
La battaglia del Frigido e la fine del paganesimo
5 Marzo 2007
Le colonie tedesche in Africa nella prima guerra mondiale
8 Marzo 20071. La crisi del regno ostrogoto.
Teoderico moriva a Ravenna del 526, ma già a partire dalla fine del 523 o dall’inizio del 524, con la messa in stato d’accusa del senatore Albino per complotto contro lo Stato e, poco dopo, anche di Boezio (1), la sua politica aveva subito una svolta decisiva. Fino a quel momento e per un periodo di venticinque anni (era entrato in Italia nel 489, e nel 493 aveva eliminato definitivamente il suo avversario Odoacre) (2), la sua azione politica interna era stata diretta verso il duplice obiettivo di favorire la coesistenza pacifica di Latini e Ostrogoti e di conservare al tempo stesso, quanto più a lungo possibile, la supremazia di questi ultimi in terra italiana. Perciò egli da un lato si era sforzato di risollevare a nuovo prestigio la cultura latina, le prerogative formali del Senato, le antiche cariche amministrative cadute quasi in discredito, promuovendo anche il restauro degli antichi edifici (3) e la ripresa dell’annona gratuita e dei giochi circensi; dall’altro aveva ribadito la separazione delle competenze fra le due stirpi, riservando alla gotica l’esercizio della milizia; aveva proibito i matrimoni misti e, pur rispettando la libertà d’azione della Chiesa cattolica, aveva mantenuto la netta separazione fra cattolicesimo latino e arianesimo ostrogoto. Poteva apparire tale politica – e, in effetti, lo era – contraddittoria e, alla lunga, schizofrenica, ma Teoderico era preoccupoato di evitare una troppo rapida assimilazione dei suoi pochi Ostrogoti (circa 200-270.000 persone) entro la massa della popolazione italica. (4) Scesi nella Penisola come conquistatori, essi guardavano con disprezzo al popolo vinto e, nella gran maggioranza, vedevano con sospetto il loro re circondarsi di consiglieri e ministri latini, da essi giudicati malfidi. Le loro preoccupazioni vennero alimentate dal progressivo addensarsi delle minacce sui confini del regno ostrogoto: a nord-est, da parte dei bellicosi Franchi (5); a sud, da parte dei Vandali (6); e soprattutto a sud-est, da parte dell’Impero Bizantino, mai del tutto rassegnato alla perdita definitiva delle province occidentali (7) Teoderico aveva bensì cercato di costituire, parte per via diplomatica e parte per via militare, un sistema politico che legasse al regno ostrogoto i vari potentati romano-barbarici, nonché di mantenere un atteggiamento di deferente ma formale cordialità con la corte di Costantinopoli: ma l’uno e l’altro obiettivo erano stati mancati. In Gallia, i Franchi cattolici di Clodoveo si erano enormemente rafforzati a danno dei Visigoti ariani, e solo l’intervento teodericiano aveva potuto impedir loro di espandersi fino all’agognato Mediterraneo; in Africa i vandali avevano assunto un atteggiamente decisamente ostile, culminato nell’arresto e, più tardi, nella condanna a morte di Amalafrida, sorella di Teoderico e sposa del defunto re Trasemundo; a Costantinopoli, infine, l’imperatore Giustino, dopo un periodo di buone relazioni con il regno ostrogoto, inaugurava una politica violentemente anti-ariana, preludio – forse – a più gravi ostilità nei confronti dell’Italia.
La somma di queste contraddizioni e di questi insuccessi, velati ma non nascosti interamente dal prestigio di cui tuttavia continuava a godere nel suo regno e fuori di esso, aveva indotto Teoderico a un brusco ripensamento di tutta la sua precedente politica. In un clima avvelenato da reciproci sospetti e diffidenze e incupito da mai sopite animosità, il re aveva finito per cedere alle pressioni del partito gotico "nazionalista" e anti-romano, prendendo le distanze da quell’elemento della intellighenzia latina fino allora tenuto in tanto onore. (8) L’attacco scatenato dai Goti nazionalisti era iniziato nella primavera del 523 con l’accusa rivolta al senatore Albino dal referendarius Cipriano, che si era ben tosto rivelata un monito al Senato nel suo complesso. (9) Albino era stato incriminato per alto tradimento e per aver tessuto intrighi con l’imperatore d’Oriente: coraggiosamente ma incautamente Boezio, il più illustre esponente della cultura filosofica e scientifica del tempo, ex console ed ex magister officiorum di Teoderico, era sceso in aiuto di Albino, accettando in pieno la tesi "estrema" di Cipriano: se Albino era veramente colpevole, allora tutto il Senato doveva considerarsi tale. (10) Questo fu da parte sua un errore irreparabile: spaventati, i senatori lo avevano lasciato solo, ed egli era stato a sua volta accusato e processato, senza avere la possibilità di difendersi. (11) L’istruttoria, viziata da gravissime irregolarità procedurali, si era ridotta così a un processo puramente politico il cui verdetto appariva scontato. La sentenza capitale era stata eseguita verso la fine del 524, a Ticinum (Pavia), e aveva successivamente coinvolto sia Albino che Simmaco, suocero di Boezio e senatore fra i più illustri. (12) Sempre più dominato dal partiti gotico estremista, Teoderico aveva quindi dato mano a una vera persecuzione contro la Chiesa cattolica, dapprima inviando papa Giovanni I a Costantinopoli per chiedere la revoca dei provvedimenti anti-ariani di Giustino; poi, al ritorno di questi con un nulla di fatto, lo aveva fatto arrestare e imprigionare fino alla morte, dovuta – si disse – ai maltrattamenti subiti, nel 526. (13)
I ponti, dunque, erano stati rotti e già l’ala più accesa del partito nazionalista barbarico stava accarezzando progetti di guerra aperta contro l’Impero di Costantinopoli (14), allorchè Teoderico era venuto a morte, in buon punto per risparmiarsi altri dolorosi errori e nuove maledizioni da parte dell’elemento latino (anno 526). Il faticoso e delicatissimo equilibrio politico da lui tenacemente perseguito per quasi un trentennio era andato in pezzi. Alcuni storici hanno voluto immaginare che il re goto, sul letto di morte, lasciasse al nipotino Atalarico e alla figlia Amalasunta, quale testamento politico, un generico ripensamento circa la propria politica degli ultimi tempi, e un invito alla concordia col Senato e con l’imperatore. (15) Che questo sia un mito, lo dimostrano inequivocabilmente fatti precisi, quali l’ordine di espulsione dei cattolici da tutte le chiese del regno, emanato appena qualche giorno prima di spirare (16), e i concreti preparativi di guerra da lui avviati contro i Bizantini nella regione illirica. (17) Di vero, in questo mito, c’è – a parte il tentativo di riabilitare la memoria del re goto e di purgarlo del ricordo dei gravi abusi commessi negli ultimi anni – il fatto che la reggente Amalasunta, ma solo dopo la morte del padre, volle tentare un ritorno alla politica di coesistenza pacifica fra Goti e Latini. Di ciò, tuttavia, parleremo più diffusamente nelle prossime pagine.
La crisi della politica teodericiana a partire al 523-24, dunque, è la crisi di un intero sistema statale: il fragile regno ostrogoto che, nei trent’anni della sua esistenza, non era riuscito a mettere solide radici in terra italiana. Se infatti, dal punto di vista economico-sociale, la condizione dei Latini era cambiata poco o punto in confronto al tempo di Odoacre – i Goti avevano semplicemente sostituito gli Eruli, i Rugi e i Turcilingi nel possesso del terzo dei fondi italici, secondo il regime tardo-romano della hospitalitas (18) – l’ingresso della Penisola in un sistema geo-politico molto più forte e accentrato (19) aveva indirettamente riacutizzato il rammarico della classe senatoria per la rudezza di una dominazione barbarica percepita come intollerabile. La sorte toccata agli uomini migliori che avevano sostenuto la politica di cooperazione con i Goti, come Boezio, non aveva fatto che convincere i senatori della impossibilità di una ulteriore cooperazione. La circostanza che Aurelio Cassiodoro rimanesse fedele al governo ostrogoto sino alla fine costituisce, infatti, l’eccezione che conferma la regola. (20) Per la massa dei contadini italici, legati ai grandi latifondi senatorii o gotici da vincoli semi-servili, la situazione era sostanzialmente la stessa che ai tempi di Valentiniano III, di Romolo Augusto o di Odoacre. Solo roppo tardi, alla vigilia del collasso definitivo, il regno ostrogoto darà di piglio – pressato dalle strettezze della guerra contro i Bizantini – a una organica politica di emancipazione di tale classe sociale. (21) Inoltre, il grosso degli ostrogoti si era stanziato nell’Italia centro-settentrionale, fra la Valle Padana e la Toscana, sicché la situazione dei piccoli proprietari italici in quelle regioni era comprensibilmente peggiorata, mentre al Sud erano rimasti pressoché intatti gli immensi latifondi della nobiltà senatoria, con le loro masse di lavoratori semi-liberi. Mantenendo inalterato tale stato di cose, così come l’aveva trovato, Teoderico aveva cercato di subentrare alla scomparsa autorità imperiale d’Occidente, presentandosi alle classi dominanti latine come il campione dell’ordine e della restaurazione. In tale prospettiva vanno giudicate la sua politica di deferenza verso il Senato e la sua sollecitudine per il restauro degli antichi monumenti, piuttosto che nel contesto di un nebuloso e improbabile idealismo filo-romano. Ma in realtà non aveva potuto legare a sé, mediante un vero sentimento di amicizia, la nobiltà senatoria, sempre pervsasa da un profondo benché dissumulato anti-germanesimo; e sull’altare di questa infruttuosa politica aveva sacrificato la possibilità di attrarre a sé le classi subalterne, con il loro potenziale di energie morali e materiali. Alarico, nel 408-410, aveva preteso dai Romani assediati la liberazione di 40.000 schiavi di origine germanica (22); ma adesso che i barbari erano divenuti i padroni dell’Italia, anche il loro orientamento socio-economico era mutato, ed essi si erano integrati perfettamente nel sistema tardo-imperiale basato sullo sfruttamento delle masse servili e semi-servili..
Fragile all’interno, dunque, appariva la struttura del regno ostrogoto, per il numero troppo esiguo dei dominatori, per la collaborazione solo apparente delle classi dominanti e per la totale esclusione di quelle subalterne; e fragile anche all’esterno, per la crisi del sistema di alleanze con gli altri regni romano-germanici e per il riacutizzarsi della tensione con Costantinopoli. Sicché quello che era stato, negli anni migliori di Teoderico, il più potente e il più temuto dei giovani regni dell’Occidente, alla morte di lui poteva ben apparire come un colosso dai piedi d’argilla.
Fu in tali condizioni che Amalasunta venne a trovarsi alla guida del suo popolo e dell’Italia (si ricordi che Teoderico era stato rex degli Ostrogoti ma, formalmente, non degli Italici, in quanto era entrato in Italia quale rappresentante – sia pur molto teorico – dell’imperatore bizantino)..
2. La giovinezza di Amalasunta.
Alla morte di suo padre, quando si trovò improvvisamnente a ereditare le responsabilità di governo del regno ostrogoto, Amalasunta (in goto: Amalaswintha) doveva avere circa ventotto anni, essendo nata – probabilmente – nel 489, dal matrimonio di Teoderico con Audefleda, sorella del re dei Franchi, Coldoveo. (1) La sua esistenza era stata dunque tutta italiana e i suoi primi ricordi le mostravano i Goti già saldamente stabiliti nella Penisola da una decina d’anni, con suo padre maestosamente assiso sul trono, a Ravenna. Del tempo in cui il suo popolo errava, seminomade, fra i monti della Tracia e dell’Illirico e viveva sotto le tende, più dedito al brigantaggio e alla guerra che all’allevamento e all’agricoltura, ella non sapeva nulla; così come non sapeva della migrazione attraverso la Penisola Balcanica, della lotta vittoriosa contro i Gepidi e della dura campagna sostenuta contro Odoacre. Ravenna, la splendida città adriatica rifulgente delle opere d’arte che suo padre faceva febbrilmente edificare, quasi a gara con quelle del tempo di Galla Placidia (2), era stata il teatro principale della sua fanciullezza e della sua adolescenza. Per questa sua figlia amatissima, venuta al mondo quand’egli aveva già passata la cinquantina (3), Teoderico ebbe le più sollecite cure e volle che fosse istruita non come una principessa barbara, ma secondo le migliori tradizioni della civiltà latina. La giovinezza di Amalasunta, pertanto, era stata simile a quella di una principessa romana del V secolo, e in essa aveva appreso ad amare profondamente quel mondo ancora capace di esercitare un così grande fascino sull’animo dei conquistatori barbari, pur nella sua inarrestabile decadenza. Ella conosceva e parlava correntemente tre lingue: il gotico, il latino e il greco (4); e tale splendida educazione fa onore alla lungimiranza del padre, del quale taluno disse (forse con una certa malignità) che, per parte sua, non sapeva nemmeno tracciare la propria firma sui rescritti ufficiali. (5) In quegli anni, dal tronco vetusto della cultura latina stava germogliando un’estrema fioritura: Severino Boezio avviava un vasto programma di diffusione della filosofia aristotelica e soprattutto platonica e dava impulso alla cultura scientifica – costruendo, fra l’altro, su incarico di Teoderico, un orologico idraulico ed uno solare come dono per il re dei Burgundi. (6) Alcuni degli stessi Goti si aprivano allo studio delle lettere e della filosofia greco-romana (7), e un uomo del valore di Cassiodoro "legittimava" l’antichità delle tradizioni gotiche, scrivendo una poderosa storia di quel popolo in dodici libri (8), e si faceva strenuo sostenitore dell’incontro culturale fra Latini e Goti. Amalasunta crebbe nel riflesso dei bagliori dorati di quel sontuoso tramonto e poté vivere, fino a un certo punto, l’illusione di una sostanziale continuità fra passato e presente, fra Romania e Gotia. Non sappiamo se, oltre al greco e al latino, venisse avviata anche allo studio approfondito della filosofia: certo, più che l’influenza di Boezio – troppo strenuamente "romano"e chiuso nei suoi sogni di restaurazione della cultura classica, su di lei dovette essere forte l’influsso di Cassiodoro: anche, ma non solo, per motivi cronologici. Di lontana origine siriaca (e non romana "pura", quindi, come Boezio, che era il rampollo di nobilissime famiglie senatorie dell’Urbe), Cassiodoro era più giovane dell’illustre filosofo (9) e più profondamente affascinato dal progetto di dare ai Goti quel prestigio culturale che mancava loro e di favorire, in tal modo, l’incontro col mondo latino: un’idea generosa alla cui ombra crebbe Amalasunta e alla quale ella sarebbe rimasta sempre fedele, contro tutto e contro tutti. Questore nel 507 e console nel 514, Cassiodoro (e il partito goto "filo-romano" guidato da Amalasunta) non ebbero la forza di scongiurare la dura reazione politica teodericiana dopo il 523, né di salvare Boezio, Albino e Simmaco. Rimase però al fianco della principessa che subito, alla morte del padre avvenuta nel 526, lo volle elevare all’altissima carica di magister officiorum (in funzioni di questore), che già era stata di Boezio; ed è molto probabile che si debba al suo consiglio la pronta restituzione dei beni confiscati ai figli di Simmaco e di Boezio, quale primo gesto concreto di riparazione e di riconciliazione. (10) Questo, naturalmente, assomigliava molto a una sconfessione degli ultimi anni della politica paterna e, in particolare, del processo istruito in seguito alle accuse di Cipriano; e, se dovette essere accolto favorevolmente dal Senato e dall’aristocrazia italica, senza dubbio suscitò perplessità e malumori appena dissimulati tra le file del partito goto "nazionalista".
Nel frattempo la giovane Amalasunta aveva già fatto in tempo ad essere moglie, a divenire madre e a rimanere vedova. Privo com’era di figli maschi, Teoderico si era a suo tempo preoccupato di trovare un degno erede al trono ostrogoto e, dopo accanite ricerche, aveva scoperto che in Spagna vieva un ultimo discendente della casa degli Amali, un tale Eutarico Cillica, nipote di Berimundo e di Torrismondo e figlio di Viterico. (11) Allora lo aveva fatto venire in Italia con tutti gli onori e, nel 515, lo aveva unito in matrimonio con Amalasunta, sotto il consolato di Florentino e di Antemio. (12) A quel tempo la principessa gota aveva sedici o diciassette anni ed era quindi, secondo le consuetudini germaniche del tempo (ma anche secondo quelle latine), perfettamente in età da marito. Quel che ella pensasse di un tale matrimonio, può soltanto essere oggetto d’ipotesi; certo è che dovette piegarsi alla ragion di Stato, accettando uno sposo che ci viene descritto bensì come giovane, accorto, valoroso e gagliardo (13), fornito cioè delle doti tradizionalmente più apprezzate nella società germanica, ma le cui vedute politiche differivano troppo profondamente dalle sue. Eutarico, infatti, non tardò a mettersi alla testa della fazione gotica più violentemente "nazionale" e quindi, tendenzialmente, anti-romana. I circoli che a lui facevano capo auspicavano, da parte di Teoderico, l’adozione di una linea più dura verso i Latini, che avrebbero dovuto rimanere, secondo loro, nella condizione pura e semplice di un popolo vinto e sottomesso. Pare che, per accentuare il distacco esistente fra Goti e Latini, Eutarico facesse leva principalmente sulla contapposizione religiosa, essendo egli un ariano convinto e ostile alla Chiesa cattolica. (14) Coonsole quattro anni dopo il matrimoinio, nel 519, egli celebrò il trionfo a Roma e a Ravenna (15); e Cassiodoro, nel suo irriducibile ottimismo, cercò di far credere che nessuno più di lui era, in quell’occasione, entrato nel cuore dei Romani. (16) In effetti, Eutarico non aveva badato a spese per colmare di onori il Senato e per stupire il popolo dell’Urbe con lo spettacolo delle fiere esotiche che avevano animato i giochi circensi, come ai bei tempi andati dell’Impero Romano d’Occidente. (17) Ma tutto questo non era stato che un espediente, del fumo negli occhi per l’opinione pubblica latina, mentre il partito nazionalista goto atteneva con impazienza che Eutarico, una volta succeduto a Teoderico sul trono di Ravenna, desse corso ai suoi piani di riaffermazione del’assoluta preponderanza barbarica in Italia.
Tutto questo non poté certamente trovare Amalasunta consenziente. Per lei, la collaborazione attiva fra le due stirpi conviventi nella Penisola non era solamente un ideale astratto, alimentato da consiglieri nutriti di nostalgie: la stessa influebza di Cassiodoro non esauriva certo le ricche potenzialità del suo animo, anche se è del tutto fuori di luogo affermare che la principessa costituiva uno dei principali ostacoli al programma di lui. (18) Per Amalasunta, la questione della convivenza pacifica ed armonica fra Goti e Latini era, in primissimo luogo, un problema di natura politica, non culturale. Donna di acuta intelligenza e di virile fermezza (19), oltre che còlta e – a quanto ci viene tramandato – singolarmente bella (20), ella comprendeva benissimo che solo favorendo una graduale fusione tra i due popoli si poteva uscire dall’impasse degli ultimi anni di Teoderico, e stornare così i gravissimi pericoli incombenti sul regno. Amalasunta si rendeva conto che i suoi Goti, pochi di numero e di gran lunga inferiori ai Latini quanto a capacità di esercitare un’attrazione sociale e culturale, nonché minacciati da nemici esterni, non avrebbero potuto conservare il potere sull’Italia né, forse, sopravvivere come popolo, se non avessero perseguito un programma di maggior collaborazione con l’elemento indigeno sottomesso. Era in fondo, la sua, una visione politica assai più concreta e realistica di quella del partito goto "nazionale"; essa partiva da una attenta valutazione della situazione esistente, e si prefiggeva con coerenza l’obiettivo del rafforzamento del regno attraverso la collaborazione e, in prospettiva (sia pure nell’arco di alcune generazioni), la fusione goto-latina. Consolidare la reciproca fiducia tra le due stirpi e riallacciare un rapporto di amicizia e di alleanza con la corte di Costantinopoli avrebbero dovuto essere i due punti qualificanti di tale programma: e ciò era esattamente quanto l’idea politica impersonata da Eutarico minacciava di ostacolare implacabilmente. È possibile, anzi probabile, che la vita coniugale dei due sposi risentisse di tale contrasto ideologico, un po’ come era già accaduto – un secolo prima – nel matrimonio di Stilicone con Serena, la nipote di Teodosio il Grande. Solo che mentre allora Serena aveva propugnato una politica violentemente anti-germanica e suo marito, invece, di amicizia fra Romani e barbari (21), qui le parti s’erano invertite e all’anti-romanesimo di Eutarico si contrapponeva la volontà di conciliazione di Amalasunta. Nel giro di poco più d’un secolo era toccato alla romanità di trovarsi costretta sulla difensiva.
Dietro le spalle del vecchio Teoderico, pertanto, si andava preparando la lotta per il futuro indirizzo politico del regno, allorchè – improvvisamente – nel 522 Eutarico era venuto a morte, lasciando alla vedova due figlioletti, un maschio e una femmina: Atalarico e Matasunta. Atalarico, nato verso il 516, aveva poco meno di dieci anni al momento della morte del nonno Teoderico (22), e venne proclamato nuovo re degli Ostrogoti sotto la reggenza della madre. Sua sorella Matasunta, la secondogenita, sarebbe andata sposa giovanissima al già anziano Vitige (23) e avrebbe concluso la sua vita avventurosa ed infelice a Costantinopoli, dopo aver sposato – in seconde nozze – il patrizio Germano, nipote dell’imperatore Giustiniano (24), e avergli dato un figlio, chiamato Germano il Giovane. (25)
3. Il periodo iniziale della reggenza.
Sul letto di morte nel suo palazzo di Ravenna, subito prima di spirare nell’estate del 526 (1), Teoderico aveva chiamato presso di sé il nipotino Atalarico e lo aveva ufficialmente dichiarato erede al trono, affidandogli il proprio testamento politico. (2) Subito dopo il gruppo degli alti dignitari presenti, sia goti che latini, aveva prestato il giuramento di fedeltà al suo nuovo sovrano. Amalasunta, certamente, era anch’ella presente e assisteva alla scena con la piena consapevolezza di stare vivendo l’ora decisiva della propria esistenza. La cerimonia, svoltasi senza pompa al capezzale del vecchio re morente, aveva fedelmente rispecchiato la duplicità esistente nel regno ostrogoto: se, infatti, la successione secondo il principio ereditario era tipica del sistema tardo-romano, la libera elezione per acclamazione era riconosciuta dal diritto nazionale germanico. Teoderico aveva creduto di assicurare il trono al nipote con una procedura che rispettasse entrambe le consuetudini, ma in realtà Atalarico era solo un bambino e ciò significava, necessariamente, una lunga reggenza da parte di sua madre: il che era contrario a tutte le tradizioni gotiche. (3) L’idea di essere governati da una donna ripugnava intimamente ai suoi futuri sudditi germanici e, in particolare, alla fazione "nazionale" della nobiltà barbarica, che ben conosceva i sentimenti filo-romani di Amalasunta. Il fatto che ella continuasse a dimostrare la massima fiducia nei suoi consiglieri latini e che si affrettasse a designare magister officiorum quel Cassiodoro che, probabilmente, era stato amico di Boezio e che subito volle restituire alla famiglia di quest’ultimo le proprietà confiscate, non contribuiva certo a dissipare tali malumori. Fu quindi in una gelida atmosfera di sospetti e di rancori appena dissimulati che la vedova di Eutarico assunse, di fatto, le redini del governo, dopo che Teoderico era scomparso dal numero dei viventi.
Anche sul piano internazionale il momento non era scevro di difficoltà e di pericoli. Con la minaccia dei Franchi sempre incombente dalle Alpi occidentali e con l’onere delle guarnigioni militari dislocate nella Penisola Iberica per difendere il regno visogoto del giovane Amalarico, nipote di Teoderico per parte di madre (4), gli Ostrogoti dovevano fronteggiare la minaccia dei Gepidi nella regione pannonica, e quella della flotta vandalica (5) contro le coste della Penisola Italiana. C’era, poi, il delicato problema delle relazioni con la corte di Costantinopoli, che nell’estate del 526 erano giunte quasi al punto di una rottura irreparabile. Amalasunta volle, per prima cosa, cercare di garantire il regno ostrogoto da una possibile offensiva bizantina e, come primo grosso impegno di politica estera, si dedicò con convinzione a tale impresa. Subito dopo la morte di Teoderico, dunque, probabilmente nel settembre del 526, ella incaricò Cassiodoro di redigere una lettera ufficiale per l’imperatore Giustino, a firma del piccolo Atalarico, annunciandogli l’avvenuta successione sul trono d’Italia e chiedendone, implicitamente, il riconoscimento de iure. (6) La lettera, concepita in termini di ossequiosa amicizia, lasciava intendere che Atalarico e sua madre erano disposti a riconoscere l’alta sovranità nominale dell’Impero (7), anche se poi si chiudeva con la franca richiesta che il governo di Costantinopoli confermasse le relazioni giuridiche esistenti con l’Italia sotto il regno di Teoderico (8), e cioè che fosse fatto salvo il principio della delega imperiale al re goto circa il governo della Penisola.
Questo tentativo di rappacificazione andò a vuoto, perché Giustino si rifiutò di riconoscere tanto la successione di Atalarico che la reggenza di sua madre (9) e conservò un atteggiamento decisamente ostile nei confronti del regno ostrogoto. Egli, forse, meditava più energiche ritorsioni, benchè fosse sempre più gravemente coinvolto nella guerra con la Persia (10), allorchè le sue condizioni di salute precipitarono, nella primavera del 527. Il Senato di Costantinopoli gli chiese allora di designare ufficialmente il proprio successore, poiché egli aveva numerosi nipoti ma nessun figlio; e il 4 aprile venne incoronato quale co-imperatore suo nipote Pietro Sabbazio, che egli aveva in precedenza adottato col nome di Giustiniano. (11) La coreggenza fu di breve durata, perché il vecchio Giustino, sempre più ammalato, si spense quattro mesi dopo, il 1° agosto del 527. (12) Non appena rimasto solo alla guida dell’Impero, Giustiniano operò un capovolgimento nella politica italiana di suo zio e si affrettò a riconoscere Atalarico quale legittimo sovrano del regno ostrogoto, e Amalasunta quale reggente durante la minorità del figlio. (13) Le ragioni di tale riavvicinamento vanno ricercate sia nel gravoso impegno della guerra persiana, che immobilizzava a Oriente le forze migliori dell’Imprro Bizantino e lasciava esposto l’Illirico a un facile attacco degli Ostrogoti, sia nell’opportunità di sfruttare i sentimenti filo-romani della regina per assicurarsene l’alleanza, o almeno la neutralità, in vista di una vasta azione da intraprendere contro il regno vandalico che si trovava, adesso, in piena crisi. (14) Per il momento, quindi, la morte di Giustino e la complessità dei disegni politici bizantini in Oriente e in Occidente concessero al governo di Amalasunta un lungo periodo di tregua, rinviando di parecchi anni quel chiarimento che l’ambiguità di fondo dei rapporti esistenti fra la corte di Ravenna e quella di Costantinopoli rendeva, prima o poi, inevitabile.
Sul piano della politica interna, uno dei primi problemi che il governo di Amalasunta dovette affrontare fu quello relativo al papato. Fin dal tempo di Teoderico, il Senato di Roma si era spaccato in una corrente filo-gotica e in una "nazionale", ossia tendenzialmente filo-bizantina; e tale divisione aveva avuto un contraccolpo nella designazione del nuovo pontefice. Alla morte di Giovanni I, avvenuta nelle drammatiche circostanze di cui s’è detto, i due partiti s’erano trovati a fronte per la candidatura del successore. La corte ostrogota sosteneva l’elezione di Felice IV, e le pressioni esercitate dall’ancor vivente Teoderico erano state così forti da ottenergli effettivamente l’elezione, contro i sentimenti del partito "nazionale" romano, nel luglio del 526. (15) Occorre notare che, a quel tempo, l’elezione del vescovo di Roma non era giuridicamente vincolata all’approvazoione dell’autorità regia (16), mentre era necessaria una ratifica formale da parte del Senato. Per garantirsi, in futuro, un efficace controllo sulla nomina dei pontefici, il governo di Amalasunta prese quindi la precauzione di aumentare il numero dei senatori, immettendovi quali nuovi membri un certo numero di maggiorenti goti (17), la cui funzione principale doveva consistere nel raffozare il partito senatorio filo-goto. Felice IV, da parte sua, volle agire in modo ancora più drastico e, con l’appoggio di una parte del clero, procedette addirittura alla nomina del proprio successore nella persona dell’arcidiacono Bonifazio, che era un goto. (18) Tale inaudita maniera di procedere provocò lo sdegno e la reazione del Senato nel suo complesso, che non solo invalidò la nomina di Bonifazio, ma stabilì per il futuro la pena dell’esilio contro quei pontefici che avessero tentato di designarsi un successore. (19) Felice IV morì nel settembre del 530, dopo aver legato il suo nome a un capolavoro dell’architettura religiosa altomedievale: la Basilica romana dei santi Cosma e Damiano, sulla Via Sacra, adorna di preziosi mosaici. (20)
Alla sua morte la fazione "gotica" e quella "bizantina" del clero e del Senato si trovarono nuovamente alle prese, avanzando contemporaneamente due opposte candidature. Il governo di Amalasunta favoriva i seguaci del defunto pontefice che intendevano eleggere Bonifazio, nonostante il grave incidente provocato a suo tempo da quella nomina, e che lo consacrarono nella Basilica Lateranense il 22 settembre. (21) L’opposizione "nazionale" latina sosteneva inece la candidatura di un greco, l’arcidiacono Dioscuro, che a Roma godeva di molti consensi e che venne consacrato, contemporaneamente al suo rivale, nella Basilica Giulia. (22) Seguirono alcuni giorni di grande tensione, poiché nessuno dei due partiti sembrava disposto a fare un passo indietro, e la città viveva in un clima da guerra civile, com’era avvenuto nel 502 con lo scisma di Simmaco e Lorenzo. (23) La situazione era estremamente delicata anche per la corte di Ravenna, la cui posizione era indebolita, in Italia, dalle molte simpatie di cui godeva Dioscuro e, all’estero, dal pericolo di provocare una rottura con Giustiniano. Lo spinosissimo problema venne alfine risolto, dopo ventidue giorni di scisma, dalla morte improvvisa di Dioscuro, il 14 ottobre, che disarmò il parrtito filo-bizantino e lasciò Bonifazio unico e legittimo pontefice, col nome di Bonifazio II. (24)
Il governo di Amalasunta ebbe peraltro a pentirsi di aver sostenuto l’elezione di Bonifazio. Benché provenisse da una illustre famiglia germanica, egli probabilmente era nato a Roma e sentiva con forza il fascino della romanità, seguendo in ciò la sentenza del defunto Teoderico: "Romanus miser imitatur Gothum, et utilis Gothus imitatur Romanum." (25) Di conseguenza, sembra che durante il suo pontificato non abbia badato tanto agli interessi della corte ariana di Ravenna, quanto a quelli del cattolicesimo e (26) del popolo di Roma. (27) Forse fu proprio per scongiurare il pericolo che, in futuro, l’elezione dei pontefici venisse subordinata ai disegni politici del governo ariano, che egli ripeté la mossa del suo protettore Felice IV e, davanti ad un sinodo appositamente riunito, designò a succedergli il diacono Vigilio. (28) Tuttavia questa mossa maldestra provocò un generale coro di proteste e una paradossale alleanza fra il Senato e la corte di Ravenna, che ebbero buon gioco nel costringerlo a convocare un nuovo sinodo e a fargli sconfessare la sua precedente azione. (29)
Alla morte di Bonifazio II, avvenuta il 17 ottobre 532, dopo un pontificato breve ma alquanto burrascoso, venne eletto un romano, Giovanni II, destinato anch’egli a un pontificato di soli due anni. Fu allora che il governo di Amalasunta volle ristabilire una situazione favorevole nei confronti del papato, sfruttando proprio i disordini e i gravi scandali cui esso cadeva preda, specialmente al momento delle nuove elezioni al soglio di san Pietro. Mediante un editto regio venne notificato a Giovanni II che, in futuro, le eventuali controversie per la designazione del vescovo di Roma sarebbero state sottoposte all’arbitrato del re goto; mentre il prefetto Salvanzio, a nome di Atalarico e del Senato, ribadiva l’illegalità del ricorso alla corruzione per l’elezione dei papi. (30) Il fatto che, in quegli anni, sul trono di Ravenna non sedesse un autorevole sovrano goto, né sulla cattedra di san Pietro vi fosse una vigorosa personalità di pontefice, scongiurò il pericolo che più gravi conseguenze potessero derivare da una situazione così ambigua e complessa. Della tregua così stabilitasi approfittò il governo di Amalasunta per rafforzarsi sul piano della politica interna, e più ancora approfittò la Chiesa per riorganizzarsi e sanare i disordini più gravi che l’affliggevano. Essa, del resto, durante la reggenza di Amalasunta ottenne un altro importante successo, sotto forma di un editto che concedeva al pontefice il potere arbitrale in caso di controversie giudiziarie fra laici e religiosi. (31) Era il primo passo verso quell’emancipazione del clero dalla giustizia civile, che avrebbe contraddistinto la storia della Chiesa nei secoli futuri.
Oltre alla politica estera e alle complesse relazioni con il vescovo di Roma, il governo della reggente dovette occuparsi di un’altra delicata questione: la riforma dell’organismo amministrativo del regno. Abusi e violenze non erano mancati neppure durante il regno di Teoderico: i maggiorenti goti si rifiutavano di pagare alcuna imposta sulle terre loro toccate dopo la disfatta di Odoacre o altrimenti acquisite (32) e la macchina fiscale, sempre insaziabile a causa delle incessanti spese militari, aveva aggravato con rapaci tassazioni i patrimoni dei provinciali, già stremati dalla carestia e da rapine private dei barbari. (33). Tuttavia fino alla drammatica svolta el 523 il concetto di un superiore ordine giuridico non era mai andato completamente smarrito e, grazie all’opera dei ministri latini del re, spesso il rspetto della legge era stato imposto anche ai Goti più recalcitranti . Lo stesso teoderico aveva più volte sottolineato la necessità di sottoporre ad un’unica legislazione Romani e barbari (così egli stesso chiamava i popoli germanici), e non solo nel suo famoso editto dell’ano 500 circa. Rivolgendosi per lettera ai provinciali della Septimania e della Provenza, nel 508 – ad esempio- egli aveva ribadito che "Libenter parendum est Romanae consuetudini", e li aveva esortati dicendo: "Recipite paulatim iuridicos mores." (34) Ma, dopo la catastrofe di Albino e Boezio, e più ancora dopo la morte del re, quei Goti che a stento avevano tollerato i freni giuridici tornarono a imperversare sulle popolazioni latine, trattandole come genti vinte e asservite. Molto probabilmente delle lotte feroci, senza esclusione di colpi, scoppiaromno anche tra i maggiorenti goti Fu da questo clima di confusionee di violenze incontrollateche si fecrro strada uomini come Teodata, nipote di Teoderico per parte di sua sorella (35), il quale costruì le suefortune di latifondista fagocitando con lafrode e con la forza una gran parte delle erre toscane. (36) Non solo la politicadi collaborazione fra le duestirpi, dunque, ma tutto la struttura del regno, dopo il 526, pareva minacciata di dissoluzione. Appropriazioni violente di prorietà terriere, produzione di falsi titoli di proprietà, estorsioni di donazioni, stupri, adultèri, magia stavano conducendo lo Stato lungo la china del precipizio: unico elemento ancor saldo e coeso: l’esercito; ma anch’esso minacciato di anarchia e di disintegrazione dopo la scomparsa di Teoderico e la smobilitazione dei preparativibellici sulla frintiera bizantina nei Balcani.
In questa situazione, nel 533, il governo di Amalasunta fece pubblicare l’editto o il programma edittale che porta il nome di suo figlio Atalarico che fu, probabilmente, vooluto da lei e concepito da Cassiodoro. "È già molto tempo – esso affermava – che svariate lagnanze ci pervengono, frequentemente sussurrate, cioè che alcuni. Spregiando il vivere civile, affettino di voler vivere con crideltà di bestie, poiché ritornati a primordiale vita selvaggia, si fanno odiose le umane leggi…" (36) Se tale era lo stato di cose esistente, non possiamo dire fino a che punto l’editto di Atalarico sia riuscito a porvi rimedio. La stessa frequenza dei provedimenti edittali per riformare l’amministrazione e la crudezza del linguaggio adoperato sembrano suggerire che il male doveva essere largamente diffuso e le leggi poco temute, specialmente da parte dei notabili goti. D’altra parte sarebbe ingiusto affermare che nessun miglioiramento venne conseguito. Amalasunta, assecondata dal magister officiorum Cassiodoro (con funzioni di questore), si sforzò di perseguire l’obiettivo paterno di ridurre Goti e Latini sotto un’unica legge, e se tale obiettivo rimase in sostanza una mera aspirazione, ché i Goiti continuavano ad obbedire alle proprie leggi nazionali (37), almeno servì a ridare una certa fiducia al ceto dei proprietari terrieri latini. Sappiamo da Procopio (38) che, per tutto il tempo della sua reggenza – dunque lungo un arco di otto anni – Amalasunta riuscì a impedire che anche a un soo Romani venissero inflitte pene corporali o ammende pecuniarie. Era, insomma, una autentica ripresa del programma amministrativo di Boezio: proteggere "miseros, quos infinitis calumniis impunita barbarorum semper avaritia vexabat" (39). E possiamo facilmente immaginare quanta ostilità dovette suscitare siffatta politica tra le file del partito goto nazionalista. Procopio testimonia esplicitamente che la reggente "non tollerava le smanie che i Goti avevano di sopraffare i Romani" (40), mostrando quelle doti di intelligenza, giustizia e virile energia che tanto piacquero allo stesso Giustinano. E la medesima sollecitudine per il bene dei sudditi sappiamo che fu evidenziata da Amalasunta e dal suo governo in occasione di carestie ed invasioni (41) che qua e là tormentavano i provinciali.
Una parte delle sue enetgie furono dirette dalle reggente, in quegli anni, ad assicurare un lungo respiro politico alla sua azione di governo. Regina di fatto, ma non di diritto, del suo popolo, Amalasunta sapeva di essere mal tollerata da molti Goti e di non poter governare l’Italia oltre il compimento della maggiore età da parte del figlio. Per il 534, quando Atalarico fosse entrato nel diciottesimo anno (42), o forse anche prima (43), ella avrebbe dovuto rassegnarsi a cedergli – almeno formalmente – il potere. Se poi fosse rassegnata a cederlo anche di fatto, questa è un’altra questione: alla quale sembra si possa rispondere negativamente, alla luce dei fatti che seguirono. Atalarico era un ragazzo dal carattere debole e facilmente influenzabile, e quasi certamente sua madre nutriva la segreta ambizione di continuarea manovrarlo in futuro, onde evitare che la sua politica di conciliazione con l’elemento latinoi potesse venir rimessa in discussione dalla fazione gotica estremista. Non tanto per egoistica avidità di potere, dunque, ma perché si rendeva conto della minaccia rappresentata da un ritorno all’intransigenza degli ultimi ani di Teoderico, Amalasunta era ddecisa a prolungare il più a lungo possibile la sua tutela sul figlio. Ella comprendeva come una vittoria del partito gotico "nazionale" avrebbe scatenato un processo centrifugo che, isolando il regno sul piano esterno e indebolendolo e dividendolo su quello interno, ne avrebbe resa probabile la dissoluzione. Per questo motivo fu sua preoccupazione avviare Atalarico ad una educazione di tipo romano: lo voleva rendere "in tutto simile, nel modo di vivere, ai principi romani" (44), affidandolo a maestri di humanae litterae e alle cure particolari di tre anziani goti che condividevano il suo programma politico (e basterebbe quest’ultimo particolare per dimostrare che il partito goto filo-romano non era necessariamente quello dei "giovani", né quello nazionalista il partito dei vecchi). Se il giovane sovrano avesse assorbito l’amore di sua madre per la cultura e la civiltà romana, sarebbe stato molto più facile, per lei, ispirare la sua futura azione di governo senza apparire troppo invadente: si sarebbe trattato di un disegno da entrambi condiviso. Questo era esattamente quanto il partito goto nazionalista temeva più di ogni altra cosa, e che intendeva a ogni costo evitare. Si comprende perciò facilmente come uno storico dell’Ottocento abbia potuto scrivere, a proposito di Atalarico, che "poche volte, nella storia, i problemi educativi sono stati tanto discussi come nel caso di quel fanciullo germanico." (45)
Dopo il 530, a dispetto dei notevoli sforzi da lei fatti eper restituire unità e saldezza al regno ereditato da Teoderico, l’azione politica di Amalasunta si trovò ad essere contrastata da resistenze sempre più decise. Fedele anche in questo all’esempio del padre, ella non cercò di estendere le basi sociali del consenso al proprio governo e continuò a puntare sull’aristocrazia terriera latina come sull’unica forza sociale con la quale fosse possibile stabilire un patto. Così facendo, ella sbilanciò alquanto il proprio governo in senso filo-romano e rafforzò automaticamente, per reazione, il partito gotico nazionalista, già capegiato dal suo sposo, Eutarico. Si venne pertanto a trovare pericolosamente isolata fra i Goti e non abbastanza sostenuta dai Latini, con il ceto senatorio sempre intimamente diffidente verso una corte "barbara" e ariana, e la gran massa della popolazione rurale indifferente o addirittura maldisposta, sia per motivi sociali che religiosi. Poteva contare sulla collaborazione di una parte dell’intellighenzia romana, capeggiata da Cassiodoro e dal patrizio Liberio: ma uomini come Cassiodoro erano troppo flessibili al mutare delle situazioni, perché si potesse basare su di essi un progetto politico delicato e non privo di rischi. In definitiva, ad Amalasunta non rimaneva altra linea d’azione che quella di puntare sul piccolo re, su Atalarico, dalla cui docilità dipendeva quasi per intero la possibilità di sviluppare ulteriormente la politica di conciliazione fra Gothia e Romania dei primi anni di Teoderico. Ma era prudente, era saggio puntare tutto – il governo e, forse, la stessa vita – su di una carta sola? Se il sostegno di Atalarico, per una ragione qualsiasi, le fosse venuto meno, quali spazi sarebbero rimasti praticabili al progetto politico impersonato da Amalasunta? E quale sorte sarebbe toccata alla reggente, che già si era spinta tanto innanzi nel perseguire la propria azione politica, da non poter sperare di poter scindere da essa il proprio destino di principessa e di donna?
4. la crisi della reggenza e l’intervento diplomatico bizantino.
A partire dal 530 anche la situazione internazionale peggiorò sensibilmente. Abbiamo visto che l’esercito rimaneva, in mezzo alla confusione dell’organismo amministrativo, l’unico elemento di reale coesione del vacillante regno ostrogoto (un po’ come lo sarà nella Spagna dell’epoca di Olivares, o come nell’Impero austro-ungarico nei suoi ultimi decenni di vita). Esso aveva confermato il suo alto livello di addestramento e le sue eccellenti capacità operative, respingendo vittoriosamente un tentativo di rivincita dei Gepidi nella regione pannonica; mentre quella flotta poderosa che Teoderico aveva progettato, ma che al momento della sua morte era rimasta in gran parte allo stato di progetto (1), era stata tuttavia in grado di sventare la seria minaccia rappresentata dalla flotta vandalica nel Mediterraneo occidentale, proteggendo efficacemente le coste della Penisola Italiana e della Sicilia (2) – Sardegna e Corsica essendo in potere degli stessi Vandali – così duramente provate dai pirati vandali negli ultimi decenni dell’Impero di Occidente. D’altra parte la macchina militare gota, largamente influenzata dalle tecniche di guerra romane, costituiva un onere finanziario estremamente gravoso per le casse del regno; e il governo di Amalasunta, tutto proteso nello sforzo di cattivarsi le simpatie della nobiltà senatoria, non era in condizioni di ricorrere a nuove tassazioni per finanziarlo. S’imponeva, quindi, la necessità di una drastica riduzione delle spese militari; e fu probabilmente per tale motivo che la corte di Ravenna decise il ritiro delle guarnigioni militari insediate da Teoderico nella Penisola Iberica e nel mezzogiorno della Gallia, per fare del regno visigoto una sorta di protettorato de facto..
La partenza delle truppe ostrogote dalla Spagna e dalla Septimania fu salutata con gioia dai Visigoti e dalle popolazioni latine, che avevano dovuto sottostare a esorbitanti tassazioni per mantenerle, da parte del governo di Ravenna. D’altra parte, se tale ritiro irritò profondamente i circoli ostrogoti nazionalisti, desiderosi di una politica estera più aggressiva, attirando nuove critiche al governo di Amalasunta, esso aumentò la baldanza dei re franchi, che spiavano l’occasione per vibrare alla monarchia visiota il colpo di grazia. Clodoveo era morto nel 511, dopo aver ricevuto gli onori consolari dall’imperatore Anastasio, e aveva lasciato il regno diviso tra i suoi quattro figli: Teuderico (Thierry), Clodomiro, Childeberto e Clotario. (3) Il giovanetto Amalarico che, dopo essere scampato fortunosamente al disastro di Vouillé, governava i Visigoti sotto la protezione di Thiodis, scudiero del nonno Teoderico (4), sperando forse di proteggersi dalla minaccia franca aveva chiesto e ottenuto in moglie, dai quattro sovrani collegati, la loro sorella, che si chiamava Clotilde come sua madre. (5) Ma i Franchi avevano ripreso la loro politica tradizionale, consistente nel sobillare i sudditi latini dei Visigoti, presentandosi quali campioni della riscossa cattolica contro l’arianesimo; e così Amalarico, "caduto nel raggiro franco", si era visto costretto, suo malgrado, a riprendere le persecuzioni anticattoliche. La stessa Clotilde, allora, aveva invocato l’aiuto dei suoi fratelli contro il marito, affermando che Amalarico le usava violenza per costringerla ad abiurare. (6) Il primo a scendere in campo per "liberarla" era stato Childeberto, re di Parigi, che nel 531 aveva invaso la Septimania ed espugnato il suo centro principale, Narbona. Era chiaro che ciò non sarebbe accaduto se gli Ostrogoti non l’avessero precedentemente evacuata, per cui l’avanzata dei Franchi fino alle agognate sponde del Mediterraneo e il nuovo tracollo del regno visigoto costituivano un chiaro fallimento della politica estera di Ravenna. Quanto ad Amalarico, lo sventurato re, nuovamente fuggiasco, venne inseguito oltre i Pirenei, fino a Barcellona, ove trovò la morte non si sa bene se colpito da una lancia franca (7) o per mano di uno dei suoi. (8) Il risultato di questo breve ma disastroso conflitto fu che i Visigoti vennero respinti per sempre fuori della Gallia, entro i confini della Penisola Iberica, ove si riorganizzarono sotto il regno di Thiodis (9); i Franchi occuparono stabilmente la Septimania, assicurandosi una "finestra" sul Mediterraneo; e,in seguito a tali avvenimenti, la Provenza ostrogota venne a trovarsi direttamente esposta alla minaccia merovingia. (10)
Questi preoccupanti avvenimenti indussero il governo di Amalasunta a studiare alcune contromisure. Fedele, però, alla sua politica di non intervenire direttamente nelle questioni politico-militari fuori del regno ostrogoto, esso si limitò a promuovere un riavvicinamento con il re dei Burgundi, Godomar, al quale restituì, nel 502, le terre del Delfinato che Teoderico aveva occupate a suo tempo. Fu una mossa piuttosto debole, derivante da scarso realismo politico: i Burgundi erano ormai troppo deboli per controbilanciare la strapotenza dei Franchi e, lasciandoli soli nell’inevitabile guerra che si preparava, la corte di Ravenna li espose a una prevedibile disfatta. Già nel 524 Clodomiro e Thierry avevano invaso il regno vicino e sconfitto i Burgundi. Il loro re Sigismondo, che aveva sposato una sorellastra di Amalasunta, chiamata Ostrogoto, e la cui figlia di secondo letto, Suavegota, era andata sposa al re Thierry, era stato fatto prigioniero e assassinato da Clodomiro. Suo fratello Godomar, dopo la battaglia di Vézeronce, nella quale era rimasto ucciso Clodomiro, aveva potuto riavere momentaneamente il suo regno. (11) Tuttavia, nel 532-34 Clotario e Childeberto lo invadevano di nuovo e riuscivano a sottometterlo. Da quel momento la Burgundia cessò di avere una sua propria politica indipendente e si ridusse allo status di provincia, sia pure autonoma, del regno merovingio.
Questi gravi rovesci di politica estera compromettevano definitivamente la strategia teodericiana dell’equilibrio fra i diversi regni romano-barbarici e, pur non coinvolgendo in conflitti aperti il regno ostrogoto, ne indebolirono ulteriormente la posizione internazionale. Scomparsi i Visogoti dalla scena politica della Gallia e sottomessi i Turingi e i Burgundi al regno franco, quest’ultimo dava chiari segni di volersi espandere in direzione delle Alpi e della fertile Valle Padana. Senza dubbio questo scacco politico-strategico venne rinfacciato ad Amalasunta dal partito nazionalista goto, come conseguenza del suo disimpegno diplomatico nei confronti dei regni di Toledo e di Lione. Anche se gli storici pettegoli e reticenti di questa età vorrebbero farci credere che tutte le difficoltà di Amalasunta le venissero dalla questione dell’educazione di Atalarico, è chiaro che la nuova espansione della monarchia franca e la perdita della contiguità territoriale con quella visigota dovettero indebolire e screditare tutto il suo governo. Dal cantoi suo la reggente, sul piano della politica estera, reagì nell’unica maniera che fosse coerente con il suo programma di politica interna, e cioè cercando di scongiurare un’alleanza franco-bizantina col dimostrarsi sempre più remissiva nei confronti di Costantinopoli. Si profilava infatti, nel Mediterraneo occidentale, l’eventualità di un ritorno offensivo della flotta imperiale, anche se nessuno – allora- avrebbe potuto immaginare la grandiosa vastità dei disegni di riconquista accarezzati da Giustiniano. Ma è chiaro che, quanto più Amalasunta accentuava l’atteggiamento di ossequio e quasi di dipendenza del regno ostrogoto dall’imperatore, tanto più facilmente il partito estremista goto aveva l’occasione di gridare al tradimento dei genuini interessi nazionali. E quanto all’aristocrazia terriera italica, sulla quale il governo della reggente aveva tanto contato, a che scopo avrebbe dovuto essa compromettersi sostenendo Amalasunta, quando era ella stessa che sembrava invitare un ritorno dei Bizantini in Occidente? Non era stata questa, in fondo, l’accusa che aveva coinvolto Albino, Simmaco e Boezio e che aveva segnato la decisiva svolta della politica teodericiana?
Nel 532 l’impoeratore Giustiniano e il re sassanide Cosroe Anurshivan (= "il Giusto") ponevano fine alle ostilità bizantino-persiane, sottoscrivendo una pax aeterna il cui prezzo fu, per i Bizantini, l’abbandono dell’antica fortezza di Dara, il riconoscimento della sovranità persiana sull’Iberia e il pagamento annuo, da parte del governo di Costantinopoli, di 110.000 libbre d’oro per il mantenimento dei presìdi caucasici a difesa dalle tribù barbare del nord, specialmente gli Unni Bianchi o Eftaliti. (12) Era, senza dubbio, una pace umiliante per l’Impero d’Oriente, ma che lasciava finalmente a Giustiniano le mani libere per rivolgere tutta la sua attenzione e tutte le risorse dello Stato alle ex province occidentali dell’Impero Romano. Egli aveva già individuato l’anello più debole nella catena dei regni barbarici: il regno dei Vandali, che stava precipitando verso una crisi interna sempre più grave; e aveva anche già individuato il suo principale alleato potenziale: il regno ostrogoto, appunto.
I primi, gravi dissapori fra la corte di Ravenna e quella di Cartagine risalivano al regno di Teoderico. Infatti, benché nel 500 Trasemundo avesse sposato la di lui sorella, Amalafrida, poi, timoroso di un eccesivo rafforzamento del regno ostrogoto, aveva cercato d’impedire che la Spagna, dopo il 507, passasse sotto la tutela del cognato. Nel 523 era morto e la vedova Amalafrida era stata incarcerata dal nuovo re, Ilderico, restauratore del cattolicesimo in funzione filo-bizantina; e, subito dopo la morte di Teoderico, l’aveva messa a morte sotto l’accusa di cospirazione e tradimento. (13) Il governo di Amalasunta non aveva potuto fare altro che avanzare una vibrata protesta (14), alla quale non seguirono fatti per mancanza di mezzi navali e più ancora, forse, per mancanza di volontà politica di spingere la rottura fino alle estreme conseguenze. Ma nel maggio del 530 il partito vandalico nazionalista, ariano e violentemente anti-cattolico, aveva ripreso l’iniziativa, deponendo Ilderico ed innalzando al trono Gelimero, imparentato con la casa regnante. (13) Ciò non produsse una rappacificazione fra Ostrogoti e Vandali, tanto che quando Giustiniano, nel 533, inizò la campagna d’Africa per distruggere il regno vandalico, potè contare sulla neutralità più che benevola del governo di Amalasunta.
La flotta di Belisario potè ricoverarsi nei porti della Sicilia, rifornirvisi di vettovaglie e di cavalli, e organizzarvi – in tutta tranquillità – lo sbarco in direzione di Cartagine (16), che ebbe luogo nel settembre del 533. Poco più di un anno dopo, il regno dei Vandali aveva cessato di esistere, l’Africa era diventata una provincia bizantina e il re Gelimero era stato condotto in Asia Minore, dove ricevette dal vincitore un trattamento generoso. Anche la Sardegna e la Corsica erano state riconquistate dalle flotte imperiali, come pure la costa numida e mauritana, fino a Ceuta e a Tangeri, mentre gli Ostrogoti rioccupavano la fortezza siciliana di Lilibeo, portata in dote – a suo tempo – dalla sventurata Amalafrida, per le nozze con Trasemundo. (17) Un evento di enorme portata politico-militare aveva cambiato la carta del Mediterraneo e messo fine per sempre alla solidarietà reciproca dei regni romano-barbarici; e ciò era avvenuto mentre il governo di Amalasunta rimaneva affacciato alla finestra e, anzi, collaborava indirettamente – ma efficacemente – alla distruzione del regno vandalico. È naturale che anche noi, come i contemporanei di quel fatto, ci interroghiamo sulle ragioni di una condotta a prima vista così sorpendente e cerchiamo di individuare i motivi che possono aver ispirato il disegno politico della reggente. Ma, per far ciò, dobbiamo compiere alcuni passi indietro (quanti, esattamente, non sappiamo, poiché manca una cronologia attendibile) e ritornare brevemente alla questione dell’educazione del giovane re Atalarico.
I capi del partito goto "nazionale", sfruttando un pretesto qualsiasi, avevano ottenuto l’allontanamento dei suoi tre anziani maestri goti, la cessazione degli studi di humanae litterae e l’affidamento di Atalarico ai sistemi educativi tradizionali della sua gente. Essi consistettero nel far crescere il giovane sovrano insieme ad alcuni ragazzi goti un po’ più grandi di lui, i quali avrebbero dovuto spronarlo a diventare "un uomo". Di fatto, lo debosciarono con ogni sorta di stravizi e lo fecero ammalare. (18) Forse la costituzione di Atalarico era già predisposta alla tubercolosi, dato che anche suo padre Eutarico era morto di malattia nel fiore degli anni; sta di fatto che, a partire dal 530 circa, il ragazzo non fece che abbrutirsi e correre verso la consunzione, mentre Amalasunta era costretta ad assistere, impotente, alle manovre di coloro che le stavano alienando il figlio. Pare che Atalarico non fosse mai stato d’intelligenza particolarmente vivace, ma negli ultimi anni del suo regno e della sua vita si comportò addirittura da irresponsabile: era evidente, infatti, che sua madre correva dei pericoli, da quando l’avevano invitata apertamente a lasciare il palazzo reale di Ravenna; eppure non fece niente per proteggerla. (19) Può essere che anche lui avvertisse come opprimente la reggenza di sua madre, una reggenza che ella pareva intenzionata a non deporre mai; oppure, semplicemente, egli era troppo inesperto e irretito dai capi del partito goto nazionalista per afferrare tutta la gravità della situazione di lei. Sta di fatto che, certamente a partire dal 531 o 532, Amalasunta si sforzava di continuare a governare un grande regno, senza essere più né rispettata né sicura nella propria stessa reggia. Questa situazione paradossale non poteva che spingerla verso una politica sempre più autoritaria e personale, tanto sul piano interno che su quello internazionale.
In tale prospettiva, forse, possiamo trovare la prima e più convincente spiegazione dell’atteggiamento tenuto dalla corte di Ravenna durante il conflitto greco-vandalico. Non tanto e, comunque, non solo per regolare vecchi conti con la corte di Cartagine o per vendicare la morte di sua zia Amalafrida, la reggente optò per una politica di benevola neutralità nei confronti dell’imperatore; né per tornare in possesso di Lilibeo, che pure costituiva un minaccioso avamposto vandalico affacciato sul Tirreno. Il fatto è che Amalasunta, il cui governo si trovava già sotto accusa da parte dei Goti più intransigenti a causa dei rovesci subìti in Gallia e in Spagna, e la cui reggenza era sempre meno tollerata, per puntellare il proprio vacillante potere non aveva altra risorsa che quella di stringersi sempre più a Giustiniano. Da parte sua l’imperatore, nel quadro della sua politica generale verso i regni barbarici dell’Occidente, aveva tutto l’interessa a mantenere il regno ostrogoto in uno stato di debolezza, onde impedire che il governo di Ravenna cadesse nelle mani di un esponente del partito goto nazionalista: ad esempio di quel Vitige, già armigero di Teoderico ed ora consigliere di Amalasunta, che si era creato una solida reputazione in campo militare, guerreggiando con successo contro i Gepidi (20) e che, effettivamente, sarebbe riuscito a cingere la corona gotica alcuni anni dopo, nell’autunno del 536. Il governo di una donna, poco accetto alla maggioranza dei Goti, e quello di un ragazzo torpido e indolente come Atalarico, erano quanto di meglio Giustiniano potesse desiderare per l’Italia, in quel momento. Si trattava di una situazione eccezionalmente favorevole dal punto di vista bizantino, considerato che nel 526 la città di Costantinopoli aveva vissuto nell’ansia di un possibile attacco, per mare e per terra, da parte degli Ostrogoti di Teoderico. Amalasunta, dunque, insieme a suo figlio rappresentava, per l’imperatore, il governo più desiderabile che quel regno potesse avere. Un governo amichevole e remissivo, che cercava quasi di passare insosservato sulla scena turbolenta e rumorosa dei regni barbarici d’Occidente. E, poiché Giustiniano sapeva bene quanto la reggente avesse un disperato bisogno della sua amicizia, non è escluso che già allora stesse accarezzando il progetto di una annessione dell’Italia – possibilmente pacifica e senza dover sostenere spese e perdite umane – all’Impero.
La stessa Amalasunta, a un certo punto della sua burrascosa reggenza, non si fece scrupolo d’incoraggiare apertamente simili disegni della corte costantinopolitana. Nel 533 ella aveva elevato Cassiodoro all’altissima carica di prefetto del Pretorio e, nel quadro della medesima politica di reazione contro l’estremismo gotico, aveva fatto allontanare da Ravenna tre dei più pericolosi esponenti del partito barbarico nazionalista, che quasi alla luce del sole avevano tramato per cacciarla dal governo. Li aveva fatti relegare agli estremi confini del regno, lontani l’uno dall’altro col pretesto della difesa militare contro i nemici esterni; ma, in realtà, per neutralizzare la loro cospirazione mediante un esilio appena dissimulato. I loro amici e parenti, però, avevano continuato a fare la spola tra essi e la capitale, ricominciando a tessere la trama della congiura interrotta.
Amalasunta, che non poteva minimamente contare sull’aiuto del figlio, a un certo punto si vide perduta e decise d’inviare un’ambasceria segreta a Costantinopoli, per chiedere all’imperatore se fosse disposto ad offrirle asilo politico. Giustiniano accolse favorevolmente i messi della reggente e convenne con loro di predisporre un sicuro rifugio per lei a Dyrrachium (Durazzo), nell’Epiro (21), quasi di fronte al porto di Brundisium (Brindisi); donde avrebbe potuto, se lo desiderava, proseguire alla volta di Costantinopoli, oppure restare in attesa che uno schiarimento della situazione in Italia le consentisse di rientrare in Italia. Ma, quando già tutto era predisposto, all’ultimo momento la fiera figlia di Teoderico volle fare un supremo, disperato sforzo per conservare il potere: mandò avanti, a Dyrrachium, una nave con 400 centenari d’oro (22) del tesoro reale, e intanto inviò dei sicari ad assassinare i tre Goti che reggevano le fila della cospirazione contro di lei. Furono giorni di estrema tensione per Amalasunta: sola, nel palazzo di Ravenna, con l’unica compagnia di pochi consiglieri fidati, di Atalarico malato e abbrutito e di Matasunta, ch’era appena una bambina, attendeva di ora in ora l’esito del suo estremo tentativo; pronta, se questo fosse fallito, ad imbarcarsi nel porto di Classe e a lasciare per sempre il suo regno e il suo popolo. Infine i suoi uomini fecero ritorno: avevano portato a termine la missione loro affidata: i tre capi del partito goto nazionalista erano stati silenziosamente tolti di mezzo. Allora, Amalasunta riprese coraggio e decise di rimanere a Ravenna; la nave carica dei suoi tesori, già arrivata a Dyrrachium, ebbe l’ordine di tornare indietro. (23)
In realtà, la situazione della reggente era migliorata solo in apparenza. L’assassinio dei capi della cospirazione aveva ridato respiro al suo governo, ma aveva esasperato ulteriormente il partito goto nazionalista. I parenti degli uccisi avevano giurato vendetta secondo la consuetudine germanica, e le trame a danno di Amalasunta erano ricominciate più fitte di prima. La presenza delle flotte e degli eserciti bizantini a Cartagine, proprio di fronte alla Sicilia, poi, contribuiva ad allarmare quei Goti che non avevano mai smesso di diffidare delle intenzioni di Giustiniano e che nel 526, alla morte di Teoderico, erano rimasti fieramente delusi dalla smobilitazione dell’esercito radunato nell’Illirico e dall’abbandono dei preparativi di guerra contro l’Impero. D’altra parte, la straordinaria ambasceria di Amalasunta a Costantinopoli aveva convinto Giustiniano che la situazione interna del regno ostrogoto era ancor più precaria di quanto avesse supposto e che era tempo di iniziare senz’altro il lavorìo diplomatico per realizzare l’annessione dell’Italia all’Impero.
Nell’estate del 533, pare (24), una ambasceria bizantina venne nella Penisola. La componevano due ecclesiastici, Ipazio vescovo di Efeso e Demetrio, vescovo di Filippi in Macedonia; e un dignitario civile, il senatore Alessandro. (25) Ipazio e Demetrio erano stati mandati a Roma, presso il papa Giovanni II, per sottoporgli uno schema di conciliazione col monofisismo moderato della scuola di Severo di Antiochia, secondo la formula: "Christum incarnatum et hominem factum cruciatumque unum esse sanctae et consustantialis trinitatis." (26) Tanto il monofisismo estremista, quanto il nestorianesimo e l’eutichianesimo venivano, invece, apertamente condannati. Lo schema di conciliazione era opera dello stesso Giustiniano, che desiderava trovare a ogni costo un punto d’incontro fra le tendenze separatiste copte e siriache, che si facevano schermo dell’eresia monofisita e il cattolicesimo di Roma, di cui aveva assoluto bisogno prima di accingersi all’annessione dell’Italia. (27) Contemporaneamente, Alessandro aveva l’incarico di recarsi a Ravenna per svolgere un’ambasceria presso la reggente Amalasunta. Qusta ambasceria doveva articolarsi in due momenti: l’uno pubblico, per trattare alcune questioni diplomatiche di carattere generale; l’altro privato e segreto, per accertare i motivi che avevano indotto Amalasunta a sospendere il trasferimento a Dyrrachium e chiarirne le reali intenzioni.
La missione dei due vescovi bizantini a Roma, dopo varie discussioni, si concluse con un successo per la diplomazia di Giustiniano. Papa Giovanni II finì per accettare la formula religiosa proposta dall’imperatore e diede la sua approvazione ufficiale al documento, nel 534. (28) Dietro le quinte, però, anche a Roma – come a Ravenna – fervevano trattative segrete, la cui posta in gioco riguardava ben più che delle astruse dottrine teologiche circa la natura di Dio. Ipazio e Demetrio erano stati contattati da Teodato, il cugino di Amalasunta che, in Toscana, si era creato dei latifondi così immensi, da potersi quasi considerare un piccolo sovrano indipendente in quella regione. (29) Egli era uno di quei nobili goti sui quali la civiltà latina aveva prodotto uno strano e disarmonico effetto. (30) Privo delle virtù guerriere dello zio materno Teoderico, si era immerso nello studio della filosofia platonica, senza per questo liberarsi dalla smania di accumulare senza posa terre e danari: per lui, dice seccamente Procopio, avere un vicino equivaleva a una disgrazia. (31) Tali e tante erano le occupazioni indebite di fondi da lui compiute, che più d’una volta i suoi sfortunati vicini latini avevano dovuto appellarsi allla giustizia regia, che lo aveva ripetutamente ammonito e condannato in base all’editto di Atalarico. I suoi rapporti personali con Amalasunta, particolarmente attenta alla difesa degli interessi dell’aristocrazia senatoria, si erano pertanto già irrimediabilmente guastati all’epoca dell’ambasceria dei vescovi di Efeso e di Filippi. A costoro, dunque, Teodato fece una proposta straordinaria: la cessione della Toscana all’imperatore, in cambio della propria ammissione nel Senato di Costantinopoli, asilo politico e, naturalmente, una forte somma di denaro. (32) I due religiosi ascoltarono a bocca aperta questa offerta di mercato e promisero di riferirla all’imperatore: la Toscana, infatti, avrebbe potuto costituire un’ottima base di partenza per sviluppare più vasti disegni politico-militari, nel quadro di una generale riconquista della Penisola.
Frattanto, a Ravenna, il senatore Alessandro, alla presenza di Amalasunta e dei suoi ministri goti e latini, aveva esposto i tre punti fondamentali della sua missione "pubblica". Si trattava, in effetti, di altrettante proteste ufficiali da parte del governo di Costantinopoli a quello della reggente: per l’occupazione gotica di Lilibeo, che i Bizantini affermavano spettare loro in quanto parte integrante dello scomparso regno vandalico; per l’attacco proditorio di un esercito ostrogoto contro la città imperiale di Graziana, nella zona di Sirmium (Sremska Mitrovica)(33); e per l’asilo che era stato offerto dal comandante militare di Napoli, Uliari, a dieci mercenari unni che avevano disertato dall’esercito di Belisario, in Africa. È certo che, al tempo di Teoderico, nessuna missione diplomatica bizantina avrebbe osato sostenere una condotta così apertamente aggressiva: si aveva, infatti, la netta sensazione che, ora, la diplomazia di Giustiniano stesse andando palesemente alla ricerca di un pretesto per rompere le relazioni con la corte di Ravenna, in vista di un possibile conflitto. I dignitari romani di Amalasunta, e soprattutto quelli goti, dovettero ascoltare con amarezza e sorpresa il tenore della lettera di cui Alessandro era latore. Questa era, dunque, la gratitudine di Giustiniano per l’inestimabile appoggio logistico offerto dai Goti a Belisario nella guerra contro i Vandali?
Amalasunta, da parte sua, avendo già ricevuto privatamente l’ambasciatore e conoscendo la reale natura della sua missione, si limitò a recitare una commedia scontata a beneficio dei suoi ignari ministri e cortigiani. Con tono conciliante nella forma, ma energico nella sostanza, ribattè ad Alessandro che Lilibeo spettava ai Goti, sia perché apparteneva loro ab antiquo, sia quale preda di guerra (34); che i Goti avevano danneggiato la città di Graziana per errore, nel corso delle operazioni di guerra contro i Gepidi; e che l’asilo offerto ai dieci disertori unni era cosa troppo modesta per meritare la vibrata protesta dell’imperatore. Questo contegno, dignitoso ma fermo, non era che un espediente per soddisfare l’orgoglio nazionale dei dignitari goti presenti, poiché – in realtà – ella aveva già segretamente promesso all’ambasciatore bizantino di essere disposta a patteggiare il ritorno dell’Italia sotto la diretta autorità di Costantinopoli. (35)
Che cosa poté spingere Amalasunta a compiere un passo così disperato e vergognoso? Se è vero che ella fece una tale promessa al negoziatore imperiale, non restano che due alternative per spiegarne il comportamento che equivale, in termini giuridici, né più né meno che al reato di alto tradimento: o intendeva semplicemente ingannarlo, allo scopo di guadagnare tempo e di destreggiarsi indefinitamente fra Goti e Bizantini; oppure la sua offerta di cedere il governo dell’Italia era sincera, e in tal caso bisogna concludere che le mene del partito nazionalista goto l’avevano ormai ridotta alla disperazione. Senonché, poteva ella davvero illudersi che il suo fiero popolo avrebbe accettato di sottomettersi, senza colpo ferire, a Giustiniano, una volta che il suo tradimento fosse venuto alla luce? Evidentemente sperava che la confusione e il disorientamento sarebbero stati tali da vanificare un autentico tentativo di resistenza organizzata.
È necessario, a questo punto, che ci soffermiamo brevemente ad analizzare l’evoluzione subita dall’iniziale progetto politico di Amalasunta. Animata, dopo la morte del padre suo, dal proposito di consolidare il regno ostrogoto mediante una graduale assimilazione, da parte dei suoi connazionali, della civiltà romana, ella aveva finito per mettere il regno all’asta in cambio della propria personale salvezza: una tragica parabola discendente, la confessione di un pieno fallimento politico. Perché dunque si era giunti a un così totale fallimento? Amalasunta, nell’ora del pericolo, si era trovata a sostenere tutto intero, sulle proprie spalle, il peso del suo programma generoso, ma utopistico. Utopistico non perché la strada della progressiva fusone tra Goti e Latini fosse irrealizzabile (quantunque essa passasse di necessità attraverso una conversione dei Goti al cattolicesimo, così come avevano fatto i Franchi), ma perché poco realistiche erano state le strategie messe a punto per realizzarla. Il governo della reggente, in particolare, aveva continuato a vedere nel ceto dell’aristocrazia senatoria l’unico interlocutore della sua politica italiana: e ciò era stato, più che un errore, una dimostrazone d’ingenuità. Il Senato aveva scoperto da tempo l’importante segreto che la propria sopravvivenza non era necessariamente legata al potere dominante in Italia: per questo aveva abbandonato Romolo Augustolo in favore di Odoacre; per questo aveva abbandonato Odoacre in favore di Teoderico. (36) Per la stessa ragione, ora, si accingeva ad abbandonare Amalasunta in favore di Giustiniano. Come classe sociale, se non come organismo politico – ormai, del resto, puramente nominale (37) – il Senato era in grado di superare senza troppi danni simili tempeste. Non era un gran risultato constatare tutto questo, da parte della reggente, dopo che ella aveva sacrificato sull’altare dell’alleanza politica col Senato ogni altra possibile alternativa. Per uscire dal vicolo cieco nel quale s’era intrappolata, ad Amalasunta non restavano più che le armi della simulazione e del tradimento. Vi è, tuttavia, una specie di logica intrinseca in tali esiti disgraziati della sua azione di governo. Per usare l’espressione di uno storico moderno a proposito del generale di Valentiniano III, Ezio, ma che potrebbe ugualmente bene adattarsi alla figlia di Teoderico: "Una volta che aveva deciso di appoggiare un ordine sociale le cui basi economiche erano venute meno da lungo tempo, dei metodi politici onesti non erano più adeguati." (38) Questa è la lezione che possiamo trarre dalla tragica involuzione del governo di Amalasunta dopo il 533.
5. L’epilogo di un regno.
Giustiniano aveva tutte le ragioni per esultare quando i suoi ambasciatori, di ritorno dall’Italia, gli riferirono circa l’esito della loro missione. Non solo Ipazio e Demetrio avevano ottenuto l’approvazone del papa per la formula teologica compromissoria preparata dall’imperatore; non solo Amalasunta si era mostrata apertamente possibilista circa la transazione col governo di Costantinopoli per la sovranità sull’Italia; ma una nuova, impensata offerta era venuta da Teodato, pronto a spalancare le porte della "sua" Toscana agl’imperiali, in cambio di un po’ d’oro e di una carica onorifica! Adesso Giustiniano disponeva di una preziosa carta di riserva da giocare, nel caso fossero sorte complicazioni nelle trattative con Amalasunta; mentre, dal punto di vista religioso, aveva le spalle coperte dalla benevola neutralità di Giovanni II e dal favore delle popolazioni cattoliche della Penisola. Avevano, i due vescovi bizantini, accennato al pontefice – tra mezzo alle discussioni cristologiche – quanto si andava preparando mediante le trattative segrete fra Ravenna e Costantinopoli? Non lo sappiamo: è molto probabile, però, che i messi bizantini abbiano voluto sondare il terreno anche su tale questione, onde esser certi del favore del vescovo di Roma a un eventuale ritorno della sovranità imperiale in Italia.
Subito, nella seconda metà del 534, Giustiniano volle mandare a Ravenna una seconda ambasceria, affidandola al patricius Pietro, un avvocato nativo di Tessalonica (Salonicco), particolarmente astuto e privo di scrupoli. (1) L’imperatore gli diede istruzioni di mascherare la sua vera missione con la ripresa dei negoziati per la questione di Lilibeo e degli altri contenziosi già trattati da Alessandro; ma questi, come al solito, dovevano essere solo pretesti per gettare fumo negli occhi dei Goti. In realtà, egli doveva definire le trattative segrete già avviate con Amalasunta e mettersi in contatto, inoltre, con Teodato, per usare quest’ultimo, eventualmente, come un’utile pedina di riserva. (2) Pietro, però, nel salpare dal porto di Costantinopoli, non recava con sé solamente le istruzioni di Giustiniano: all’insaputa di questi, anche l’imperatrice Teodora aveva affidato all’ambasciatore una missione segreta, per proprio conto. Tale missione consisteva nel provocare ad ogni costo l’eliminazione fisica di Amalasunta. Teodora era stata esplicita in proposito: e aveva fatto balenare a Pietro la possibilità di grandi ricompense se avesse condotto a termine l’impresa. (3) Ci si chiederà certamente perchè la basilissa di Costantinopoli odiasse la figlia di Teoderico d’un odio così mortale, tanto più che le spiegazioni avanzate da Procopio su questo punto sono alquanto insoddisfacenti. In sostanza, lo storico bizantino sostiene che Teodora, ex prostituta ed ex attrice di terz’ordine, era mortalmente gelosa di Amalasunta, giovane quasi come lei (4), bella, intelligente e colta, e voleva assolutamente impedirle di arrivarea Costantinopoli. "Perciò Teodora, che non era nata in un letto regale e si era conquistata il trono conquistando un uomo, non aveva voluto vedere l’avvenente principesa, barbara, ma educata latinamente, sulle rive del Bosforo." (5) Ella temeva non solo la bellezza e il fascino di Amalasunta, ma anche la sua prontezza nel formulare piani per ottenere ciò che voleva e la sua energia nell’attuarli; e, come donna, intuiva in lei una rivale pericolosissima e diffidava della leggerezza di suo marito Giustiniano.(6) Questo è quanto Procopio ci ha tramandato, e molti storici moderni si son limitatri a ripetere. Ma è possibile che non vi siano state altre ragioni, di natura più strettamente politica? Senza voler sottovalutare una istintiva gelosia femminile, che ben si adatterebbe – del resto – a tutto quel che sappiamo della personalità di Teodora, abbiamo il dovere di chiederci se essa può, da sola, spiegare ogni cosa. E, in primo luogo: è proprio vero che Giustiniano era tanto impaziente di avere presso di sé, come ospite e rifugiata politica, la figlia di Teoderico? Il suo successivo comportamento dimostra che egli non era preoccupato per la sote di lei, ma che aveva costantemente l’occhio rivolto al suo obiettivo di creare disorientamento nella corte di Ravenna: e, pur di raggiungere questo scopo, era anche disposto a sacrificare la vita di Amalasunta. (7) Egi, dunque, non ne era innamorato, e – sotto questo rispetto – non avevano ragion d’essere le preoccupazioni muliebri che Procopio attribuisce a Teodora. Solo due anni prima, del resto, in occasione della sanguinosa rivolta di Nika a Costantinopoli, Teodora col suo contegno risoluto aveva convinto suo marito a non fuggire e gli aveva, così, salvato il trono (8): in quegli anni, di conseguenza, Giustiniano si trovava fortemente esposto all’influsso di lei. Per cui non restano che due possibili spiegazioni: o Giustiniano era a parte della decisione di far uccidere Amalasunta e la condivideva, perché ciò gli avrebbe offerto il pretesto per rompere le relazioni col regno ostrogoto e prepararsi alla guerra – come poi realmente avvenne (9); oppure Teodora perseguiva un suo piano che non è possibile interpretare, senza fraintenderlo, soltanto alla luce di meschine gelosie femminili. Come cercheremo di dimostrare più avanti, se Giustiniano diede a Pietro il suo benestare circa l’eliminazione di Amalasunta, ciò dovette avvenire in un secondo momento, nel 535, in presenza di circostanze politiche internazionali assai mutate. Alla partenza di Pietro da Costantinopoli, è probabile che l’imperatore fosse all’oscuro del complotto (il che non significa, lo ripetiamo, che egli si preoccupasse realmente della sicurezza fisica di Amalasunta, dal momento che era dispostissimo a sacrificarla se ciò avesse favorito i suoi disegni complessivi relativi all’Italia). Resta perciò la seconda ipotesi: che l’ideazione dell’assassinio della reggente ostrogota fosse dovuto unicamente, almeno in questa prima fase, a Teodora. Ora, è noto come la basilissa di Costantinopoli fosse una vigorosa sostenitrice dell’eresia monofisita (10), di contro alle convinzioni politiche e religiose del marito, che vedeva nell’ortodossia cattolica un potente fattore di coesione per l’Impero, già minato da forze centrifughe e tendenzialmente disgregatrici. Di conseguenza, ella doveva vedere di buon occhio i disegni giustinianei di restaurazione in Occidente: sia perché lo distoglievano dalle cose di Siria e d’Egitto (ove più forte era la presenza del monofisismo), sia perché lo obbligavano, semmai, a cercare una conciliazione fra cattolicesimo e monofisismo severiano, come difatti accadde con l’ambasceria di Ipazio e Demetrio. Se dunque, circa la mortale congiura ordita contro Amalasuunta, facciamo ricorso all’antico ma sicuro interrogativo: cui prodest?, dobbiamo giungere alla conclusone che l’assassinio di Amalasunta avrebbe dato esca, molto probabilmente, al divampare di un conflitto di vaste proporzioni fra il regno ostrogoto e l’Impero: e ciò era esattamente quanto Teodora desiderava. Facendo uccidere la reggente al trono di Ravenna, ella avrebbe conseguito il duplice obiettivo di sbarazzarsi di una pericolosa rivale e di assecondare il coinvolgimento di Giustiniano in una politica occidentale sempre più impegnativa e complessa, che avrebbe dato respiro- indirettamente – alle comunità monofisite di Siria ed Egitto. Questa, ad ogni modo, non è che un’ioptesi; e come tale chiede di essere valutata. Tradizionalmente, gli storici sostengono che Teodora non approvava la politica occidentale di suo marito e che avrebbe preferito concentrare ogni sforzo nella parte orientale dell’Impero, ove le dispute religiose e la minaccia di Persiani ed Arabi consigliavano una prudente ma attenta politica difensiva. (11) Si tracura però la circostanza che una politica di pacificazione religiosa in Siria e in Egitto passava di necessità attraverso un compromesso col cattolicesimo e, quindi, col vescovo di Roma; e che, di conseguenza, una politica aggressiva in Occidente, vòlta alla riconquista delle perdute province romane, non era affatto incompatibile con essa. Se Giustiniano fosse stato libero di rivolgere tutte le energie in Oriente, ben difficilmente il monofisismo avrebbe superato indenne la prova. Lo dimostrano i fatti: quando, nel 535, morì il patriarca di Alessandria d’Egitto, Timoteo IV, e i monofisiti estremisti cacciarono il suo successore severiano Teodosio per imporre un loro candidato, l’imperatore mandò Narsete con 6.000 uomini a ristabilire quest’ultimo nella sua sede diocesana (12); ma cosa sarebbe accaduto se il governo di Costabtinopoli non avesse avuto quei 6.000 soldati a disposizione? È ovvio che, quanto più Giustiniano s’ingolfava nella guerra greco-gotica, tanto più scemavano le sue possibilità d’ingerirsi efficacemente nelle questioni relative al monofisismo siro-egiziano. E ciò non poteva che far piacere alla monofista Teodora.
Mentre Pietro di Tessalonica era in viaggio alla volta dell’Italia, a Ravenna accadde l’evento decisivo per le sorti del regno ostrogoto: la morte per consunzione del giovane re Atalarico, il 2 ottobre 534, in età di soli diciotto anni e dopo otto di un regno puramente nominale. (13) Una morte prevista e ormai attesa da tutti: con crescente inquietudine da sua madre, con rinnovata speranza di riscossa da parte del partito goto "nazionale". Con la scomparsa di Atalarico, infatti, veniva meno l’ultimo pretesto che consentiva ad Amalasunta di continuare a ingerirsi negli affari di governo. Gli eredi maschi diretti della dinastia teodericiana non erano più: un nuovo re doveva essere eletto; e ad Amalasunta, ultima rappresentante (insieme alla figlia Matasunta) di quella dinastia, non restava che farsi da parte, scomparire. Ma poteva scomparire nell’ombra la figlia di Teoderico, dopo aver governato de facto il regno ostrogoto per otto anni; poteva scomparire, vogliam dire, senza consegnarsi fatalmente, indifesa ed inerme, alla vendetta di quei maggiorenti Goti ch’ella aveva mortalmente offeso, e che avevano giurato di vendicare su lei il sangue dei loro congiunti assassinati?
Ed ecco che, nel giro di appena poche ore, si verifica un autentico colpo di scena: Teodato viene associato al trono e diventa re degli Ostrogoti, mentre Amalasunta assume ufficialmente – contro tutte le consuetudini germaniche – il titolo di regina. (14) Il Senato, prontamente, ratifica l’evento, e degli ambasciatori vengono spediti alla volta di Costantinopoli per informare Giustiniano della nuova situazione e per sollecitare il suo riconoscimento formale. (15) Non si tratta punto di nozze fra Teodato e Amalasunta, come taluno autore moderno ha erroneamente supposto; anche perché Teodato aveva già moglie, una certa Gudelina. Di lei possediamo alcune lettere all’imperatrice Teodora, conservate nel carteggio ufficiale di Cassiodoro, e firmate orgogliosamente: "Gudelina regina". (16) L’impressione che se ne ricava, leggendo tra le righe, è che costei fosse una donna ambiziosa e intrigante almeno quanto il marito: con Teodora, quindi, doveva intendersi benissimo.
Può sembrare strano che Amalasunta abbia preso ua decisione così arrischiata, come quella di associare al trono il proprio cugino. La bassezza morale dell’uomo era nota; e, come se non bastasse, solo poco tempo prima i due avevano avuto un duro scontro, allorché Amalasunta aveva dovuto intervenire personalmente in difesa dei proprietari terrieri della Toscana, minacciati dalla sfrenata avidità di quest’ultimo. Sembra che l’insaziabile fame di latifondi avesse spinto quest’ultimo a insidiare non solo le terre dell’aristocrazia latina, ma addirittura quelle del patrimonio reale. (17) Procopio, che riferisce questo episodio, lo colloca subito prima della morte di Atalarico, dunque verso l’ottobre del 534. Come poteva, allora, una donna della sua intelligenza legare il proprio destino e la propria stessa sicurezza ad un uomo che aveva appena umiliato pubblicamente; un uomo che aveva giurato di vendicarsi alla prima occasione favorevole? (18) Il fatto è che Amalasunta non aveva scelta. Non poteva essere regina, perché le leggi gotiche non lo ammettevano; e non era più reggente, perché suo figlio era morto. A rigor di termini, non avrebbe avuto più neanche il diritto di trattare in proprio con l’imperatore. (19) Teodato, dal canto suo, non godeva di alcuna stima fra l’elemento gotico nazionalista, perché inetto nelle arti marziali e notoriamente sollecito solo di accrescere il suo patrimonio. Tuttavia era l’ultimo erede maschio della dinastia di Teoderico il Grande, e solo per questo fatto aveva la precedenza su qualsiasi altro eventuale candidato alla corona. Certo i maggiorenti dell’ala "nazionale" gli avrebbero preferito un guerriero come Vitige; e Teodato, senza alcun dubbio, se ne rendeva conto. Ecco perché, quando Amalasunta lo fece convocare con la stupefacente proposta di associarlo al trono, ma conservando per sé il potere effettivo (20), Teodato non si mise a mercanteggiare sul prezzo e finse di accettare incondizionatamente. Era, di fatto, l’alleanza di due debolezze: Amalasunta aveva bisogno di Teodato quale paravento giuridico per continuare a regnare, o comunque a trattare con Giustiniano; Teodato aveva bisogno di Amalasunta per anticipare l’elezione di Vitige e iniziare così, un passo alla volta, la sua scalata al potere.
C’è chi ha visto, nell’associazione al trono di Teodato, una manovra poco accorta del prefetto del Pretorio, Cassiodoro, il quale avrebbe così ritenuto di ridurre la dipendenza di Amalasunta e del regno tutto dalle mire, sempre più scoperte, di Giustiniano. (21) È possibile, ma bisogna precisare che, se l’ispiratore di quella mossa fu realmente Cassiodoro, il suo vero errore non fu tanto quello d’essersi fidato di un personaggio sleale come Teodato, quanto il non essersi reso conto fino a che punto Amalasunta avesse ipotecato il regno all’imperatore bizantino, vanificando ogni politica di autonomia. Egli, insomma, si sarebbe illuso di poter continuare all’infinito a destreggiarsi in equilibrio fra aristocrazia gotica e latina, papato ed impero, senza rendersi conto che tale equilibrio aveva già da tempo cessato di esistere. Questo sarebbe stato il secondo fallimento della politica di Cassiodoro: il primo era stato quello del periodo finale del regno di Teoderico. Allora la vittima della reazione gotica era stata Boezio, insieme ad altri senatori considerati, a torto o a ragione,"filo-bizantini"; questa volta sarebbe stata la regina stessa.
Pietro di Tessalonica era già partito da Costantinopoli, probabilmente nel settembre, e non sapeva nulla del rivolgimento verificatosi a Ravenna. Ma, durante il viaggio, incontrò gli ambasciatori di Amalasunta che si recavano da Giustiniano, e seppe così che Teodato era stato elevato al trono. Tale incontro ebbe luogo in qualche porto della Grecia occidentale o nelle isole Ionie, perché sappiamo che poco dopo, ad Aulona (l’odierna Valona, in Albania), si imbatté in una seconda ambasceria proveniente dall’Italia, questa volta da parte del Senato romano. (22) Quest’ultima portava a Costantinopoli una notizia assolutamente sconvolgente: quella dell’arresto e della relegazione di Amalasunta; e veniva ad offrire la disponibilità di Teodato di mantenersi in buoni rapporti con l’Impero. Lo scopo originario della missione diplomatica di Pietro – trattare con Amalasunta la cessione del regno ostrogoto all’Impero – era venuta meno; ed egli si fermò a Valona, mandando lettere a Giustiniano per informarlo dei nuovi avvenimenti e chiedendo ulteriori istruzioni. Così, almeno, riferisce Procopio nella sua Guerra gotica, e aggiunge che quando Pietro si rimise in viaggio per l’Italia e giunse a Ravenna, seppe che Amalasunta era già morta La regina fu assassinata, come vedremo, alla fine di aprile del 535 o poco dopo, dunque risulterebbe che la sosta di Pietro a Valona dovette prolungarsi per almeno sette mesi. Troppi, anche considerando la stagione invernale – che vedeva la sospensione della navigazione d’alto mare – e immaginando che egli abbia dovuto proseguire il viaggio per via di terra, risalendo lungo la costa dalmata. Nella Storia segreta, invece, lo storico di Cesarea fornisce una versione completamente diversa, spiegando di essere stato a suo tempo costretto a fornire una versione addomesticata "per paura dell’imperatrice". Pietro era partito da Costantinopoli con precise istruzioni da parte di Teodora per far sopprimere Amalasunta e, giunto in Italia, riuscì a convincere Teodato "con ragioni che io [Procopio] non conosco", ad eseguire il delitto. (23)
Ma torniamo a Ravenna, al principio d’ottobre. Teodato era stato associato al trono subito dopo la morte di Atalarico (24), e si era gettato immediatamente nelle braccia del partito goto nazionalista, deludendo in pieno le aspettative di Amalasunta. Il suo voltafaccia fu così rapido, da non lasciare né a lei né a Cassiodoro il tempo di prendere delle contromisure. Egli non aveva mai avuto alcuna intenzione di dividere il potere con la cugina e si trovò, quindi, naturalmente sospinto verso quei maggiorenti goti che avevano sperato nell’elezione di Vitige, gettando la maschera di rispetto verso il Senato che inizialmenrte aveva ostentato. Questa evoluzione, però, non poteva che metterlo in urto con l’imperatore al quale, da privato cittadino, aveva fatto balenare la cessione della Toscana mentre adesso, come re degli Ostrogoti, non era in grado di soddisfare alcuna richiesta territoriale dell’Impero. Si capisce, quindi, come egli ereditasse – aggravate – tutte le debolezze del governo di Amalasunta, e come non sapesse risolversi a miglior politica che quella di tergiversare sia coi Goti nazionalisti che con Giustiniano, con l’inevitabile risultato di scontentare tutti.
Intanto, però, sia per dare soddisfazione al partito goto intransigente, sia forse per realizzare una sua privata vendetta a lungo carezzata, doveva eliminare Amalasunta. Nella sua nuova veste, oltre che di re, di capo della fazione gota "nazionale" e anti-bizantina, egli si trovò subito attorniato dai parenti dei tre nobili fatti a suo tempo uccidere da Amalasunta, e che avevano giurato vendetta seondo l’usanza barbarica della faida. (25) Essi insinuarono all’orecchio di Teodato che quella donna avrebbe comunque costituito un pericolo, sia per loro che per lui, fino a quando non fosse stata eliminata, e sfruttarono così la sua paura e la sua incertezza per strappargli il consenso ad agire. Teodato non sapeva ancora risolversi a compiere un passo che avrebbe potuto avere gravissime conseguenze sia all’interno sia, soprattutto, nelle relazioni con Costantinopoli. Pertanto decise di agire con prudenza, e prima fece assassinare alcuni congiunti di Amalasunta particolarmente pericolosi, quindi fece trarre in arresto la regina. (26)
Tenteremo ora di stabilire una sia pur approssimativa cronologia di tali avvenimenti, senza la quale non sarebbe possibile interpretarli correttamente. Sappiamo, da un passo di Procopio, che l’imprigionamento di Amalasunta ebbe luogo prima che arrivassero a Costantinopoli gli ambasciatori che recavano a Giustiniano la formalizzazione del nuovo regno congiunto di Teodato e Amalasunta. Quegli ambasciatori erano partiti dall’Italia nell’ottobre e si erano incontrati al di là di Valona – come abbiamo visto – con Pietro il rètore, che viaggiava nella direzione opposta. Sarà stato alla fine di ottobre o al principio di novembre; per giungere a Bisanzio, traversando la Penisola Balcanica in tutta la sua larghezza, ci sarà voluta qualche altra settimana. In inverno la navigazione d’altura nel Mediterraneo veniva sospesa – per l’esattezza, da ottobre a marzo (27) – e di certo l’ambasceria senatoria non osò affrontare i venti e le tempeste di Capo Matapan. Proseguì, con tutta probabilità, per via di terra lungo l’antica Via Egnatia (28) che, dalla costa dell’Adriatico, raggiungeva Costantinopoli passando per Pella e Tessalonica. Dunque possiamo calcolare che essa sia giunta alla corte bizantina verso la fine dell’anno, considerato il cattivo stato delle strade dopo tre secoli d’invasioni barbariche e la necessità di viaggiare in pilentum o, comunque, su dei carri coperti, quindi non molto veloci. Da tutto ciò traiamo la conclusione che Amalasunta dovette essere arrestata prima della fine del 534.
Ora, da un altro passo di Jordanes sappiamo che Amalasunta, imprigionata su un’isola del Lago di Bolsena,vi fu tenuta solo pochissimi giorni prima d’essere uccisa. (29) La morte della regina viene collocata dalla grande maggioranza degli autori moderni il 30 aprile 535, sulla base di una notizia di Agnello Ravennate che suona così: "et deposuit Malashinta regina de regno et misit eam Deodatus in exilium in Volsenis pridie Kal. Maias." (30) Come si vede, il 30 aprile è però solo la data dell’imprigionamento e non quella della morte. Se, dunque, Amalasunta era stata arrestata nel novembre o nel dicembre, si deve ammettere che nei quattro o cinque mesi precedenti il suo internamento nella rocca dell’isola Martana ella fu detenuta altrove, ma comunque sempre in stato di arresto. Jordanes scrive che "aliquantum tempus" dopo essere stato associato al trono, Teodato fece rapire Amalasunta dal palazzo di Ravenna (31), per farla tradurre subito dopo sul Lago di Bolsena. L’espressione aliquantum tempus non può indicare i sette mesi che vanno dal 2 ottobre al 30 aprile; dunque, o Jordanes si sbaglia, e Amalasunta fu prima detenuta in qualche località fuori di Ravenna, e poi alla Martana; oppure ella fu tenuta per qualche mese prigioniera in Ravenna, e poi trasferita direttamente al suo ultimo soggiorno.
Non sappiamo con certezza perchè Teodato si risolse a un passo così clamoroso, come quello di far arrestare sua cugina: forse cedette alle pressioni dei capi goti nazionalisti più esasperati contro di lei; forse volle egli stesso catturarne la benevoleza e, al tempo stesso, far cosa gradita alla corte bizantina, e specialmente a Teodora. In quest’ultimo caso, credette di poter prendere due piccioni con una sola fava: proprio lui che, trovatosi alla testa, inevitabilmente, della fazione gotica nazionalista, voleva però anche – contraddittoriamente – mantenere buoni rapporti con Giustiniano. Comunque siano andate le cose, il fatto è questo; e Teodato si preoccupò innanzitutto di parare possibili reazioni bizantine. Al Senato di Roma, egli spiegò che l’arresto di Amalasunta si era reso necessario per le continue interferenze di lei negli affari di governo, ma assicurò che non le era stato fatto alcun male. I senatori accolsero la notizia con viva inquietudine, poiché intuivano che quel colpo di stato preludeva a una recrudescenza del nazionalismo goto, anti-cattolico e anti-romano. Certo molti di essi, se non la maggior parte, erano stati partigiani della figlia di Teoderico e amici di Cassiodoro; il quale, peraltro, nulla poté fare, e dovette assistere impotente alla rovina della sua sovrana. Tuttavia, la paura dei Goti indusse alcuni membri del Senato a recarsi a Costantinopoli quali ambasciatori di Teodato, con l’ingrato compito di difendere l’opera di lui. Tra essi furono scelti due personaggi di spicco del perido teodericiano, Liberio e Opilione. (32) Il primo aveva diretto l’assegnazione di un terzo delle terre italiche ai conquistatori Goti, ed era riuscito a farlo senza troppo scontentare neanche i proprietari romani. (33) Era un membro della fazione filo-bizantina del Senato, e, in seguito, lo ritroveremo – vecchissimo – svolgere funzoni politico-militari nella guerra greco-gotica agli ordini di Giustiniano. (34) L’altro senatore, Opilione, era al contrario un ardente sostenitore della piccola fazone filo-gota. Aveva svolto un ruolo importante nel processo contro Severino Boezio, sostenendo l’accusa nonostante fosse, a sua volta, ricercato per reati comuni. (35) Ma sembra che fosse fratello dell’allora referendarius Cipriano (36), il principale accusatore di Albino e di Boezio; e la sua testimonianza era stata ritenuta valida, nonostante tutto, dal tribunale di Teoderico. Cipriano aveva conservato una posizione preminente nel Senato anche durante la reggenza di Amalasunta (37); anche se ella, probabilmente, doveva detestare, in cuor suo, l’autore della rovina di Boezio.
Come si è visto, questa seconda ambasceria senatoria incontrò Pietro di Tessalonica nel porto di Valona e così Giustiniano seppe, nel giro di pochi giorni, che Amalasunta aveva associato al trono il cugino Teodato e che poi, da questi, era stata imprigionata. Contemporaneamente ricevette il messaggio di Pietro, che gli chiedeva se dovesse ugualmente proseguire per l’Italia, oppure tornare indietro. Giustiniano non credette neanche per un momento che Amalasunta avesse lasciato il potere di propria volontà, né che si trovasse sistemata in condizione di privata secondo i suoi desideri anche se, effettivamente, le era stata estorta una lettera di tal tenore, che venne esibita all’imperatore. (38) Non lo credette, anche perché gli stessi ambasciatori romani, una volta giunti in sua presenza, gettarono la maschera e gli spiegarono francamente quel che era successo a Ravenna. Liberio, in particolare, sbugiardò Teodato circa le sue reali responsabilità sull’arresto di Amalasunta, e il solo Opilione si trovò a sostenere fino all’ultimo, ma contro ogni evidenza, la buona fede e l’innocenza del re goto.
Frattanto Teodato si era reso conto che Amalasunta, prigioniera, era per lui più ingombrante e pericolosa di quand’era regina. Essa costituiva il naturale polo d’attrazione tanto per l’aristocrazia romana che per quella gota "moderata", e inoltre la sua condizione di detenuta costituiva un invito permanente a Giustiniano perché intervenisse. Di più: quand’anche egli avesse voluto salvarle la vita, per evitare l’irreparabile, sempre più faticava nel tenere a freno i maggiorenti goti nazionalisti. Nella primavera del 535, infine, cedette alle insistenze dei parenti dei Goti da lei soppressi, e chiuse un occhio mentre costoro si assumevano la diretta responsabilità dell’iniziativa di sopprimerla. Amalasunta era stata relegata in una solida fortezza dell’isola Martana, una delle due isolette del Lago di Bolsena. (39) Laggiù era doppiamente al sicuro: perché, circondata dalle acque di un lago, non poteva tentare d’imbarcarsi per Costantinopoli, come a suo tempo aveva progettato di fare; e perché la regione di Bolsena era nel cuore dei latifondi toscani di Teodato, una sorta di Stato personale del suo carceriere. (40) Così, i suoi assassini non ebbero alcuna difficoltà a sbarcare sull’isola e a penetrare nel castello. La sorpresero nel bagno e lì stesso la strangolarono (41): non ebbero neppure l’astuzia di simulare un suicidio o una morte accidentale. Tutto si svolse così in fretta che la sventurata ex regina, forse, non ebbe neanche il tempo di comprendere quel che stava accadendo. La notizia della sua morte fu accolta con soddisfazione dai Goti più accesamente anti-romani, che non le avevano mai perdonato la sua politica favorevole ai Latini e la sua inconcepibile pretesa di regnare, pur essendo donna, su un popolo di liberi guerrieri. Ma i Goti moderati piansero in lei la figlia del grande Teoderico, mentre l’aristocrazia senatoria e il papato lamentarono la scomparsa dell’ultimo legame postivo ra Gothia e Romania nonché l’inevitabile radicalizzarsi della crisi. (42) L’assassinio di Amalasunta era avvenuto in maggio o forse in giugno. (43) In quel torno di tempo i cittadini di Napoli osservarono, nel foro, una significativa coincidenza: il distacco delle ultime tessere di un mosaico raffigurante il grande Teoderico. Coloro che avevano buona memoria ricordavano come la testa si fosse staccata poco prima della mortedel sovrano, e come il busto fosse caduto alla vigilia della scomparsa di Atalarico. (44)
Teodatoaveva accondisceso alla soppressione della cugina anche sotto la pressione simultanea di gravi avvenimenti internazionali. I Turingi, dopo la morte del loro re Ermenefrido – marito di Amalaberga, sorella di Teodato – si stavano definitivamente sottomettendo ai loro potenti vicini Franchi. Il regno dei Burgundi era anch’esso scomparso, nel 532, sotto il peso delle armi franche (battaglia di Autun), e questo nonostante l’alleanza che li legava agli Ostrogoti, spettatori passivi della loro rovina. Infine Thiodis, in Spagna, manteneva un atteggiamento geloso dell’indipendenza visigota verso il governo di Ravenna, nonostante la minaccia franca che gravava costantemente sul suo regno. Sicché la potenza merovingia confinava ormai direttamente con il regno ostrogoto: sul Rodano, in Provenza e sulle Alpi; e non vi erano più stati cuscinetto o potenziali alleati sui quali contare per tenerla a bada. (45) Però le maggiori preoccupazioni venivano a Teodato da Oriente. Sembra certo ch’egli sia caduto in pieno nella trappola tesagli dall’astutissima diplomazia bizantina e che, proprio su istigazione di Costantinopoli, abbia fornito agl’imperiali, con l’assassinio di Amalasunta, il pretesto per muovergli guerra. Noi non sappiamo, come s’è detto, se l’ambasciatore Pietro rimase fermo a Valona nei primi mesi del 535, o se proseguì per l’Italia e, segretamente, consigliò Teodato di togliere di mezzo Amalasunta. Sappiamo, comunque, che Giustiniano, non appena ebbe ricevuta l’ambasceria di Liberio e Opilione, scrisse ad Amalasunta una lettera in cui le dichiarava la propria solidarietà incondizionata. Questa lettera fu inoltrata, forse, per mezzo dello stesso Pietro (46), il quale comunque ebbe ordine di riprendere il viaggio (se era ancora a Valona) e di protestare ufficialmente con la corte ostrogota per il trattamento inflitto alla regina. Il suo contegno ufficiale fu quasi provocatorio, poiché convinse i Goti nazionalisti che solo sopprimendo Amalasunta si sarebbe potuta eliminare l’ingerenza bizanina nelle cose del regno. Egli, comunque, non fece altro che eseguire le precise istruzioni di Giustiniano: talché si può affermare che l’ambasceria di Pietro in Italia, quand’anche non fosse stata strumento delle mene di Teodora, fu la causa determinante della morte di Amalasunta.
La storia, comunque, ha voluto lasciarci un’altra traccia delle probabili macchinazioni bizantine a danno della sventurata ex regina. In un passo famoso di una lettera di Teodato all’imperatrice Teodora, egli testualmente scrive: "Nam et de illa persona, de qua ad nos aliquid verbo titillante pervenit, hoc ordinatum esse cognoscite, quod vestris credidimus animis convenire. Desiderium enim nostrum tale est, ut interveniente gratia non minus in regno nostro quam in vestro iubeatis imperio." (47) Da questa lettera risulta che Teodora aveva avviato una corrispondenza privata con Teodato, intermediario della quale era, probabilmente, Pietro di Tessalonica; una corrispondenza nella quale l’imperatrice esortava il re goto a sottoporre a lei per prima le richieste che avesse inteso rivolgere all’imperatore. (48) Risulta altresì che Teodora aveva fatto sussurrare qualche ambigua parola, sul conto di un misterioso personaggio, alle orecchie fin troppo compiacenti di Teodato e di Gudelina (dato che il carteggio era a tre: fra il re goto, sua moglie e la basilissa di Costantinopoli). "Ad nos aliquid verbo titillante pervenit": Teodora, quindi, non disse nulla di esplicito, ma si limitò a insinuare, stuzzicare, solleticare in modo lieve (49); probabilmente lasciando intravedere – se davvero il personaggio non chiamato per nome era Amalasunta – una tacita approvazione della corte bizantina alla sua eliminazione. Se istigazione al delitto vi fu, evitare un riferimento diretto si rivelò una saggia precauzione da parte di Teodora, visto che la verità ultima del "giallo" relativo alla morte di Amalasunta rimane ancor oggi avvolta nel mistero. Tutto quel che sappiamo di certo è che Pietro, di ritorno dalla sua missione in Italia, venne premiato con la nomina a magister officiorum e che compì una carriera diplomatica prodigiosa, coronata dal trattato di pace ch’egli concluse nel 562, per conto del governo bizantino, col re persiano Cosroe. A proposito di questo ambiguo personaggio, lo storico Procopio fa un’osservazione che equivale a un atto d’accusa: scrive che l’uomo non si fa scrupoli davanti a un assassinio, se ha la prospettiva di ottenere un’alta carica o molto denaro. (50)
6. Epilogo: La fine degli Ostrogoti.
L’uccisione di Amalasunta precipitò la crisi – interna ed esterna – da tempo latente, e segnò l’inizio della fine non solo del regno ostrogoto, ma dell’esistenza stessa degli Ostrogoti in quanto popolo. Giustiniano prese a pretesto quel delitto per iniziare la campagna di riconquista lungamente accarezzata. Belisario sbarcò in Sicilia e la conquistò con facilità sbalorditiva, entrando come un trionfatore in Siracusa. Teodato inviò un esercito per fermarlo sullo Stretto, ma questo si sbandò e i suoi capi fecero causa comune col nemico. Sbarcato in Calabria, Belisario avanzò velocemente fino a Napoli, espugnandola dopo un duro assedio. Un altro esercito bizantino avanzava, intanto, dalla Dalmazia lungo il litorale adriatico. Questo segnò la fine dell’imbelle Teodato, che fino all’ultimo aveva continuato a trattare con Giustiniano, nell’illusione di indurlo a fermarsi. Nell’accampamento di Sezze, i guerrieri goti acclamarono Vitige re sugli scudi. Teodato fuggì verso Ravenna, ma cadde assassinato prima d’entrarvi (anno 536). Belisario, con un nuovo balzo, arrivò fino a Roma e vi entrò senza combattere. Vitige cercò di consolidare il proprio prestigio, sposando a forza la giovanissima Matasunta, figlia di Amalasunta e ultima discendente diretta di Teoderico. Poi raccolse grandi forze militari e scese contro Roma, assediandola. Per un anno i Goti si logorarono sotto le Mura Aureliane, tenuti in scacco da forze molto inferiori alle loro, e tormentati dalle audaci sortite della cavalleria bizantina. Infine, decimati dalle malattie, ripiegarono su Ravenna; e subito Belisario li inseguì e capovolse la situazione. Forse, però, egli non sarebbe mai riuscito a conquistare l’imprendibile Ravenna, se non avesse fatto ricorso al tradimento: Vitige, circuito da ingannevoli promesse, aperse le porte, ma subito venne fatto prigioniero e spedito a Costantinopoli (anno 540).
Le sorti del regno ostrogoto vennero temporaneamente rialzate, quando tutto pareva ormai perduto, dal richiamo di Belisario, che dal suo sospettoso imperatore venne destinato al lontano teatro di guerra persiano. Dopo aver eletto due effimeri sovrano, Ildibodo ed Erarico, i Goti trovarono un capo di notevole statura politica nella persona di Baduila detto Totila, ossia "l’Immortale". Questi seppe riorganizzare l’esercito gotico, già quasi disperso, e resistette vittoriosamente al ritorno offensivo di Belisario, recuperò il controllo di quasi tutto il regno e lo dotò di una flotta da guerra con la quale s’impadronì delle isole. Questi successi sbalorditivi furono dovuti in larga misura all’atteggiamento sostanzialmente favorevole della popolazione latina, dopo che egli – con decisione coraggiosa – ebbe liberato i contadini dai vincoli della servitù della gleba o, comunque, dalla soggezione ai latifondisti romani. Ma era troppo tardi. Mentre l’Italia settentrionale era corsa da orde di Franchi in cerca di bottino, Giustiniano inviò a sostituire Belisario un generale di oscura fama – e per giunta eunuco – Narsete, che si rivelò, alla prova dei fatti, un eccellente stratega e condottiero di truppe. Nella pianura di Tagina, in Umbria, i due eserciti si affrontarono per la prima volta in battaglia campale e i Goti subirono una disfatta decisiva; lo stesso Totila morì per le ferite riportate (anno 552).
I superstiti Goti elessero un nuovo re, Teia, che condusse un ultimo, disperato tentativo di risollevare le sorti del suo popolo, nella zona dei Monti Làttari; ma fu anch’egli sconfitto e ucciso nella battaglia presso le falde del Vesuvio, l’anno seguente. La guerra era finita, dopo diciotto anni di ostilità ininterrotte che avevano ridotto allo stremo la popolazione latina e praticamente distrutto il popolo ostrogoto. Esso scomparve dalla storia d’Italia così bruscamente come v’era entrato, sessantatre anni prima. Alcuni suoi membri ripassarono le Alpi, altri entrarono come mercenari nell’esercito bizantino; altri, infine, si fusero con la popolazione locale, che li assorbì completamente.
Ma anche i Bizantini pagarono la vittoria a caro prezzo. Indeboliti da vent’anni di guerre in Occidente, essi non furono in grado di fronteggiare i Persiani e, più ancora, la grande offensiva degli Arabi (battaglia dello Yarmuk, 20 agosto 636), che costò loro la perdita definitiva del Medio Oriente e dell’Egitto. Quanto all’Italia – spopolata, immiserita, spremuta senza pietà dal rapace fiscalismo bizantino, essa conobbe gli anni più bui della sua storia. Nel 568 i Longobardi di Alboino si affacciarono ai valichi delle Alpi Giulie e, trovatili pressoché sguarniti, scesero a saccheggiare la Pianura Padana, allargandosi a macchia d’olio. La loro invasione produsse una vera e propria frattura nella storia d’Italia. Semi-pagani, pochissimo romanizzati, venuti come predatori più che come conquistatori, i Longobardi rimasero in Italia più di duecento anni, grazie all’ormai cronica debolezza bizantina, senza peraltro riuscire mai a conquistarla tutta. E vi rimasero come duri signori, dando mano alla distruzione fisica delle due classi sociali ivi dominanti: l’aristocrazia latina e la gerarchia ecclesiastica, che avevano sino allora rappresentato un forte legame di continuità con la tradizione romana. Il Medioevo era veramente incominciato.
NOTE
Cap. 1.
1) ANONIMO VALESIANO, Theodericiana, 28; BOEZIO, De Consolatione Philosophiae, I, 4.
2) ANONIMO VALESIANO, Cit., 13; Cassiodoro, Chronicon, a. 493; JORDANES, Getica, LVII; MARCELLINO CONTE, Chronicon, in M. G. H., A. A., XXI, p. 93.
3) Cfr. la lettera di Teoderico al Senato di Roma, in CASSIODORO, Variae, III, 31.
4) Dunque circa 50.000 uomini atti alle armi, sec. le stime più attendibii. Cfr. E. BARTOLINI, I Barbari, Milano, 1970, p. 582, n. 10.
5) Clodoveo aveva conquistato il regno di Siagrio nel 486; sottomesso gli Alamanni nel 496; e, dopo il matrimonio con Clotilde, nel 493, si era convertito al cattolicesimo. Cfr. GREGORIO DI TOURS, Hist. Eccl. Francorum., II, 27-31; v. anche F. LOT, Les invasions germaniques, Paris, 1935, spec. p. 367; R. LATOUCHE, Les grandes invasions et la crise de l’Occident au Ve siécle, Paris, 1946I, p. 120; L. MUSSET, Le invasioni barbariche, Milano, 1989.
6) Dopo il 506, quando il re Trasemundo ruppe l’alleanza con Teoderico. Durante il governo di Amalasunta le coste italiane dovettero esser difese da attacchi, non è chiaro se dei Vandali o dei Greci: L. GINETTI, voce Amalasunta della Enciclopedia Italiana, vol. II, p. 744.
7) Nel 505 vi era stata una vera guerra fra Ostrogotie Bizantini nella regionedel medio Danubio, conclusasi con l’annessione di Sirmio al regno di Teoderico. Cfr. A. H. M. JONES, Il tardo Impero Romano (284-602 d.C.), vol. I, p. 310.
8) F. GASTALDELLI, Boezio, Roma, 1974, pp.7-8; A. CROCCO, Introduzione a Boezio, Napoli, 1975, p. 18 sgg.
9) "Il processo di Boezio non fu (…) un caso di vendetta personale o un episodio isolato, bensì il momento culminante di un sordo ed esteso contrasto politico, e il segno di un radicale mutamento d’indirizzo nei metodi di governo di Teodorico": così L. OBERTELLO, Severino Boezio, Genova, 1974, vol. 1, p. 116.
10) "Falsa est insinuatio Cypriani, sed si Albinus fecit, et ego et cunctus senatus uno consilio fecimus; falsum est, domne rex": così Boezio in ANON. VALES., 28.
11) "Rex vero vocavit Eusebium, praefectum Urbis, Ticinum et inaudito Boëthio protulit in eum sententiam" (ibidem).
12) ANON. VAL., cap. 30.
13) GREGORIO MAGNO, Dial., III 2; ANON. VAL., 31; Liber Pontificalis: Johannes, t. I, p. 275 sgg. (ed. Duchesne).
14) "In gran fretta tra il 525 e il 526, nell’imperversare di acuta crisi politica interna ed esterna (…), si disponeva la costruzione e l’armamento di mille dromoni, si requisiva in ogni parte d’Italia il materiale per l’allestimento dell’opera e si ordinva l’ingaggio della manodopera e del personale di navigazione": così R. CESSI, Da Roma a Bisanzio, in Storia di Venezia, Venezia, 1957, I, p. 342.
15) Cfr., ad es., P. GIANNONE, Istoria civile del regno di Napoli, III, 2, 6, sulla scorta di JORDANES, Getica, LIX.
16) ANON. VAL., 32.
17) "Quando Teodorico aveva iniziato i preprativi militari, moriva il 13 giugno 526": così G. PEPE, Il Medio Evo barbarico d’Italia, Torino, 1977, p. 57. Si noti che esiste incertezza circa la data della morte di Teoderico.
18) Cfr. A. H. M. JONES, Op. cit., I, pp. 313-314.
19) Di contro al regno di Odoacre, "che avrebbe quasi voluto che il mondo non si accorgesse della sua presenza (…), ombra fugace che aveva fugato un’altra ombra: l’Impero Romano": così C. BARBAGALLO, Storia universale: Medio Evo, Torino, 1935, I, p. 12.
20) "Cassiodoro monaco fu così poco simile agli altri monaci, come il politico era stato poco simile agli altri politici contemporanei: questo il giudizio di G. PEPE, Op. cit., p. 63.
21) Durante il regno di Totila (541-552): cfr. C. BARBAGALLO, Op. cit., I, p. 78; G. LUZZATTO, Breve storia economica d’Italia",Torino, 1958, p. 46.
22) ZOSIMO, Storia Nuova, V,42, 3.
Cap. 2.
1) Amalasunta era la terzogenita di Teoderico perché questi, prima della migrazione degli Ostrogoto in Italia, aveva già avuto da una concubina due figlie femmine: Teudicodo e Ostrogoto. Cfr. JORDANES, Getica, LVIII.
2) Su Galla Placidia (e sulla sua attività in Ravenna) le migliori fra le numerose biografie esistenti sono: S. J. OOST, Galla Placidia Augusta, Chicago, 1968, e V. A. SIRAGO, Galla Placidia e la trasformazione politica dell’occidente, Lovanio, 1961. Vedi anche F. LAMENDOLA, Donne celebri del mondo antico: Galla Placidia, in Atti della Soc. Dante Alighieri, Treviso, 2007. Per un panorama dell’arte ravennate nel V e VI secolo, v. P. BARGELLINI, L’arte cristiana, Firenze, 1973, pp.197-283.
3) Teoderico era nato nel 454 circa da Teodemiro, fratello di Valemiro e Videmiro: cfr. JORDANES, Getica, XIV.
4) E. GIBBON, Decadenza e caduta dell’Impero Romano, Roma, 1973, vol. 4, p. 191; M. PAVAN, La scuola nel tardo antico, in La cultura in Italia fra tardo-antico e alto medioevo, Atti del Convegno del Cons. Naz. Ric. 12-26 nov. 1979, Roma, 1981, vol. II, p. 558; P. ROSSI, Storia d’Italia, Milano, 1971, vol. 1, p. 21.
5) ANON. VAL., XXIV.
6) CASSIODORO, Variae, I, 45.
7) Tale il caso di quel Teodato, figlio della sorella di Teoderico, che salirà al trono nel 534: cfr. PROCOPIO, De Bello Gothicum, I,3.
8) Andata interamente perduta, e della quale noon ci resta che il compendio di Jordanes: Getica, in 60 capitoli.
9) Boezio era nato verso il 480, Cassiodoro nel 490 circa.
10) PROCOPIO, Bell. Goth., I, 2.
11) JORDANES, Get., LVIII.
12) CASSIODORO, Chronicon, a. 515.
13) JORDANES, Get., LVIII: "juvenili aetate, prudentia et virtute, corporisque integritate pollentem".
14) ANON. VAL., 25: "qui Eutarichus nimis asper fuit et contra fidem catholicam inimicus".
15) CASSIODORO, Chron., a. 519; ANON. VALES., 25.
16) "Ma il carattere di Eutarico, assai ostile ai Romani, rendeva più grave la difficoltà di mantenere nel regno la convivenza pacifica di due civiltà così diverse e provvedute di forze così disuguali: la parte più intollerante dei Goti guadagnava terreno, crescevano le violenze a danno dei vinti, né gli sforzi del re ruscivano sempre a impedirle e a punirle: G. B. PICOTTI, voce Teodorico dell’Enc. Ital., vol. XXIII, p. 512.
17) Le belve furono inviate dai Vandali quale voto augurale (CASS., supra), ma l’anfiteatro Flavio era ormai in stato di parziale abbandono: cfr. F. GREGOROVIUS, Storia di Roma nel Medioevo, Roma, 1972, vol. 1, pp. 186-191.
18) G. PEPE, Op. cit.: "I peggiori nemici di Cassiodoro erano proprio Amalasunta e il cugino Teodato", che però non documenta in alcun modo tale affermazione.
19) PROCOPIO, Bell. Goth., I, 2.
20) PROCOPIO, Storia segreta, XVI.
21) S. MAZZARINO, Serena e le due Eudossie, Roma, 1946; id., Stilicone. La crisi imperiale dopo Teodosio, Milano, 1990.
22) Otto anni, sec. PROCOPIO, Bell. Goth., I, 2; quasi dieci sec. JORDANES, Get., LIX.
23) Su questa differenza di età, cfr. G. B. PICOTTI, voce Vitige della Enc. Ital., vol. XXXV, p. 492; e forse fu proprio essa che provocò la resistenza di Matasunta alle nozze (PROCPIO, nel Bell. Goth., ne parla due volte: I, 11; e II, 10). Da Vitige, che morì sei anni dopo le nozze, Matasunta non ebbe figli: JORDANES, Get., XIV.
24) Nel 550,in piena guerra greco-gotica: PROCOPIO, Bell. Goth., III, 39. Matasunta viveva a Costantinopoli dal 540 e, nel 542, era rimasta vedova una prima volta.
25) JORDANES, Get., XIV, ci informa che Germano il Vecchio, sposandola, elevò Matasunta al rango di patrizia ordinaria, e che, dopo la morte di lui, ella decise di non maritarsi più.
Cap. 3.
1) La data comunemente accettata è il 30 agosto, ma vi sono dei dubbi in proposito: cfr. n. 17 al cap. II del presente lavoro.
2) "Ergo antequam exhalaret, nepotem suum Athalaricum in regnum consituit": ANON. VALES., 33; "Athalaricum infantulum (…) regem constituit": JORDANES, Get., LIX.
3) L. GINETTI, voce Atalarico in Enc. Ital., vol. V, p. 156.
4) JORDANES, Get., LVIII.
5) Già nel 507 o nel 508 la flotta vandalica aveva assalito le coste della Campania; un’altra minaccia, vandalica o forse bizantina, venne sventata dopo la morte di Teoderico: cfr. n. 6 al cap. 1 del presente lavoro.
6) CASSIODORO, Var., VIII, 1.
7) Ibidem: "Sit vobis regnum nostrum gratiae vinculis obligatum. Plus in illa parte regnabitis, ubi omnia caritate iubetis."
8) Ibidem: "quapropter ad serenitatem vestram illum et illum legatos nostros aestimavimus esse dirigendos, ut amicitiam nobis illis pactis, illis condicionibus concedatis, quam cum divae memoriae domno avo nostro inclitos decessores vestros constat habuisse" (cioè Zenone e Anastasio con Teoderico).
9) Mentre Teoderico aveva chiesto e ottenuto, a suo tempo, l’assenso di Giustino alla successione di Eutarico: v.L. MUSSET, Op. cit., p. 102.
10) PROCOPIO, De Bello Persico, I, 11-12.
11) COSTANTINO PORFIROGENITO, Cerimonie, I, 95.
12) MALALA, 424.
13) Riconoscimento che non significava certo lealtà. Giustiniano – scrive A. M. SCHNEIDER – "aveva annodato, con astuta doppiezza, rappporti sia con Amalasunta (in conflitto coi capi dei Goti per le sue simpatie verso i Romani), che chiedeve la sua protezione e gli prometteva aiuti contro i Vandali, sia con Teodato avversario di Amalasunta, che per ottenere contro quest’ultima l’appoggio di G. si dichiarava disposto a rinunciare a una parte della Penisola…" (in Enciclopedia cattolica, Roma, 1951, vol. VI, col. 836-837.
14) Ilderico(523-530) aveva tentato di ristabilire il culto cattolico e persino permesso un sinodo cattolico, il 5 febbraio 525, provocando però la sdegnata reazione del partito vandalico "nazionalista".
15) Liber Pontificalis, I, pp. CCLXI, 279 (ed. Duchesne); H. GRISAR, Roma alla fine del mondo antico, Roma, 1908, pp. 496 sgg., 182 sgg.
16) Nel 483 Odoacre aveva riaffermato, alla morte di papa Siimplicio, il diritto dell’autorità regia a ratificare l’elezione del vescovo di Roma, come per l’addietro avevano fatto gli imperatori d’Occidente. Ma un sinododo convocato in San Pietro il 6 novembre 502 dal papa Simmaco annullò il decreto di Odoacre : cfr. F. GREGOROVIUS, Op. cit., vol. 1, pp. 165, 196.
17) F. GREGOROVIUS, Op. cit., vol. 1, p. 205.
18) Dal nome del padre, Sigisbaldo o Sigismondo, deduciamo la sua origine germanica. Molto probabilmente, però, Bonifazio era nato a Roma, e comunque era profondamente romanizzato. Cfr. P. PASCHINI-V. MONACHINO, I papi nella storia, Roma, 1961, vol. 1, p. 153. C. RENDINA, I papi. Storia e segreti, Roma, 1993, pp. 109-110, lo dice senz’altro romano, sec. A. AMORE, voce B. della Enc. Catt., vol. II, col. 1.864, era di stirpe germanica, ma nato a Roma.
19) F. GREGOROVIUS, Op. cit., vol. 1, pp. 205-10.
20) G. MATTHIAE, Le chiese di Roma illustrate, Ss. Cosma e Damiano, Roma, 1960.
21) Dictionnaire d’Histoire et de géographie ecclésiastiques, Paris, 1937, vol. 9, co. 897.
22) Dioscuro raccoglieva i consensi della massima parte del clero di Roma, segno che il partito filo-bizantino vi si era alquanto rafforzato. Cfr. C. RENDINA, Op. cit., p. 109.
23) GREGORIO MAGNO, Dial., IV, 42; ANON. VAL., 17; Liber Pontificalis, pp. LX, CXXII-CXXXIII, 260-268 (ed. Duchesne); R. CESSI, Dallo scisma laurenziano alla pacificazione religiosa con l’Oriente, in Arch. R. Soc. rom. Storia patria, XLIII (1920), pp. 209-321.
24) L. DUCHESNE, L’Église au VI.e siécle, Paris, 1925, pp. 143 sgg.; id., Lib. Pont., I, CCLXI, 281.
25) ANON. VAL., 14.
26) Bonifazio approvò, fra l’altro, le decisioni del concilio di Orange (529), che aveva condannato la dottrina semipelagiana circa la grazia.
27) In tempo di carestia Bonifazio si prodigò in soccorso della popolazione romana, anche mediantela distribuzione gratuita di vettovaglie ai poveri.
28) P. PASCHINI-V. MONACHINO, Op. cit., vol. 1, p. 154.
29) Bonifazio riconobbe pubblicamente il proprio errore e gettò nel fuoco il documento col quale nominava Vigilio suo successore. Cfr. C. RENDINA, Op. cit., p. 110.
30) L’elezione di Giovanni II ebbe luogo solo il 2 gennaio 533, ossia dopo due mesi e mezzo di vacanza del pontificato, a causa delle mene simoniache del clero. Fu per questo che il governo di Amalasunta, forse a richiesta dello stesso Giovanni, confermò un decreto senatorio del 530 che vietava l’uso di mezzi venali per accedere al soglio pontificio. Cfr.Lib. Pont., I, pp. 108, 285; S. MAJARELLI, voce G. II in Enc. Catt., vol, VI, col. 579-580.
31) F. GREGOROVIUS, Op. cit., vo. 1, p. 206.
32) C. BARBAGALLO, Op. cit., vol. I, p. 35.
33) BOEZIO, Cons. Phil., I, 4: "Provincialium fortunas tum privatis rapimus, tum publicis vectigalibus pessumdari non aliter quam qui patiebantur indolui."
34) CASSIODORO, Var., III, 17. La lettera è diretta "universis provincialibus Galliarum", ossia "a tutti gli abitanti delle Gallie"; ma dopo la battaglia di Vouillé i Franchi avevano occupato già tutto il Paese, tranne le due regioni menzionate.
35) Teodato era nato da un primo matrimnio di Amalafrida che, rimasta vedova, era andata sposa in seconde nozze con Trasemundo, re dei Vandali. ANON. VAL., 18; JORDANES, Get., LVIII.
36) Edictus Athalarici, in CASSIODORO, Var., IX, 18 (tr. di G. PEPE, Op. cit., p. 77).
37) Tranne nei casi esplicitamente configurati dagli editti regi, e che riguardavano in sostanza l’ordine pubblico e le cause miste fra Goti e Latini: A. H. M. JONES, Op. cit., , vol. 1, p. 318; G. PEPE, Op. cit., p. 40 sgg.
38) PROCOPIO, Bell. Got., I, 2.
39) BOEZIO, Cons. Phil., I, 4.
40) PROCOPIO, Bell. Goth., I, 2.
41) L. GINETTI, voce Amalasunta in Enc. Ital., vol. II, p. 774.
42) Secondo la cronologia di JORDANES, Get., LIX; cfr. nota 22 al cap. 2 del presente lavoro.
43) Non pare vi fosse una norma precisa che stabilisse la maggiore età dei prìncipi ereditari germanici (Clodoveo era già re dei Franchi Salii nel 481, a soli quindici anni.La reggenza di Amalasunta per il figlio era tale di fatto e non di diritto: tutte le lettere diplomatiche, gli editti ecc. del periodo 526-534 recano la firma Athalaricus rex, come pure la dicitura delle monete. Essendo reggenza di fatto, avrebbe dovuto aver fine quandoAtalarico avesse mostrato la volontà di assumere personalmente il governo; ciò che la malattia e la morte prematura gl’impedirono.
44) PROCOPIO, Bell. Goth., I, 2.
45) F. GREGOROVIUS, Op. cit., vol. 1, p. 211.
Cap. 4.
1) "Teodorico aveva resuscitato anche una marina da guerra italica, e la sua vita si chiudeva in mezzo ai febbrili preparativi per l’allestimento di una più grande flotta – una flotta di oltre 1.000 vascelli – che doveva servire contro i Vandali…": così C. BARBAGALLO, op. cit., vol. 1, p. 35-36. Cfr. anche n. 14 al cap. 1 del presente lavoro.
2) Cfr. n. 6 al cap. 1 del presente lavoro.
3) GREGORIO DI TOURS, Hist. Franc., III, 1.
4) JORDANES, Get., LVIII.
5) "Amalaricus filius Alarici, rex Hispaniae, sororem eorum in matrimonium postulat: quod illi clementer indulgent, et eam ipsi in regionem Hispaniae cum magnorum ornamentorum mole transmittunt": GREGORIO DI TOURS, Hist. Franc., III, 1.
6) Cfr. la storia commovente, ma poco credibile, del fazzoletto inzuppato di sangue per le battiture ricevute dal marito, che Clotilde inviò al fratello Childeberto, cit. in GREG. DI TOURS, III, 10.
7) GREGORIO DI TOURS, Hist. Franc., III, 10; Chronicon di Saragozza, in M. G. H., A. A., IV, pars post., pp. 38-49. Amalarico era fuggito a Barcellona con l’intenzione d’imbarcarsi e mettere in salvo il tesoro reale; raggiunto dalle avanguardie franche, cercò scampo in una chiesa, ma cadde trafitto sulla soglia.
8) È la versione fornita da Isidoro di Siviglia (570 ca.-636).
9) "Ma l’adolescente Amalarico si lasciava irretire nel raggiro franco perdendo insieme il trono e la vita. Fu quindi la volta del suo tutore Thiodis che, impadronitosi del regno, bandì di Spagna le perfide mene dei Franchi e resse i Visigoti fin quando non venne a morte": così JORDANES, Get., LVIII (tr. di E. Bartolini, cit., p. 571).
10) Nel 532, infatti, il governo di Amalasunta restituiva il Delfinato ai Burgundi, il cui regno però due anni dopo veniva conquistato definitivamente dai Franchi. E ciò portava questi ultimi direttamente a contatto con gli Ostrogoti sulla frontiera provenzale.
11) GREGORIO DI TOURS, Hist. Franc., III, 6. Prima di morire, Sigismondo aveva fatto trucidare il figlio Sigerico, avuto dalla defunta Ostrogoto, per istigazione della seconda moglie: sì che la sua fine parve opera della giustizia divina. Ibid. III, 5.
12) PROCOPIO, Bell. Pers., I, 22, 1-8. Gli Unni Eftaliti, respinti ancora verso il 455 dal re indiano Skandagupta, dieci anni dopo avevano ripreso l’avanzatae, alla fine del V secolo, si erano saldamente installati nel bacino dell’Indo Cfr. P. MEILE, Storia dell’India, Milano, 1958, pp. 28-29; C. G. STARR, Storia del mondo antico, Bergamo, 1982, pp. 704-05; F. LAMENDOLA, Breve storia dell’India antica, nel sito dell’Ass. Eco-Filosofica: www.filosofiatv.org,
13) PROCOPIO, Bell. Vand., I, 9. Secondo alcuni, Amalafrida sarebbe stata uccisa nel 523, ancor vivente Teoderico: cfr. G. B. PICOTTI, voce Teodorico della Enc. Ital., cit.
14) CASSIODORO, Var., IX, 11.
15) La deposizione di Ilderico fu dovuta anche alla inettitudine da lui dimostrata nella difesa contro le incursioni dei Mauri: cfr. A. H. M. JONES, Op. cit., vol. 1, p. 339. Essa, comunque, offrì a Giustiniano il desiderato pretesto per attaccare il regno vandalico.
16) La Sicilia era tradizionalmente la base per gli attacchi, tentati o anche solo progettati, contro i Vandali d’Africa: così nel 441-42 sotto Valentiniano III, nel 460 sotto Maioriano, nel 467-68 sotto Antemio e Leone I Cfr. F. GIUNTA, La Sicilia barbarica e La Sicilia Bizantina.
17) P. VILLARI, Le invasioni barbariche in Italia, Milano, 1905, p. 176. Truppe di Belisario avevano tentato di occupare Lilibeo, ma ne erano state respinte dagli Ostrogoti: PROCOPIO, Bell. Vand., II, 5.
18) PROCOPIO, Bell. Goth., I, 2-3.Secondo O, BERTOLINI, Atalarico fu sottratto ai metodi educativi romani fin dall’autunno 527: Crisi del dominio ostrogoto: reggenza di Amalasunta e regno di Teodato, in Il tramonto della potenza gotica e la restaurazione bizantina nell’Italia del VI secolo (a cura di N. Defendi), Messina-Firenze, 1972, p. 35.
19) PROCOPIO, Bell. Goith., I, 2.
20) "Nel 528, un esercito al comando di Vitige aveva ricacciato dal territorio di Sirmio i Gepidi che l’avevano invaso, tacitamente connivente l’imperatore, insieme con gli Eruli": così O. BERTOLINI, Op. cit., p. 36.
21) PROCOPIO, Bell. Goth., I, 2, che la chiama con l’antico nome greco di Epidamno (era stata presa e ribattezzata Dyrrachium dai Romani nel 233 a. C.). Al tempo di Giustiniano faceva parte dell’Epirus Nova, quasi al confine con la Praevalitana (odierni Albania sett. e Montenegro).
22) PROCOPIO, Ibidem: "Poco dopo, essendo stata l’uccisione eseguita secondo la sua volontà, richiamò la nave e, rimanendo a Ravenna, tenne con sicura fermezza il principato" (tr. di D. Comparetti, Roma, 1898).
23) Sec. A. H. M. JONES, Op. cit., vol. 1, p.. 341, Amalasunta avrebbe offerto a Giustiniano di cedergli il regno in cambio dell’asilo politico, ma di ciò non vi è traccia in Procopio. Le trattative per il ritorno dell’Italia all’Impero furono avviate solo in un secondo momento.
24) La cronologia è quella proposta da O. BERTOLINI, Op. cit., p. 37, secondo il quale gli ambasciatori bizantini rimasero in Italia fin verso l’estate del 534.
25) Questo Alessandro, ricordato due volte da Procopio in Bell. Goth. (I, 3 e I,6) era fratello di un altro ambasciatore bizantino che trattò con Teodato dopo la morte di Amalasunta, tale Atanasio (più tardi prefetto del pretorio per l’Italia), e non va confuso con Alessandro detto la Forbice, celebre funzionario del fisco imperiale.
26) A. H. M. JONES, Op. cit., vol. 1, p. 355.
27) G. OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, Torino, 1968, p. 67.
28) A. H. M. JONES, Op. cit., vol. 1, p 355.
29) Un’eco di questo strapotere è contenuta nel racconto favoloso di GREG. DI TOURS, Hist. Franc., III, 31, ove Teodato è chiamato regem Tusciae.
30) "Su Teodato l’Italia aveva esercitato un’influenza nociva, che aveva contagiato del resto moltissimi Goti": così F. GREGOROVIUS, Op. cit., vol. 1, p. 212.
31) PROCOPIO, Bell. Goth., I, 3.
32) Secondo PROCOPIO, loc. cit., l’iniziativa dei colloqui partì da Teodato, che già da tempo meditava di mercanteggiare la Toscana con l’imperatore.
33) Era situata lungo il corso inferiore del Danubio: PROCOPIO, De Aedificis, IV, 9.
34) L’argomentazione giuridica di Amalasunta era speciosa. Ella sosteneva che la Sicilia era stata sempre ed in ogni sua parte sotto la giurisdizione ostrogota (PROCOPIO, Bell. Vand., II, 5). Ma in realtà i Vandali l’avevano occupata poco dopo la fallita spedizone di Basilisco del 468 (ibidem, I, 6) e Odoacre, per unirla al suo regno, aveva dovuto acconciarsi a pagare un tributo annuo: cfr. VITTORE DI VITA, Storia della persecuzione vandaica in Africa, I, 4; Roma, 1981, pp. 33-34). Teoderico la occupò nel 491 (dunque, mentre ancora Odoacre resisteva in Ravenna) e, più tardi, la diede in dote alla sorella Amalafrida, allorché questa andò sposa a Trasemundo, re dei Vandali (PROCOPIO, Bell. Vand., I, 8). Da quel momento Lilibeo entrava di fatto a far parte del regno vandalico.
35) Amalasunta "in privato gli promise di dargli nelle mani tutta l’Italia": così PROCOPIO, Bell. Goth., I,3.
36) "Forse il motivo fondamentale della caduta del governo imperiale, negli anni fra il 380 e il 410, fu che (…) l’aristocrazia senatoria e la chiesa cattolica separarono le loro responsabilità dal destino dell’esercito romano che li difendeva (…) e scoprirono, non senza sorpresa, che potevano farne a meno": così P. BROWN, Il mondo tardo antico, Torino, 1974, pp. 94-95.
37) Puramente nominale lo era da grandissimo tempo, secondo la tesi di G. FERRERO, La rovina della civiltà antica, Milano, 1926.
38) E. A. THOMPSON, Attila e gli Unni, Firenze, 1963, p. 227.
Cap. 5.
1) "Intelligente e moderato e abile nel persuadere": così definisce Pietro lo storico Procopio in Bell. Goth., I, 3; ma, nella Storia segreta, XVI, ne traccia un ritratto ben più fosco, dicendolo pronto al delitto e universalmente detestato. Intelligente, comunque, doveva esserlo: fu per 25 anni magister officiorum e si segnalò come scrittore erudito. Scrisse, fra l’altro, una storia dell’Impero Romano dal 43 a. C. al 363, e una dedicata al magisterium officiorum.
2) PROCOPIO, Bell. Goth., I, 4.
3) PROCOPIO, Storia segreta, XVI: "Teodora aveva affidato a Pietro un solo compito: far morire al più presto possibile quella donna [cioè Amalasunta]."
4) Avevano circa due anni di differenza. Amalasunta era nata verso il 498; Teodora, forse, nel 500. Dunque, a quell’epoca, la prima doveva avere 36 anni, la seconda 34.
5) P. BARGELLINI, Op. cit., p. 254.
6) PROCOPIO, Storia segreta, XVI.
7) "[Giustiniano] aveva raccomandato a Pietro di trattare separatamente con Amalasunta e con Teodato, in modo che l’unonon sapesse nulla di ciò che aveva deciso l’altro. Era la tattica consueta della diplomazia bizantina..": così J. DELONNE, La saggezza di Bisanzio, Ginevra, 1974, p. 117. Secondo R. CESSI (Op. cit., Venezia, 1957, vol. 1, pp. 350-51) il governo di Costantinopoli, sfruttando le contraddizioni interne del regno ostrogoto, ebbe quindi buon gioco nel perseguire l’obiettivo di una vera e propria "erosione" politico-territoriale dell’Italia. A. PERNICE, alla voce Giustiniano della Enc. Biografica Universale, Roma, 2007, vol. 8, p. 480, non fa alcun cenno alle presubte responsabilkità di G. nel delitto.
8) PROCOPIO, Bell. Vand., I, 24.
9) Teodato, "malgrado che affettasse passione per gli studi filosofici, manteneva intatta nell’animo la vecchia crudeltà barbarica, tanto che di lì a qualche tempo, accusandola di intrighi con la corte di Costantinopoli, relegò Amalasunta in un’isola del lago di Bolsena e ve la fece strangolare. Tanto bastò per dare a Giustiniano il pretesto per intervenire contro Teodato": G. SPINI, Disegno storico della civiltà, Roma, 1970, vol. 1, p. 64. Così anche A. BRANCATI-G.OLIVATI, Il mondo antico, Firenze, 1968, vol. II, p. 356. Tutti questi Autori, però, parlano erroneamente di un matrimonio fra Amalasunta e Teodato.
10) "Giustiniano, pur associando il nome della moglie al proprio nei rescritti e nelle leggi imperiali, seppe resistere alle sue pressioni nei confronti dei monofisiti, dei quali T. era fervente seguace e delle cui dottrine avrebbe voluto assicurare il trionfo, valendosi della propria autorità per promuoverne i fautori alle più alte dignità ecclesiastiche": così G. FASOLI, voce Teodora della Enc. Catt., vol. XI, col. 1925-26.
11) Cfr. C. DIHEL, La civiltà bizantina, Milano, 1962, p. 10.
12) A. H. M. JONES, Op. cit., vol. 1, p. 355.
13) "Defunctus est Athalaricus rex ravennae VI monas octobris": così AGN. RAV., Chronica, 62.
14) Cfr. A. H. M. JONES, Op. cit., vol. 1, p. 344.
15) "Perduximus ad sceptra virum fraterna nobis proximitate coniunctum, qui regiam dignitatem communi nobiscum consilii robore sustinerat": CASSIODORO, Var., X, 1 (lettera di Amalasunta a Giustiniano). V. anche J. DELAVIGNY, I regni romano-barbarici, Ginevra, 1974, p. 133.
16) Cfr. CASSIODORO, Var., X, 20, 21, 23.
17) PROCOPIO, Bell. Goth., I, 4.
18) Cfr. F. LAMENDOLA, La gelosia di Teodora dietro la morte di Amalasunta?, su Tuscia n. 42 (aprile 1988), Viterbo, pp. 12-13.
19) Cfr. P. VILLARI, Op. Cit., p. 176.
20) "Lui, però [Teodato] doveva impegnarsi coi giuramenti più sacri a che il regno passasse, di nome, a Teodato, ma il potere effettivo fosse esercitato da lei non meno di prima": così PROCOPIO, Bell. Goth., I, 4 Secondo J. Delonne, cit., il piano dell’associazione di Teodato al potere fu elaborato da Cassiodoro, che credette di rafforzare la posizione di Amalasunta mediante un compromesso col partito goto nazionalista. Che Cassiodoro non si aspettasse quel che Teodato avrebbe fatto, lo dimostra il fatto che proprio nel 535 si dedicò al tentativo di fondare una scuola superiore di studi religiosi in Roma (Instit., 3): cfr. J. M. PRELLEZO-R. LANFRANCHI, Educazione e pedagogia nei solchi della storia, Torino, 1995, p. 220.
21) Cfr. O. BERTOLINI, Op. cit., p.p. 37-38. G. Tabacco, in Storia d’Italia, 2005, vol. 1, pp. 36-37, insiste sulla coerenza del progetto politico di Cassiodoro, mirante alla concordia fra Goti e Romani sul modello teodericiano.
22) PROCOPIO, Bell. Goth., I, 4.
23) PROCOPIO, Storia segreta, XVI.
24) Cfr. AGN. RAV., Chron., 62.
25) Si trattava di un vero istituto dell’antico diritto germanico, basato sulla legge del taglione e che si estendeva a tutto il clan familiare.
26) PROCOPIO, Bell. Goth., I, 4.
27) Cfr. Atti degli Apostoli, XXVII, 9 sgg., ove è descitto il viaggio di S. Paolo dalla Palestina in Italia, via Malta (a causa di una tempesta).
28) Era stata costruita subito dopo la resa della Macedonia nel 148 a. C. per collegare velocemente l’Italia alla Grecia. Cfr. V. VON HAGEN, Le grandi strade di Roma nel mondo, Milano, 1978, pp. 132-35.
29) "Ubi parcissimos dies in tristitia degens, ab ejus [di Teodato] satellitibus in balneo est strangulata": JORDANES, Get., LIX.
30) AGN. RAV., Chron., 62.
31) "…a palatio Ravennate abstractam": JORDANES, Get., LIX. L’uso del verbo abstrahere attesta comunque chiaramente che fu un allontanamento forzato e improvviso.
32) PROCOPIO, Bell. Goth., I, 4.
33) "Tu arricchisti le innumeri schiere dei Goti con larga dotazione di fondi, quasi senza che se ne accorgessero i Romani": così ENNODIO, Epistulae, IX, 23.
34) Cfr. PROCOPIO, Bell. Goth., III, 36, 37, 39, 40.
35) BOEZIO, Cons. Phil., I, 4. Vi è una discreta probabilità che si tratti di quello stesso Opilione, patrizio padovano che fece erigere il sacello di San Prosdocimo presso l’odierna Chiesa di S. Giustina, e che vi è ricordato in un’iscrizione marmorea tuttora conservata. Anche l’epoca coincide, attribuendosi il sacello alla seconda metà del V sec.: cfr. G. SEMENZATO, Guida per Padova, Vicenza, 1972, pp. 94-95; G. LORENZONI, Medioevo padovano, in A. A. V.V., Padova, ritratto di una città, Vicenza, 1973, p.53; P. L. ZOVATTO, L’oratorio paleocristiano di Santa Giustina a Padova, in A. A. V. V., La basilica di Santa Giustina in Padova, Castelfranco Veneto, 1970, p. 17 sgg.
36) CASSIODORO, Var., 16, 17.
37) Idem, VIII, 21, 22.
38) Così PROCOPIO, Bell. Goth., I, 4. Non è vero, quindi, o perlomeno non risulta, che Amalasunta dal Lago di Bolsena abbia fatto pervenire a Giustiniano un’ultima, disperata richiesta di soccorso: cfr. P. SILVA, I secoli e le genti, Milano, 1947, vol. 2, p. 21.
39) Sia JORDANES (Get., LIX) che AGN. RAV. (Chron., 62) parlano del Lago di Bolsena, ma è PROCOPIO (Bell. Goth., I, 4) che consente di precisare la Martana (l’altra isola è la Bisentina). I ruderi del castelllo esistono tuttora, così come sopravvivono dei fantasiosi racconti popolari sugli ultimi giorni di Amalasunta.
40) L’esistenza di proprietà di Teodato nella Tuscia meridionale ha ricevuto una importante conferma archeologica nel 1927, col ritrovamento di una fistula aquaria in piombo, ossia di un frammento di conduttura, recante un’iscrizione col nome di Teodato. Cfr. M. S. ARENA TADDEI, Il museo dell’alto medioevo, Roma, 1981, p. 7.
41) Questi particolari sono riferiti da JORDANES, Get., LIX, e possono anche essere dei romantici abbellimenti. PROCOPIO (Bell. Goth., I, 4), pur così incline agli aneddoti romanzeschi, dice solo che fu uccisa sbrigativamente.
42) Ma è certamente esagerato supporre che la sorte di Amalasunta abbia destato gran rumore fra il popolo (e poi, quale? il goto o il latino?), come fa il Barbagallo, Op. cit., vol. 1, p. 66.
43) G. PEPE, Op. cit., p. 78, la colloca nel mese di giugno.
44) PROCOPIO, Bell. Goth., I, 24.
45) Cfr. O. BERTOLINI, Op. cit., pp. 36-37.
46) Non è molto chiaro cosa facesse allora Pietro (PROC., Bell. Goth., I, 4). Se, come pare, proseguì per Ravenna con la lettera di Giustiniano ad Amalasunta, sarebbe confermato il racconto della Storia segreta, e – con esso – la diretta responsabilità di Teodora e dello stesso Pietro nell’esecuzione del delitto.
47) "Quanto poi a quella persona, circa la quale ci giunse sussurrata qualche mezza parola, sappiate che è stato disposto secondo i vostri desideri. Infatti per la gratitudine che vi dobbiamo, è nostro desiderio che comandiate nel nostro regno non meno che nel vostro": CASSIODORO, Var., , X, 20.
48) Cfr. CASS., ibidem: "Ci esortate a sottoporre prima alla vostra attenzione ciò che riteniamo di dover sollecitare dal principe trionfatore" (tr. E. Bartolini, cit.).
49) Per il verbo "titillare", v. CASTIGLIONI-MARIOTTI, Vocabolario della lingua latina, Torino, 1986, nel significato di "titillare, solleticare, stuzzicare"; e N. ZINGARELLI, Vocabolario della lingua italiana, Bologna,, 1986, "solleticare in modo lieve". Cfr. anche E. GIBBON, Op. cit., vol. 4, p. 193 n.
50) PROCOPIO, Storia segreta, , XVI.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Biswajeet Mohanty from Pexels