indiano, con un’arma troppo corta, mal si difendeva, e fu ad un tratto afferrato alla gola dalla belva rimasta accanto a lui. Ebbe un urlo che finì in un rantolo, Isumatak l’udì e sentì un brivido corrergli per le ossa: quell’uomo era condannato. Si sbarazzò di altri due lupi, poi si inginocchiò accanto all’Indiano, mentre Ighiu metteva in fuga l’ultima belva.

"Occhio di fuoco, nonostante il valore e la generosità di Isumatak, moriva: con la testa arrovesciata sul braccio dell’Esquimese, respirava a fatica; i suoi occhi orlati di rosso erano fissi in quelli impietositi del suo soccorritore. Non poteva parlare, e solo gemiti e sangue uscivano dalle sue labbra. "Intanto, dall’iglu erano usciti gli altri uomini che, svegliati dall’ultimo urlo del morente, correvano a vedere, pieni di angoscia, che fosse successo.

" Padre Alfonso si inginocchiò egli pure accanto al moribondo, cercando di confortare i suoi ultimi istanti; gli teneva una mano fra le sue e gli mormorava parole di fecee di speranza che l’altro appena ascoltava. Ad un tratto, il respiro dell’Indiano divenne più affannoso, la sua mano sembrò cercare qualcosa nell’aria, poi ricadde immobile sul terreno.

"Fu scavata una fossa nella neve per il nemico degli Esquimesi che il gran cuore di Isumatak aveva cercato invano di salvare." (24)

Tornati al villaggio, Isumatak e gli altri sono accolti con giubilo dagli Esquimesi; il capo vorrebbe condannare a morte l’angecok, ma per intercessione del missionario gli risparmia la vita e lo scacia in esilio perpetuo. Intanto ritorna la bella stagione e la tundra torna a verdeggiare. Mabel si gode l’amicizia delle persone a lei care, ma il momento della partenza si avvicina; Tom, suo padre, ha deciso di comprare una nuova baleniera e di tornare, una volta o l’altra, a pescare nella Baia di Hudson. Ma prima vuole rientrare in Italia, suo paese natale, e naturalmente vuole portare con sé la fanciulla. Isumatak e Icolukili accompagnano sino a Fort Churchill, dove inizia la ferrovia che li avrebbe portati a Winnipeg e, di lì, in California, prima della partenza per l’Europa.

"Dormirono a Churchill, e la mattina seguente si recarono alla stazione donde sarebbe partito il treno per Winnipeg.

"Isumatak era molto nervoso, e i suoi occhi non si stacavano da colei che aveva considerato come figlia. Sentiva quanto fosse giusto che Mabel tornasse fra i suoi fratelli, i bianchi. Ma non sapeva darsi pace al pensiero di perdere quella dolce creatura che gli era tanto cara.

"Icoluki, con l’incoscienza felice dell’infanzia, era tutto intento ad ammirare quelle case di pietra mai viste prima, quelle carrozze che andavano senza bisogno di cani, quei grossi mostri di ferro che si movevano fischiando e sbuffando, e non pensava all’imminente distacco. In stazione osservava con gli occhi pieni di meraviglia i treni, tenendo Mabel per mano.

"L’ora della partenza si avvicinava, e Isumatak, che aveva portato con sé Ighiu, si accostò alla bimba con aria solenne, dicendo:

"- Figlia, accetta un dono da tuo padre: ecco il cane che tu ami!

"- Oh, il mio Ighiu! – Mabel posò la mano sulla testa dell’animale. – Grazie, Isumatak! Ed io che darò?… Amirink [uno degli altri due cacciatori esquimese che li avevano accompagnati], taglia con il tuo coltello nuovo! – e tese uno dei suoi riccioli biondi all’Esquimese, che lo recise.

"- Ecco, padre, non ho altro – disse con gli occhi pieni di lacrime.

"Il buon Isumatak avvicinò il ricciolo morbido e lucido alla guancia, poi sollevò la bimba tra le braccia e, per la prima volta in vita sua, si provò a dare un bacio, appoggiandole le labbra sulla fronte.

"Mabel gli gettò le braccia al collo e pianse dirottamente.

"- mai dimenticherò te ed Icoluki!

"Si staccò dall’Esquimese e andò presso il fanciullo, lo abbracciò e gli disse ra il pianto ed il riso:

"- Ci rivedremo, sai? Io tornerò con la baleniera del babbo e ti porterò tanti bei doni, vedrai!

"- Signori, in vettura! – gridò un ferroviere passando.

"- Arrivderci, Isumatak, arrivederci, Icoluki! – sussurrò con voce tremante e con la bocca che le si piegava agli angoli. – Amirink, Tarek, mi ricorderò amche di voi. Salutate ancora padre Alfonso!

"Anche Neri salutò molto commosso, ringraziò Isumatak per tutto quello che aveva fatto per la figlia, baciò Icoluki.

"- Torneremo – promise.

"Salì in treno con Mabel. Ighiu li raggiunse, poi si voltò a guardare gli antichi padroni, si avvicinò, sfregò il capo sui loro calzoni, si riempì le narici di peli di caribù, e starnutì… sì da sembrar commosso anch’esso. Icoluki ed Isumatak lo accarezzarono, poi il cane balzò sulla vettura prima che lo sportello venisse chiuso. Mostrò le zanne ai viaggiatori, e solo le carezze di Mabel lo rabbonirono.

"Il treno fischiò e cominciò ad allontanarsi adagio adagio.

"Mabel, piangente, affacciata al finestrino vide per ultima cosa la canna del fucile di Isumatak che scintillava ai raggi del sole." (25)

NOTE

1) HERZEN, Aleksandr (senior), Passato e pensieri, Milano, Mondadori, 1970.

2) HERZEN, Alessandro, Gli animali martiri, i loro protettori e la fisiologia, introd. A cura di Giovanni Landucci, Firenze, Giunti, 1997 (in Appendice: Sopra il metodo seguito negli esperimenti sugli animali viventi nel Museo di Storia Naturale di Firenze, cenni del prof. Maurizio Schiff).

3) PALMERINI, Agostino, voce H. della Enciclopedia Italiana, ed. 1949, vol. XVIII.

4) AHLMANN, Hans von, voce J. M. della Enc. Ital., vol. XVIII:

5) Cfr. il Milione. Enciclopedia di tutti i paesi del mondo, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1968, vol. 4, p. 141.

6) HERZEN, Alessandro, Una gita a Jan Mayen, in Boll. Della Reale Soc. Geogr. Ital., fasc. 5 (parte 3 a) del 15 novembre 1870.

7) RODOLICO, Francesco (a cura di), Meraviglie della natura negli avventurosi viaggi degli esploratori italiani dell’Ottocento, Firenze, Le Monnier, 1968, pp. 1-5.

8) ZISWILER, Vinzenz, Animali estinti e in via di estinzione, Milano, Mondadori, 1975, p. 27.

9) LAMENDOLA, Francesco, L’opera letteraria di Cézar Petrescu (1892-19619, in Atti della Società "Dante Alighieri a Treviso", vol. IV, 2003-2006, Treviso, 2006, pp.348-378, con relativa bibliografia.

10) LUPI, Gino, La letteratura romena, Firenze, Sansoni-Accademia, 1968, p.

11) Tr. it. col titolo L’ombra che scende, Roma, Ed. La Capitale, 1945.

12) Tr. it. col titolo La Capitale, Torino, U.T.E.T., 1935; 1965.

13) Tr. it. La vera morte di Guynemer, Firenze, Novissima Editrice, 1931.

14) Tr. it. Balletto meccanico, Roma, Ed. La Capitale, 1946.

15) Tr. it. La sinfonia fantastica, Firenze, la Nuova Italia, 1929.

16) PETRESCU, Cézar, Fram, l’orso polare, Milano, Ed. Paoline, 1966 (traduz. di Agnesina Silvestri-Giorgi), p. 207.

17) Ibidem, pp. 50-52.

18) PELIZZARI, Ginevra, Mille parole mille pensierini, Milano, Editrice Piccoli, s.d:; Id., Figli della savana, Milano, Piccoli, 1956; Id:, Il segreto di Irene Bell, Milano, Piccoli, 1963.

19) KILPING, Rudyard, Capitani coraggiosi (traduzione di Ginevra Pelizzari), Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1987; Id. (con N. Charpiot), Le novelle di Andersen, Milano, Piccoli, s. d.

20) PELIZZARI, Ginevra, Mabel tra gli Esquimesi, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1961, pp. 29-30.

21) Ibidem, pp. 88-90.

22) Ibidem, pp. 119.120.

23) Ibidem, pp. 128-130.

24) Ibidem, pp. 149-150.

25) Ibidem, pp. 154-155.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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