
Jakob Burckhardt e “L’età di Costantino il Grande”
29 Giugno 2006
Elenco degli autori principali greci e latini
30 Giugno 2006"L’eccesso di storia ha aggredito la forza plastica della vita,
essa non riesce più a servirsi del passato come di un
sostanzioso nutrimento."
FRIEDRICH NIETZSCHE
Sull’utilità e il danno della storia per la vita.
Considerazioni inattuali, II (1874).
1. Storiografia e società: ancora sul concetto di "decadenza".
2. Idealismo, relativismo, solipsismo.
3. La storia e i giudizi morali.
4. Conclusioni.
1. STORIOGRAFIA E SOCIETA’: ANCORA SUL CONCETTO DI "DECADENZA".
Abbiamo considerato il concetto di "decadenza" sia relativamente ad alcuni campi della ricerca affini alla storiografia, sia alla vita di una società considerata come un tutto, e ci siamo posti il problema della sua legittimità in sede storiografica. Vogliamo adesso spostare la nostra attenzione dalla storia politica, economica, sociale e culturale alla storia stessa della storiografia, nella quale abbiamo riconosciuto già una importante manifestazione storica, e porci il problema della legittimità del concetto di "decadenza" rispetto ad essa.
"Decadenza della storiografia tardo-antica", "decadenza della storiografia medioevale", "decadenza della storiografia storicistica": sono queste espressioni nelle quali ci imbattiamo non di rado, ed è necessario considerare con qualche attenzione la questione della natura e dei limiti del concetto che le accomuna.
Anche a questo proposito vogliamo fare innanzitutto una considerazione di carattere generale, e cioè che l’impiego di questi termini e di questi concetti è caratteristico di due categgorie di studiosi: 1) i filosofi e gli storici d’indirizzo o di tendenza positivista, e 2) gli studiosi saldamente ancorati a "scuole" o "dottrine" particolari, che accusano di "decadenza" gl’indirizzi storiografici da esse divergenti.
Un caso tipico del primo gruppo è quello offerto dal filosofo e matematico Bertrand Russell. Appunto perché matematico, egli non concepisce la filosofia se non in termini di logica matematica e si può dire che mostri d’ignorare l’esistenza storica di un altro modo di concepire la filosofia, che conta nomi come quelli di Platone e Plotino, o, in tempi più recenti, Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, nonché tutto l’esistenzialismo; per non parlare di Socrate e di tutto il pensiero orientale; e che, di contro a quella "scientifica", ha sempre evidenziato una caratteristica a procedere oltre le categorie precise, ma ristrette, della logica formale e strumentale. Il punto di vista del Russell è che per ogni problema filosofico esista una ed una sola soluzione, una verità, e che il suo raggiungimento sia solo una questione di tempo e non di modi. La logica conclusione di tali premesse è una completa paralisi di giudizio in sede filosofica, davanti alla quale l’assenso o la riprovazione etica, estetica, epistemologica, ecc., hanno bisogno sempre e solo di una giustificazione logico-matematica; quasi che l’etica, l’estetica, ecc. fossero in definitiva riconducibili a un’impostazione logico-formale delle loro problematiche. Ma lasciamo parlare lo stesso Russell:
"Nessuna ragione scientifica può essere data per cui è male infierire sadicamente e crudelmente sul proprio prossimo. A me sembra che sia male, e immagino che questo punto di vista sia largamente condiviso.Ma non sono certo di poter indicare ragioni soddisfacenti per cui la crudeltà è cattiva. Sono problemi difficili, e risolverli richiede tempo." (B. Russell, La saggezza dell’Occidente, cit., vol. 2, p. 200).
Davvero? A noi sembra che tale genere di problemi, da un punto di vista filosofico ed etico, siano tutt’altro che difficili; ma ammettiamo, per absurdum, che lo siano; in tal caso la loro risoluzione sarebbe davvero questione di tempo? Sembra che ventisei secoli di storia della filosofia stiano a provare il contrario, e mostrino chiaramente come per qualsiasi ordine di problemi la soluzione o è un fatto intuitivo, che la ricerca può perfezionare, ma non far scaturire dal nulla; oppure come ogni società e ogni individuo siano liberi di fabbricarsi le risposte "temporanee" più adatte al fabbisogno del momento. A questo proposito vogliamo citare alcuni passaggi dello Spengler, non privi di una profonda verità:
"Ma porre problemi è un conto, credere nella soluzione di essi un altro.La pianta vive e non lo sa. L’animale vive e lo sa. L’uomo si stupisce del suo vivere e domanda. Ma alle varie quistioni nemmeno lui può dare una risposta. A lui è solo dato di credere nella giustezza della risposta e a tale riguardo non v’è differenza fra un Aristotele e l’ultimo dei selvagi.(…) La critica può dunque risolvere i grandi problemi o anche soltanto constatare la loro irrisolvibilità? Agli inizi del conoscere si crede di sì. Ma quanto più conosciamo, tanto più siamo sicuri del contrario. Finché speriamo, i misteri li chiamiamo problemi. (…) Non esistono verità eterne. Ogni filosofia è espessione del suo tempo, e solo del suo tempo; non vi sono due epoche che abbiano auto le stesse intenzioni filosofiche." (Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., vol. 2, pp. 669. 671, vol. 1, p. 73).
Ma, per tornare al nostro assunto iniziale, è chiaro che lo studioso che si ponga da un punto di vista come quello del Russell, non potrà che considerare i progressi umani in forma quantitativa, ed è quindi portato naturalmente a palrare di "epoche di decadenza" per quei periodi storici di una data civiltà in cui tali progressi si siano succeduti con un ritmo particolarmente lento. Nel campo della storiografia, tale modo di vedere farà parlare di "decadenza" o di "crisi" ove determinati indirizzi storiografici, rinunciando all’ambizione di servirsi di metodi analoghi a quelli delle scienze positive,cerchino mezzi d’indagine e di ricostruzione diversi, attingendo in larga misura alla tanto deprecata "compartecipazione emotiva".
L’altra categoia di studiosi che non si peritano di parlare di "decadenza" nella storiografia è rappresentata dai militanti intransigenti di una determinata fede politica, filosofica, religiosa, i quali non nutrono alcuna indulgenza per le opinioni diverse dalle proprie e scagliano i fulmini dell’anatema contro quei pensatori che sono, a loro giudizio, eterodossi. Abbiamo citato poc’anzi lo Spengler e, a questo proposito, vorremmo menzionare un tipico rappresentante di questa seconda categoria di studiosi, il Croce, che dello Spengler fu stroncatore spietato. A proposito del Tramonto dell’Occidente, egli nel 1920 drasticamente sentenziava:
"La fortuna toccata in Germania a questo libro che è vento in luce ai primi del 1918 — e nel 1919 era già alla 4a edizione — non può non impensierire gravemente coloro che hanno a cuore le sorti del lavoro scientifico. Sopraggiungendo dopo altri libri simili, se non nella tesi, nel metodo, sembra comprovare la decadenza — decadenza assai anteriore alla guerra — di alcune forze per le quali la Germania operò già beneficamente nella vita intellettuale moderna." (Benedetto Croce, in La critica, XVIII, 1920, pp. 236-39).
Questa e altre accuse, come quella di "dilettantismo", "ignoranza" e "inconsapevolezza", rivolte allo Spengler, sortirono il risultato di contribuire a ritardare la pubblicazione del Tramonto dell’Occidente in Italia fino al 1957: tipico esempio di quel "sultanismo" culturale (o sottoculturale?) esercitato nel nostro Paese da un cinquantennio di incontrastata e intollerante preponderanza della filosofia e della storiografia d’indirizzo neo-idealistico. Beninteso, l’esercizio del diritto di critica non è in discussione; e certo sono molti gli aspetti criticabili della filosofia della storia di Spengler. Pochi altri libri, crediamo, come il Tramonto dell’Occidente presentano una tale mescolanza d’intuizioni brillanti e talvolta geniali e di deduzioni arbitrarie e anche, purtroppo, rese spesso antipatiche da una rara presunzione e faciloneria argomentativa. Ma certe forme d’intolleranza mal si addicono al campo della cultura. Innanzitutto, l’accusa di "dilettantismo" è quasi sempre, nelle polemiche sulla storiografia, indice di palese malafede. Giustamente ha fatto notare lo Huizinga come
"l’esercizio della storia, passivo o attivo, è aperto a tutti; una speciale preparazione scientifica non è indispensabile. La storia tiene le porte spalancate al dilettante." (J. Huizinga,La scienza storica, cit., p. 26).
Non è dunque su questo terreno che vanno portate le critiche a una determinata concezione della storia, a meno che si concepisca la funzione dell’intellettuale come la gelosa sorveglianza di una personale riserva di caccia, ove gli altri studiosi sono guardati alla stregua di potenziali bracconieri, la cui spiacevole "concorrenza" dev’essere neutralizzata nell’unico modo possibile: demolendone la credibilità professionale col ricorso all’autorità: in questo caso, a un codice metodologico che non sarebbe stato da essi rispettato. Quanto allo Spengler, che abbiamo chiamato in causa, la nostra opinione è che i santoni dell’idealismo crociano avrebbero potuto accordare maggiore fiducia alle capacità critiche del pubblico italiano, invece di prodigarsi in scomuniche irrevocabili affinché l’opera "eretica" non portasse da oltr’Alpe una pericolosa infezione.
Altri casi potremmo citare a proposito dell’uso, o dell’abuso, del concetto di "decadenza" applicato da una certa storiografia a correnti di pensiero di diverso orientamento filosofico. Valga per tutti il caso di un crociano illustre e indipendente, Carlo Antoni, che affrontando un proflo dello storicismo tedesco da Dilthey a Wölfflin, affermava:
"Il processo che vi è esaminato [nello studio in questione] è quello del trapasso o caduta del pensiero tedesco dai problemi posti dallo storicismo nel sociologismo ‘tipologico’." ( C. Antoni, Dallo storicismo alla sociologia, cit., p. VII).
Il fatto che uno studioso di valore non abbia avvertito come soltanto l’immediata curvatura polemica della propria concezione filosofica lo inducesse a tratteggiare come un patetico errore l’opera imponente di sei fra i massimi storici del nostro tempo (e cioè Dilthey, Troeltsch, Meinecke, Max Weber, Huizinga e Wölfflin), è un indice significativo di quanto possa fuorviare l’adesione a un sistema di pensiero quando scivola verso una miope ortodossia dottrinale, incapace di sollevarsi al di sopra della mischia.
E qui emerge chiaramente il valore di un moderato ed equilibrato scetticismo nel campo storiografico, così come in quello filosofico. Ogni studioso dovrebbe sempre aver presente il caso dell’imperatore Marco Aurelio, il grande amante della pace che dovette spendere undici anni dei suoi diciannove di principato combattendo i barbari sul Danubio per salvare l’Impero Romano, e al quale le proprie vittorie e le vane pompe del potere facevano l’impressione di una zuffa di cani intorno a un osso:
"Il ragno si fa bello perché ha preso una mosca, qualcun perchè ha preso una lepre; un altro, una sardella con la rete adatta; un altro, un cinghiale; un altro, un orso, un altro, dei Sàrmati. Non si tratta pur sempre d’assassini, se fai attenta indagine su quello che ne muove il pensiero?" (Marco Aurelio Antonino, Ricordi, X, 10; Milano, 1975, p. 171).
Una testimonianza impressionante dell’intimo dramma di questo imperatore-filosofo, costretto a sostenere il pesante fardello di lunghe guerre, atrocità e distruzioni, è offerto dal suo ritratto, scolpito fra le altre scene della Colonna Antonina a Roma. Esso ci mostra
"il volto profondamente segnato dall’angoscia, dalla fatica e dall’età, dell’imperatore Marco, allora sui 54 anni: non certo il volto di un trionfatore esaltato dalle vittorie, ma quello che doveva essere nella quotidiana verità dell’adempimento del suo ingrato dovere, di quest’uomo ‘alienissimo dalle usanze dei ricchi’ (Mem., I, 3), vero e dolente santo laico." (Ranuccio Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana nel centro del potere, Milano, 1978, p. 326).
Se gli studiosi apprendessero a esercitare nei confronti delle proprie opinioni un simile distacco, finalmente smetterebbero di considerarsi i soli depositari della rivelazione e sarebbero più cauti nel censurare quelle degli altri.
Si badi, non stiamo facendo del vieto moralismo. Come giudicare, ad esempio, il fatto che a oltre sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, non sia stato ancora possibile affrontare, in sede storiografica, con un minimo di serenità una valutazione complessiva del fenomeno "fascismo"? Al punto che non esiste ancora neppure un accordo di massima, fra gli studiosi, se si debba parlare di uno o più "fascismi"; se si sia trattato di una rivoluzione, una reazione o una contro-rivoluzione; se abbia fatto leva sulle classi medie in crisi o su quelle in ascesa; se abbia portato all’estremo linee di tendenza già presenti nella società tardo-ottocentesca, o se abbia "creato" qualcosa di sostanzialmente nuovo; se si sia trattato di una reazione contro la modernità (la "rivolta dei perdenti"), o di un balzo in avanti della modernità stessa; se sia stato un ritorno all’utopia ruralista o una scorciatoia verso l’industrializzazione accelerata; se abbia voluto recuperare e difendere strenuamente valori tradizionali, o elaborarne dei nuovi; se abbia inteso integrare le masse nello stato o semplicemente reprimerle; se sia nato come reazione "difensiva" davanti alla doppia minaccia del capitalismo finanziario e del bolscevismo, o come preparazione consapevole di un assalto al potere mondiale; se in esso abbia prevalso l’esaltazione dello stato o del "sangue"(volk); se il razzismo ne sia stato un elemento costitutivo o un esito accidentale; se si sia trattato di cesarismo oppure di populismo; se la figura del capo carismatico gli sia stata consustanziale, o tutto sommato retorica e di facciata; se, per concludere (si fa per dire) abbia tentato di elaborare coscientemente una terza via tra capitalismo e comunismo, o sia stato, e fin dall’inizio, poco più che un semplice strumento nelle mani della reazione padronale anti-operaia. Ma rispondere, o tentar di rispondere, a tutte queste domande implicherebbe, innanzitutto, una distinzione metodologica tra fascismo come movimento, come regime e (se ne ebbe una) come ideologia; tra fascismo "rivoluzionario" delle origini e fascismo del compromesso coi "poteri forti" costituiti; fra fascismo di sinistra, di centro e di destra: tutte cose che richiederebbero, appunto, un minimo di serenità critica e di distacco emotivo.
Ma la storia, è sempre la storia del vincitore: il che significa che, anche sessant’ani dopo la fine di una guerra, la parte sconfitta non è ancora meritevole di una equanime valutazione storiografica; e che gli storici che vi si arrischiano, vengono bollati ipso facto alla stregua di nostalgici, più o meno camuffati, di quella parte. Il che non è affatto necessario. (Ma su tutta la questione, vedi l’esemplare monografia di Marco Tarchi Fascismo. Teorie, interpretazioni e modelli, Roma-Bari, 2003).
Dopo questa necessaria premessa, passiamo a considerare l’applicazione concreta del concetto di "decadenza" relativamente a determinati periodi o indirizzi della storiografia. È lecito l’uso di tale concetto? Esistono delle circostanze sufficientemente oggettive per la sua applicazione? Dobbiamo necessariamente rifarci a quanto già detto sul concetto di "decadenza". Lo abbiamo sostanzialmente negato a proposito della storia dell’arte, perché le manifestazioni estetiche di una data società non esprimono mai, a rigore, soltanto una decadenza, ma sempre un contenuto spirituale che può, tutt’al più, attraversare periodi di incertezza formale nel momento critico del cambiamento del gusto e del trapasso da un codice formale a un altro. Lo abbiamo in gran parte respinto anche a proposito della storia letteraria, essendo valide, in larga misura, le medesime considerazioni; con la sola differenza che la letteratura è legata a codici formali maggiormente "rigidi" di quelli delle arti plastiche e figurative, come il caso-limite della distruzione grammaticale operato dal futurismo ci sembra dimostrare. (Si obietterà che anche la pittura, da Kandinskij in poi, ha operato una progressiva distruzione della forma naturalistica; è vero: ma le arti figurative possono elaborare altri codici; la letteratura, giunta a una certa soglia, non può che ritornare sui propri passi, dato che la parola è un significante ma anche un significato e non può sostituire sé stessa con qualcos’altro).
Ma, giunti a considerare la storia della cultura come un tutto, abbiamo dovuto riconoscere che, rispetto ad essa, il concetto di "decadenza" non poteva dirsi arbitrario. Le forme dell’espressione artistica e, in parte, di quella poetica e letteraria possono mantenersi vive e vigorose anche in un periodo storico di generale decadenza della cultura, come dimostra il caso dell’Impero Romano alle soglie del V secolo. Le scienze, il diritto, la filosofia e la diffusione del sapere e dello spirito di ricerca possono indubbiamente subire — e hanno subìto nel corso della storia — periodi di pausa, di torpore, di stanchezza.
Riprendendo l’esempio della tarda antichità, mentre la pittura e la scultura subivano una trasformazione che sarebbe sfociata nel nuovo linguaggio figurativo medioevale; e mentre Ausonio, Claudiano e Rutilio Namaziano tenevano ancor alto il nome della letteratura latina, la filosofia greca subìva un colpo fatale dall’imposizione dell’ortodossia cattolica e dalla chiusura, da parte di Giustiniano, della scuola di Atene, che l’avrebbero condotta all’estinzione; le scienze venivano abbandonate, e così la tecnica, l’ingegneria, le arti meccaniche; l’antico diritto romano decadeva e la stessa lingua latina subìva quel processo di trasformazione che avrebbe portato, attraverso la sua scomparsa (a livello parlato) alla nascita delle lingue romanze.
È stato detto giustamente che la nuova esigenza fondamentale dell’uomo tardo-antico era essenzialmente mistica, e che l’abbandono della mentalità scientifica negli studi e nella vita pratica non era che la conseguenza dei nuovi orientamenti della sensibilità. Lo stesso potrebbe dirsi, crediamo, per ogni epoca di trapasso e di radicali mutamenti — come lo è, del resto, quella attuale: resta il fatto che le scienze positive, e non esse soltanto, ma tutte le manifestazioni del Logos astratto e calcolante, sono soggette a periodi di arresto o di "decadenza". Un esame approfondito del perchè ciò accada ci mostrerebbe, pensiamo, che le ragioni profonde di esso hanno a che fare con la "primarietà" dello spirito estetico-creativo (l’emisfero destro del cervello) rispetto alle esigenze del pensiero logico-razionale (l’emisfero sinistro); e che quindi le prime sono più dure a morire, anzi, per dir meglio, potenzialmente insopprimibili. Le pitture rupestri dei cosiddetti "uomini primitivi" (ma lo erano poi veramente?) testimoniano una meravigliosa sensibilità estetica, e questo in un’epoca in cui il loro livello di civiltà era, secondo i nostri parametri, estremamente basso (ma non sempre né ovunque: lo provano le migliaia di edifici megalitici costruiti con prodigiosa perizia e allineati con dati astronomici sofisticati).
"Gli uomini – scriveva il buon vecchio Giambattista Vico — prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura". ( G. Vico, La scienza nuova, II, LIII; ed. Milano, 1977, p. 199).
A questo punto si tratta di vedere se la storiografia sia da considerarsi un’arte, o piuttosto una scienza; nel primo caso essa dovrebbe respingere il concetto di "decadenza" per qualunque sua fase storica; nel secondo, dovrebbe invece accettarne l’uso. Ma la natura della storiografia respinge un simile aut-aut. Da tutto quanto abbiamo fin qui esposto circa le nostre opinioni sulla natura della storiografia, dovrebbe risultare chiaramente che essa non ci sembra essere né un’arte, né una scienza. Non è un’arte, perché l’arte è libera effusione del sentimento. Il genere artstico più prossimo alla storia è il romanzo storico; ma la distanza che separa quest’ultimo dalla storiografia è assai più grande di quella che lo separa dalle altre arti – dall’opera lirica, per esempio, o dal teatro.
D’altra parte la storia non è neanche una scienza, poiché non è che un cavillo obiettare che nemmeno le scienze fisiche e naturali, oggi, ardiscono più parlare di "leggi"; e così pure affermare, come fa lo Huizinga, che "la storia deve esssere considerata una scienza inesatta per eccellenza" (cfr. J. Huizinga, la scienza storica, cit., p. 56) ci sembra poco più che un gioco di parole. Checché se ne dica, il concetto di scienza resta indissolubilmente legato a quello di una conoscenza più che probabile – epistéme e non doxa, se vogliamo adoperare la terminologia dei filosofi greci – ; se non sempre del tutto certa, almeno assai vicina all’oggettività. Ciò che non può dirsi per la storiografia, in seno alla quale – come è noto – studiosi moderni continuano ad accettare, e anzi e guardare con ammirato rispetto, opere di autori che certo non concepivano la loro disciplina in senso scientifico, ma desideravano semmai fare, oltre che ricerca sul passato, della buona letteratura. Tale il caso di opere "classiche", da Erodoto a Gregorovius, le quali non verrebbero mai utilizzate da uno studente universitario per preparare un esame di storia greca o medievale (semmai sulla concezione dei loro autori). Eppure Erodoto o Gregorovius figurano a tutt’oggi fra i grandi nomi della storiografia, di cui la civiltà europea può andare orgogliosa; ed è giusto che sia così.
Comunque, a voler ricavare la lezione più conseguente da un simile stato di cose – tutt’altro che logico dal punto di vista della moderna storiografia "scientifica" – si deve concludere che anche i sostenitori di un metodo scientificamente rigoroso dovrebbero prender atto della vera natura della storiografia, che è sempre ricostruzione soggettiva e spesso, a distanza di tempo, si rivela assai poco attendibile. Uno dei maggiori storici sovietici di Roma antica, il Kovaliov, studiava le guerre civili della tarda Repubblica citando questo o quel discorso di Stalin al tale o tal’altro Congresso del Partito Comunista Sovietico: una prassi comune fra gli studiosi di quel paese e di quella generazione, ma che oggi fa venire i capelli ritti agli storici della nostra generazione.
Che cosa è dunque la storiografia, se non possiamo definirla né scienza, né arte? Non affronteremo in queata sede il problema di una rigorosa definizione, anche perché crediamo poco alle definizioni, e ancor meno a quelle con pretese di rigorosità. Ci limiteremo qui a sostenere che essa, pur non essendo arte né scienza, partecipa tuttavia delle forme metodologiche dell’una e dell’altra. Una storiografia che si sforzasse di sopprimere completamente l’intuizione, il sentimento, la capacità evocativa dello storico andrebbe incontro a un pedantesco fallimento e – come abbiamo già avuto modo di accennare – potrebbe tutt’al più aspirare alla qualifica di erudizione antiquaria. D’altra parte, una storiografia che al sentimento e alla fantasia dello studioso si abbandonasse interamente, trascurando sia la ricerca, sia l’imparzialità nell’uso delle fonti, sfocerebbe direttamente nel romanzo e nulla più. Il romanzo storico, lo ripetiamo, è una degnissima forma di letteratura: ma è necessario fissare dei limiti ragionevoli tra arbitrio letterario e scrupolosità storica. Confini sempre vaghi e niente affatto categorici, come taluno mostra di pensare; ma confini sulla cui esistenza e necessità non è lecito avanzare dei dubbi.
Posta in tali termini la questione, il lettore avrà forse già intuito la nostra opinione circa il concetto di "decadenza" applicato alla storiografia. Dal punto di vista dell’oggettività scientifica, o meglio dell’aspirazione a un ragionevole grado di oggettività, è innegabile che in taluni periodi storici così come in talune correnti di pensiero sia legittimo parlare di "decadenza della storiografia".
Dal punto di vista della dimensione artistica inerente alla storiografia, del calore di vita e della capacità evocativa che pervadono un’opera storica, il concetto di "decadenza" non appare giustificato. È noto infatti come la forza dell’immaginazione e una ricca sensibilità possano contribuire a creare dei capolavori storiografici, a dispetto di una metodologia approssimativa e di una chiarezza concettuale inadeguata. Ciò avviene anche in altre forma espressive. De Sanctis, per esempio, definiva Dante "divino ignorante" perché la sua poesia raggiunse vette ineffabili a dispetto di una pesante tradizione scolastica ed erudita di cui egli si professava campione e in cui mostrava di riporre il proprio maggior vanto. Potremmo fare molti esempi anche nel campo della storiografia. A dispetto dei suoi intendimenti extra-storici e moralistici, Plutarco di Cheronea ci ha lasciato, nelle Vite parallele, un’opera di valore non inferiore a quella di uno storico che si autodefiniva rigorosamente "prammatico", Polibio di Megalopoli. Nella tarda antichità, Procopio di Cesarea, benché fosse in effetti un pallido epigono della storiografia classica e si sfozasse – senza molta abilità – di imitare lo stile di Tucidide, è passato giustamente alla storia come il maggior storico del VI secolo e l’ultimo della grande tradizione classica. Niccolò Machiavelli, autore di una alquanto romanzata Vita di Castruccio Castracani, e nelle cui Istorie fiorentine errori di fatto e di giudizio possono contarsi letteralmentea decine, tuttavia con la forza eccezionale del suo pensiero si è librato come aquila al di sopra di tanti suoi più diligenti contemporanei. Possiamo infine osservare che una concezione alquanto opinabile della civiltà bizantina – intesa come prosecuzione ininterrotta della "decadenza" tardo-romana, non ha impedito a Montesquieu e a Gibbon di segnalarsi come due fra i massimi cultori di storia in un’età tutt’altro che incolta.
Resta il fatto che, per quella componente della storiografia che tende al rigore del metodo scientifico, non è inappropriato parlare di "decadenza" a proposito delle età in cui l’interesse per le scienze e soprattutto la diffusione della mentalità scientifica vengono meno a causa di rivolgimenti politici, economici e sociali. È legittimo parlare, ad esempio, di "decadenza della storiografia altomedievale", quando le maggiori opere del tempo – quelle di Jordanes e Paolo Diacono, Gregorio di Tours e Fredegario, si segnalano per la più completa indifferenza nei riguardi dell’ordine cronologico, della connessione causale, dell’ordine espositivo (non parliamo poi dell’uso delle fonti), e, in definitiva, della stessa logica e del buon senso. D’altra parte, proprio la considerazione dell’ambivalenza della natura della storiografia, che non è arte né scienza, ma partecipa dell’unae dell’altra, dovrebbe consigliare una maggior prudenza nell’uso, o nell’abuso, del concetto di "decadenza".
- [IDEALISMO, RELATIVISMO, SOLIPSISMO.**
La storiografia è profondamente legata alla vita, e questo è un aspetto che l’avvicina all’espressione artistica più che alle scienze. A partire dall’abbandono della concezione tolemaica dell’universo, e sempre più quanto maggiormente ci si avvicina ai nostri giorni, le scienze fisiche e naturali rispondono a una concezione unitaria di fondo, per la quale tutti gli scienziati (pur conservando, a livello personale, visioni del mondo anche diversissime tra loro), nutrono la coscienza di una unità di metodi e di fini, che li fa sentire pur sempre come appartenenti a una medesima categoria di studiosi. Non così gli storici, i quali – come abbiamo visto – divergono gli uni dagli altri non solo nei metodi e nelle prospettive, ma nella concezione della natura stessa della loro disciplina, e tra i quali è osservabile la gamma di filosofie più vasta che si possa immaginare, dal materialismo più meccanicistico al solipsismo più spinto. Tuttavia c’è pur sempore un legame con le scienze fisiche e naturali, che continua a tenere separata la storiografia dalle altre forme di espressione pura dell’arte, ed è appunto la necessità di una concezione cosciente del mondo da parte del singolo storico (cosa non necessariamente richiesta a un artista), senza la quale non sarebbe possibile neanche pensare di accingersi a una ricostruzione del passato.
È vero. Allo storico è concessa una libertà illimitata di posizioni filosofiche da cui partire nel proprio lavoro di ricerca, libertà che non è concessa in eguale misura allo scienziato (specialmente se ci tiene a non venire espluso dall’aureo tempio della scienza accademica e "ufficiale"). Sia lo studioso che si accinge a ricostruire il passato, considerandolo nulla più che un insieme di percezioni illusorie della mente, sia quello che attribuisce un’assoluta preponderanza ai fattori materiali, possono pur sempre definirsi membri di una stessa categoria, quella degli storici. Nulla di simile nel mondo scientifico, sarebbe quasi – volendo fare un paragone provocatorio – come se in astronomia potessero lavorare fianco a fianco sia i sostenitori dell’eliocentrismo che quelli del geocentrismo; o come se, nella geologia, "plutonisti" e "nettunisti" potessero coesistere come ai tempoi di Hutton e Lyell. Ciascuno scienziato è liberissimo di professare una propria filosofia e di trarre le conclusioni esistenziali più disparate dai risultati delle proprie ricerche, tuttavia ha la consapevolezza di metodi e obiettivi comuni, universalemente accettati dai suoi colleghi (o da quasi tutti).
Tuttavia, proprio la libertà di metodi e di prospettive consentita allo storico è, paradossalmente, ciò che accosta il suo lavoro a quello dello scienziato, e scava un profondo fossato tra il suo e quello dell’artista. Quest’ultimo, infatti, non solo è libero di professare l’ideologia o la Weltanschauung che ritiene veritiera; non solo è liberoi di svolgere il proprio lavoro secondo gl’impulsi di tale ideologia o concezione del mondo; ma, per meglio dire, è soprattutto libero di non averne alcuna, e di esprimere il proprio mondo interiore in modo del tutto indipendente da qualsiasi forma prestabilita di pensiero. Nell’arte, è l’elemento assolutamente individuale che dà il proprio carattere all’opera e vi imprime il sigillo dell’autenticità; è esso che rende unica la forma espressiva di cui si serve l’autore, attraverso un uso assolutamente personale di mezzi e procedimenti che, tecnicamente, sono alla portata pressochè di chiunque. L’artista vero emerge e si impone anche all’interno di un codice espressivo rigidamente codificato, oppure abusato e stereotipato; magari a distanza di anni, s’impone ed emerge a dispetto di tutte le ideologie e di tutte le filosofie precostituite (di cui la cosiddetta critica s’incarica sovente del tristo compito di essere, per così dire, il volonteroso gendarme).
Noi non crediamo che sarebbe possibile fare – come sostenne, con voluto paradosso, il Wölfflin – una "storia dell’arte senza nomi": scuole e correnti non ci danno che un quadro esteriore del gusto di un’età o di una cultura. Ma l’artista autentico, muovendosi entro di esse oppure contestandole e combattendole, si eleva sempre al di sopra dei suoi stessi presupposti e procede impetuosamente al di là di ogni ortodossia formale e di ogni canonizzazione estetica. Proprio perché in lui è la voce potente di una individualità che parla; proprio perché la sua arte consiste nella sua soggettività inconfondibile, egli è slegato da ogni predefinita concezione del mondo e, per quanto egli (come del resto ogni essere umano) ne abbia comunque una, nelle sue creazioni non è tanto essa che viene alla luce, quanto un trasporto sentimentale che oltrepassa ogni eventuale intenzionalità ideologica o filosofica.
Si considerino, in proposito, gli affreschi a soggetto storico del pittore messicano Diego Rivera. Loro scopo è una celebrazione ideologica, loro mezzo espressivo una sensibilità che vuole apparire prorompente e immediata, non filtrata attraverso la riflessione di una coscienza, ma ancor viva e palpitante nella scomposta turbinosità del sentimento. Ma subito dopo un’altra impressione ci afferra: ciò che la coscienza personale dell’autore non ha filtrato, è stato però filtrato intenzionalmente e freddamente attraverso una vivissima coscienza politica, che si è servita dell’apparente tumulto dell’animo per esprimere, con forza studiata, una celebrazione ideologica, una commemorazione politica (la lotta del popolo indigeno e delle classi sfruttate contro i conquistadores prima, contro i latifondisti e i capitalisti poi). E in effetti, in quegli affreschi non è l’animo individuale che ci parla, quello dell’artista, non un sentimento immediato e sincero, ma una fredda apoteosi politica. Tutto ciò è molto umano e molto rispettabile: ma può definirsi arte? (Rispettabile come uomo, forse Rivera lo era un po’ meno, dato il suo coinvolgimento in uno dei più odiosi crimini staliniani: l’assassinio di Trotzkij. "Diego Rivera – scrive lo storico inglese Nicholas Mosley – il quale era stato l’alleato di Trotzkij e si era adoperato perché fosse ospitato in Messico, sbandierava ora ai quattro venti di averlo fatto soltanto per adescarlo e permettere quindi la sua morte." ( N. Mosley, L’assassinio di Trockij, Milano, 1975, p. 59).
Ben diversa è la personalità di Francisco Goya, che – anche quando affronta temi di drammatica, immediata valenza politica (come ne Le fucilazioni del 3 maggio 1808, che pure richiamano superficialmente, dal punto di vista formale, gli affreschi del Rivera) non permette mai che la volontà di denuncia gli prenda la mano. Qui il tumulto dei sentimenti è mediato e universalizzato da una profonda sensibilità umana, e la dimensione individuale non si lascia soffocare da schemi ideologici invasivi e precostituiti. In Goya noi sentiamo tutto il dramma intimo dei fucilati madrileni del 3 maggio; in Rivera vediamo la tragedia degli indios e dei peones messicani, ne siamo anche impressionati, ma non commossi, perché la sentiamo lontana nello spazio e nel tempo, come non fosse nostra.
Abbiamo citato il caso di Diego Rivera per porre in evidenza come una coscienza filosofica o ideologica, che nell’atto dell’espressione artistica non sappia obliare anche sé stessa e andare oltre i propri schemi razionali, per cogliere il fatto umano in quanto tale, nuoccia irrimediabilmente alla sincerità e alla universalità dell’opera d’arte. Orbene, proprio all’opposto è il caso dello storico. Egli non può accingersi al proprio lavoro senza una qualsiasi concezione del mondo, che sia anche (a differenza di quella dell’uomo comune) cosciente e sufficientemente elaborata. Con ciò non si vuol dire affatto che egli dev’essere schiavo delle scuole o delle ideologie: ben al contrario; ma che, pur avendo una sua personale filosofia, che magari divergerà da quelle di tutti i suoi colleghi, egli non potrà evitare di filtrare attraverso di essa lo studio del passato; e non di un passato generico, ma di quel passato che avrà scelto di considerare e di ricostruire.
Si obietterà subito, e con qualche ragione, che la storia non deve, non dovrebbe essere ricondotta a forza entro la concezione personale dell’autore: ma è veramente realistica una siffatta ambizione? Così come uno storico non può non avere una propria concezione del mondo, allo stesso modo è umanamente assai difficile, per non dire impossibile, che egli non finisca per "modellare" il passato attraverso le lenti che essa gli fornisce, e cerchi di farlo rientrare più agevolmente , in tal modo, nel proprio schema. In teoria, ciò è deprecabile; e ogni storico serio, nella pratica, dovrebbe sforzarsi di evitare gli eccessi che comporta, aiutato magari da una qualche dose di scetticismo, che lo aiuti a "sdrammatizzare" un poco le sue stesse, rigide convinzioni. Ma la realtà è che ogni concezione del mondo crea di necessità una prospettiva "obbligata" entro la quale uomini e fatti sembrano rientrare non per moto proprio, ma per confermare la giustezza della visione da cui lo storico muove. È una caratteristica piuttosto deprecabile, ma alquanto comprensibile della natura umana quella di tendere sempre, anche negli intelletti più vigili e attenti, verso una "sicurezza" ideologica che è, in effetti, la maschera della pigrizia intellettuale e che cerca di evitare alla mente la fatica estenuante di un continuo riesame delle verità già conquistate. Per riuscirvi, è necessario alterare e deformare sistematicamente tutti i fatti e le circostanze che, nel nostro schema precostituito, hanno la scortesia di non voler entrare, e ridurre così anche gli elementi più ribelli e disturbatori entro la norma rassicurante di una data ideologia o filosofia. In un certo senso è perfino un bene che sia così, in quanto lo spirito, se non esercitasse un siffatto genere di violenza sugli enti della storia per conquistare una propria tranquillità interiore, non potrebbe protendersi verso nuovi problemi, ma sempre dovrebbe logorarsi e consumarsi in una nuova fatica di Sisifo per riconquistare ciò che era stato già acquisito e superato.
Comunque, la conseguenza innegabile di questa tendenza verso il conformismo mentale, ossia verso una ideologia che pieghi anche a forza, se necessario, gli elementi che mostrano di opporre resistenza, è per l’appunto, in campo storiografico, la collocazione parziale, e talvolta forzata, di tutta la realtà entro gli schemi ideologici del singolo storico. Questi si trova dunque eternamente costretto in una condizione di contradittorietà: da un lato non può iniziare la ricostruzione del passato sprovvisto di una propria concezione del mondo, dall’altro non può poi, in pratica, evitare che tale concezione diventi da mezzo o strumemnto, il fine stesso della ricerca, e che i fatti si riducano a "dimostrazioni" o "conferme", più o meno passive, della validità di tale ideologia.
Lo ripetiamo: qualcuno griderà allo scandalo. Ma si prenda in mano un qualsiasi libro di storia, e si rifletta: è veramente sfuggito esso a una tale inevitabile necessità? Lo storico è pur sempre un essere umano e, non disponendo di strumenti di lavoro "scientifici" se non piuttosto rudimentali (almeno paragonati a quelli del fisico o del chimico), è costretto a "vedere" la storia non attraverso le lenti oggettive e impersonali di un meccanismo, ma attraverso le sue lenti; la storia che egli studia diventa, in definitiva, la sua storia; le conclusioni alle quali approda, non sono che le sue conclusioni. Egli crede di studiare dei fatti, mentre studia semplicemente le sue opinioni intorno a dei fatti che, in sé stessi, risultano elusivi, inafferrabili. Per questo dicevamo a suo tempo che il principale interesse di un’opera storica non consiste tanto nella veridicità (impossibile da accertare) del passato che essa ricostruisce, ma nel processo mentale compiuto dal suo autore e nella sua personale maniera di interpretare una realtà che mai giungeremo a conoscere con certezza nella sua intima essenza.
Uno storico può vedere nella figura del generale Charles George Gordon assediato a Khartoum il prototipo dell’idealista e quasi del filantropo, dell’animo generoso che affronta il proprio destino con coraggio, mentre tutti lo abbandonano; un altro può scorgervi il campione dell’imperialismo colonialista o quanto meno un suo strumento, e nel Mahdi un eroe popolare divorato dall’amore per la dignità e libertà del suo popolo. Potremo dissentire dalle opinioni dell’uno e dell’altro, ma non li chiameremo entrambi "storici", e non diremo legittimi (anche se magari non condivisibili) entrambi i punti di vista? Questo, al contrario, non potrà mai accadere nelle scienze esatte: se due teorie su un medesimo fenomeno si contrappongono, una dovrà per forza essere vera, e l’altra falsa (tranne in rari casi come quello della natura della luce, ove la teoria corpuscolare di Newton e quella ondulatoria di Huygens si sono dimostrate parzialmente vere entrambe).
Al tempo stesso, non si potrà mancare di rilevare alcuni fatti: 1) noi non sapremo mai veramente (cioè con assoluta certezza) chi fu il generale Gordon; 2) le tesi opposte sul suo carattere, sui suoi ideali, sul significato storico delle sue imprese possono essere egualmente accettabili, purchè seriamente documentate; 3) ma, per il fatto stesso che che possono essere ugualmente accettabili, il loro valore oggettivo è ben scarso, per non dire nullo. La storia è forse la sola forma di conoscenza che avanzi pretese di oggettività e per la quale, tuttavia, sia possibile affermare tutta una serie di proposizioni, e anche quelle ad esse diametralmente opposte.
Già lo abbiamo detto. La storiografia è legata alla vita. Ancor oggi, al monumento del generale Gordon montato sul dromedario, a Khartoum, sembra contrapporsi polemicamente il mausoleo di Mohammed Ahmed, detto il Mahdi (ossia il ben guidato, personaggio messianico politico-religioso), ad Omdurman. A Khartoum Gordon trovà la morte (26 gennaio 1885), al termine di un assedio durato quasi un anno da parte dei Mahdisti; a Omdurman, sulla riva opposta del Nilo (la sinistra) pose il suo quartier generale Mohammed Ahmed, detto il Mahdi, e lì, il 2 settembre 1898, il sirdar Horatio Herbert Kitchener vi sconfisse in maniera definitiva il nuovo Mahdi, Abdullah el Taisha (dopo di che fece disseppellire i resti di Mohammed Ahmed e ne fece spedire a Londra, dalla regina Vittoria, la testa mozzata). Da che parte sta la verità storica? A noi parrebbe più giusto domandare: ma esiste dunque una verità? Non lo crediamo. I fatti, già lo sappiamo, parlano solo se interrogati: e siamo noi a rispondere al loro posto. Non è che un vuoto cerimoniale moralistico quello di biasimare la parzialità e la soggettività dei singoli storici; ciò può avvenire solo perché da molti non si è voluta comprendere la reale natura della storia, che non è e non potrà mai essere verità certa e oggettiva.
"I fatti, dateci soltanto i fatti", esortava il Ranke nel XIX secolo. Ma quali fatti? Quelli che ciascuno vuole intendere a suo modo, naturalmente. Dovremo perciò gettare la storia nel cestino della carta straccia, delusi per non avervi trovato altro che ipotesi e supposizioni, là dove avevamo creduto di trovare verità immutabili e definitive? La colpa della delusione è tutta nostra: la storia non si era mai sognata di farci simili promesse. E come avrebbe potuto, quando un qualsiasi fatto a noi vicino nel tempo e nello spazio, semplice e da tutti comodamente osservabile, produrrà tante "impressioni di verità", ossia tante interpretazioni, quanti sono gli astanti? Si dirà: eco del relativismo. Certo, del relativismo, ma quale persona di buon senso, davanti al problema della conoscenza, non parte armata di una certa dose di relativismo, rimedio alla malattia infantile dell’estremismo?
Faremo un solo esempio in proposito: il più banale. Sulla grondaia del tetto della casa di fronte sono posati alcuni passerotti. Li vedo attraverso i vetri della finestra, li odo cantare: sono dunque ben certo che esistono. Ma non dubito neppure per un istante che i passanti, camminando sull’altro lato di quella stessa casa, non possano vederli né udirli: dunque quella medesima realtà, che per me è esperibile e indubitabile, per altri neppure esiste. Si potrà allora dire che è una mia creazione soggettiva, un’invenzione? No di certo: eppure, se volessi convincerne altri, non disporrei di argomenti più forti che la mia parola e la mia eventuale attendibilità di testimone. Ma, e se avessi un qualche difetto della vista o dell’udito? E si tratta solo di passerotti! Se avessi visto qualche cosa appartenente a un diverso ordine di fenomeni, qualcosa d’insolito?
Lo scrittore giapponese Akutagawa, ai primi del Novecento, scrisse un suggestivo racconto, Rashomon (da cui, nel 1950, il grande regista Akira Kurosawa trasse un celebre film). È la storia di un un samurai che attraversa una regione impervia e boscosa, insieme alla moglie (che viaggia ricoperta da un velo), per recarsi in pellegrinaggio ad un tempio. Un fuorilegge li scorge, non visto, e si accende di desiderio per la donna: quindi li aggredisce, uccide il marito e violenta la moglie. Una storia tragica, ma semplice. Oppure no? Parlano i protagonisti – il bandito, la donna, lo spirito del marito assassinato per mezzo di una evocazione negromantica, e un testimone involontario che si era tenuto nascosto, per paura. Quattro voci che dovrebbero confermare la stessa versione dei fatti: e invece ciascuna ha la sua verità da raccontare, e sono tutte profondamente diverse l’una dall’altra. Come sono andate veramente le cose? Non c’ è risposta a questa domanda. Anche nella vita di ogni giorno, gli uomini non vedono mai le stesse cose nella stessa maniera. Perché dunque pretendere dalla storia – dall’esame, cioè, di un lontano e confuso passato, delle verità universalmente valide e oggettivamente certe?
Tuttavia la discussione intorno al relativismo è troppo importante ai fini di una concezione consapevole del fatto storico, perché ci possiamo accontentare di questi brevissimi ed elementari cenni.
Prendiamo un qualsiasi vocabolario e leggiamo alla voce "relativismo":
"Ogni concezione filosofica che sostenga essere la realtà non conoscibile in sé stessa, ma soltanto in relazione con le particolari condizioni in cui, volta per volta, i suoi fenomeni vengono osservati." ( dal Dizionario Garzanti della lingua italiana).
E questa sarebbe una filosofia? E intorno alla legittimità di una tale filosofia si è tanto discusso e polemizzato? A noi sembra piuttosto che essa sia la necessaria premessa a qualsiasi filosofia; di più: che sia la premessa alla normale vita quotidiana di ogni essere umano. E chi potrebbe dubitarne, dopo solo qualche attimo di riflessione? Questo cielo azzurro e terso, che posso guardare dalla finestra mentre scrivo, al tramonto si tingerà d’arancio e di violetto, poi di blu scuro, indi verrà inghiottito dalle tenebre; e altri esseri umani, in questo stesso istante, agli antipodi di questo paese ne stanno ammirando la volta trapunta di stelle. Dovrò concludere che il cielo muta, che il cielo che io vedo adesso è altra cosa da quello che vedrò questa notte, fra un anno, fra venti; altro da quello che è visibile, ora, lontano da qui? Quale persona di buon senso direbbe che non il cielo muta, bensì mutano le condizioni in cui ciascuno, a suo modo e a suo tempo, lo vede? E lo affermerebbe in tutta tranquillità, senza per questo che un siffatto relativismo nella sua vita quotidiana lo sospinga verso il dubbio più scettico e l’angoscia esistenziale.
E adesso torniamo all’esempio precedente, quello del generale britannico Gordon e della sua morte nella presa di Khartoum da parte dei Mahdisti, al principio del 1885 Eroe disinteressato o strumento dell’oppressione? Qualcuno — pirandellianamente — risponderà: "Ma è semplice: vi sono due Gordon: il Gordon della Gran Bretagna, del mondo occidentale — che è un eroe, mentre il Mahdi non era che un pazzo fanatico; e il Gordon del Sudan odierno, delle ex colonie europee, che fu un simbolo dello sfruttamento, e contro il quale lottò l’eroe nazionale, il Mahdi." Sarebbe facile obiettare fin dall’inizio: : "Non è così, per molti occidentali di oggi il generale Gordon era un ambizioso, un temerario, una punta avanzata del colonialismo; e non è detto che fra qualche sudanese non sia valida l’opinione contraria: il nemico della schiavitù, della miseria, della sofferenza di quella terra sfortunata. Ma ammettiamo pure che tutti gli occidentali lo esaltino, e che tutti gli africani (o gli asiatici) lo condannino. Noi domanderemo allora: che vogliono dire termini come "Gran Bretagna", "Occidente", "Sudan", "Africa"? Sono forse delle forme diverse di conoscenza? Da quanto abbiamo detto, sembrerebbe di sì. E dunque? Ammettere due diverse forme di conoscenza per la medesima realtà; due modi di interpretare e di valutare non già le stesse opinioni, ma lo stesso fatto — come voleva il Ranke: non è questa una piena ammissione dell’inevitabilità del relativismo?
Ora, si badi, il problema che ci poniamo non è: "Esistettero effettivamente due, o più, generali Gordon?"; ma bensì: "Sarà mai conoscibile un generale Gordon; o dobbiamo di necessità ammettere che possiamo conoscerne due, o più di due, ma non il generale Gordon, perché quello non lo conosceremo mai?". Si avrà un bel dire: lo spirito dell’affermazione del Ranke era un altro, e cioè: "voi storici dateci i fatti, e lasciate che sia poi il lettore a farsi un’idea personale." Le difficoltà incominciano molto prima di arrivare sul terreno dei giudizi, incominciano già su quello delle parole: o, per meglio dire, ogni nome è una scelta, quindi un giudizio.
I Mahdisti erano dei "ribelli"? Ma ciò implica un giudizio di valore, di segno indubbiamente negativo; quale storico italiano chiamerebbe "ribelli" i Milanesi delle ‘cinque giornate’ del 1848? "Patrioti,"allora? Ma anche questo è un giudizio di valore; di segno opposto, ma sempre opinabile. Dove sono dunque i "fatti" che il Ranke voleva? Potremmo ricorrere a un termine "neutro", quello di "insorti". Insorti ha quasi lo stesso significato di ribelli, ma spogliato della componente peggiorativa: può essere usato, tutto sommato, da amici e da nemici. Ma se fosse puramente un problema di termini, una soluzione sarebbe sempre abbastanza facile da trovare; invece il problema di fondo è ben altro. Naturalmente lo storico serio, che sia inglese o sudanese o egiziano, dovrà sforzarsi di non partire con un’idea preconcetta del generale Gordon, ma lasciare che i fatti studiati e ricostruiti gli svelino, per così dire, a poco a poco la reale natura del suo soggetto.
Ma anche ammesso che uno storico, che è sempre un essere umano, possa davvero spogliarsi di ogni partecipazione emotiva; anche ammesso che l’ambiente geografico, socio-politico e culturale in cui vive non lo condizioni per nulla; anche così noi ci chiederemo: quali fatti dovrà egli lasciar parlare? Non tutti, evidentemente. Che cosa fosse solito bere, o come usasse vestire il generale Gordon è cosa che non lo interesserà affatto, se non forse incidentalmente. Dovrà dunque operare una scelta: scartare certi fatti, considerarne altri. Chi gli dirà quali fatti scartare e quali prendere in considerazione? Molti risponderebbero: la storia. Ma torniamo a ripeterlo: la storia, così intesa, non esiste. La storia, cioè la ricostruzione del passato, è sempre una scelta: è ricostruzione di un certo passato, e considerato sotto certi aspetti piuttosto che sotto certi altri. Chi decide allora quali aspetti sono degni d’attenzione, e quali non lo sono? Lo storico, naturalmente: cioè l’uomo. Ora, il fatto è che un criterio di cernita, tra la mole infinita dei fatti del passato, non esiste e non può esistere. È solo il giudizio del singolo storico che decide quali fatti siano importanti, e quali no. È sperabile che lo storico possieda una coscienza professionale superiore a quella di certo giornalismo, e che non si serva dei fatti scartati per smontare, pezzo a pezzo, una immagine scomoda della realtà, e poi di quelli prescelti per ricostruirla a suo completo talento; oppure che non mescoli le carte imbrogliando il mazzo, col risultato di distorcere mostruosamente l’immagine del passato e ridurla a un rebus che lui solo sa decifrare nel senso che meglio preferisce.
È sperabile: ma nulla di più. In storiografia non esistono strumenti o metodi scientifici, e quindi nemmeno criteri veramente scientifici: è sempre la buona fede dello storico a tagliare il nodo della questione. Noi osserviamo che — ad esempio — nella Storia della rivoluzione russa di Lev Trotzkij, lo sforzo d’imparzialità e di comprensione delle altrui ragioni è del tutto assente: e concludiamo che Trotzkij, semplicemente, non è uno storico. Ma di solito le cose non sono così semplici. Moltissimi storici distorcono i fatti in buona fede, o quanto meno non intenzionalmente: essi mescolano vero e falso, coerenza e arbitrarietà, buona fede e ingenuità. In casi del genere, se vi è comunque una documentazione adeguata e un certo sforzo di obiettività, nessuno contesterà loro la qualifica di "storici", e storiche son dette le loro opere. Ma quanta verità si può trovare in esse?
Sono questi i nodi cruciali intorno all’"oggettività" della storia, e i sostenitori della storiografia scientifica nascondono la testa nella sabbia come struzzi per non vederli; e, non vedendoli, o meglio ostinandosi a non volerli vedere, negano addirittura che esistano.
In che rapporto stanno idealismo, relativismo e solipsismo? Leggiamo ancora nel vocabolario:
"Idealismo: ogni sistema filosofico che risolva tutta la realtà nel pensiero, negando l’esistenza di una realtà al di là o al di fuori dello spirito."(Dizionario Garzanti della lingua italiana).
Antonio Gramsci ha osservato che ogni idealismo, di fatto, finisce per cadere nel solipsismo. Se ciò è esatto, dovremo concludere che proprio la soriografia idealistica d’indirizzo crociano, tanto ligia custode – in nome dello "storicismo assoluto" – di una ortodossia metodologica che l’ha portata a bollare come un disgraziato errore quasi tutto il movimento storicistico tedesco, trarrebbe le proprie radici filosofiche da una posizione che è la più estremisticamente soggettiva che il pensiero possa assumere. Leggiamo dunque alla voce solpsismo:
"L’atteggiamento per cui si afferma come reale solo l’esistenza del soggetto individuale, mentre tutte le altre cose e le altre persone sono soltanto sue percezioni." (Dizionario Garzanti della lingua italiana).
L’idealismo dunque, come atteggiamento filosofico generale, può approdare – e di fatto è approdato, in tempi moderni – a differenti posizioni gnoseologiche, da quella empirista (iniziale) berkeleyana, a quella trascendentale hegeliana e crociana. Ma un nesso fondamentale unisce questi diversi indirizzi dell’idealismo, ed è la convinzione che non soltanto tutta l’attività conoscitiva, ma altresì tutta la realtà, sono in definitiva riconducibili a puro immaterialismo. E tuttavia, è lecito definire la filosofia del Berkekey, come per convenzione si usa fare, "idealismo empirico"? L’esse est percipi del pensatore irlandese non è in effetti una posizione più vicina al solipsismo che all’idealismo? [A questo proposito, si può vedere L’unità dell’Essere, parte prima, di F. lamendola; e, dello stesso autore, Il pensiero filosofico di George Berkeley]. La salda fede religiosa del vescovo anglicano di Cloyne fa sì ch’egli non nutra alcun dubbio circa la causa delle percezioni individuali, che è Dio; ma dal punto di vista conoscitivo la sua posizione è prettamente solipsistica. La filosofia berkeleyana può definirsi idealistica con riguardo alla sua concezione teoretica (Dio, spirito infinito; individui, spiriti finiti), solpsistica rispetto al suo atteggiamento pratico (la sostanza materiale si risolve interamente nelle percezioni soggettive). Da questo punto di vista diremmo che non tanto l’idealismo sfocia inevitabilmente nel solipsismo, quanto piuttosto è quest’ultimo, come atteggiamento conoscitivo della realtà, che non può non condurre all’idealismo. Una volta che sia negata l’esistenza di una sostanza materiale, non resta altra via per darsi ragione del mondo esterno che l’idealismo: e non solo limitatamente al soggetto (donde proverrebbero allora le percezioni?), ma necessariamente riguardo a uno Spirito infinito che è la sola possibile origine delle nostre percezioni. "Esse est percipi" è dunque una proposizione naturalmente reversibile: "percipere est esse"; dove è chiaro che, di contro alle percezioni vane e illusorie degli spiriti finiti, esiste una forma oggettiva e superiore di percezione, ed è – per esclusione -quella dello Spirito infinito rispetto ai singoli individui.
"Tutti gli oggetti sono eternamente conosciuti da Dio, o, ciò che è lo stesso, hanno un’eterna esistenza nella Sua mente: ma quando le cose, prima non percepibili dalle creature, sono, con un decreto di Dio, percepibili da esse, allora si dice che le cose cominciano un’esistenza relativa, rispetto alle menti create." (George Berkeley, Dialoghi tra Hylas e Philonous, Torino, 1969, p. 157).
Questo per quanto riguarda l’idealismo empiristico. In che rapporto col solipsismo sta l’idealismo trascendentale? Per Hegel, come per Croce, tutta la realtà è idea, ossia ragione: "Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale." Anche l’idealismo trascendentale, o assoluto, nega dunque l’esistenza oggettiva di una sostanza materiale: tutte le sue imponenti costruzioni speculative muovono da questa premessa – senza porsi, invero, il problema di abbozzarne una dimostrazione. Se ne dovrebbe dedurre che, anche per esso, la realtà fenomenica non ci si palesa che per mezzo di percezioni illusorie; e anche da questo lato, perciò, si ricade nel solipsismo. Se ne esce ponendo tutta la realtà al di fuori della sostanza materiale, nello Spirito assoluto: ma questo è un atteggiamento teoretico, non pratico. Nel mondo fenomenico l’idealista trascenentale non può porsi che in una posizione solipsistica, e ridurre tutti gli oggetti esterni della sua percezione a creazioni o apparenze della mente individuale.
Idealismo empiristico e idealismo trascendentale non sono dunque, veramente, due indirizzi diversi di pensiero, e sia pure dello steso pensiero; sono due momenti distinti di un unico atteggiamento filosofico. Il primo pone l’accento sul momento del percipere, e ne trae la conclusione dell’inesistenza d’una realtà materiale; il secondo si interessa all’esse, e si rappresenta l’intera realtà come spirito razionale. Una differenza d’accenti, dunque, non di concezioni e nemmeno di metodi: e dell’uno come dell’altro il necessario complemento è il solipsismo, come posizione del soggetto di fronte alla realtà esterna, almeno di quella fenomenica.
Se ogni atteggiamento filosofico idealistico conduce, per quel che riguarda la realtà materiale, a una forma più o meno sfumata di solipsismo, è possibile di qui – sempre per quel che riguarda il mondo fenomenico, campo d’attività dello storico – sottrarsi a un crescente sentimento di scetticismo? Nella storia della filosofia, come tutti sanno, il nome di Locke è legato, come necessario antecedente, a quello di Berkeley, così come quello di Berkeley sembra condurre molto naturalmente a quello di Hume, che appunto sul limitare dello scetticismo arresta la sua speculazione filosofica. Se ne dovrebbe concludere che le logiche premesse dell’empirismo conducono, sviluppate, all’idealismo empirico e di qui allo scetticismo? O, per limitare il campo della questione che ci eravamo posta, che l’idealismo empirico (e quindi anche il suo logico correlato, il solipsismo) conducono necessariamernte allo scetticismo? Sembra difficile negarlo, dal momento che il solpsismo delinea una visione del mondo così malagevole e angosciosa, per i bisogni e gl’istinti della vita quotidiana, che occorre una notevole energia mentale per non lasciarsesi travolgere da essa.
E in effetti, dal fondo dello scetticismo cui le premesse della sua stessa filosofia minacciavano di farla precipitare, solo una mente lucida e pacata come quella di David Hume poteva risalire a riconquistare la forza di continuare tranquillamente l’esistenza di tutti i giorni.
"La grande sovvertitrice del pirronismo, cioè dello scetticismo eccessivo, è l’azione, il lavoro e le occupazioni della vita quotidiana. Questi princìpi scettici possono fiorire e trionfare nelle scuole, dove, in verità, è difficile se non impossibile confutarli. Ma appena essi escono dall’ombra e per la presenza degli oggetti reali che mettono in movimento le passioni ed i sentimenti, vengono contrapposti ai più potenti princìpi della natura umana, svaniscono come fumo e lasciano lo scettico più ostinato nella stessa condizione degli altri mortali." (David Hume, Ricerche sull’intelletto umano, Bari, 1974, p. 202 (sez. XII, parte II).
Ora, con qual mezzo il filosofo, lo storico o, in generale, l’intellettuale possono risalire la china dello scetticismo, ove l’idealismo e il solipsismo li abbiano sospinti, e tornare a guardare senza disgusto e senza illusioni il mondo della realtà fenomenica che cade sotto i nostri sensi?
Lo scetticismo radicale, già lo abbiamo visto, cade e si elimina da sé medesimo: esso, per usare un’espressione di Johann Huizinga, è "certamente un bel gioco intellettuale; ma con esso non si può più vivere." (J. Huzinga, La scienza storica, cit., p. 88). È la stessa natura umana che reagisce con tutte le sue forze alle rigorose ma aride e sconcertanti dimostrazioni dell’intelletto, e proclama il suo diritto a vivere, sentire, vedere, toccare, giudicare; giacché lo scetticismo assoluto non è forse tanto un "bel gioco", quanto piuttosto uno stato di angoscia insopportabile, uno sradicamento della natura umana dalle proprie radici. E quel che non viene mai considerato abbastanza è che ogni dualismo è uno sradicamento della natura umana dalle proprie radici.
Ha cominciato Platone. Egli per primo ha creato un sistema di pensiero organico, grandioso e suggestivo, ove il mondo superiore delle Idee è posto non tanto come superamento o perfezionamento della realtà sensibile, quanto contrapposto ad essa e proiettato, al tempo stesso, in lontananze irraggiungibili. Ogni idealismo sfocia sempre in una forma di dualismo, in una lacerazione, in una negazione di ciò che è parte della natura umana e della sfera mentale in cui vive e pensa. E ogni dualismo porta sempre, per un verso – quello della raltà svalutata o addirittura negata – al solipsismo e allo scetticismo.
Già David Hume si spingeva al di là delle proprie premesse, e concludeva che un moderato e giudizioso scetticismo è un atteggiamento mentale decisamente utile in ogni circostanza della vita, mentre lo scetticismo radicale si esaurisce in sé stesso e fatalmente ristagna delle acque morte dell’impotenza.
"Basta che chiediamo ad uno scettico del genere [ossia radicale]: qual è la sua intenzione? E che cosa si propone con tutte queste curiose ricerche? Si trova subito imbarazzato e non sa che cosa rispondere. (…) Risvegliato dal suo sogno, sarà il primo a ridere di sé stesso ed a confessare che tutte le sue obiezioni sono meri passatempi e non possono servire ad altro che a mostrare la stravagante condizione in cui si trova l’umanità che deve agire e ragionare e credere." (David Hume, Op. cit., sez. XII, parte II, pp. 203-04).
Questi problemi sono soprattutto importanti per lo storico, impegnato in un’opera di ricostruzione del passato che è fatto di uomini e azioni, e ch’egli non potrebbe nemmeno intraprendere se realmente fosse convinto della non-esistenza della realtà esterna (non diciamo della sostanza materiale, che è già altra questione). Egli, d’altra parte, non può semplicemente ignorare tutte le obiezioni filosofiche che sono state mosse all’esistenza, o quanto meno alla conoscibilità, di tutti quegli oggetti che la sua professione lo costringe continuamente a considerare e a valutare. Anche in questo senso una filosofia personale, una concezione del mondo da parte dello storico è premessa e strumentoindispensabile al proprio lavoro.
Dopo tutto quanto abbiamo detto in proposito, vorremmo aggiungere che la condizione a nostro avviso più propizia per affrontare una ricostruzione del passato consiste in un atteggiamento di moderato relativismo. L’idealismo, già lo abbiamo visto, pone un dualismo, e quindi una lacerazione dello spirito umano: esso per un verso conduce direttamente al trascendentalismo, e per l’altro piomba inevitabilmente nel solipsismo: e di qui allo scetticismo radicale, il passo è breve. Ora il trascendentalismo, o meglio la tensione metafisica, che ne è la logica conseguenza, costituisce una forma rispettabilissima di speculazione filosofica; ma è difficile che possa trasformarsi in un costruttivo punto di partenza storiografico. Il meno che si possa dire di ogni storiografia idealistica è che essa dà al lettore la spiacevole impressione che lo storico nutra la convinzione di esser stato egli solo messo a parte dallo Spirito Assoluto dei suoi piani ineffabili; se non, addirittura, che sia quest’ultimo a sforzarsi di adeguare la propria azione nel mondo alla filosofia della storia professata da quello studioso. Questa è precisamente l’impressione, ad esempio, che si ricava dalla lettura di Hegel: sembra che lo Spirito Assoluto e le sue manifestazioni si pieghino umilmente a seguire i dettami del pensatore di Stoccarda. Impressione analoga si ritrae dalla concezione storicistica di Croce, ove lo Spirito sembra non aspettar altro che le categorie crociane per articolarsi nell’attività teoretica e in quella pratica.
Il solipsismo, l’altra faccia della medaglia dell’idealismo, rappresenta dal punto di vista teoretico l’eccesso opposto. Là dove le manifestazioni e le stesse finalità dell’Idea universale sembrano non aver segreti per il filosofo trascenentalista, il solipsismo si chiude nella più stretta soggettività individuale e non ardisce fare il minimo paso all’esterno, che vada oltre l’immediata intuizione del cogito cartesiano. Al tempo stesso, però, nel solipsismo vi è una componente di "audacia intellettuale" che contrasta con il suo appaente negativismo: esso, cioè, non si limita a negare la conoscibilità della realtà esterna al soggetto individuale, ma si spinge fino ad affermarne la non-esistenza, in quanto la riduce semplicemente alle percezioni del soggetto stesso.
Nello scetticismo, poi, emergono due tendenze fondamentali: da un lato quella "moderata", che si limita a una sospensione del giudizio; dall’altra una radicale, che supera perfino le premesse del solipsismo in quanto abolisce ogni distinzione tra soggetto percipiente e realtà esterna, e nega puramente e sempliemente ogni possibilità di conoscere il reale. Ora è ovvio che tanto il solipsismo, quanto la sua manifestazione estrema, rappresentata dallo scetticismo radicale, rispondono a concezioni del mondo che contrastano irrimediabilmente con il sentimento storico. Nel primo caso, tutta la storia si vedrebbe ridotta a "illusione" o "delirio" della mente soggettiva, né potrebbe minimamente aspirare a una ricostruzione valida per più di un solo individuo; nel secondo, dovrebbe di necessità limitarsi a una miope e pedissequa narrazione degli avvenimenti (ammesso che ciò sia possibile), una storia monotona senza principio né fine, senza insegnamenti e perfino senza significato (una assurda e tragica pupazzata, come avrebbe detto Luigi Pirandello).
D’altraparte, è noto che un atteggiamento filosofico più ragionevole ha sempre sottolineato l’importanza di una forma di scetticismo moderato, la cui funzione e utilità principale consistono nello smuovere i dogmi e ogni forma di pensiero rigido, che da sempre costituiscono il più potente sonnifero per la mente umana. Come antidoto alla dogmatica e alla sistematica astratta e presuntuosa, come strumento critico d’indagine e di ricerca e come stimolo contro ogni forma d’inerzia intellettuale, lo scetticismo moderato è un fondamentale atteggiamento propedeutico alla filosofia, che trova il suo complemento di segno positivo in un altrettanto moderato relativismo. Là dove lo scetticismo distrugge falsi miti e mette in guardia contro vane presunzioni e pompose assurdità, il relativismo fornisce un senso alla ricerca e offre, al tempo stesso, una prospettiva storica ove collocare i vari ordini di fatti. Il relativismo è una concezione altamente storica della realtà, nel senso che, rifiutando ogni teorizzazione astratta, scende sempre sul terreno fenomenico concreto e non presume di poterlo giudicare dal di fuori, ma solo entro la cornice spazio-temporale in cui si producono i singoli eventi. Vorremmo dire che il relativismo è la generalizzazione filosofica dello storicismo (non quello di matrice idealistica, naturalmente, ma quello tedesco iniziato dal Dilthey); è, potremmo dire, storicismo assoluto, se il Croce non avesse già utilizzato questa espressione con ben diverso significato. Il concetto dell’unicità e irripetibilità degli accadimenti storici è necessariamente legato a quello della mancanza di oggettività della conoscenza, e della sua validità unicamente in relazione al soggetto. Là dove lo storicismo di Troeltsch e di Meinecke finiva per concludere che non esistono valori e realtà permanenti, il relativismo suggerisce che la realtà esterna in quanto tale è inconoscibile, e che solo le forme particolari entro cui agisce il soggetto in una determinata cornice spazio-temporale possono essere oggetto d’indagine obiettiva. Ciò non significa – lo abbiamo già detto – rinunciare a un tentativo di ricostruzione del passato in quanto tale. Significa semplicemente sgombrare il campo da molte illusioni e false certezze, e guardare senza veli la reale natura della storiografia. Lo sforzo verso l’oggettività della ricostruzione storica può e deve esserci, ma è importante sapere che di uno sforzo si tratta – cioè di un’aspirazione, di un desiderio; e che non può essere nulla di più.
Concludendo, i fatti vanno sì studiati nella loro concretezza immediata e irripetibile, ma (o meglio, appunto per questo) le circostanze in cui si presentano sono sempre non comparabili. Niente generalizzazioni, quindi, niente parametri di valutazione uguali per civiltà ed epoche storiche diverse. I bisogni e le aspirazioni costanti riscontrabili nella vita dell’essere umano sono campo di studio della filosofia, alla storia interessa ciò ch’è concreto, immediato, particolare. Non i bisogni e le aspirazioni eterni dell’essere umano, ma i modi concreti e irripetibili con cui storicamente ha tentato, volta a volta, di soddisfarli. La storia non studia le rivoluzioni, ma la rivoluzione francese, quella industriale, ecc. La storia non studia le guerre, ma la guerra dei Cent’Anni, la guerra delle Due Rose, ecc. Certo, lo storico non può lavorare a casaccio, per cui deve essere in possesso di un proprio concetto filosofico di "guerra", "rivoluzione", e così via. Ma quello che lo interessa realmente, ai fini della ricostruzione, sono soltanto le manifestazioni storiche particolari e concrete di tali categorie fenomeniche.
- [LA STORIA E I GIUDIZI MORALI.**
Una delle questioni più lungamente e inutilmente dibattute tra gli storici è quella dei rapporti tra storiografia ed etica, ossia della legittimità dei giudizi di carattere morale nei confronti di uomini ed eventi del passato. Abbiamo detto inutilmente, perché una breve analisi della questione ci rivelerà trattarsi – anche in questo caso – di un falso problema, tenuto in piedi più dalla forza dell’abitudine e da una serie di equivoci, che da una sua reale necessità.
In linea di massima possiamo accettare la nota espressione che "la storia deve preoccuparsi di comprendere, più che di giudicare": una massima tanto ovvia e intuitiva che alcuni storici, alle prese con nomi e parole più che con idee e concetti, hanno finito per perderla di vista. E in effetti, qualsiasi discussione circa la legittimità dei giudizi morali in sede storiografica sembra nascere piuttosto sul terreno astratto della teoria, che su quello concreto della ricerca e della ricostruzione. Anche in questo caso, il discutere tanto intorno a una questione di per sé (metodologicamente) trascurabile, ha finito per ingigantire artificialmente il dibattito, spostando il fulcro di esso dalla pratica storiografica alle questioni etiche e filosofiche ad essa correlate.
Certi storici si mostrano terribilmente preoccupati all’idea di non poter esprimere giudizi di condanna sui grandi "mostri" della storia, e alcuni altri si impegnano, con energia non minore, ad interdire loro questo indebito sconfinamento nei regni opinabili e soggettivi della morale. Ma se tutti sono veramente d’accordo sul fatto che "la storia deve sforzarsi di comprendere più che di giudicare", il contrasto sembra in realtà destinato a sussistere solo fintanto che essi troveranno preferibile fingere di parlare due lingue diverse.
Lo storico – lo abbiamo detto e ripetuto – è un essere umano; e, in pratica, non si troverà un solo storico che sia riusciuto a evitare, in sede di ricostruzione e di interpretazione del passato, qualche "sconfinamento" più o meno indebito nel campo dei giudizi morali. Ciò è connaturato alla struttura dell’essere umano e anche a quella del divenire storico, il quale, sottoponendo continusamente alla nostra attenzione il carattere e le azioni di altri esseri umani, ci induce quasi nostro malgrado ad approvare o a condannare. Certo, è fondamentale che lo storico abbia coscienza che tale disposizione d’animo potrebbe portarlo a indebite conclusioni e, forse, ad autentici travisamenti, e che cerchi il più possibile di controllare la propria sensibilità etica nei riguardi di vicende del passato. Ma il fatto stesso che si continui a discutere e, spesso, a polemizzare accesamente su tali questioni, indica chiaramente come non sia in potere dell’essere umano – e quindi neanche dello storico – sopprimere completamente l’atto naturale e istintivo del giudicare.
È vero che grandi passi avanti sono stati fatti, rispetto alla storiografia di un tempo. Nella storiografia classica si notano due atteggiamenti al riguardo. Da un lato vi è la fredda indagine di Tucidide, di Senofonte, di Polibio, in parte anche di Tacito, in cui il problema morale passa in secondo piano per lasciare il più ampio spazio alla trattazione "oggettiva" degli avvenimenti. Dall’altro Sallustio, Plutarco, Svetonio, Zosimo riservano un posto preminente ai fattori morali, che non mancano di porre direttamente in relazione con le cause profonde di determinati avvenimenti storici.
Prendiamo il caso di Zosimo, il misterioso storico pagano della "decadenza" dell’Impero Romano. Per lui, le sorti dello Stato sono direttamente legate al rispetto della tradizione religiosa pagana, e tutte le altre ragioni di debolezza o di senescenza della civiltà antica appaiono ridotte a ben poca cosa rispetto a questa. Ai suoi occhi ciò diviene quasi un fatto automatico, una chiave di lettura con cui va interpretata tutta la storia tardo-antica: con Costantino i culti antichi vengono per la prima volta trascurati dall’imperatore, e per lo stato si apre un periodo disastroso di corruzione e guerra civile; Giuliano li rimette in auge, e si delinea una ripresa; con Teodosio, che è un ozioso e un dissoluto, il paganesimo riceve il colpo di grazia e l’Impero riprende la sua corsa precipitosa verso l’abisso.
"Se il cristanesimo è corruzione, anche la politica di Costantino ‘convertito’ diverrà corrotta e ne conseguirà direttamente lo sfacelo politico e amministrativo dello Stato." (G. Zucchelli, La propaganda costantiniana e la falsificazione storica in Zosimo, in I canali della propaganda nel mondo antico, vol. IV, Milano, 1976, p. 248).
La storiografia altomedioevale riprende ed accentua la componente moralistica di tipo plutarchiano, che era stata fatta propria dalla storiografia cristiana tardo-romana e bizantina. Sant’Agostino aveva addirittura ridotto l’intera vicenda della storia universale a una incessante, drammatica lotta tra la Città di Dio e la città degli uomini: l’una ispirata dall’amore verso Dio, l’altra dall’egoismo, cioè dall’amore di sé stessi. Ma come spiegare i disastri sociali e militari che si abbattevano sempre più duramente sul corpo dell’Impero, ora che la vera religione trionfava sul Campidoglio e nel palazzo dei Cesari? Sant’Agostino non aveva avuto esitazioni: le apparenti sciagure erano in definitiva delle occasioni di bene, o, al massimo, giusti castighi contro la corruzione degli uomini.
Tale schema fu interamente accettato e ripreso da Paolo Orosio. Egli si preoccupa di mettere in chiaro che le sciagure che si abbattono sull’Impero non avvengono per colpa dei sovrani, che sono pii, ma per la scelleratezza degli uomini; sempre, però, il Dio dei cristiani finisce per gettare il peso della propria potenza dalla parte dei giusti.
"Perciò Dio, giusto provveditore delle umane cose, fece perire il nemico pagano e prevalere quello cristiano in modo che i Romani pagani e bestemmiatori rimanessero confusi per colui che era andato in rovina e venissero puniti da chi ne aveva preso il posto; questo massimamente perché non poco valevano agli occhi della divina misericordia la purissima fede dell’imperatore Onorio e la sua moderazione, davvero ammirevole in un re." (Paolo Orosio, Storie contro i pagani, libro VII, 37; in I Barbari, a cura di E. Bartolini, Milano, 1970, p. 141).
È noto che Zosimo seguì esattamente questo schema storico, soltanto rovesciandone i termini: il suo punto di vista era quello, polemico e pessimista, di un pagano che vedeva coincidere significativamente la rovina dell’antica religione con la rovina dello Stato.
Negli storici dell’Alto Medioevo, ecclesiastici per la maggior parte, la componente moralistica di matrice religiosa si accentua ancor di più; ma, a causa del contemporaneo venir meno di ogni interesse per la concatenazione causale degli eventi e per la processualità della storia, essa viene "polverizzata" e frammischiata alla serie monotona e slegata di accidenti curiosi o prodigiosi, di stranezze, di miracoli, di fantasie, che caratterizzano la storiografia di quest’età. Nella Vita di San Severino di Eugippio i miracoli e il soprannaturale occupano un posto più importante di ogni altro ordine di eventi.
Jordanes e Paolo Diacono, entrambi di origine barbarica (ostrogoto il primo, longobardo il secondo) complicano questo schema esilissimo. Benchè ecclesiastici sia l’uno che l’altro e profondamente latinizzati, non è ancor spenta in loro l’antica fiamma dell’orgoglio di razza, ciò che li pone sovente in una posizione palesemente contraddittoria, presi tra l’istinto di magnificare le "gloriose" imprese dei barbari e il dovere, per così dire, di esaltare la superiore civiltà di Roma. Il moralismo di Paolo Diacono, per esempio, trova allora il modo di esplicarsi pienamente là dove delinea il quadro dei costumi del suo popolo quando, non ancora convertito al cattolicesimo, non solo verso i Romani ma anche al proprio interno si abbandonava alla naturale ferocia della sua barbarica indole. Un esempio classico di questo atteggiamento si può vedere nel famoso episodio della cena di Alboino e Rosmunda:
"Alboino regnò in Italia per tre anni e sei mesi e fu poi ucciso per le trame della moglie. La causa della sua uccisione fu questa. Mentre sedeva a banchetto a Verona, allegro oltre il lecito, ordinò che alla regina fosse dato da bere del vino nella coppa che si era fatto fare col cranio di suo suocero, il re Cunimondo, e la invitò a bere lietamente in compagnia del padre. Ciò non sembri impossibile, perché in nome di Cristo dico il vero: vidi io stesso quella coppa in occasione di una festa, e il principe Rachis la teneva in mano e la mostrava con ostentazione ai suoi convitati. Rosemunda perciò, come vide quel gesto, provando in cuor suo un dolore così profondo che non riusciva a calmarsi, subito arse della brama di uccidere suo marito per vendicare la morte del padre." (Paolo Diacono, Storia dei Longobardi,II, 28; Milano, Rizzoli, 1967, p. 69).
Alle soglie dell’età moderna, Francesco Guicciardini – il più grande storico del Rinascimento italiano – accantona invece completamente ogni considerazione di carattere moralistico e si concentra tutto nella ricerca dei fattori oggettivi della storia. Il suo sguardo lucido e disincantato, fortemente pessimista, vaglia e soppesa moventi materiale e spirituali alla luce di un’attenta analisi dei fatti. Circa nello stesso tempo Niccolò Machiavelli – inferiore al Guicciardini come storico, superiore come pensatore politico – opera la rottura definitiva tra etica e politica e rivendica la completa autonomia di quest’ultima: con lui, anche la storia si libera dal peso di una tradizione secolare e fonda la propria dignità su una completa autonomia. Se ciò sia stato un male o un bene, non è questa la sede per discuterne. La figura morale di papa Borgia gli serve appunto per delineare le caratteristiche necessarie all’uomo di potere: spietatezza, ipocrisia, mancanza di scrupoli.
"Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare uomini, e sempre trovò subietto da poterlo fare. E non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare, e con maggiori giuramenti affermassi una cosa, che la osservassi meno; non dimeno, sempre li succederono l’inganni ad votum, perché conosceva bene questa parte del mondo. A uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi, ardirò di dire questo: che avendole e osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle, sono utili; come parere pietoso, fedele, umano, intero, religioso, ed essere, ma stare in modo edificato con l’animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. E hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch’e venti della fortuna e le variazioni delle cose li comandano, e, come sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato." (Niccolò Machiavelli, Il Principe, cap. XVIII, 4).
La storiografia del Seicento prosegue lungo la via aperta da Machiavelli e Guicciardini, ma è col Settecento, e soprattutto con l’Illuminismo, che la storiografia si lascia definitivamente alle spalle l’atteggiamento moralistico per concentrarsi sull’analisi spassionata dei fatti. È l’inizio di un atteggiamento "storicistico": non a caso il Meinecke, nel suo Die Enstehiung des Historismus, prende le mosse dall’età illuministica.
Ma prendiamo in esame, una per una, le singole opere dei massimi storici di quell’età, e domandiamoci: sono sfuggiti veramente alla tendenza moraleggiante, che porta l’autore a comportarsi come un giudiuce che approva o condanna le azioni degli uomini passati? Ci accorgeremo ben presto che la storiografia illuministica resta presa, in certo qual modo, entro i lacci della propria prospettiva filosofica. È vero che la componente razionale dell’uomo viene rivalutata e assume un posto centrale nella ricostruzione; ma ogni qualvolta le vicende passate rivelano aspetti che sono in contrasto con quegli ideali di razionalità, di tolleranza e di libertà di coscienza che lo storico ferventemente professa, questi insorge con violenza contro la materia stessa del passato, e ricade inconsapevolmente in un moralistico giudizio su uomini e cose. Solo che in età medioevale "malvagio" era sinonimo di non cristiano; ora lo è di non razionale e, in definitiva, di non "illuminato". Quando invece la realtà del passato appare conforme agli ideali e alle aspirazioni professate dal "secolo dei lumi", lo storico non esita a lanciarsi nell’elogio più sperticato, nell’approvazione più calorosa, allontanandosi anche in questo caso – sia pure per una via opposta – da un imparziale equilibrio di giudizio.
Per Voltaire, ad esempio, l’imperatore Marco Aurelio è "il primo degli uomini"; Giuliano è un modello di perfezione assoluta; mentre Costantino è una sentina di vizi e un tiranno feroce e inumano.
"Qualche volta si tarda molto ad aver giustizia. Due o tre scrittori, mercenari o fanatici, si mettono a parlare del barbaro ed effeminato Costantino come di un dio, e trattano da scellerato il giusto savio e grande Giuliano. Tutti gli altri, copiando i primi, ripetono l’adulazionee la calunnia. Queste opinioni diventano quasi un articolo di fede. Finalmente arriva il tempo della savia critica e, dopo qualcosa come quattordici secoli, alcuni uomini illuminati fanno la revisione di quel processo che l’ignoranza aveva dimenticato. Si scopre così che Costantino era un ambizioso fortunato, che non rispettava né Iddio né gli uomini, che ebbe l’insolenza di fingere che Dio gli aveva mandato per aria una insegna ad assicurargli la vittoria, che si bagnò nel sangue di tutti i congiunti, si abbrutì nelle mollezze, ed ebbe solo l’astuzia di farsi passare per cristiano: in conseguenza di che fu canonizzato. Giuliano invece fu sobrio, casto, disinteressato, valoroso e clemente; ma, non essendo cristiano, fu considerato per secoli come un mostro. (…) Insomma, sulla base dei fatti, siamo stati obbligati a riconoscere ch Giuliano aveva tutte le qualità di Traiano, salvo quei tali gusti che furon per tanti secoli ammessi fra i Greci e i Romani; tutte le virtù di Catone, ma non la sua ostinazione e la sua acredine; tutte le qualità che ammiriamo in Giulio Cesare, senza i suoi vizi; ed ebbe anche la continenza di Scipione. Infine, egli fu in ogni cosa pari a Marco Aurelio, il primo degli uomini." (Voltarire, Dizionario Filosofico, voce Giuliano il filosofo, imperatore romano, ed. it. Milano, 1977, pp. 407-08 , 409).
Nel Decline and Fall di Gibbon i giudizi moralistici si contano letteralmente a migliaia, e non sempre sono particolarmente equilibrati. Talvolta il grande storico inglese si abbandona a deprecazioni così violente e a generalizzazioni così grossolane, che in alcuni punti della sua pregevole e monumentale opera, purtroppo, i limiti di questo approccio settecentesco alla storia si fanno sentire in modo piuttosto pesante.
"Il cupo ed implacabile Tiberio, il furioso Caligola, lo stupido Claudio, il malvagio e crudele Nerone, il bestiale Vitellio ed il timido e disumano Domiziano, sono condannati ad una perpetua infamia." (Edward Gibbon, Op. cit., cap.III, Roma, 1973, vol, 1, p. 113).
E chi più ne ha, sembra proprio il caso di dire, più ne metta. Nemmeno Montesquieu va esente da tali difetti, e senza ombra d’incertezza non esita a dividere gli imperatori romani – in un capitolo intitolato Delle ricompense che dà il sovrano – in "buoni" e "cattivi":
"I peggiori imperatori romani sono stati quelli che hanno donato di più: per esempio Caligola, Claudio, Nerone, Otone, Vitellio, Commodo, Eliogabalo e Caracalla. I migliori, come Augusto, Vespasiano, Antonino Pio, Marco Aurelio e Pertinace, sono stati economi." (Montesquieu, Lo spirito delle leggi, libro V, cap. XVIII; Milano, 1967, vol. 1, p. 104).
Si noti che né nel primo elenco, né nel secondo troviamo il nome di Tiberio. La ragione è semplice: certamente egli fu un imperatore "economo", scruploso amministratore delle finanze statali; però la tradizione moralistica, risalente a Tacito e Svetonio e giunta – come abbiamo testé veduto – fino a Gibbon, lo aveva bollato, una volta per tutte, fra i peggiri tiranni della storia. Dunque, se non si poteva lodarlo, bisognava almeno tacerlo. Ciò dimostra, una volta di più, che non sono i "fatti" a parlare, ma è lo storico che li fa parlare: e fa dir loro quel che conferma i suoi pregiudizi; altrimenti, piuttosto che dar ragione ad essi e torto ai suoi preconcetti, preferisce far finta di non vederli.
Dopo l’età dell’illuminismo, gli indirizzi storiografici si moltiplicano lungo il corso dell’Ottocento, e l’atteggiamento dei singoli storici nei confronti del giudizio morale diviene estremamente vario, tanto da non poter essere più seguito, neppure per sommi capi, nell’ambito di questo lavoro. Certo, la storiografia positivista infligge un duro colpo alle "intrusioni" etiche nella ricostruzione del passato, ed alla storiografia romantica che di esse aveva fatto largo uso. Ma il romanticismo non è tanto un movimento intellettuale o un indirizzo culturale, quanto piuttosto una tendenza naturale ed eterna dell’animo umano: il positivismo non potè distruggerne le radici profonde, che sono parte integrante di ognuno di noi; allo stesso modo, non potè troncare in maniera definitiva la tendenza "moralistica" nella storiografia. Mommsen non potè trattenersi dal definire Pompeo "un pusillanime", come Burckhardt dal chiamare Costantino "un egoista in manto di porpora". Sembra ancora di sentire Montesquieu che chiama l’imperatore Massimino "feroce e insensato", o Gibbon che definisce l’animo di Valentiniano III "privo di amicizia e di gratitudine". È anzi interessante confrontare i giudizi morali emessi dalla storiografia illuminista su determinati personaggi, con quelli degli storici del secolo successivo, sulle stesse personalità. Ferdinand Gregorovius, "uno storico poeta" – come è stato da qualcuno definito (G. Brindisi, Uno storico poeta: F. G., , in Nuova cultura, I, 1921), ha talvolta ricalcato passo passo i giudizi di Gibbon: anche per lui Valentiniano III era "un vile", e "un imperatore di scarsa intelligenza".
Neppure nel XX secolo la tendenza al giudizio morale può dirsi scomparsa del tutto dal campo della storiografia. Naturalmente, vi sono molti modi per effettuare un’intrusione moralistica nella ricostruzione del passato. Quello di catalogare semplicisticamente uomini e azioni in "buoni" e "cattivi" – il più banale e, a un tempo, il più diffuso – sembra oggi definitivamente scomparso; solo la peggiore storiografia divulgativa lo tiene ancora in piedi. Ma anche dei "giudizi" globali sul carattere di un dato personaggio, non possono venir emessi che sulla base di un preconcetto etico. In un tempo in cui la storiografia ha definitivamente preso coscienza che suo compito è "comprendere, non giudicare", anche questi tentativi di giudizio complessivo (e necessariamente sbrigativo) sarebbe auspicabile che venissero quanto prima abbandonati.
Un caso clamoroso è quello di Hitler, la cui personalità è stata identificata dagli storici del secondo dopoguerra come "il male assoluto" o, nel migliore dei casi, come un soggetto psicopatologico, con l’implicita conseguenza che non vale la pena di indagare sulle sue motivazioni né sulla sua visione del mondo, se non per dimostrare una tesi precostituita: che egli fu un pazzo o un criminale, o entrambe le cose. Il tutto, con il sottinteso che concedergli un diverso tipo di attenzione – cioè, quello che uno storico dovrebbe comunque rivolgere agli oggetti della sua disciplina, "non per giudicare, ma per tentare di comprendere", in questo particolare caso sarebbe fuor di luogo e inopportuno. A meno, s’intende, che non si voglia in qualche modo tentare di riabilitarlo: questo il ricatto che ha reso impossibile accostarsi alla figura di Hitler – come a quelle di altri grandi "maledetti" della storia – con un minimo di obiettività e di serenità di giudizio. Certo, nessuno vuol dire che sia facile accostare "serenamente" una figura come quella di Hitler; d’altra parte, definirla "demoniaca" non può avere altro significato di che quello di indurre lo storico ad accettarne in partenza l’assoluta irrazionalità, che è, per uno storico, la stessa cosa che confessare il proprio fallimento prima ancora di aver tentato una qualche interpretazione.
Uno dei pochi studiosi che ha osato infrangere questo tabù è stato Eberhard Jäckel, con un saggio apparso nel 1969 in Germania con il titolo Hitler WeltanschauungEntwurt einerHerrschaft. In buona sostanza, dopo anni di anatemi e di ostracismo, la questione ch’egli poneva era la seguente: Hitler fu solo un cinico opportunista che cercava "il potere per il potere", o ebbe una sua coerenza, per quanto perversa e criminale, una sua chiara visione della politica ? Fino ad allora, quasi tutti gli storici (sulla scia di Rauschning) avevano risposto affermativamente alla prima alternativa, e negativamente alla seconda. Ciò li aveva in pratica esentati dall’onere di cercare nella politica nazista, interna ed estera, qualche cosa di più che il delirio di onnipotenza di un paranoico amorale e improvvisatore.
"Chi assume come strumento di lavoro (che non voglia o non possa far diversamente) il vocabolario di un rifiuto passionale e di una indignazione morale, chi mette continuamente le parole tra virgolette per dar loro una coloritura negativa, e pensa a ogni riga di doversi distanziare dall’argomento, non può aspettarsi di capire qualcosa. L’odio rende ancora sempre ciechi, e il danno in queso caso, nel caso di un dibattito scientifico, va non all’oggetto dell’odio, ma a chi quest’odio esprime. Se è vero il motto goethiano, che non si conosce nulla che non si ami, bisognerà abbandonare ogni ricerca seria su Hitler. Ma non deve poterci essere una via di mezzo, quella di un’analisi obiettiva e imparziale? Il presente studio parte in ogni caso dalla convinzione che una rappresentazione spassionata di Hitler sia sufficientemente eloquente da rendere superfluo l’uso continuato di epiteti di aberrazione: intende perciò rinunciarvi, e non già per neutralità morale, ma per favorire un risultato serio dell’indagine. In secondo luogo il dibattito sembrava essersi compromesse le possibilità di successo (e torniamo così alle obiezioni di Nolte) con l’introduzione prematura di giudizi di valore. Certo può esservi la giustificazione, anzi addirittura l’esigenza, di tali giudizi: però è ancor sempre valido il concetto che una indagine scientifica, per esser tale, deve in un primo tempo tenersene lontana. Dove sta scritto, a esempio, che una Weltanschauung debba aver raggiunto un determinato livello ideologico o morale per essere riconosciuta come tale?E anche se così fosse, che metro si potrà impiegare per misurare questo livello minimo richiesto? (…) Se egli [cioè Hitler], come si è affermato a lungo, non aveva obiettivi precisi, non occorreva ricercarli, e, se lo si faceva ugualmente, si era addirittura sospettati di voler attribuire alla immagine del tiranno tratti di grandezza." (Eberhard Jäckel, La concezione del mondo in Hitler, tr. it. Milano, 1972, pp. 24-25, 31).
Abbiamo già visto come sia difficile afferrare i moventi delle azioni umane, specie a distanza di tempo, e come, anzi, "personalità totali" non esistano, e ognuno di noi sia, in realtà, per usare una celeberrima espressione pirandelliana, "uno, nessuno e centomila". Quasi tutte le più aggiornate correnti di pensiero hanno ormai fatto proprio un tale punto di vista, dal quale neanche lo studioso di storia ha ormai più il diritto di prescindere. Sul terreno concreto della ricostruzione storiografica, quel che interessa chiarire non è se l’assassinio di Giulio Cesare sia stato un atto moralmente condannabile, ma attraverso quali moventi e quali condizioni politiche sia potuta maturare una simile congiura contro l’uomo che aveva posto fine alla Repubblica romana. Parrebbero considerazioni così ovvie e banali, da non meritare neppur di essere sottolineate; ma ancor oggi, e troppo spesso, esse vengono accantonate più o meno consapevolmente da molti storici, tutti presi dall’ardore della ricostruzione.
È soprattutto il delitto che continua ad esercitare uno strano fascino sugli storici delle tendenze più disparate. Nel suo saggio – peraltro eccellente – su Galla Placidia, lo storico dell’antichità americano S. I. Oost, giunto a narrare l’assassinio del patricius Ezio da parte di Valentiniano III, non ha potuto trattenersi dal considerare:
"Se questo assassinio di Ezio fu giustificato o no è una difficile questione morale. Certamente Ezio fu un traditore, che aveva acquistato il proprio potere venti anni prima con l’impiego di forze armate [leggi: gli Unni] contro il proprio paese, forze armate ottenute con la cessione di un territorio del proprio paese. E per venti anni grazie al controllo di quelle forze armate egli aveva dominato il governo legale dello stato. Esistevano parecchie leggi romane che condannavano una tale condotta come un reato capitale." (Stewart Irvin Oost, Galla Placidia Augusta, Chicago 1968, pp. 301-302; la traduzione è nostra).
La biografia è il genere storiografico che con più difficoltà può sottrarsi alla tendenza moralistica. Il biografo di Guglielmo II, come essere umano, non può fare a meno di riflettere che il personaggio di cui cerca di ricostruire la vita e i pensieri, contribuì in misura notevole al massacro di oltre otto milioni di individui e alla rovina morale e materiale dell’Europa. Come studioso, dovrà mettersi in guardia nei confronrti del proprio lato etico, ma è inevitabile che, quando il problema che gli si presenta, appare superiore alla sua capacità di rimanervi non coinvolto emotivamente, egli commetta qualche forma di eccesso – in un senso o nell’altro. Per esempio, a forza di ripetersi che non è suo compito né il giudicare, né il condannare, potrebbe accadere che il biografo di Guglielmo II finisca per minimizzarne anche le reali responsabilità storiche e per tracciarne un profilo umano che, se non è parziale nelle critiche, lo è però (magari inconsciamente) nella difesa a oltranza. Un buon esempio di ciò può trovarsi, appunto, nella biografia del kaiser dello storico inglese Michael Balfour: Guglielmo II e i suoi tempi (tr. it. Milano, 1968).
Chi non ha presente lo spietato e penetrante ritratto dello zar Nicola II e della zarina tracciato da Lev Trotzkij nella sua Storia della rivoluzione russa? Dal punto di vista dell’autore, si è trattato di un’applicazione coerentissima della sua teoria della ricostruzione storica "secondo la legge intrinseca" dei fatti. E in effetti non si può dire che le conclusioni di Trotzkij siano del tutto arbitrarie, o campate in aria: ad esse non manca né la documentazione (per quello che allora era disponibile), né un notevole sforzo di comprensione e di penetrazione psicologica. D’altra parte, è innegabile che l’assoluta mancanza di serenità dell’autore (il quale fu parte in causa nelle vicende descritte, anzi, fu diretto avversario dello zar: pessima posizione per uno storico) lo ha portato a tracciare un ritratto in cui la veemenza polemica ha finito per deformarne mostruosamente i contorni. Ancor più deformata, e con l’aggravante di avere assecondato i più vieti luoghi comuni della pubblicistica di terz’ordine, l’immagine del consigliere privato dello zar, il monaco Rasputin: per l’occasione, lo storico bolscevico prende a prestito le calunnie della corrotta aristocrazia di corte, quella stessa che decise ed attuò l’eliminazione dello scomodo personaggio, il cui torto politico principale era stato quello d’essersi opposto alla guerra, e di insistere perché la Russia ne uscisse prima che fosse troppo tardi.
Anche in questo caso possiamo dire che la tendenziosità politica dell’autore, per usare l’espressione di Leo Valiani, ha avuto l’effetto di rendere più acuta e incisiva la ricostruzione; ma la tendenziosità poltica è un’arma a doppio taglio, e comunque lo storico non dovrebbe mai ergersi a giudice, specialmente se è stato parte in causa nell’evento che pretende di ricostruire – evidentemente, pro domo sua. Via, siamo logici: possiamo pretendere che Cesare, nel De Bello Civili, sia equanime nel giudicare le ragioni del Senato e quelle di Pompeo?
Trotzkij, con la brutale franchezza che caratterizza il suo stile, si è bensì di premettere che
"Il lettore serio e dotato di spirito critico non ha bisogno di una ingannevole imparzialità che gli offra una coppa di spirito di conciliazione misto a una buona dose di veleno depositato sul fondo."
Questo, sia detto tra parentesi, perché
"nell’ora del pericolo, i pontefici di una’ giustizia che riconcilia’ se ne stanno di solito chiusi in casa, in attesa di vedere a chi tocchi la vittoria." (Lev Trotzkij, Op. cit., vol. 1, p. 14. Le successive citazioni sono tutte tratte dalla medesima opera).
Ma è anche chiaro che il suo non compiere il minimo sforzo verso questa tanto deprecata "imparzialità" deve necessariamente viziare il rispetto della "legge intrinseca dei fatti" – restando nell’ambito della sua logica; e portare l’autore a falsare deliberatamente e sistematicamente i fatti che narra in base alla sua ideologia – secondo la nostra logica. Una delle conseguenze che ciò reca implicito è proprio il riapparire del "giudizio moralistico" che, nell’opera di Trotzkij, fa la sua irruzione, si può dire, ad ogni pagina; e specialmente là dove compaiono in scena personaggi contro-rivoluzionari. Lo scrittore Fjodor Dostojevskij è "un reazionario epilettico"; l’ambasciatore francese Maurice Paléologue "uno psicologo raffinato a uso di accademici e di portinai". Riportando una frase del deputato monarchico Sulghin, in cui gli operai erano definiti "canaglia", Trotzkij con ardente zelo moralistico commenta: "Inutile sottolineare la volgarità di un gentiluomo reazionario nei confronti degli operai"! (cosa che invece fa, con una tipica preterizione); e subito dopo aggiunge, trionfante: "La rivoluzione ha calpestato questi signori". Evidentemente Trotzkij non ritiene una volgarità affermare, com’egli fa, che "le dame dell’aristocrazia sollevavano le gonne più che potevano", oppure che Aleksandr Kerenskij, il capo del governo provvisorio nel 1917, "si strofinava alla rivoluzione". Potremmo continuare a lungo, ma crediamo che basti.
Taluni storici contemporanei, poi, non hanno esitato a estendere la propria riprovazione moralistica ad interi periodi storici e ad intere civiltà. Gabriele Pepe, ad esempio, in un libro che sembra dettato dall’odio e dalla chiusura preconcetta nei confronti del proprio oggetto di studio, non ha esitato a parlare con tutta naturalezza "del brutto medioevo" (ne Il Medioevo barbarico in Europa, Milano, 1967, p. 16). Non è stato neppure sfiorato, dunque – a quanto sembra – dal dubbio sulla pertinenza di questo tipo di giudizi; basati, oltretutto, su pesanti generalizzazioni. Perché non, allora, il brutto mondo antico o la brutta età moderna? La brutta Africa o la brutta Asia? Se poi lo storico può adoperare così a cuor leggero la categoria del brutto in senso morale, significa che ha in mente un’idea di ciò che si deve considerare storicamente bello. Guarda caso, se il Medioevo è brutto, ovvi indizi portano a pensare che lo sia in confronto con la Grecia o con Roma: è – ancora e sempre, direbbe Ranuccio Bianchi Bandinelli – il rimpianto ossessivo per le forme belle dell’arte classica, per il kalòs tanto caro ai poeti e ai filosofi greci, Platone compreso. Possiamo dubitare per un solo istante che Achille non fosse bello, e quindi valoroso? Logico, visto che il deforme Tersite era brutto fisicamente e moralmente. O che non fossero belle, bellissime, Calipso, Circe, Nausica? E noi, figli della civiltà cristiana – erede della civiltà classica – possiamo dubitare per un solo istante che non fosse bello Gesù Cristo? Chiediamolo a millesettecento secoli di storia dell’arte occidentale: la risposta sarà assolutamente univoca.
Probabilmente i giudizi morali non scompariranno mai del tutto dalla storiografia. Accingersi a ricostruire il carattere di determinate personalità o le conseguenze di determinate azioni in termini di costi umani, e sia pure al solo scopo di comprendere, reca la conseguenza pressoché inevitabile di entrare nella sfera del giudizio etico; fermo restando che indulgervi è un’altra cosa.
Perché ciò accade? Perché la storia è legata alla vita, e la morale ne è una componente essenziale; essa traspare in ogni circostanza, spesso a livello inconscio; e ci sollecita a prendere una posizione che non è mai unicamente tecnica, ma anche, almeno tendenzialmente, etica. Ci sembra che il Toynbee non abbia veramente centrato il bersaglio, quando ha affermato che
"il perfetto distacco abolisce la pietà, e perciò anche l’amore, inesorabilmente come spazza via tutte le passioni cattive. (…) Cristo crocifisso è follia per il filosofo perché la mèta del filosofo è il distacco, ed egli non può comprendere come un essere ragionevole che abbia raggiunto una volta quella durissima méta, possa cadere nella contraddizione di abbandonare di proposito ciò che ha così faticosamente conquistato. Che senso c’è nel ritirarsi, semplicemente allo scopo di ritornare?". (Arnold Toynbee, Oip. cit., vol. 2, pp. 167-68).
Secondo questo modo di vedere tutti i grandi saggi, tranne Gesù Cristo, hanno potuto insegnare soltanto la via della fuga dal mondo, l’indifferenza per l’amore così come per l’odio. Se il Toynbee fosse stato meno frettoloso, e forse anche meno semplicistico, avrebbe dovuto accorgersi che sotto l’apparente distacco di molte antiche filosofie (per non parlare di quelle dell’Oriente asiatico) palpitava sempre una eccezionale sensibilità e un profondo desiderio di lenire il dolore del mondo. L’apparente imperturbabilità, e talvolta il cinismo di Diogene o dello stesso Epicuro non sono che una maschera, onde proteggere un animo sensibile da un genere di coinvolgimento che non farebbe del bene né al filosofo, né all’uomo della strada. E ciò vale anche per molti filosofi moderni, che all’antica sapienza si sono ispirati e ne hanno tratto parte della propria linfa vitale. Basti pensare alla dolorosa vicenda umana del Leopardi, autore di una traduzione del Trattato di Epitteto, per il quale ci sembra ben difficile parlare di "aridità" o "indifferenza". La stessa cosa potrebbe poi dirsi, e con altrettanta ragione, per Schopenhauer e per Nietzsche, le cui speculazioni – soprattutto quella del secondo – sono state, sia detto per inciso, troppo a lungo deliberatamente equivocate (al punto da fare di Nietzsche un profeta della violenza razziale – proprio lui che detestava ogni nazionalismo – e, addirittura, un profeta del nazismo).
Oppure che dire dello stoicismo di Marco Aurelio? Se egli realmente fosse stato coerente con i princìpi che professava di credere; se avesse tratto le conclusioni pratiche dalle premesse contenute nei suoi Colloqui con sé stesso, Roma avrebbe avuto ben altro imperatore, e il mondo oggi non ricorderebbe con rispetto e riverenza la personalità di un sovrano pagano che non si astenne dal perseguitare i cristiani, e tuttavia sulla cui statura morale esistono ben pochi dubbi. Egli poteva ben paragonare le vicende umane a una zuffa di cani intorno a un osso, e sorridere del compiacimento di un soldato romano che catturava un Sàrmata, paragonandolo a un ragno che si esalta per aver catturato una mosca. Egli trascorse undici anni combattendo sul Danubio i popoli germanici che avevano minacciato l’Impero; egli vendette gli arredi preziosi, il vasellame di corte, le statue, le vesti preziose delle sue donne per sostenere le spese della guerra; lontano da Roma e nella dura vita del campo, col freddo e tra i pericoli, egli realmente mostrò che stoffa d’uomo nascondessero gli abiti del filosofo; e infine, morendo di peste nell’assolvimento di un ingrato dovere, lasciò al mondo un testamento spirituale che è ancor oggi la ricchezza di tutti gli esseri umani. Fu questo il "distacco", questa l’indifferenza verso l’amore di cui parla il Toynbee?
Non esiste alcuna forma di distacco, alcuna forma di egoismo più o meno intenzionale che possa impedirci di atteggiarci moralmente in ogni circostanza della nostra vita. David Hume affermava che un impulso irresistibile della natura ci porta a giudicare, così come a respirare e a sentire; noi possiamo aggiungere che, con forza altrettanto irresistibile, essa ci porta ad approvare o a condannare le azioni dei nostri simili.
- [CONCLUSIONI.**
Non ci sono conclusioni.
Con le conclusioni possiamo illuderci di aver dato una sistemazione definitiva ai nostri pensieri, di aver "catturato"e messo in cornice un lembo di verità, come un entomologo fa con le sue farfalle. Possiamo barare con noi stessi e ostentare una certa soddisfazioni per aver dato ordine al disperso e forma al confuso.
È vero: la verità è uno sforzo, un’aspirazione, mai una conquista. E uttavia – si dice – se non ritenessimo di poterne afferrare una qualche parte, e sia pur piccolissima, sia lo sforzo che l’aspirazione non sarebbero che un continuo, logorante, vano brancolare nel buio. Ma occorre guardarsi dalle illusioni. La soddisfazione di sé stessi, del proprio lavoro, della propria filosofia, sono delle pericolose forme d’illusione. Ogni verità acquisita è morta, e non dovremmo mai presumere di possedere delle verità acquisite.
Eravamo partiti da un’indagine sulla natura della storiografia, e siamo inciampati ad ogni passo in dubbi, interrogativi, incertezze. Non abbiamo inteso offrire delle soluzioni pre-confezionate, perché pensiamo che esse siano poco più che il paravento della pigrizia intellettuale. Ogni discussione teorica è un po’ una battaglia contro i mulini a vento: è la vita che si incarica, poi, di presentarci dei problemi concreti, e l’istinto ci fornisce le armi per affrontarli. Questo è il dramma di tutte le filosofie, che difficilmente riescono a tradursi in una presa efficace sulla realtà di tutti i giorni; e le varie filosofie della storia non sono sfuggite al comune destino.
Tuttavia, sarebbe eccessivo affermare che la pratica può fare interamente a meno della teoria. Uno storico non può risolvere alcun problema pratico, se non è riuscito a chiarire, o almeno a inquadrare, almeno i principali nodi teorici della sua professione. È importante che non si consideri le coinclusioni della sua riflessione come altrettante verità rivelate, ma non può evitare di dare una sistemazione almeno approssimativa al proprio pensiero – una sistemazione che sa essere solo temporanea, e aperta a ogni suggerimento che la vita quotidiana gli offra.
A fini puramente pratici, riassumiamo brevissimamente i punti principali cui siamo approdati nel corso della nostra indagine. Potremmo chiamarli ipotesi di lavoro piuttosto che certezze stabilite in via definitiva; o, se si preferisce, opinioni maturate nel corso di qualche decennio di studi storiografici.
1) La storia non è una scienza né assomiglia ad alcuna delle scienze positive; i suoi metodi di ricerca sono profondamente diversi, i suoi scopi – descrivere una certa realtà non del presente, ma del passato – solo a livello di aspirazione possono paragonarsi a quelli delle altre scienze.
2) La storia non è nemmeno un’arte, proprio a cuasa di quella aspirazione a una conoscenza oggettiva, che la separa dalle discipline estetiche pure. Tuttavia, i suoi mezzi d’indagine sono talvolta più vicini a quelli dell’arte, chea quelli scientifici. Anche per la storiografia, come per la musica o la pittura o la scultura, si può in una certa misura affermare che le sue produzioni hanno una validità soggettiva, cioè sono valide sono in quel contesto spazio-temporale e, al limite, solo per il soggetto che le ha realizzate.
3) Spogliata dei falsi miti scientifici, la storia non perde nulla del suo antico fascino e della sua potente suggestività. Essa può e deve riconoscere modestamente i propri limiti, ma non rinuncerà per questo a uno sforzo, a una tensione verso l’oggettività, cioè verso una comprensione degli avvenimenti non in rapporto esclusivo a colui che li ha ricostruiti, ma considerati nel proprio autonomo valore e significato.
4) La storia non è una disciplina autosufficiente.Rifugge dalle generalizzazioni teoriche, perché si occupa del particolare e del concreto; eppure non può farne del tutto a meno, perché esiste sempre il pericolo che si perda in una serie di fatti senza prospettiva e senza movimento. Il rapporto tra storia e filosofia è di ripulsa e di attrazione: alla storia è necessario mantenere un equilibrio sempre vigile e attento.
5) La storia, come la filosofia, presta la propria voce a chi la interroga e risponde solo a chi la interroga, nella maniera che questi desidera. Al contrario delle scienze positive, in definitiva essa è creazione dell’animo umano, ma non in maniera univoca, cioè nell’atto di estrinsecarsi, bensì nelle infinite maniere in cui dai singoli storici viene ricostruita.
6) Il fine della storia non è comprendere il presente, né cercar di prevedere il futuro, ma lo studio del passato in sé e per sé. Che dalla conoscenza del passato, poi, scaturisca di necessità una più piena comprensione del presente, e forse anche una lungimiranza nei confronti degli eventi futuri, è un’altra questione: queste sono conseguenze, non fini della storia.
7) La storia non ha "leggi" deducibili a priori, formulabili – cioè – dall’esterno. Ciò che suol definire "legge" è piuttosto una norma di comportamento generale, un tipo di evoluzione costante osservato in un gran numero di casi. Ma è noto che civiltà tecnologicamente più arretrate, entrate bruscamente a contatto con altre più progredite, tendono a "saltare" diverse fasi di tale processo, anche se ciò comporta squilibri e traumi di notevole entità. Le uniche "leggi" della storia sono quelle che i filosofi le hanno soggettivamente e arbitrariamente attribuito, deducendole non già dalla concreta ossrvazione dei fenomeni, ma dai propri schemi di pensiero precostituiti.
8) Quando gli approcci al passato per via documentaria sono lacunosi o insufficienti, la storia non disdegna lo sforzo di "rievocazione" del singolo studioso; che ha sempre, comunque, una parte più o meno importante nella ricostruzione. Non esistono criteri per premunirsi contro i pericoli dell’arbitrarietà, tranne la serietà e la buona fede dello storico.
9) La storia deve cercar di comprendere, non di giudicare. Ma in pratica è inevitabile che lo storico sia portato, e sia pure inconsciamente, a giudicare. Sia da un punto di vista etico, sia da un punto di vista "sentimentale". La storia che lo studioso ricostruisce è giudizio, scelta, opinione personale: dal periodo del passato che viene prso in esame, alla terminologia, all’accento posto su questo o quell’altro aspetto della realtà, tutto è "soggettività".
10) Relativismo e un moderato scetticismo costituiscono, forse, l’abito mentale più adatto per premunirsi contro gli eccessi di un ottimismo o di un pessimismo ingiustificati. Il relativismo offre una prospettiva "storicistica" entro cui considerare il passato, lo scetticismo è un salutare ammonimento contro la propria presunzione di poter capire e giudicare "dall’alto".
Abbiamo sgombrato il campo da luoghi comuni consacrati dall’abitudine e da illusorie certezze acriticamente accettate. Ciò potrà consentire un lavoro più concreto e meglio orientato nell’opera di ricostruzione del passato.
Ma, fatti i conti, è innegabile che quanto abbiamo tolto supera il peso di quanto abbiamo lasciato, anche se reso più agile e illuminato da una maggiore consapevolezza. Da un punto di vista teoretico, il pessimismo prevale sull’ottimismo. Siamo arrivati infatti alla conclusione che la storia può offrirci, anche nel migliore dei casi, una conoscenza del passato molto parziale e limitata.
"Tutto qui ciò che rimane della storia?".
Tutto qui.
Ma non è pur sempre uno dei campi di studio più ricchi e affascinanti dello spirito umano?
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