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Siamo noi gli spettrali abitanti della Casa Usher

Quali folli ricerche conduce, nella sinistra dimora della vecchia strega Keziah Mason, l’allucinato studente Walter Gilman, in una Salem nebbiosa e decrepita, piena di ombre inquietanti che scendono rapide, al tramonto, giù dai tetti spioventi, popolata dai ricordi di un passato innominabile, percorsa da fremiti e presenze del’Altrove che spingono i pochi abitanti a rinserrarsi, col buio, nelle loro vecchie case, sprangando bene i portoni, parlando sottovoce e biascicando preghiere? Che cosa spinge Halpin Frayser, smarrito in un sonno senza ricordi in una buia foresta, in una notte popolata di riflessi sanguigni e di malvage presenze, a pronunciare in sogno un nome di donna – Catherine Larue – a lui perfettamente sconosciuto, evocando inconsapevolmente un fantasma crudele, il fantasma di sua madre, che lo strangolerà senza tradire la minima emozione? E quali pensieri, quali timori, quali angosce agitano l’animo turbato di Roderick Usher, nella casa cadente in riva alla sinistra palude, le cui pietre, consunte per l’eccessiva vecchiezza, minacciano di sbriciolarsi; quali incofessabili rimorsi lo torturano e perché ha avuto tanta fretta di far chiudere nella bara il corpo dell’adorata sorella, cui era legato da un affetto morboso; e che ora lo perseguitano implacabilmente nell’imminenza di un evento indicibile e terrorizzante?

Tre scrittori, appartenenti a tre diverse generazioni: Edgar Allan Poe (Bostoon 1809-Baltimora 1849); Ambrose Bierce (Meigs Country, Ohio, 1842-Messico 1914); Howard Phillips Lovecraft (Providence, Rhode Island, 1890-ivi, 1937): tutti anglo-americani e testimoni, l’uno dopo l’altro, dell’avvento sempre più invasivo delle tenebre della modernità. Al loro sguardo allucinato eppure minuziosamente analitico non è sfuggita la dimensione distruttiva, alienante, regressiva della modernità: dietro i successi della ragione strumentale e della tecnica lanciata alla conquista del mondo hanno intravisto lo sguardo pietrificante di Medusa, e ne sono rimasti agghiacciati. A tale visione spaventosa hanno reagito rifugiandosi in un mondo altro, ma sempre inseguiti dai fantasmi terrificanti di un Logos ciecamente quantitativo, di una hybris della ragione che si trasforma nel suo contrario, di uno scatenarsi irrefrenabile di forze devastanti messe in moto dalla stessa potenza tecnologica, ormai sfuggita di mano all’incauto apprendista stregone. Poe ha cercato l’evasione nelle droghe e nell’alcool; Bierce, nel tumulto di una rivoluzione che lo ha fisicamente fatto sparire; Lovecraft in una esistenza notturna e claustrofobica, dalla quale un tumore all’intestino lo ha liberato in pochi giorni di agonia.

Ci si chiederà perché la letteratura dell’inquietudine raggiunga l’acme con tre narratori statunitensi che sorpassano di molto i loro colleghi europei nell’evocazione del terrore puro; perché neanche i maggiori scrittori d’Europa, da Bram Stoker a Igino Ugo Tarchetti, da Guy de Maupassant a Franz Kafka abbiano saputo esprimere tali abissi di angosciosa disperazione, di nichilismo assoluto; se è vero – come è vero – che nel vecchio continente la modernità ha le proprie radici e se, fra Otto e Novecento, esso pareva ancora più avanto sulla strada della radicale distruzione dei vecchi modi di vivere e di pensare, della società patriarcale e pre-industriale. La ragione, a nostro avviso, sta non solo e non tanto nel fatto che negli Stati Uniti il processo è stato più tardivo e proprio per questo, in proporzione, più rapido e totalizzante, dunque più inesorabile nella propria demistificazione e nel desolato riconoscimento del deserto assoluto di ogni valore creato dall’avvento dell’homo tecnologicus: presa di coscienza cui corrisponde l’emblematico suicidio di Martin Eden, giunto al sommo della fama e del successo, nell’emblematico romanzo omonimo di Jack London. La ragione sta anche e soprattutto in quel crimine non detto e non dicibile, in quel senso di colpa stolidamente rimosso e mascherato dietro gli apparenti trionfi del guénoniano "regno della quantità", in quel silenzio assordante che percorre tutte le pagine della letteratura anglo-americana: lo sterminio del bisonte, lo sterminio dell’Indiano, la cancellazione totale non solo di una civiltà, ma di un mondo, di una natura, di una dimensione dell’essere. Un doppio crimine, a ben guardare: perché distruggendo quel mondo, desacralizzando la natura, contaminando le Colline Nere votate al Grande Spirito in nome della corsa all’oro, l’uomo bianco ha compiuto in quei luoghi anche la distruzione della parte migliore di se stesso: che continua a tormentarlo come un cadavere sepolto troppo in fretta, come l’amata-odiata sorella di Roderick Usher, ossessionandolo col suo fantasma senza pace.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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