La storiografia come problema filosofico (1)
28 Giugno 2006
Jakob Burckhardt e “L’età di Costantino il Grande”
29 Giugno 2006
La storiografia come problema filosofico (1)
28 Giugno 2006
Jakob Burckhardt e “L’età di Costantino il Grande”
29 Giugno 2006
Mostra tutto

La storiografia come problema filosofico (2)

"Si osservino i fiori di sera, quando essi, nel sole che tramonta, chiudono l’uno dopo l’altro le loro corolle. Allora ci prende un’inquietudine, un sentimento misterioso d’angoscia alla vista di questa esistenza cieca, trasognata, legata alla terra. La foresta muta, le praterie silenziose, ogni cespuglio e ogni arbusto, in sé non si muovono. È solo il vento che giuoca con essi. Per contro, questo moscerino è libero: ancor nella luce del crepuscolo esso danza; si muove, va dove vuole."

OSWALD SPENGLER

Il tramonto dell’Occidente.

Parte Seconda, I, 1.

1. Individuo e società.

2. Intuizione e capacità evocativa.

3. Sul concetto di "decadenza".

4.Ottimismo e pessimismo come atteggiamenti mentali in storiografia.

  1. [INDIVIDUO E SOCIETA’.**

Abbiamo già visto come qualsiasi opera storica sia un fedele specchio del proprio tempo, piuttosto che di quello in essa descritto, giacchè non è dato allo storico di sfuggire la propria condizione di "prodotto" di un dato tempo e di una data società, i cui valori, le cui illusioni, i cui disinganni pongono la sua visuale storica in una prospettiva particolarissima. Ciò è stato illustrato efficacemente anche dal Carr, in uno dei suoi capitoli più convincenti, là dove ha sottolineato le influenze esercitate su alcune grandi opere storiografiche dalla società e dal tempo in cui furono scritte.

"In realtà, si potrebbe affermare, senza tema di paradosso, che oggi la Storia della Grecia di Grote ci dice almeno altrettanto sul radicalismo filosofico inglese del 1840-50 che sulla democrazia ateniese del quinto secolo avanti Cristo; analogamente, si potrebbe dire che per chi voglia studiare le ripercussioni del 1848 sui liberali tedeschi la Storia di Roma di Mommsen costituisce un libro fondamentale." (1)

Le conclusioni che da ciò trae il Carr sono però alquanto diverse dalle nostre, poiché a suo modo di vedere, "tutto ciò non inficia la qualità di queste grandi opere storiografiche", giacchè "la grande storiografia nasce appunto quando la visione del passato da parte dello storico è illuminata dalla comprensione dei problemi del presente". Ma sarebbe il caso di chiedersi se la comprensione dei problemi del presente da parte dello storico, abbia davvero una funzione illuminante nello studio del passato: ci sembra più naturale giudicare che abbia invece l’effetto opposto, quello cioè di creare l’illusione – dalla quale non è possibile uscire – di considerare dei fatti, mentre spesso tutto quello che lo storico può fare è di ragionare sulle proprie supposizioni intorno a quei fatti. Succede che egli non ne abbia la chiara coscienza: e allora la deformazione della realtà sarà ancora più grave, perché, oltre a vedere una età passata con gli occhi di un tempo ben diverso, lo spirito di auto-diffidenza giace addormentato e l’opera di travisamento, essendo inconsapevole, procederà ancor più sistematica.

Questa dipendenza dello storico dal proprio contesto spazio-temporale ci riconduce al problema del rapporto tra società e individuo nella ricostruzione storiografica, cioè nella natura stessa del divenire storico. Da sempre è esistita una tendenza "eroica" della storiografia, che tende a ridurre la storia alle biografie delle personalità d’eccezione; e, più recentemente, s’è fatta strada anche l’opposta tendenza, teorizzata dal Wölfflin con il celebre motto di "una storia senza nomi", secondo la quale è possibile cogliere i grandi processi storici astraendo dalla considerazione dei singoli individui – o quasi.

La nostra opinione è che entrambe le posizioni siano insostenibili sia sul piano teorico che su quello pratico. Non c’è ragione per ritenere che i pensieri e le azioni dei singoli individui possano attraversare la società come una "terra di nessuno" o, tutt’al più, accumularvisi come semplice materiale da costruzione; né che possano "germinare" da un terreno neutro sul quale essi possano agire, senza tuttavia subire alla loro volta alcun influsso. Allo stesso modo, non vi è ragione di pensare che delle masse informi e anonime possano imprimere alla storia un qualsiasi movimento. L’uomo fuori dalla società è un’astrazione, come lo è una società senza individui. La prima tendenza ci sembra sia stata sufficientemente confutata dall’esperienza, e abbandonata quasi universalmente dalla storiografia contemporanea. Nessuno, oggi, si sognerebbe di scrivere un libro di storia seguendo i modelli di Plutarco, di Svetonio, di Tillemont. La seconda tendenza è invece abbastanza forte e agguerrita: poiché viviamo in una società che ha fatto della massa il suo grande mito (dalla democrazia alle comunicazioni alla cultura), la condanna di ogni esaltazione del fattore individuale ha trovato un terreno quanto mai propizio per espandersi oltre ogni limite ragionevole. Qui non ci troviamo solo di fronte a un grave fraintendimento storico – all’applicazione, cioè, di un modo di pensare esclusivo della "modernità" a tutto l’arco del passato (noi, cioè, non crediamo più agli "eroi" alla Carlyle, ma l’antichità e il medioevo ci credettero eccome: e non si può studiare l’antichità o il medioevo con le lenti della cultura moderna).

Noi stiamo assistendo, in questo caso, ad uno dei molteplici aspetti della crisi del pensiero contemporaneo, che sempre più ciecamente e a senso unico ha imboccato la via prescrittagli dalle disumane strutture economiche, sociali e culturali della "modernità" di tipo capitalistico post-industriale. La storiografia che misconosce totalmente il valore dei singoli individui, e vuol spiegare tutto in termini di classi o di "forze" economiche e sociali, altro non è se non il logico approdo di un modello di vita spersonalizzante, la svalutazione dell’individuo nella storia altro non è se non il naturale riflesso dell’individuo nella società, che ha cessato di pensare e di agire come "singolo" (per usare una categoria di Kierkegaard) e si è docilmente lasciato intruppare e degradare a un’esistenza anonima e gregaria. Ma poiché questa moderna tendenza della storiografia, pur travisandoli e deformandoli, utilizzza alcuni brandelli di verità che le conferiscono un’apparenza di attendibilità, occorre esaminarne attentamente i contenuti e fare attenzione a separarli dal fondo veridico di cui si ammantano.

Abbiamo definito questa tendenza storiografica un aspetto della crisi del pensiero dei nostri giorni, ed effettivamente essa sarebbe stata, crediamo, inconcepibile prima della rivoluzione industriale. È quella, infatti, la vera linea di confine tra un certo tipo di umanità, che dall’epoca di Socrate a Erasmo aveva sempre mantenuto – pur attraverso mutamenti e rivoluzioni gigantesche – un certo legame con la Tradizione (ossia con una forma di sapienza ritenuta di origine superiore all’umana: Diotima per Socrate, Gesù Cristo per Erasmo) e un altro tipo di umanità, nuovo, diverso, caratterizzato da condizioni materiali di vita e da problemi spirituali che non hanno paragone con tutto quanto la storia aveva prodotto in precedenza. Per noi, che in piena età post-industriale stiamo vivendo, le condizioni per condurre una riflessione su questo "salto" nei modi di vita e di pensiero non sono particolarmente propizie, e tuttavia da una tale presa di coscienza è condizionata la nostra capacità di comprendere il significato profondo di tutta la storia posteriore alla rivoluzione industriale.

"Durante gli ultimi centocinquant’anni la velocità del progresso con cui l’uomo si è reso padrone delle forze naturali, s’è decuplicata rispetto al periodo che corre da Giulio Cesare a Napoleone, e centuplicata rispetto ai lenti tempi preistorici. (…) In questo breve periodo, che sarebbe misurato da due sole vite umane, si sono addensati il lungo processo della Rivoluzione francese, che ora si può percorrere con senso storico; la guerra mondiale e la rivoluzione del nostro tempo, di cui la storia non ci sa ancora dire quasi nulla; e, più importante di qualunque serie di fatti politci o militari, la Rivoluzione industriale, ancora in progresso, che ha obbligato e obbliga la vita politica e sociale a seguire l’impulso dato dagl’inventori, uomini che oggi distruggono e creanoo le classi, le costituzioni, i paesi, e i modi di vivere e di pensiero." (G. M. Trevelyan, Storia dell’Inghilterra nel secolo XIX, tr. it.. Torino, 1942, Introduzione, pp. 15, 18).

Povero Trevelyan! Che cosa avebbe mai pensato l’insigne storico britannico, se avesse potuto assistere alla scissione dell’atomo, ai trapianti di cuore, al dilagare della nuova tecnologia informatica, alla cosiddetta ingegneria genetica, alla clonazione di esseri viventi, alla produzione di cibi trans-genici, alla proliferazione incontrollata della telefonia cellulare?

Ora, una storiografia che trascuri le masse, ossia la stragrande maggioranza della popolazione, per privilegiare esclusivamente le "grandi personalità", commette quanto meno un grave abuso e falsa da sé la propria prospettiva, trascurando e ignorando il contesto sociale donde tali personalità eccezionali traggono origine, sul quale agiscono e dal quale vengono, a loro volta, influenzate. Non si può comprendere Carlo Magno senza aver chiaro il quadro della società feudale dell’Europa occidentale e delle condizioni materiali e spirituali di vita delle popolazioni; così come non si può comprendere Napoleone astraendo dalla società francese post-rivoluzionaria e dalle speranze, dalle paure, dalle incertezze sia del popolo minuto che della borghesia, nonché dalle loro concrete condizioni di esistenza. Tutto ciò appare innegabilmente vero e, sotto tale punto di vista, la rivalutazione delle masse operata dalla storiografia dell’età industriale ha avuto dei meriti che non possono essere né ignorati, né sottovalutati (peraltro si dovrà ammettere che "massa" non è un insieme di individui autocoscienti, e non lo è neppure il termine "popolo": ma ritorneremo su questo punto). Tuttavia resta vero, crediamo, che se nelle epoche pre-industriali le grandi personalità della storia potevano agire, entro certi limiti, con notevole libertà nei confronti dell’ambiente sociale in cui operavano (Cesare non aveva bisogno di un microfono per arringare i suoi soldati), ciò non è stato più possibile dopo la rivoluzione industriale (che farebbe oggi un potenziale trascinatore di uomini, non diciamo senza un microfono, ma senza aerei a reazione per viaggiare e senza Internet per diffondere i suoi messaggi?). Essa ha creato dei rapporti sociali così incomparabilmente diversi dai precedenti, che anche le personalità poste dal caso o dalla propria abilità ai vertici della vita politica, economica, culturale, si trovano imprigionate entro una logica obbligata che non permette loro un’opera veramente creativa, autonoma e indipendente. Anch’essi devono, in ultima analisi, adattarsi al contesto sociale in cui vivono; cercare tutt’al più di modificarlo dall’interno, ambiguamente, quasi di soppiatto. Non è più dato loro d’imporsi ad esso con la forza della loro individualità, perché l’individuo ha cessato di costituire un interesse. Oggi l’individuo non importa più a nessuno: quel che conta è il cittadino-contribuente-consumatore. Il punto d’arrivo (provvisorio) di una tale linea di tendenza è culminato, recentemente e proprio in italia, in quello che Umberto Eco con felice espressione ha definito "populismo mediatico", ove lo slogan dell’investitura "popolare" del potere autorizza chi lo brandisce a ritenersi al di sopra di ogni grado di legalità; perché, ad esempio, un magistrato non è che un semplice vincitore di concorso statale e non è stato "investito dal popolo". Si noti che, in questo scenario, il "popolo" non è che una demagogica astrazione, poiché viene evocato come fosse una forza reale, mentre è, tutt’al più, l’anonimo elettore che ogni cinque anni deposita nell’urna una scheda in cui lascia formalmente carta bianca a dei politici, delegando loro ogni responsabilità nella gestione della cosa pubblica; mentre nulla e nessuno lo può difendere dal sistematico lavaggio del cervello che subisce attraverso l’opera dei mass-media pagati e programmati a tale scopo.

I protagonisti della scena politica mondiale odierna farebbero una ben magra figura, paragonati a quelli della società pre-industriale. Un imperatore, un re, un papa, un condottiero, anche se di mediocri capacità nello svolgimento dei propri disegni, anche se dotati di personalità non vigorosa, incidevano sulla vita dei contemporanei con ben altra forza dei più abili politici dei nostri giorni, dei più illustri statisti, dei capi religiosi più preparati. Al tempo in cui la produzione e l’utilitarismo non avevano ancora rovesciato e soffocato ogni altro interesse nella vita sociale (l’uomo a una dimensione di Marcuse), le folli aberrazioni di Caligola o Eliogabalo, l’illuminata sagezza degli Antonini e anche le contraddizioni e le debolezze di Teodosio o di Giustiniano, esercitavano sulle condizioni di vita materiali, sulle azioni e sui pensieri dei loro sudditi un influsso ben altrimenti profondo di quello di un Cavour, di un Bismarck, di un Wilson. Le ultime "grandi personalità" della storia si sono prodotte, non a caso, nei paesi rimasti in posizione arretrata rispetto alla riviluzione industriale, in cui le strutture – materiali e spirituali – della "modernità" erano ancora embrionali o minime: Lenin, Mao Tse-Tung, "Che" Guevara. Già gli statisti che sono loro succeduti non meritano più l’appellativo di "grandi personalità" e scadono nell’anonimato di una logica più grande di loro, che ne orienta a priori le scelte e le azioni. Stalin non è che un macellaio all’ingrosso, Deng Xiaoping un burocrate impenetrabile e Fidel Castro una eterna controfigura del caudillo in panni rivoluzonari.

Tale è la condizione dell’uomo odierno, nel bene e nel male; e se in una società tribale africana, traumaticamente investita dalla duplice invasione del neo-colonialismo e della tecnologia, vi è ancor spazio per le crudeltà e pazzie di statisti paranoici e cannibali – come Idi Amin Dada in Uganda o Bokassa nella Repubblica Centro-africana – che sarebbero stati ben degni di figurare negli annali romani del basso Impero, ciò appare già ai nostri occhi di membri della civiltà post-industriale poco più che un macabro scherzo, e un rigurgito anacronisto e "folcloristico" di modernità mal digerita. Non si faceva arrivare Bokassa, nel suo poverissimo e sedicente "impero", casse di costosissimo champagne ghiacciato, per via aerea, direttamente da Parigi, con le quali innaffiare i suoi raccapriccianti banchetti di carne umana?

E tuttavia, è lecito domandarsi: il posto "vacante" lasciato libero dalle grandi personalità storiche, è stato veramente "riempito"dalle masse in espansione? A un esame affrettato, parrebbe di sì. Ma poi ci si accorge che ciò è stato vero – se mai lo è stato – soltanto nella fase di trapasso dalla civiltà pre-industriale a quella industriale pienamente sviluppata, in un momento storico particolarissimo, temporalmente e spazialmente limiato. La Rivoluzione francese e l’indipendenza americana rientrano in esso, ma già tutta la storia britannica del XIX secolo è oltre quella soglia. Le rivoluzioni russe del 1917 sono state l’estremo limite, in Europa, raggiunto dalla "massificazione" della storia, nell’ambito di una società arretrata che già costituiva un’eccezione nel quadro dello sviluppo, materiale e spirituale, della civiltà industriale moderna. Prima di esse, la Comune di Parigi del 1871 è stata forse l’ultimo conato di un processo storico che la rivoluzione industriale aveva al tempo stesso promosso e condannato. Fu essa a distruggere molti antichi privilegi, permettendo alle "masse" di affacciarsi veramente, per la prima volta, sulla ribalta della storia; e fu ancora essa che, poco dopo, richiuse l’uscio ancor più saldamente di prima, strangolando le sue stesse creature. La rivoluzione industriale seguiva il proprio cammino, che era diverso da quello delle creature umane; essa procedeva oltre l’uomo e nonostante l’uomo, travolgendolo e facendolo ripiombare nella condizione di strumento oppresso e impotente della storia. Le masse, da sempre messe in ombra dalle grandi personalità, sono ricadute sotto una tirannide più spietata, più logorante, più subdola di ogni altra finora conosciuta: quella di un incontrollabile sviluppo tecnologico che non si cura più di essere al servizio dell’uomo, ma lo schiaccia definitivamente in una condizione di sudditanza e di anonimato.

Ecco dunque che certa storiografia contemporanea, tutta protesa a cancellare ogni traccia di azione individuale nella storia e a sottolineare, o meglio esaltare e celebrare, l’avvento delle "masse" sulla scena politica mondiale, si rivela per quello che realmente è: un goffo tentativo di mascherare la scomparsa delle masse da tale scena politica. Con questa eutanasia, con questi falsi ritornelli inneggianti alle "conquiste" delle masse, che ognora siamo costretti a sentire, si soffoca dolcemente l’ultima possibilità di reazione delle masse: che parte dalla coscienza della propria sottomissione. Così come oggi più si celebrano, ad esempio, gli ideali di pace, giustizia e solidarietà, nel momento stesso in cui essi muoiono e vengono sepolti nelle coscienze, e con tale politica si rende la loro morte dolce e quasi gradevole; allo stesso modo, il definitivo tramonto delle masse sulla scena della storia viene accompagnato da una esaltazione senza precedenti del loro ruolo storico nel mondo attuale. E non è necessario ricorrere a perfide macchinazioni machiavelliche per spiegare una politica così subdola e ingegnosa: è la logica stessa dell’apparato tecno-scientifico, che tende a divorare e trasformare in prodotti di consumo quegli stessi ideali e quelle azioni che ad esso tentano di opporsi. Lo abbiamo già visto, in forma vistosissima, all’epoca delle contestazioni giovanili degli anni ’60 e ’70; e un acuto osservatore come Pier Paolo Pasolini lo aveva denunciato, nei suoi memorabili Scritti corsari, quando il fenomeno tendeva ancora a mimetizzarsi.

L’uomo della civiltà post-industriale è capace di vivere e morire spensieratamente fra mezzo a infinite contraddizioni che dovrebbero risultargli evidenti (distruzione ambientale, alienazione, manipolazione psichica e perfino genetica, guerra) se i suoi pensieri e le sue azioni non fossero indissolubilmente avvinti nella tela di ragno di un supposto "progresso" in nome del quale è disposto a sacrificare ogni cosa: qualità della vita, ecologia della mente, onore, dignità, futuro delle prossime generazioni.

Ma tutto ciò riguarda il presente. Lo storico dell’antichità o dell’età medioevale non può accingersi al proprio lavoro con l’ottica della modernità. Egli deve tener presente che la tecnologia individuale e collettiva, i rapporti umani, il modo di pensare e di agire erano profondamente diversi prima della rivoluzione industriale. Questo cambiamento è avvenuto letteralmente sotto i nostri occhi e non ce ne siamo accorti, e porta un nome preciso: la scomparsa della civiltà contadina, che Charles Péguy ha definito "l’avvenimento più importante nella storia del mondo, dopo la nascita di Gesù Cristo". Non era tutta esagerazione la storiografia "eroica" delle grandi personalità. È vero: Alessandro Magno non è neppure concepibile come individuo isolato, avulso dal tessuto sociale greco-macedone del IV secolo a. C. Ma le gesta di Alessandro Magno hanno avuto sul corso della storia mondiale (e non solo occidentale) un peso talmente enorme, che sarebbe del pari inadeguato affrontare la questione dell’ellenismo trascurando o sottovalutando l’apporto individuale di quella personalità straordinaria.

2. INTUIZIONE E CAPACITA’ EVOCATIVA.

Perché l’uomo si interessa del passato? Che cosa spinge lo storico ad occuparsi di lontane epoche, di società scomparse, di modi di vita e di pensiero che non hanno più alcun riscontro nelle forme dell’esistenza attuale? Probabilmente la maggior parte del pubblico non si è mai posta una simile domanda ed è possibile che perfino alcuni storici si siano accontentati di una risposta frettolosa e semplicistica: eppure questa domanda, dietro la sua apparente innocenza, schiude delle prospettive di enorme importanza, sia teoriche che pratiche. Teoriche, perché lo storico non può applicarsi con consapevolezza al proprio lavoro di ricerca, se non ha affrontato seriamente le proprie radici motivazionali; pratiche, per porsi in un rapporto non equivoco con gli oggetti della propria ricerca.

Una prima risposta, generica ma abbastanza soddisfacente, potrebbe avvalersi delle stesse parole con cui David Hume rispondeva a una domanda analoga, posta sulle ragioni della riflessione filosofica:

"Se non vi fosse altro vantaggio da ricavare da tali studi, al di fuori della soddisfazione d’una innocente curiosotà, anche questo non sarebbe da disprezzare, come un incremento a quei pochi piaceri sani e innocui che sono concessi al genere umano." (David Hume, Ricerche sull’intelletto umano, sez. I; Bari, 1974, p. 10).

Ma, naturalmente, la storiografia sarebbe destituita di ogni interesse se le conclusioni della sua ricerca riconoscessero semplicemente e modestamente, come quelle della filosofia, di non possedere alcuna garanzia di oggettività; nessuno si occuperebbe più della storia, tranne i romanzieri, se non esistesse la speranza di riuscire a fissare una parte almeno di verità, e sia pure una minima parte. La curiosità dello storico non sarebbe, infatti, per nulla "innocente" se egli non nutrisse la speranza, e anche il desiderio, di una conoscenza che oltre a fornirgli "un innocuo e sano piacere", possa anche svelargli sotto una luce veritiera, o quanto meno verosimile, gli oggetti del suo studio.

Alcuni storici, forse la maggioranza, si sono spinti anche assai al di là di questa prospettiva, cercando nell’esercizio della propria disciplina una "chiave" per la corretta interpretazione del tempo presente, una "chiave" a funzionamento reversibile, con la quale sarebbe anche possibile compiere il procedimento inverso – capire il passato attraverso il presente. Un illustre storico inglese, ad esempio, sostiene apertamente che il passato serve a meglio capire il presente.

"La funzione dello storico non consiste né nell’amare il passato né nel liberarsi del passato, bensì nel rendersene padrone e nel comprenderlo, per giungere così alla comprensione del presente." (E. H. Carr, Op. cit., p. 31).

Dove non si chiariscono due punti di capitale importanza: e cioè se sia mai possibile "rendersi padroni del passato" senza anche amarlo; e con quale salto qualitativo lo storico possa librarsi dalla contemplazione del passato a quella del presente. Cominciamo dal primo punto. È noto che molti storici odierni, e non solo i fautori di una storiografia "scientifica", provano un senso d’imbarazzo e quasi di vergogna ad ammettere una specie di rapporto affettivo tra la persona dello studoso e i fatti intorno ai quali sta indagando, e che per sfuggire a una simile ammissione – che, a loro modo di vedere, li squalificherebbe sul piano professionale – si affannano alla ricerca di una motivazione più "nobile" ed "elevata".

Pochi hanno avuto l’ardire di sostenere la tesi contraria, e le loro affermazioni sono state accolte dallo sconcerto o quantomeno dall’imbarazzo degli ambienti accademici. Tra essi il grande storico olandese Johan Huizinga, con la sua consueta franchezza priva di ostentazione, ha affermato tranquillamente:

"Si vuol conoscere il passato. Perché lo si vuol conoscere? C’è ancora chi risponde: per prevedere il futuro. Ci sono molti che pensano. Per comprendere il presente. Personalmente, io non arrivo a tanto. Io penso che la storia cerchi di dare uno sguardo al passato in sé e per sé. Ma a che scopo? Il fattore finalistico, nella nostra sete di conoscenza, non può essere trascurato. Evidentemente, in ultima analisi, sempre allo scopo di ‘comprendere’. Che cosa? Non le circostanze e le possibilità particolari del confuso presente. (…) No, non si tratta della tempesta dell fosco presente, ma del mondo e della vita nel loro stesso significato, nella loro eterna tensione e nella loro eterna quiete."

E concludeva citando una pregnante espressione di un altro grande storico della generazione precedente, lo svizzero Jakob Burckhardt:

"Ciò che un tempo fu gioia e dolore, ora deve diventare conoscenza, come del resto anche nella vita del singolo." (Johan Huizinga, La scienza storica, tr. it. Bari, 1974, p. 98; cfr. amche pp. 108-9).

Dunque, la storia dovrebbe dare uno sguardo al passato in sé e per sé: questa è anche la nostra opinione. Se poi la conoscenza del passato potrà fornirci una più ampia comprensione del presente, o addirittura metterci in grado di prevedere il futuro, tanto meglio: ma non sono questi i suoi fini ultimi. Se è vero che la storia non deve cercare il proprio significato al di fuori di sé stessa (e vanno quindi respinti, per essa, i finalismi filosofici e teologici), così pure non si dovrebbe cercare nel passato qualche cosa di diverso da esso. La comprensione, o meglio il tentativo di una comprensione del passato in quanto tale: ecco il fine della storia e dello storico. Che poi qualsiasi tentativo di comprensione del passato, riconosciuti insufficienti tutti i presunti metodi "scientifici", debba affidarsi anche alla potenza evocativa dell’immaginazione e del sentimento, pur nel pieno rispetto delle fonti documentarie e senza nutrire l’illusione di poter giungere a conclusioni assolutamente oggettive, questo è un corollario che a noi sembra scaturire necessariamente da quanto abbiamo detto.

Siamo così penetrati nel regno incerto delle ombre, lì dove dati inoppugnabili e "compartecipazione affettiva" dello storico si toccano e si confondono: e abbiamo la piena coscienza di esserci spinti in un terreno sul quale è difficile mantenere gli equilibri e occorre raddoppiare di prudenza per non incorrere in equivoci. La posizione dello storico che siamo venuti delineando ripugnerà certamente a quanti vorrebbero equipararla a quella dello scienziato o del matematico, e si presta al pericolo di non pochi fraintendimenti. Vogliamo perciò subito chiarire che in essa, a nostro modo di vedere, è necessario un costante e non facile equilibrio tra il rigore documentario dell’erudito, la vastità di concezione del filosofo, la sensibilità di una sincera e profonda partecipazione umana. Non già una sensibilità artistica: l’arte è sempre creazione, e nella storiografia nulla può lo spirito liberamente creare, se non al prezzo di stravolgere deliberatamente fatti e documenti. Il romanzo storico è una degnissima forma di letteratura, ma non è storia, e in nessun modo può essere contrabbandato come tale. Perciò vogliamo ben chiarire che "potenza evocativa" del sentimento e "compartecipazione affettiva" vanno intesi non nel significato di espressioni artistiche, ma in quello – ben diverso – di meditati atteggiamenti psicologici.

Quegli storici che ritengono di lavorare intorno a una scienza si scandalizzeranno per il ricorso a "metodi psicologici", e ribatteranno che l’unica garanzia di serietà per una ricostruzione storiografica non può essere che il rigore "scientifico" della documentazione e della sua utilizzazione. Dimenticano che, quand’anche fosse possibile un "rigore scientifico" nella documentazione, cosa della quale non siamo affatto convinti, non vi è alcun criterio "scientifico" precostituito per l’eleborazione dei dati: e la storia è sempre elaborazione. Ma dimenticano soprattutto che ogni storico, ne sia cosciente o meno, nell’atto di accingersi all’utilizzo dei documenti obbedisce quasi sempre a un criterio interpretativo che è dettato o suggerito dalla potenza evocativa del sentimento e dalla sua personale compartecipazione affettiva. Ogni giudizio, ogni valutazione, ogni conclusione lo storico tragga dalla massa intricata e contraddittoria dei dati, egli lo emette in virtù di un assenso istintivo, di un moto spontaneo dell’animo, che – per effetto delle esperienze precedenti, della sensibilità personale dello studioso, e delle sovrastrutture mentali su di essa costruite dalla società in cui vive – agiscono anteriormente a qualsiasi valutazione rigorosamente scientifica.

Che in tutto ciò vi sia una componente – diciamolo pure – ineliminabile, di soggettività e anche di arbitrarietà, è un fatto chiaro ed evidente, ma solo una critica tendenziosa potrebbe accusare chi lo riconosca di aver accettato le premesse da cui scaturisce de fact ouna storiografia arbitraria. Occorre prender coscienza dei limiti delle nostre possibilità di comprensione del passato; e, posto che in tale comprensione risiede il fine ultimo della storiografia, non è che una conseguenza logica l’ammettere che il sentimento, alleato indispensabile della ricostruzione storiografica, rechi in sé il pericolo – in pratica inevitabile – di qualche slittamento verso il campo dell’arbitrario. Ma una storiografia che, per sfuggire questo fatale spauracchio, cercasse rifugio nella fortezza inspugnabile della più rigorosa documentazione, non risolverebbe affatto il problema. Abbiamo già avuto modo di osservare che il documento, di per sé, non parla, non vive di vita propria: non ci dice nulla se non quello che noi decidiamo di lasciargli dire. Collocarlo in un contesto dalle prospettive non falsate; individuarne le sorgenti profonde e ele finalità, sia dichiarate che riposte; dare vita all’immobile, rimettere in movimento l’inanimato: questo è il compito dello storico. Ed è un compito che nessuno storico ha mai potuto svolgere mettendo completamente a tacere il proprio sentimento e i propri impulsi affettivi.

Certo, vi sono stati storici che hanno attinto più o meno ampiamente alle proprie risorse sentimentali e affettive. Mommsen, che fondava la sua conoscenza della storia romana su una imponente e rigorosa conoscenza dell’epigrafia e delle iscrizioni, si è avvalso della "compartecipazione affettiva" molto meno di Burckhardt o di Huizinga. Non già che questi ultimi storici difettassero di preparazione documentaria. Ma, a ben guardare, già la scelta di un determinato campo di ricerca indica chiaramente le ragioni di una siffatta diversità metodologica. Descrivere "come un tutto" periodi complessi e compositi come L’età di Costantino il Grande, La civiltà del Rinasciemento in Italia, o come L’autunno del Medioevo, implicava necessariamente il ricorso a una robusta "evocazione sentimentale" che desse vita e movimento alle fonti e ai documenti. Si potrebbe obiettare che una Storia di Roma, come quella del Mommsen, abbracciante parecchi secoli di civiltà, poneva gli stessi problemi e anzi ingigantiti; ma non è così. L’opera del Mommsen è essenzialmente una storia politica e, nonostante i capitoli dedicati alle arti e alla letteratura, i protagonisti di essa non cessano mai di essere i Mario e i Silla, Cesare e Pompeo. Olte a ciò, la grande ampiezza di quell’opera offre la possibilità di un’analisi più sistematica di quelle, a loro volta, affrontate da Burckhardt e da Huizinga, che potremmo piuttosto definire degli affreschi grandiosi e commossi. L’ambizione di questi ultimi storici non era affatto quella di "esaurire" il campo delle conoscenze – e sia pure delle conoscenze essenziali – sui rispettivi argomenti. Non era neppure quella di fare unicamente opera di divulgazione. Essi ambivano piuttosto a cogliere un panorama sintetico e allo stesso tempo animato dei modi di vita e di pensiero, dei costumi, della religione, dell’arte, della letteratura di una intera età, o neglio di una civiltà.

L’Autunno del Medioevo di Huizinga non si occupa affatto né della storia politica, né di quella filosofica della società franco-borgognona sullo scorcio fra Tre e Qauattrocento; essa mira ad afferrare i caratteri dell’esistenza umana in un lontano contesto storico e, a tal fine, la semplice raccolta di un imponente apparato documentario, di per sé muto e silenzioso, sarebbe impari allo scopo. Oppure prendiamo il caso di Jakob Burckhardt, e particolarmente della sua giovanile Età di Costantino il Grande (pubblicata nel 1853). Le notizie in essa contenute sulle vicende politiche di un cinquantennio di storia, dalla fine del sistema tetrachico instaurato da Diocleziano alla morte di Costantino, nel 337, non sono più abbondanti di quelle che potremmo reperire in un buon manuale, o in una storia universale di una certa ampiezza. Accuseremo per questo il Burckhardt di scarsa serietà professionale o di impreparazione nel campo specifico della sua ricerca? Evidentemente no. Il fine che egli si proponeva non era quello di superare tutto quanto era già stato scritto sulla storia politica dell’età costantiniana per quantità e imponenza di materiale, ma piuttosto di cogliere il "volto" di un momento decisivo della civiltà romana in piena fase di trapasso dal paganesimo al cristianesimo. Se poi questo definito angolo visuale abbia indotto lo storico a una visione troppo unilaterale o troppo semplicistica degli svariati aspetti di quell’età, sta al lettore giudicare. Ma, chiarita la prospettiva dalla quale egli ha preso le mosse, nessuno si meraviglierà se, leggendo L’età di Costantino il Grande, troverà che capitoli di storia essenzialmente politica, come l’VIII (Le persecuzioni dei cristiani e il diritto di successione), sono più brevi di quelli dedicati alla storia religiosa (il V e il VI insieme), e poco più ampi di altri, come il VII (Senescenza del mondo antico e della sua civiltà), che trattano sostanzialmente della storia artistica e letteraria. Eppure è un dato di fatto che l’atteggiamento della cosidetta storiografia "ufficiale" è, a tutt’oggi, profondamente critico nei confronti dell’opera dello storico di Basilea, sulla quale pesa come una cortina il sospetto di non aver seguito una metodologia rigorosamente scientifica. Apendo un’enciclopedia scelta a caso, vi abbiamo trovato questa tipica riserva di carattere etico-professionale, che sembra riassumere tutto l’atteggiamento supercilioso degli odierni ambienti accademici:

"Egli non fu uno ‘storico scientifico’ nel senso più recente, e gli studiosi hanno criticato il suo avvicinamento [alla storia] ‘per epoche’. (Da The American Peolple’s Encyclopedia, vol. 4, p. 10, nostra traduzione).

Secondo costoro, un’interpretazione "troppo personale" di un’età – conseguenza inevitabile dell’aver scelto un’epoca intera, e non un singolo fatto o personaggio, quale campo di ricerca – reca in sé l’inaccettabile conseguenza di una deformazione dei fatti, di un travisamento della realtà storica, che ne squalifica "a priori" i risultati. Per noi che non nutriamo eccessive illusioni sull’esistenza, o quanto meno sulla accessibilità, di una "realtà storica" indipendente dall’osservatore esterno; e che abbiamo la piena coscienza di quanto qualsiasi opera storica deformi pressochè inevitabilmente i fatti, queste accuse non rivestono un carattere di inoppugnabilità tale da confermarne tutte le premesse. Sopattutto, è importante riconoscere come un ampio impiego di fonti documentarie e un minimo ricorso alle riflessioni personali dello storico, non offrano affatto tutte le garanzie di un pieno rispetto della cosiddetta verità storica (elusivo noumeno kantiano).

È noto che una delle tecniche più insidiose ed efficaci del giornalismo consiste nell’accentuare il rilievo di alcuni fatti, nel tacerne o minimizzarne altri, nel dare l’impressione di una contemporaneità tra due serie distinte di avvenimenti, e viceversa. Esistono molti modi di mentire e travisare i fatti: uno è quello di citarne alcuni e tacerne altri, con fini chiaranente tendenziosi e partigiani. Un altro è quello di lasciar immaginare ciò che non ha alcuna base reale, pur senza affermarlo esplictamente. Non mente soltanto chi altera la verità, ma anche chi la tace e chi crea coscientemente le condizioni perché altri la fraintendano. La stessa cosa vale nel campo della storiografia. Torniamo qui a ripeterlo: la più vera garanzia di serietà di un’opera storiografica consiste unicamente nella serietà dello studioso; ma non esistono delle metodologie che posseggano un vantaggio assoluto su altre, per garantire la veridicità del risultato. Finchè si rimane nel campo dell’indagine storica, e non si sconfina nella libera creazione del romanzo storico (e non occorre pensare a D’Azeglio, Grossi, Scott o Sienkiewicz, ma anche a un Emil Ludwig, tanto acclamato ai suoi tempi) il "metodo erudito" non possiede maggiori garanzie di obiettività rispetto ad altri modi di accostarsi alla storia. Certo, esiste il pericolo di un eccessivo trasporto sentimentale da parte dello storico; ma non esistono ricette miracolose per rendersene immuni a priori.

Chiunque abbia un po’ di esperienza nel campo della ricerca storica conosce quell’impulso dell’animo che porta lo studioso a una simpatia istintiva con gli oggetti della propria ricerca, e che è il frutto di una lunga consuetudine con essi, di un diuturno, silenzioso eppure intenso rapporto spirituale. In realtà, a ben guardare, è inevitabile che non di un vero rapporto si tratti, giacchè qualsiasi rapporto presuppone il contatto fra due personalità individuali, mentre nella ricerca storica – anche la meglio documentata e illuminata dalle fonti – l’"altro", cioè l’oggetto della ricerca, tace, non vive di vita propria: la distanza di spazio e di tempo e l’accumulo delle sedimentazioni successive hanno rapito le sue parole e i suoi pensieri. Costretto a dialogare con le ombre, lo storico deve per foza prestare la propria voce e i propri pensieri a coloro che non sono più in grado di parlargli – col rischio di finire per attribuir loro i propri pensieri e punti di vista.

Tuttavia, una distanza sostanziale separa il letterato dallo storico: là dove il primo inventa a proprio piacimento (e certo il Nerone di Quo vadis? ha poco a che fare con la realtà storica), il secondo cerca di far tesoro di tutte le testimonianze e i documenti di cui dispone, e, alla luce di essi, avanza delle interpretazioni che, se non pretendono di raggiungere un’impossibile "oggettività", si sforzano quanto meno di tendere alla verosimiglianza. Il letterato basta solo che tenga presenti le componenti costanti ed eterne dell’animo umano, e su questo disegno generale tesse liberamente le trame dei caratteri individuali di sua invenzione; lo storico, al contrario, agisce sul terreno concreto e irripetibile dell’individuale, analizza i singoli aspetti e i singoli caratteri indipendentemente l’uno dall’altro, e solo in un secondo momento procede ad inserirli in una cornice più vasta. Nell’instaurazione del "dialogo" con l’oggetto della propria ricerca, lo storico, tuttavia, fa sempre ricorso alle proprie risorse immaginative e alla propria capacità evocativa. Egli sa bene che il documento, in sé stesso, tace, o che parla solo a metà; ed è lui, quindi, a dover compiere il piccolo prodigio di evocare quella voce perduta. Talvolta lo storico, per riuscirvi, cerca l’ispirazione sui luoghi stessi che furono teatro delle lontane vicende che vuole ricostruire; il pellegrinaggio a Roma, fra i ruderi di quella civiltà, era una tappa obbligata per gli storici del Settecento e dell’Ottocento che si dedicavano alla storia romana. Ferdinand Gregorovius, il grande storico-poeta (nel senso più nobile del termine) visse a Roma per oltre vent’anni,immergendosi nell’atmosfera del passato onde poter scrivere la sua grandiosa Storia di Roma nel Medioevo – che, sia detto per inciso, è anche un’opera molto ben documentata, oltre che una ricostruzione letterariamente assai pregevole.

Un altro aspetto della questione che ci eravamo posta, "perchè si scrive la storia", merita ora di essere esaminato: quello della scelta, da parte dello studioso, del particolare momento o situazione del passato che intende ricostruire. E qui si vedrà come il termine "storico" nel significato di "studioso di storia" – termine del quale noi pure ci siamo fin qui serviti per ragioni pratiche di chiarezza – sia in realtà quanto di più vago e impreciso si possa immaginare. Non è un termine rappresentativo di una realtà omogenea, in quanto raggruppa studiosi diversissimi per formazione e atteggiamento spirituale, per criteri metodologici, per convinziuoni filosofiche e pratiche intorno alla disciplina su cui operano. Al confronto, termini come "scienziato", "poeta", "pittore", "compositore" e perfino "filosofo" indicano una uniformità di intenti e di prospettive che mancano al termine "storico". È lecito designare come appartenenti alla medesima attività di ricerca Paolo Orosio ed Henry Pirenne, oppure – restando nellìambito della stessa civiltà e della stessa epoca – Lev Trotzkij e Benedetto Croce? Sì, se badiamo all’oggetto puro e semplice della loro ricerca: il passato; no, se teniamo presente l’abisso di concezione, di metodo, d’interessi che dividono fra loro questi studiosi. Ancora. In quale rapporto si pone lo storico "puro" con il filosofo della storia; ad esempio, per fare due nomi noti e non lontanissimi, Mommsen e Troeltsch? Sembra difficile dirlo; tanto più che singoli studiosi – come Meinecke, come Toynbee, per fare solo due nomi – possono giustamente aspirare ad entrambe le qualifiche. Ma quel che più separa tra loro gli studiosi del passato, gli "storici", non sono tanto le diversità di presupposti culturali e metodologici, quanto gli stessi campi d’indagine da ciascuno di essi prescelti.

William Hicking Prescott, nella prima metà del secolo XIX, ha legato il proprio nome ad opere ancor oggi famose, come la History of the conquest of Mexico e la History of the conquest of Peru. In esse, dato l’argomento trattato – che era di per sé avventuroso e quasi romanzesco – viene tracciata una vivida descrizione della sanguinosa e fantastica epopea dei conquistadores spagnoli in America; e le descrizioni di battaglie, assedi, marce leggendarie, sono intercalate da impressionanti descrizioni di meraviglie naturali e artificiali, di usi e costumi di popoli semicivili, da biografie di personaggi da leggenda. Ebbene: quale punto di contatto potrà mai esservi fra lavori di questo genere (che, si badi, rimangono dei "classici" nel loro campo, per certi aspetti non ancora superati dalle opere più recenti) e opere come la Storia sociale ed economica dell’Impero Romano del Rostovcev, – rivolte, appunto, all’indagine dei concreti fattori materiali operanti nella società umana; o come il magistrale lavoro di Max Weber L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, rivolto all’analisi del rapporto fra dottrina religiosa e sviluppo dei modi di produzione e di commercio?

Ciascuno di questi studiosi – Prescott, Rostovcev, Weber – si è occupato del passato: ma le forme del passato che hanno attratto la loro attenzione (e spesso in maniera esclusiva) sono così differenti, che meglio saebbe addirittura parlare di discipline fra loro completamente diverse. Ora, siamo d’accordo che una ricostruzione storica veramente completa ed organica dovrebbe abbracciare e compenetrare fattori filosofici ed economici, sociali ed artistici, politici e culturali; ma la realtà è che, nella pratica storiografica, ben pochi storici sono stati in grado di cimentarsi con una simile impresa. Di più: è sufficiente l’arco ristretto di una vita umana per assicurare allo studioso una adeguata preparazione in tutte le svariate discipline riguardanti la storia: paleografia, diplomatica, numismatica, epigrafia, economia, filosofia, politica, leteratura, arti figurative, ecc.? Non presuppongono addirittura, aspetti così diversi del sapere, formazioni culturali e psicologiche diverse da parte degli studiosi, che una sola persona, evidentemente, non potrà possedere? Non è insomma chiedere troppo a uno studioso, che egli possegga una piena e indifferenziata padronanza di tutti gli aspetti della ricerca storica?

Certo, nessuno storico serio può ignorare almeno i rudimenti di ciascuna delle discipline cosiddette ausiliarie, né una storia – poniamo – del costume, potrà prescindere dalla conoscenza dei fatti economici, finanziari, politici, sociali di quella data società; e viceversa. Tuttavia è inevitabile che alcune (o parecchie) di tali discipline passino in ombra agli occhi dello studioso; e ciò non soltanto per la materiale impossibilità di una cultura "globale", quanto per la naturale tendenza dell’animo umano a imboccare una strada ben precisa, fra le molte possibili o desiderabili, e a percorrerla sino in fondo, a discapito – evidentemente – di tutte le altre. È in questa prospettiva che ci sembra di poter spiegare l’estrema varietà d’interessi che ha fatto prediligere a storici diversi, campi di studio così eterogenei, non solo nel contenuto e nel metodo, ma anche nella specifica angolatura da cui li hanno considerati. Vi sono stati, e vi sono, storici "economici", storici "politici", storici dell’arte e del gusto, storici del pensiero, e via dicendo; e anche quelli – ma piuttosto rari – in possesso del singolare talento di saper fondere più d’uno di questi aspetti di uno stesso organismo sociale.

A taluni storici moderni, però, è sembrato discutibile il fatto che gli studosi si scelgano, per così dire, il proprio campo d’indagine, seguendo unicamente l’impulso del proprio carattere e delle proprie inclinazioni. Preferirebbero, non si sa bene come, che ciascuno studioso segua un qualche criterio esterno e oggettivo. Evidentemente, le loro riserve sono motivate dalla preoccupazione che lo storico, seguendo solo il proprio estro, finisca per riversare troppo copiosamente le acque della propria sensibilità sull’oggetto di studio prescelto, col risultato di distorcerlo e forzarlo entro una qualche prospettiva preordinata. A costoro vorremmo rispondere che ciò, per l’appunto, costituisce non solo la ragione profonda dell’interesse storico, ma anche il punto di forza di qualsiasi indagine rivolta al passato. Così come una naturale inclinazione induce lo storico (continuiamo, in mancanza di meglio, a servirci di questo termine generico) a scegliere quale proprio campo di studio il passato – anziché, poniamo, le scienze naturali, la matematica o l’astronomia -; del pari è sempre una naturale inclinazione dell’animo che lo porta a concentrare l’interesse su determinati aspetti e periodi del passato.

Lo storico, dunque, "sceglie", in virtù delle proprie inclinazioni istintive e naturali, anteriori a ogni concettualizzazione e a ogni ragionamento filosofico, i periodi e gli aspetti della storia che lo interessano; e, nel far ciò, si cala più o meno profondamente in una concreta realtà fenomenica che in un certo senso contrasta con la totalità del divenire storico, e con le ambizioni di universalità del sapere storiografico. Si tratta, come sempre, di contemperare l’esigenza della ricostruzione concreta di una realtà limitata e specifica, contingente e irripetibile, con la prospettiva di un contesto più vasto e universale onde quella nasce, si sviluppa, si trasforma. Compito dello storico è dunque un difficile equilibrio tra contingente e globale, tra accidentale e perenne, tra storia e filosofia.

"Lo storico vuol vedere il passato vivere, sì, ma nelle forme intellettuali che egli stesso sceglie. (…) So bene che in ogni scienza, chi la professa si specializza secondo le proprie preferenze; ma quando ci s’interessa di storia, questa preferenza per un determinato periodo del passato è ancorata a un gran numero di sentimenti che esulano di molto dalla pura aspirazione scientifica. La fantasia ha qui una parte notevole, e ancor più l’ha il sentimento. Si tratta di un amore per il passato, di un nostalgico desiderio di veder vecchie cose morte risorgere in uno splendore di calda vita." (J. Huizinga, La scienza storica, cit., pp. 54, 84).

Ma se è vero – come è vero – che "la preferenza per un determinato periodo del passato è ancorata a un gran numero di sentimenti che esulano di molto dalla pura aspirazione scientifica", allora sembra difficile sfuggire alla conclusione che ciò avviene – ed è sempre avvenuto – per il semplice fatto che la storia non è una scienza, neppure la "scienza imprecisa per eccellenza" come afferma Huizinga. Certo, la "preferenza" dello storico per determinati aspetti del passato, quando è determinata dalla fantasia e dal sentimento, reca in sé il pericolo di un abbandono a una ricostruzione troppo soggettiva e, forse, arbitraria.

Tuttavia, il punto che vorremmo chiarire è un altro. È mai possibile che altri fattori, oltre la fantasia e il sentimento, esercitino un’influenza decisiva nel determinare la "scelta" del campo d’indagine da parte dello studioso? Non è forse ogni accostamento al passato, un accostamento a un preciso aspetto o periodo del passato, e quindi una scelta alle cui origini sentimento e fantasia precedono di gran lunga la riflessione razionale?

Non si creda, del resto, che gli studiosi delle discipline scientifiche vadano poi del tutto esenti da tale "debolezza" sentimentale nella scelta dei rispettivi campi di ricerca. Anche qui, molti esempi potremmo fare a sostegno di questa affermazione, che forse non piacerà a molti scienziati. Prendiamo il caso della meteorologia: cieli immensi spalancati sopra di noi, nuvole, aloni lunari, "stelle cadenti", aurore polari: spettacoli meravigliosi di una natura en plen air (che magari non saranno più affascinanti, ma di sicuro assai diversi da quelli che può offrire, ad esempio, la speleologia). Ebbene, sarà un caso che verso questa disciplina si indirizzino studiosi che, per ragioni biografiche personali, recano quasi una "fame" ereditaria di liberi cieli e di aria pura? Un nome fra gli altri: quello del francese Louis Auberger, una autorità nel campo della meteorologia. Ecco come il curatore A. Tergolina ne traccia una rapida biografia per il pubblco italiano, nella presentazione del suo libro Atmosphère et mètèores (Editions Fayard, Parigi, 1964):

"La causa dell’orientamento di Luois Auberger verso le regioni aeree in moto attorno al nostro pianeta va forse ricercata in una reazione spontanea in chi, come lui, figlio di minatori, è dotato di una grande immaginazione, di fronte alla schiavitù imposta dalla vita sotterranea. Prima della guerra [1939-1945], s’imbarcò come meteorologo principale sulla Carimaré, la prima stazione meteorologica navigante del mondo, a fine di studiare e determinare le rotte migliori per i voli aerei sull’Atlantico. I problemi di meteorologia continuarono ad interessare l’attività di Louis Auberger. Dopo essersi occupato della bibliografia meteorologica internazionale, s’occupò di Climatologia, in particolare alla sezione Studi Aeronautici di questo organismo. La costituzione dell’atmosfera, la temperatura in altitudine, i chiarori del cielo notturno furono oggetto di lavori speciali da parte sua. Egli è particolarmente qualificato a presentare al pubblico l’atmosfera con i suoi problemi talvolta del tutto insospettati da chi resta con i piedi a terra." (da Louis Auberger, Atmosfera e meteore, tr. it. Modena, 1968.

Di esempi del genere, potremmo farne molti. Ci limitiamo a far presente questo aspetto del problema che stavamo discutendo, e passiamo oltre.

Né si creda che il discorso sia diverso per la filosofia. Anche qui, esaminando le biografie dei singoli pensatori, non sarà difficile individuare l’elemento sentimentale, affettivo, o comunque extra-razionale, che ha impresso l’indirizzo decisivo alla loro elaborazione di una personale visione del mondo. Non è affatto raro che siano loro stessi a dircelo, con la massima naturalezza. Tale è il caso del filosofo Luigi Stefanini, esponente di spicco dello spiritualismo cristiano del primo Novecento, e più precisamente dell’indirizzo da lui stesso definito "personalismo". Osserva in proposito una sua studiosa:

"Luigi Stefanini nasce a Treviso il 3 novembre 1891, figlio terzogenito di Giovanni e di Lucia De Mori. Dal padre, commerciante, e dalla madre, insegnante elementare, trae il primo durevole insegnamento di vita che determina in seguito l’orientamento della sua filosofia. In tutta la sua vita ha sempre cercato di essere coerente ai princìpi religiosi ed umani assimilati nell’ambiente familiare, lo dichiara egli stesso in una relazione espositiva della sua prospettiva filosofica…" (Laura Corrieri, Luigi Stefanini. Un pensiero attuale, Milano, 2002).

Ed ecco le parole dello stesso Stefanini:

"Fin dai miei primi anni – egli scrive – ho constatato nella forma di vita realizzata da mia madre tanta serenità operosa e consapevole, sicuramente orientata verso una meta, tanta tenerezza di sentire e tanta forza di provvedere e di resistere alla sventura, da farmi risultare impossibile che in quel sistema di vita non fosse contenuto il senso più alto dell’essere" (Luigi Stefanini, La mia prospettiva filosofica, riedizione a cura dell’Associazione Filosofica Trevigiana, Treviso, 1966, p. 31).

3. SUL CONCETTO DI "DECADENZA".

Lo storico si serve contiuamente di concetti vaghi o comunque di portata troppo ampia, di generalizzazioni che possono essere utili nel campo puramente teorico – finchè non incominciano a dimostrarsi fonte di ambiguità e malintesi. Alcuni di essi, quali "guerra" o "rivoluzione", servono ad indicare fenomeni circoscritti nello spaxzio e nel tempo, e su di essi è possibile un’analisi differenziata, che consenta di impiegarli appropriatamente, caso per caso.

Lo storico della guerra mondiale 1914-18 e lo storico del bellum alexandrinum del 48-47 a. C. hanno indubbiamente a che fare con fenomeni di diverso ordine di grandezza, ma una opportuna ricostruzione delle loro origini e dei loro sviluppi permetterà a chiunque di farsi un’idea abbastanza chiara del tipo di differenza che corre fra essi. Così pure, la Rivoluzione americana del 1775-76 e la Rivoluzione russa dell’ottobre 1917 sono separate da una notevole distanza di dinamiche interne ed esterne – se pur si tratta dello stesso ordine di fenomeni -, ma il pericolo insito nell’uso dello stesso termine per definirle entrambe è, in parte, scongiurato dalla concreta ricostruzione storica, che mette in evidenza i punti di contatto tra i due eventi, come pure le loro profonde differenze.

Assai più complesso è il problema riguardante l’uso di concetti relativi a fenomeni storici molto più estesi e, per ciò, stesso, diluiti nel tempo. Già il termine "rivoluzione" può essere adoperato in questo secondo significato: vi è una rivoluzione scientifica, una rivoluzione industriale, una rivoluzione tecnologica. Non si tratta, si badi, di una questione semplicemente nominalistica. Dietro l’uso di determinati termini vi è la necessità di definire un terreno concettuale minimo, sul quale gli storici possano lavorare con la ragionevole sicurezza di comprendersi senza incorrere in gravi fraintendimenti.

Tra i concetti-base della storiografia che abbisognano di una chiarificazione vi è quello di decadenza: di un’epoca, di una società, di uno stile, persino di una corrente filosofica. Si tratta di un’esigenza piuttosto recente; l’uso di quel termine, infatti, non destava particolari preoccupazioni fra gli storici delle generazioni passate. Uno dei testi classici della storiografia illuminista, Decadenza e caduta dell’Impero Romano di Gibbon, escludeva in partenza la problematicità di quel termine (quantunque il titolo originale parlasse di decline che comporta una sfumatura diversa, un po’ più "neutra"). Oggi, invece, ben pochi storici farebbero uso del termine "decadenza" senza le più ampie riserve e precisazioni. È noto che Johan Huizinga, nello scegliere il titolo per il suo suggestivo affresco della società franco-borgognona tardo-medioevale, si risolse per l’espressione autunno del Medioevo proprio per evitare il pericoloso concetto di "decadenza". Ci si può chiedere, infatti, sino a che punto sia lecito allo storico adoperare un termine così ricco di sottintesi di segno negativo, così carico di complesse (e opinabili) implicazioni filosofiche e di presupposti non universalmente accettati.

A noi sembra che, in questo caso, molta confusione sia stata fatta a causa della "contaminazione" alla storia di significati propri di altre discipline, e che un esame di tali differenti significati possa premunire contro il rischio di possibili fraintendimenti. In primo luogo, vorremmo fare due osservazioni di carattere generale. La prima è di carattere filosofico-metodologico e può sgombrare il campo dagli equivoci che facilmente si creano su un terreno così malagevole. Secondo noi, l’uso del termine "decadenza", applicato a intere epoche della storia o a intere società, implica sempre un certo biologismo – magari inconsapevole – da parte dello storico. "Decadenza" è un concetto che che rimarrebbe inintelligibile qualora non presupponesse una concezione sostanzialmente biologistica della società. Una concezione, cioè, che tende a trasporre nel campo degli organismi sociali le caratteristiche proprie della vita individuale: nascita, sviluppo, maturità, decadenza (vecchiaia) e morte. Si badi che un tale puntodi vista non è stato affatto "inventato" da Oswald Spengler o da qualche altro filosofo della storia: esso è implicito nel pensiero di un gran numero di storici che, sul piano teorico, sarebbero pronti a criticarlo come del tutto fantasioso e inaccettabile. Lo Spengler ha spinto all’estremo una tendenza antica, il più delle volte inconscia e perfino involontaria, insita in un grandissimo numero di persone:

"Le civiltà sono degli organismi. La storia mondiale è la loro biografia complessiva. La storia grandiosa della civiltà cinese o di quella classica è, morfologicamente, in esatta corrispondenza con la piccola storia dell’individuo umano, di un animale, di una pianta, di un fiore." (Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, tr. it. Milano, 1978, vol, 1, p. 170).

Pochissimi storici, forse quasi nessuno si sentirebbero, oggi, di difendere un tale punto di vista. Eppure sono ben pochi quelli che, nel corso del loro lavoro, sfuggono all’uso di termini che da tale concezione sembrano derivare direttamente. Quandoi uno storico parla, ad esempio, di "nascita della civiltà egiziana" o "decadenza della Spagna nel XVII secolo, fa uso di una terminologia biologistica, il più delle volte impropria – perché non rispondente alla concezione filosofica che ha della storia, in realtà, il singolo autore.

La seconda osservazione è che i periodi giudicati di "decadenza" attraggono lo studioso più di altri periodi storici con il loro carico di suggestione emotiva, di pathos e di fattori sentimentali (città senescenti come Ravenna nel V secolo, nebbie, rovine, abbandono, ecc.) e che quindi la "scelta" di tali periodi quali oggetto di ricostruzione storiografica presuppone, più o meno inconsciamente, una valutazione di segno negativo da parte dello studioso. Se la cosa non rischiasse di portarci troppo lontano, riterremmo di notevole interesse compiere una indagine sulle radici motivazionali delle "scelte" operate dai singoli storici: e al termine di essa vedremmo confermata, crediamo, l’ipotesi che esiste un rapporto diretto e facilmente riconoscibile fra il carattere individuale e le concezioni esistenziali di molti storici, da un lato, e dall’altro i campi d’indagine da essi prescelti.

Per limitarci a pochissimi esempi relativi a opere storiografiche dedicate a periodi considerati di "decadenza", potremmo ricordare Tacito, il cui pessimismo non vede altro, da Tiberio fino a Domiziano, che una cupa storia di declino e aberrazione; o quello di Paolo Sarpi, altro grande carattere isolato nella propria pensosità e nel proprio pessimismo, che sceglie quale oggetto di ricostruzione storica quella grande speranza abortita, quel grigio tramontare di entusiasmi che fu, secondo lui, il Concilio di Trento. Esistono anche molti casi che non possono farsi rientrare in questa prospettiva. Edward Gibbon fu certamente, per temperamento e per formazione culturale, un carattere tutt’altro che incline alla tristezza o al pessimismo. Jakob Burckhardt applicò il proprio ingegno versatile sia ad un’età che egli giudicava di profonda decadenza, quella dell’Impero Romano al tempo di Costantino il Grande, sia a un fenomeno storico generalmente riconosciuto di espansione economica, sociale e culturale, quale la civiltà del Rinascimento in Italia. Ma questi casi non ci sono d’imbarazzo, in quanto non abbiamo inteso in alcun modo formulare una legge: resta, secondo noi, l’assunto che il concetto di decadenza esercita sull’animo dello storico un fascino sentimentale particolarmente vivido e immediato, e quindi attrae di preferenza gli spiriti inclini al pessimismo che vedono confermato, per così dire, il loro modo di vedere la realtà. È naturale che, da tale punto di vista, il concetto stesso di "decadenza" venga accettato e inserito in un contesto ideologico che permetta di connotarlo essenzialmente in chiave negativa.

Consideriamo adesso il concetto di "decadenza" nell’uso che ne fanno (o che hanno smesso di farne) le singole discipline con le quali la storia è particolarmente in relazione, o dalle quali riusulta costituita. Nella storia dell’arte, sia il concetto che il termine di decadenza venivano adoperati con estrema frequenza fino a tempi recenti. È noto che, in alcuni casi, le concezioni estetiche dei moderni sono state lungamente condizionate dai preconcetti e dai giudizi sbrigativi di età precedenti: da quando il De Brosses, nel 1739, adoperò il termine "barocco" fino a non molti anni or sono, gran parte della critica concordava nel giudizio negativo sulla produzione artistica del secolo XVII, giudicata aberrante rispetto alla tradizione classica e rinascimentale. Così pure, gli scrittori del Rinascimento coniarono in senso pregiativo il termine "gotico" per definire le manifestazioni dell’arte nell’Europa occidentale del Trecento; giudizio che si conservò fino all’Ottocento, quando venne finalmente sovvertito dalla rivalutazione operata dalla storiografia romantica. Analoghi giudizi negativi vennero emessi, e lungamente accettati, su altri periodi della storia dell’arte: quello tardo-antico nel suo complesso, ad esempio; o su talune manifestazioni artistiche individuali che si allontanavano dalla tradizione naturalistica, come la scultura di Wiligelmo tra XI e XII secolo.

La critica moderna ha profondamente riveduto questi giudizi negativi e, in tutti i casi che abbiamo citato, è giunta a una completa rivalutazione dei fenomeni artistici un tempo tanto a lungo biasimati. Tuttavia, eliminate le notazioni negative da così gran tempo gravanti sull’età tardo-antica, sull’età alto-medioìevale, su quella gotica e, finalmente, su quella barocca, ci si è accorti che venivano praticamente a scomparire quelle età artistiche che, una volta, erano state giudicate decadenti. Di conseguenza, la storiografia artistica è stata costretta a rivedere da cima a fondo il concetto stesso di decadenza, con tutte le sue implicazioni negative. A ciò ha contribuito potentemente anche la rivalutazione delle forme artistiche dei popoli a civiltà tradizionale (un tempo chiamati "primitivi" o, addirittura, "selvaggi") giudicate non più, semplicisticamente, dei rozzi tentativi d’arte o, tutt’al più, buoni prodotti d’artigianato, ma espressioni artistiche autentiche, forme del sentimento estetico di civiltà diverse dalla nostra e che solo un concetto angusto ed esclusivista dell’arte (oggi si dice "etnocentrico") aveva potuto far rifiutare in un primo momento. Si badi che in questa "riscoperta" non trovano luogo solo le sculture del Benin, del Dahomey o dell’Oceania, ma anche molte espressioni dell’arte popolare della civiltà contadina del nostro Occidente (architettura, musica e letteratura orale comprese), che oggi, ahimé troppo tardi, abbiamo finalmente inteso nel loro vero significato di espressioni artistiche autentiche.

Caduto in disuso, dunque, il concetto di "decadenza" dal vocabolario dello storico dell’arte, che cosa è venuto a prenderne il posto? Potremmo dire, se non ci inganniamo, che l’orientamento più recente della storiografia artistica ha sostanzialmente cessato di emettere giudizi di valore, almeno per quanto riguarda interi periodi e civiltà, e che la sua attenzione si è rivolta principalmente a uno sforzo di comprensione e di spiegazione delle forme artistiche colte nel loro divenire storico. Non più "bello" e "brutto" sono i concetti attorno ai quali ruota la problematica storico-artistica, ma "come" e "perché". Un esempio classico di tale radicale mutamento di indirizzo è offerto dal diverso atteggiamento assunto da due studiosi di fama internazionale, l’uno del secolo XIX, l’altro dei nostri giorni, nei confronti di un momento artistico d’importanza decisiva, quale fu quello della tarda civiltà romana. Jakob Burckhardt, dopo aver passato in rassegna le manifestazioni artistiche dell’età di Costantino il Grande, in cui non vedeva che aberrazione e decadenza, concludeva:

"L’arte stessa, già in epoca pagana schiava dell’ideologia, aveva ora, con il trionfo del Cristianesimo, cambiato solo di padrone, ma non certo di grado. Per molti secoli ancora essa, prigioniera dei propri contenuti, sarà costretta a ignorare le proprie leggi interne o a seguirle solo in minima parte, e questa fu infatti una delle più violente negazioni dell’eredità del mondo classico." (J. Burckhardt, L’età di Costantino il Grande, Roma, 1970, p. 292).

Pressoché antitetiche sono le conclusioni cui è approdato uno dei maggiori studiosi del XX secolo, Ranuccio Bianchi Bandinelli, sul valore e sul significato dell’arte tardo-antica:

"La fine della forma ellenistica nell’arte è un fenomeno storico del tutto logico se consideriamo l’arte come espressione – la più diretta, la più spontanea e incontrollata espressione – di una società. Eppure, questo cambiamento della forma artistica ha dato luogo a una infinità di discussionie di malintesi. Ciò è dipeso, in parte, dal fatto che il naturalismo dell’arte ellenistica è apparso alla cultura europea formatasi dal XV secolo in poi e particolarmente tra la fine del XVII e quella del XIX, non come espressione di una determinata civiltà legata a un tempo e a uno spazio geografico, ma come l’unica vera e legittima forma che l’Arte potesse assumere. L’arte della Grecia fu considerata l’arte in assoluto. Ogni forma che si allontanava da quei modi, da quella regola, era considerata un errore, un barbarismo, una decadenza. Perciò si è discusso tanto sul perché e sul come fosse stata possibile la perdita di quella ‘perfezione’. E poiché, spesso senza rendersene conto, gli uomini trovano moralmente offensivo cambiare le forme acqusite dall’espressione artistica, si doveva cercare il ‘colpevole’ di quella ‘decadenza’. Ciò dimostra quanto le forme dell’arte siano profondamente legate alla nostra storica esistenza umana." (Ranuccio Bianchi Bandinelli, Roma. La fine dell’arte antica, Milano, 1976, p. 377).

Nella storia dell’arte il concetto di "decadenza" va, dunque, scomparendo; nei grandi processi in cui si sviluppano le forme artistiche si tende sempre più a vedere un fenomeno storico, le cui componenti vanno analizzate non già sotto l’angolo visuale di un codice estetico precostituito, ma in quanto espressione storicamente determinata del sentimento estetico di una data società a un dato momento del suo sviluppo. E nella storia della letteratura?

L’orientamento attuale che ci sembra di avvertire presenta diversi punti di contatto con le conclusioni cui è giunta la storiografia artistica, discostandosene invece in alcuni altri. Il concetto di "decadenza", applicato all’intero arco di determinate civiltà letterarie, è rimasto in auge – anche qui – fino a tempi relativamente recenti. Solo negli ultimi decenni l’atteggiamento della critica letteraria sembra sostanzialmente mutato e rivolto, come nel caso della storiografia artistica, a sforzarsi di comprendere l’intimo significato delle varie manifestazioni letterarie, piuttosto che ad emettere drastici giudizi di valore e irrevocabili condanne. A ciò senza dubbio ha conribuito la radicale revisione del giudizio negativo espresso sul Decadentismo in sede idealistica (e accentuata da Benedetto Croce, che in Italia ha esercitato una sorta di cinquantennale "dittatura culturale"), oggi considerato da un lato come l’estrema prosecuzione del Romanticismo, dall’altro come il punto d’incontro con le nuove correnti e le nuove sensibilità tipiche degli "anni della crisi", ossia i prini decenni del Novcento.

Un caso tipico è stato quello degli studi sulla civiltà letteraria del Seicento in Italia, sulla quale – come sulla produzione artistica figurativa del medesimo periodo – il termine "barocco" è gravato lungamente come una inappellabile condanna – non solo estetica, ma anche morale. Sulla letteratura dell’età barocca, e sul terreno morale e culturale da cui scaturiva, Francesco de Sanctis così si pronunciava:

"Il tarlo della società era l’ozio dello spirito, un’assoluta indifferenza sotto quelle forme abituali religiose ed etiche, le quali, appunto perché mere forme o apparenze, erano pompose e teatrali… La letteratura era a quell’immagine, vuota d’idee e di sentimenti, un gioco di forme, una semplice esteriorità. Si frugava nel vecchio arsenale classico, si giravano e rigiravano quei pensieri e quelle forme. (…) La poesia italiana nella sua lunga durata aveva messo in circolazione un repertorio oramai fatto abituale e vuoto di effetto; e non ci essendo la forza di rinnovare il contenuto, tutti eran dietro ad aguzzare, assottigliare, ricamare, manierare, colorire un mondo invecchiato che non dicea più niente allo spirito. Meno il contenuto era vivo, e più le forme erano sottili, pretensiose, sonore. (Francesco De Sanctis, Storia della letterarura italiana, cap. XVIII).

La critica contemporanea non è giunta a cancellare totalmente il concetto di "decadenza", come ha fatto la storiografia artistica; ha ripreso molte delle critiche fatte dalla storiografia del XIX secolo e le ha confermate, sottolineando, al tempo stesso, la sostanziale diversità metodologica da essa seguita.

Continuiamo l’esempio della civiltà letteraria barocca e vediamo qual è la posizione di uno dei più apprezzati studiosi italiani dei nostri giorni:

La meraviglia è il fondamento delle poetiche secentesche. (…) Ne deriva un’arte immaginifica e cerebrale, scoppiettante di metafore ingegnose. (…) C’è, nel nuovo stile, un vero abuso di metafore ardite, di giuochi di parole, di paralleli inattesi, e un gusto descrittivo che ostenta la propria virtuosistica bravura, in una dichiarata gara con tutta la poesia precedente, che i nuovi poeti vogliono superare in ingegnosità. Tale disposizione condusse spesso a una poesia esteriore, turgida e pomposa, intesa a descrivere le immediate suggestioni dei sensi, o descrittiva e cerebrale, e, in sostanza, lontana dalla schiettezza e spontaneità degl’intimi affetti." (Mario Pazzaglia, Gli autori della letteratura italiana, Bologna, 1970, vol. 2, p. 655).

Giudizio negativo, dunque, apparentemente non dissimile da quello del De Sanctis; la cui posizione è tuttavia superata da uno sforzo di più equa comprensione e valutazione. Non solo il barocco ebbe effettivamente dei valori positivi, rappresentati dalla scoperta di un mondo più vasto e complesso di quello fino allora immaginato dagli uomini; ma, quel che più conta, è mutata l’impostazione generale del problema storico-critico.

"La storiografia moderna ha inteso anche nel caso del barocco, non tanto di pronunciare un giudizio di assoluzione o di condanna, quanto di penetrare e di comprenderne il significato. Essa ha visto nel barocco una particolare civiltà che, se si rivela più vistosamente nel suo carattere letterario e stilistico, nasce tuttavia da un vero travaglio spirituale e tende a una nuova interpretazione della realtà." (M. Pazzaglia, Ibidem).

Come la storiografia artistica, anche quella letteraria rifiuta come proprio compito quello di elogiare o condannare, mentre accetta quello – forse più modesto ma anche più spassionato e costruttivo – di una collocazione storica dei vari fenomeni e di una loro valutazione autonoma, sgombra da modelli precostituiti. Ci sembra però di poter affermare che tale atteggiamento, assai marcato nel caso della storiografia artistica, sfuma e diviene meno accentuato nella storiografia letteraria. Quest’ultima non rinuncia completamente a un giudizio di valore sulla produzione letteraria di una data età, come abbiamo visto; lì dove l’altra si limita a prendere atto del processo di trasformazione subìto dalle forme artistiche e del trapasso dalle une alle altre. Così, mentre la rivalutazione della civiltà artistica tardo-antica (ad esempio) tende a sgombrare il campo da ogni residuo di critica "negativa", non si può dire la stessa cosa per la rivalutazione – che pure è in atto – della civiltà letteraria italiana del Seicento. In che cosa consiste la differenza? A nostro avviso, essa sembra risiedere nalla natura stessa dei due tipi di manifestazione artistica, la figurativa e la letteraria. Là dove il pittore, lo scultore e l’architetto creano nel pieno senso del termine, il poeta, il romaziere o il commediografo creano, sì, ma sempre entro una cornice più rigorosamente definita, più subordinata al minimo comun denominatore di un codice di comunicazione antico qual è la lingua. In tal modo il disfacimento della forma classica, la dissoluzione del natualismo ellenistico, l’abbandono di una tecnica consumata di perfezione formale e di rispetto verso una gloriosa tradizione espressiva sono potuti apparire, nel caso dell’arte tardo-antica, non come un fenomeno negativo, ma semplicemente come l’abbandono di un linguaggio espressivo solo parzialmente assimilato dalla civiltà romana, e quindi come una sorta di ritorno alla fresca spontaneità dello spirito autentico della civiltà antica – almeno nell’Europa occidentale. Al contrario, le manifestazioni ridondanti e pompose delle poetiche mariniste, pur inquadrate storicamente con maggiore serenità (perfino il De Sanctis ammetteva che "Il secolo era quello, e non potea esser altro"), non sono interamente sfuggite a una valutazione critica di valore che non ha mancato di stigmatizzarne gli aspetti "deteriori".

E la storia della cultura? Qui non è stato possibile, a quanto sembra, sottrarsi al concetto di "decadenza"; e se lo è stato, più o meno parzialmente, per i vari aspetti e le diverse manifestazioni delle arti e della letteratura, la storia della culura, intesa essenzialmente come libertà e maturità di pensiero, non ha potuto evitare che l’ombra del concetto di decadenza si allungasse su interi periodoi storici.

Prendiamo il caso più noto, quello del Medio Evo nell’Europa occidentale, e particolarmente dell’alto Medioe Evo. Benchè, a partire dal Romanticismo, ne sia stata compiuta una vasta rivalutazione a livello globale, il concetto di Medio Evo come "età di barbarie" appare tutt’oggi a molti autori non inesatto o eccessivo sul piano culturale. Si è fatto giustamente notare che anche il Medio Evo ebbe una sua civiltà, con caratteristichen originali e anche suggestive; che non è giusto considerarlo in una specie di confronto diretto con l’apogeo della civiltà classica, né sottolineare il contrasto con le conquiste del pensiero e della società a partire dal Rinascimento; e che infine il concetto stesso di "Medio Evo", o "Età di mezzo", è arbitrario e privo di giustificazione logica. Pure con tutto ciò, sembra sempre innegabile che nell’età medievale le condizioni materiali e spirituali dell’Occidente scesero ad un livello molto basso; che non soltanto molte conquiste delle età passate andarono perdute, ma ben poche furono quelle originali in esso compiute – almeno nei primi secoli -; e che, per limitarci al campo della cultura, in quei secoli si registrò un calo, anzi un "crollo" di cui la storia europea non conobbe l’eguale, né prima né dopo.

Sembra che questo sia il destino inevitabile delle epoche di trasformazione: periodi di "gestazione" in cui l’antico sembra morto e il nuovo non compare ancora sull’incerto orizzonte; ma il giudizio sulla situazione di fatto rimane. A proposito delle "tenebre" del Medio Evo e della "decadenza" della cultura, Corrado Barbagallo ha scritto:

"Non solo si smarrisce la pratica degli strumenti materiali del pensiero; decade la conoscenza del fondo stesso della coltura: dei grandi problemi di scienza, di filosofia, di politica. Fino al secolo prima[cioè il V] tutti i trionfi e le interpretazioni dottrinali del Cristianesimo non avevano ottenuto che la coltura classica venisse bandita dal piano dell’istruzione dei giovani; anche i più ardenti fra i religiosi si erano ribellati a siffatta politica; ora l’ignoranza dei tempi rende possibile il trionfo di quella che era stata l’eresia culturale dei più ignoranti e dei più settari. Che, cioè, il vero credente non debba allargare la sua visione, la sua cognizione al di là dei testi sacri e degli scritti dei Padri della Chiesa." (Corrado Barbagallo, Storia Universale, Torino, 1935, Medioevo, , vol. 1, p. 123).

Sembra difficile confutare simili conclusioni, solidamente basate su dei dati di fatto particolarmente abbondanti ed espliciti. Tuttavia si può osservare che una valutazioine più critica e attenta del momento storico-culturale al quale risalgono i più vecchi pregiudizi contro il Medio Evo, e cioè l’età umanistico-rinascimentale, ha portato alla luce molti aspetti prima ignorati e ridimensionato altri, prima eccessivamente esaltati. Il risultato è stato un quadro storico del Rinascimento alquanto diverso da quello cui eravamo stati abituati da una lunga tradizione storiografica:

"Il periodo fra il 1450 e il 1517 (…) [fu]una delle ore più brutte e scure del passato. Lo sviluppo delle città cessò del tutto in Europa, e i membri delle corporazioni e dei mestieri, per mancanza di occupazione, defluivano nella vita banditesca degli Armagnacchi e dei Landsknechte (mercenari). Piccoli tiranni distruggevano le fondamenta dei diritti locali. (…) La chiesa quasi crollò sotto le disillusioni dei concili universali e la guerra contro gli Hussiti. (…) I papi uccidevano i loro cardinali, e i prìncipi i loro fratelli e padri. (…) Fu instaurata l’Inquisizione spagnola:" (Eugen Rosenstock-Huessy, Out of Revolution, 1938).

Il concetto di decadenza, dunque, è ben presente e tutt’altro che arbitrario nella storia della cultura.

Possiamo ora considerare l’impiego del concetto di "decadenza" nella storiografia relativa a intere epoche o civiltà. Il caso che ha da sempre maggiormente interessato e affascinato gli storici, per la grandiosità del fenomeno e le sue conseguenze, per la radicale trasformazione del mondo occidenale e anche per gli aspetti tragici e patetici di cui lo vediamo circonfuso, è la decadenza dell’Impero Romano. Si può affermar che tutti gli storici che hanno subìto il fascino di quell’evento grandioso della storia e che si sono sentiti spinti ad approfondirlo, si son trovati d’accordo nel concludere che, se di decadenza si deve parlare (e il problema terminologico, ripetiamo, è stato sollevato solo recentemente) essa era stata un fenomeno manifestatosi simultaneamente nell’economia e nella società, nell’esercito e nelle istituzioni civili, nella cultura e nel pensiero. Abbiamo già visto come, almeno nel campo della storiografia artistica, l’orientamento attuale sia quello di un riesame "positivo" dei fenomeni di passaggio da un complesso di forme artistiche ad un altro, e ciò vale anche per il mondo tardo-antico. Abbiamo anche visto che una revisione, per taluni aspetti simile, è stata condotta nell’ambito della storiografia letteraria. Si può anzi parlare, per la civiltà letteraria del IV e V secolo dopo Cristo nell’Occidente latino (e in parte anche per l’Oriente greco) di un autentico rovesciamento di giudizio da parte della critica più recente. Ne L’età di Costantino il Grande, Jakob Burckhardt aveva espresso un giudizio nettamente negativo sia sul complesso della produzione letteraria di quei due secoli, sia sui singoli autori; e anche il maggior poeta fra essi, Claudio Claudiano, nonostante le indubbie capacità inventive, non era uscito in sostanza – secondo lo storico di Basilea – dai limiti di una produzione artistica mediocre e spesso adulatoria. In conclusione, egli poneva la seguente questione:

"È possibile quindi che la decadenza della poesia e dell’oratoria coincida sempre anche con la decadenza nazionale di un popolo? Non si tratta invece di fiori caduti già prima che il frutto possa maturare? Il vero non può forse sostituire il bello, l’utile il piacevole? La domanda può restare senza risposta e non è riconducibile a questo genere di alternative. Ma chiunque si avvicini all’antichità classica, anche solo al suo tramonto, vedrà come con la bellezza e con la libertà siano scomparse anche la vita classica più autentica, la parte migliore del genio della nazione romana e come l’ortodossia retorizzante, viva ancora nel mondo greco, non possa essere considerata altro che eco morta di una esistenza più splendida nella sua piena fioritura." (Jakob Burckhardt, L’età di Costantino il Grande, cit., p. 301).

Una valutazione analoga era stata emessa, un’ottantina di anni prima, da Edward Gibbon, che dopo aver soppesato pregi e difetti del poeta Claudiano (autore, fra l’altro, del poemetto De Raptu Proserpinae), così concludeva:

"Nella decadenza delle arti e dell’impero, questo egiziano, che aveva ricevuto l’educazione di un greco, raggiunse in età matura la familiarità e il pieno possesso della lingua latina, s’innalzò al dispora dei suoi deboli contemporanei, e dopo un intervallo di trecento anni si collocò fra i poeti dell’antica Roma." (Edward Gibbon, Op. cit., cap. XXX; tr. it. Roma, 1973, vol. 3, p. 201).

Dopo un intervallo di trecento anni! Come dire che, dopo Quintiliano, la letteratura latina era stata un landa desertica fino agli inizi del V secolo: tre secoli di decadenza totale e ininterrotta…

Gran parte dell’indirizzo odierno della storiografia sull’età tardo-antica contrasta radicalmente con questo genere di giudizi. Là dove gli storici d’un tempo non vedevano altro che decadenza e povertà di contenuti autentici, i moderni hanno individuato addirittura uno splendido rifiorire delle arti e delle lettere, un estremo, bellissimo "canto del cigno" della morente romanità:

"L’aristocrazia senatoria doveva conservare l’alto livello culturale che presupponeva la distinguesse dalle altre classi; la chiesa cattolica, a contatto con i movimenti più vivi del pensiero e dell’ascetismo greci, era ansiosa di riguadagnare il tempo perduto, e aveva quindi continuamente bisogno di buone opere letterarie. Di conseguenza, l’ultima generazione del IV secolo e il primo decennio del V sono la terza grande età della letteratura latina." (Peter Brown, Il mondo tardo antico, Torino, 1973, p. 93).

Nessuna meraviglia: le arti figurative e, in minor misura, la letteratura sono campi d’attività ove – come abbiamo osservato – la libera esplicazione di un sincero e profondo travaglio interiore possiede un significato e un valore autonomi rispetto alla produzione precedente e a quella successiva. Ma in quale conto devono tenere il concetto di "decadenza" la storia economica e sociale, politica e militare di una determinata civiltà? È qui che appare l’origine dell’equivoco causato dall’impiego di tale concetto alla storia considerata come un tutto. Ciò che non trova riscontro nel campo della arti figurative e plastiche o in quello delle lettere, sembra non possa escludersi in sede di valutazione delle condizioni economiche e finanziarie, sociali e politiche, amministrative e militari di una data società. E in effetti la "crisi" economica e quella monetaria, politica, sociale e militare sono state universalmente riconosciute come i fattori disgreganti dell’edificio statale romano. A tali "cause" (o, per usare un termine meno impegnativo, "fattori") ne vanno aggiunti molti altri, primo fra tutti la trasformazione religiosa che portò un culto sostanzialmente estraneo alla conservazione dell’istituto politico, ad improntare di sé la vita dello stato a tutti i livelli. Resta comunque il fatto che parlare di "decadenza" dell’esercito e delle istituzioni, di crisi ovvero di decadenza dell’economia e della società, significa far uso di una terminologia i cui concetti trovano effettivamente rispondenza nelle conclusioni cui è giunta larga parte della storiografia contemporanea.

Ma come considerare il concetto di "decadenza", applicato globalmente a un intero periodo storico di una determinata società? Qui emergono le difficoltà, dal momento che dalla nostra indagine è risultato che esso appare accettabile e condivisibile riferito a certi aspetti della storia; arbitrario e inesatto, invece, se riferito ad altri. Quindi bisogna concludere che il singolo storico, sulla base delle proprie convinzioni filosofiche e, più ancora, delle proprie disposizioni spirituali, tende a porre l’accento sul momento "negativo" di un periodo di trasformazione (guardando a ciò che finisce), oppure sul quello "positivo" (il formarsi di nuove forme della vita sociale). Si tratta insomma, per parafrasare un detto proverbiale, di guardare il bicchiere "mezzo pieno o mezzo vuoto", a seconda del proprio punto di vista. Lo storico, in questo, si comporta (anche se cerca di motivare la sua posizione con elaborate costruzioni concettuali) esattamente come qualsiasi comune mortale, e non come lo scienziato.

Il periodo del tardo Impero Romano, ad esempio, può essere visto sia sotto la luce di una lunghissima, patetica "decadenza", come una civiltà che corre verso la propria morte; oppure sotto l’aspetto della "incubazione" ed "elaborazione" di quegli elementi che getteranno le basi di una nuova civiltà: quella cristiana e feudale dell’alto Medio Evo. Sembra che da queste forche caudine del soggettivismo non esistano altre vie d’uscita: ogni narrazione è un giudizio e ogni giudizio una scelta in cui elementi di natura molto personale hanno un ruolo decisivo.

"La tenacia con cui gli stati universali, una volta stabiliti, aderiscono alla vita, costituisce uno dei loro tratti principali, ma non va confuso con l’effettiva vitalità. È piuttosto l’ostinata longevità del vecchio che rifiuta di morire. In effetti gli stati universali mostrano una marcata tendenza a comportarsi come fossero dei fini in sé stessi, laddove in realtà essi rappresentano una fase nel processo di disgregazione sociale e, se assumono una certa importanza al di là di questo, ciò può avvenire solo in virtù del fatto che sono un mezzo per conseguire dei fini estranei e trascendenti ad essi." (Arnold Joseph Toynbee, Storia comparata delle civiltà (compendio di D. C. Somervell, Roma, 1974, vol. 2, p. 201).

In questo modo Arnold Joseph Toynbee poteva guardare alla "decadenza" dell’Impero Romano, spogliandola di gran parte di quei connotati foschi e pessimistici con cui la storiografia precedente l’aveva sempre riguardata, e quindi spogliandola anche, in definitiva, del concetto stesso di "decadenza", per sostituirlo con quello più neutro (e meno biologistico) di "disgregazione". Insomma si potrebbe dire che se storici come Gibbon e Montesquieu hanno guardato al mondo tardo-antico nella prospettiva del "bicchiere mezzo vuoto", Toynbee e Brown lo hanno fatto in quella del "bicchiere mezzo pieno". Ciò sembra esplicitamente confermato dal seguente passo del Brown:

"Forse il motivo fondamentale della caduta del governo imperiale, negli anni tra il 380 e il 410, fu che due gruppi importanti del mondo latino – l’aristocrazia senatoria e la chiesa cattolica – separarono le loro responsabilità dal destino dell’esercito romano che li difendeva. Entrambi i gruppi involontariamente minarono la forza dell’esercito e dell’amministrazione imperiale; e dopo avere legato le mani ai loro protettori, scoprirono, non senza sorpresa, che potevano farne a meno. (…) La scomparsa dell’impero occidentale fu quindi il prezzo pagato perché il senato e la chiesa cattolica sopravvivessero." (P. Brown, Op. cit,, p. 95).

Ogni qualvolta una civiltà si avvia verso la propria fine, vi sono sempre due maniere di considerare l’evento: l’attenzione può fermarsi – impressionata dagli aspetti drammatici e violenti e sopraffatta dalla nostalgia per ciò che va perduto – sulla "decadenza e caduta"; oppure, allungando la prospettiva sino ad illuminare i frutti nati da quella dissoluzione, e che già nascostamente stavano maturando, può rivolgersi ad ammirare lo spettacolo di una nuova vita che sorge. Vista in questa prospettiva, la disputa sulla legittimità del concetto di "decadenza" nella storiografia non appare più tanto un problema oggettivo di tipo "filosofico", quanto piuttosto un fatto di psicologia individuale del singolo storico.

  1. [OTTIMISMO E PESSIMISMO COME ATTEGGIAMENTI MENTALI IN STORIOGRAFIA.**

Ancora una volta, dunque, la riflessione su un particolare problema storiografico ci riconduce alla tematica di fondo di qualsiasi discussione sulla storia: all’atteggiamento, cioè, mentale e spiriituale, con cui il singolo studioso si accosta alla disciplina. Abbiamo visto che la prospettiva da cui muove il singolo storico è sempre condizionata non solo dal tempo e dalla società in cui vive (anche nel caso in cui egli li rifiuti e li combatta), ma altresì dalla sua struttura caratteriale e dalle sue convinzioni filosofiche. Abbiamo notato anche, ma solo di sfuggita, che sono tali convinzioni filosofiche la "giustificazione razionale" e il sostegno ideologico che l’individuo cerca di dare alla propria visione del mondo, e non già il contrario.

Vogliamo adesso soffermarci sull’atteggiamento mentale che, quale risultante di questi diversi fattori, diviene modo di accostarsi alla storia, filtrato attraverso le lenti dell’ottimismo o del pessimismo. Si ha un bel dire che lo storico dovrebbe rifuggire dall’uno come dall’altro; che la storia si fa studiando i fatti e non cercando di ridurli a forza entro schemi mentali precostituiti; che ottimismo e pessimismo potranno essere, al massimo, conclusioni di un lavoro storiografico, non già premesse o punti di partenza: tutte queste non sono che parole. È certo che un atteggiamento volutamente programmato e unilaterale, da parte dello studioso, squalificherebbe in partenza la serietà del suo lavoro di ricerca; ma il fatto è che, quasi sempre, l’atteggiamento mentale dello storico non è intenzionalmente e freddamente precostituito, bensì risponde a una disposizione interna, mentale e spirituale, che naturalmente e quasi inconsciamente lo conduce a impostare la ricerca sotto un determinato angolo visuale. E guai se così non fosse, dal momento che una storia "oggettiva", ossia puramente espositiva e immune da "contaminazioni" sentimentali, non sarebbe neppur pensabile, non sarebbe anzi affatto storia, ma tutt’al più annalistica erudita senz’anima e senza intimo spessore.

A coloro che si scandalizzassero per tali affermazioni, vorremmo rispondere: è mai esistito uno storico che sia giunto a una determinata visione del mondo dopo aver completato la sua opera; uno storico che, mentre si accingeva al suo lavoro, ne era affatto sprovvisto? L’ottimismo illuministico di Voltaire e Montesquieu, di Gibbon e Robertson, scaturì forse a conclusione della loro opera storiografica, o non ne costituì piuttosto la premessa? Lo scetticismo e un pacato pessimismo non furono forse all’origine e non alla conclusione dell’operadi Burckhardt e di Huizinga? Lev Trotzkij non si convertì al materialismo storico dopo aver scritto la sua Storia della rivoluzione russa, né Arnold Toynbee al cristianesimo dopo aver scritto Civiltà al paragone. L’immagine dello storico che si accinge al proprio lavoro con animo sgombro da passioni e da inclinazioni personali è una grottesca caricatura, che lo disumanizza completamente.

E passiamo ora a considerare in concreto l’ottimismo e il pessimismo quali atteggiamenti mentali dello storico che si accinge al proprio lavoro. Dobbiamo premettere che per "atteggiamento mentale" intendiamo la somma dei fattori prima elencati, e cioè: 1) l’influenza dell’ambiente sociale e culturale in cui il singolo studioso vive e lavora; 2) le disposizioni spirituali del suo carattere individuale, e 3) le convinzioni filosofiche con le quali tende a legittimare tali disposizioni. Del primo punto abbiamo già parlato in precedenza, e al terzo abbiamo fatto qualche cenno, per ora sufficiente ai nostri fini; concentreremo dunque l’attenzione sul secondo punto, e passeremo poi a porre in evidenza le relazioni di esso con il terzo, cioè con la "filosofia" personale, propria a ciascuno storico.

A conclusione della dissertazione sul concetto di "decadenza" nella storiografia, abbiamo affermato che tutto il problema va ricondotto, secondo noi, a una questione di psicologia individuale del singolo storico. E in effetti la stessa storiografia, l’opera cioè svariata e multiforme di uomini che hanno vissuto, sentito, pensato ciascuno in maniera diversa, rimarrebbe un enigma indecifrabile se non fosse possibile interpretarla attraverso la psicologia individuale dei singoli autori, che ci permette di comprendere le origini e le motivazioni delle scelte e delle interpretazioni avanzate da ciascuno di essi. Così come la storia va colta nella sua processualità, nel suo divenire – almeno quando ciò è possibile – allo stesso modo la storiografia, l’insieme cioè dell’opera dei singoli storici (essendo storia essa stessa) va anch’essa considerata nella sua processualità e nel suo sviluppo. E qui avviene l’inevitabile trapasso dalla storia alla psicologia.

La psicologia dei singoli autori è uno strumento sussidiario indispensabile per capire in quale chiave vadano lette le loro opere. Tutti sanno che la prima cosa da fare, quando ci si accinge a leggere un libro con un minimo di consapevolezza critica, è interessarsi di chi ne sia l’autore, quali le sue posizioni ideologiche, quali le premesse filosofiche. Una lettura che tralasci questa indispensabile operazione preliminare diviene acritica e sostanzialmente inutile, se non dannosa. È vero che, purtroppo, le stesse casi editrici affidano la presentazione delle opere storiografiche (e non solo) a studiosi di un dichiarato credo ideologico o filosofico, i quali in verità non presentano affatto, ma spiegano al lettore perché quello storico abbia fatto centro nella sua opera di ricerca (se è in sintonia con i loro punti di vista) o abbia più o meno clamorosamente mancato l’obiettivo (se non lo è). Il risultato è che il letore medio, cioè il non-specialista, anziché affrontare la lettura dell’opera con una visuale più ampia e spassionata, si trova ridotto entro uno schema angusto, che ne condiziona la lettura in maniera unilaterale. È vero: il lettore fornito di ampia cultura e di forte spirito critico sfuggirà facilmente a questa forma di condizionamento, e con mente serena e distaccata potrà considerare sia la posizione critica di colui che "presenta" il libro, sia quella dell’autore dell’opera. Ma in definitiva il compito dell’editoria dovrebbe essere proprio quello di rendere accesibili a un vasto pubblico, per mezzo di edizioni critiche intelligentemente curate, anche le opere degli autori più "difficili", o quantomeno quella di non aggiungere difficoltà a difficoiltà, aggiungendo a quelle del testo, quelle della presentazione.

Su questo terreno, coloro i quali accusano la cultura di essere – in regime democratico-liberale non meno che in regime autoritario – un fatto politico, e più precisamente di potere, hanno e avranno sempre buon gioco nel sostenere le loro tesi. Essi potrebbero anzi far rilevare come la politica dell’editoria tenda a stabilire con la grande massa dei lettori un rapporto di tipo quasi "coloniale", e potrebbero citare le istruttive vicende di un indigeno dell’America settentrionale alle prese con la religione del conquistatore bianco:

"Non so proprio cosa credere. Alcuni anni fa, un buon uomo, tale almeno io lo ritengo, venne da noi. Egli mi indusse ad abbandonare la mia antica fede; e dopo qualche tempo, persuaso che su certe faccende egli ne sapesse di più di un indiano ignorante, entrai a far parte della sua chiesa e divenni metodista. Dopo un po’, costui se ne andò; venne un altro uomo e parlò, e io divenni battista; poi un altro venne e parlò e io divenni presbiteriano. Adesso, un altro ne è venuto, e costui vuole che io mi faccia episcopalista. Ognuno di essi racconta una storia differente, e ognuno di essi vuole forse credere che la sua, e solo la sua, è la retta via, quella per cui si può salvare la propria anima." (Capo Coda [M]{.smallcaps}aculata, Sioux, in Sul sentiero di guerra. Scritti e testimonianze degli indiani d’America, Milano, 1960, p. 311).

Naturalmente, anche chi presenta un libro altrui ha il diritto di essere un uomo di parte, o almeno di avere delle proprie convinzioni; ma se la presentazione è concepita al fine di agevolare la lettura al non-specilista, sarebbe meglio che chi la scrive si limitasse a una presentazione critica nel senso più oggettivo possibile; facendo un po’ tacere, per quanto possibile, le proprie simpatie e antipatie intellettuali.

Dunque, ci proponevamo di esaminare la genesi degli atteggiamenti mentali di ottimismo e pessimismo in storiografia. A molti studiosi tali "atteggiamenti mentali" sono sembrati, per così dire, poco professionali, il Toynbee, ad esempio, studiando la problematica della sopravvivenza delle civiltà umane, li ha criticati, individuando in essi "la parzialità di risposte a priori":

"Paul Valèry aveva esplicitamente dichiarato che tutte le civiltà erano mortali. Nello stesso tempo Spengler diceva le stesse cose. Oggi noi possiamo constatare come la dottrina del progresso fosse basata su molte false premesse. Ma questa ammissione deve costringerci ad accettare la dottrina della decadenza? (…) Il pessimismo di Valéry e l’ottimismo di Gibbon sono entrambi razionalizzazioni di sentimenti che sono stati superficialmente adeguati al breve arco delle loro vite." (Arnold Joseph Toynbee, Op. cit., vol. 3, pp. 195-96).

Ma, secondo il nostro modo di vedere, tutte le interpretazioni della storia, globali e no, non sono che "razionalizzazioni di sentimenti che sono stati adeguati al breve arco delle vite dei loro autori", e non diremmo "superficialmente", quanto piuttosto "spontaneamente" o "istintivamente"; e in ciò non vediamo affatto un sintomo di arbitrarietà, quanto piuttosto l’intima motivazione e la vera forza di ogni ricostruzione storica. Del resto, "pessimismo spengleriano" e "ottimismo vittoriano" – come il Toynbee li avrebbe chiamati – non sono stati affatto manifestazioni soriche uniche e irripetibili, quanto determinazioni particolari di una tendenza costante dell’animo umano, cui non si vede perché lo storico dovrebbe tentare – quand’anche lo potesse – di sottrarsi. Sempre vi sono state e sempre vi saranno due fondamentali maniere di porsi nei confronti della vita, e dunque anche nei confronti del passato.

Con disincantata saggezza un umanista tedesco del XVI secolo, Sebastian Franck, osservava a proposito della storia universale:

"Chi osserva tutto ciò con serietà, non sarebbe meraviglia se il cuore gli si spezzasse per pianto. Ma se si guarda beffardamente alla maniera di Democrito, si dovrebbe crepar dalle risate: tanto è buffo il mondo." ( Cit. in Wilhelm Dilthey, L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura, Firenze, 1974, vol. 1, p. 114).

Anche da un punto di vista filosofico, oltre che storiografico, si è voluto criticare l’atteggiamento di "ottimismo" o di "pessimismo" dei singoli autori. A questo proposito ci piace replicare, citando alcuni passi di un articolo di Aldo Capasso:

"È noto come il Croce negasse il valore raziocinativo del Leopardi, asserendo che ottimismo e pessimismo sono atteggiamenti sentimentali, non filosofici. Ma il pessimista potrebbe osservare che, per l’appunto, la concezione del Divenire idealistica, è un fatto d’ottimismo e di sentimento. (…) Resta che ogni ‘filosofia’ non può fare a meno di atteggiarsi sentimentalmente, come pessimismo o come ottimismo." (Cit. in Antonio Gramsci, Il materialismo storico (Quaderno 10, II), Roma, 1977, p. 41. Si noti che questa semplice verità viene sommersa dal Gramsci sotto una valanga di aspre invettive).

Una trattazione analitica dei singoli storici e dei loro caratteri individuali esula dai limiti e dagli scopi di queste pagine, d’altra parte qualcuno potrebbe obiettare che non sempre le opinioni filosofiche e ideologiche precedono il concreto lavoro di ricostruzione dello storico (anche se ci pare di aver già risposto in proposito). Non potendo considerare uno per uno, ovviamente, gli storici e i loro punti di vista – neanche i maggiori – ci limiteremo a quei casi che potrebbero sembrare in contrasto con quanto abbiamo affermato, e anzitutto a quelli in cui la visione del mondo dello storico ha subìto profondi mutamenti nel corso della vita di questi. Come spiegare tali mutamenti, se si ammette che – oltre ai fattori dovuti all’ambiente sociale – è essenzialmente la disposizione naturale del carattere a orientare ciascuno verso una determinata concezione del mondo e della storia?

Uno dei casi più "classici" di questo tipo di modificazioni del percorso filosofico è quello dello storico Fiedrich Meinecke.

"Si può parlare, in effetti, di tre diversi Meinecke, ognuno dei quali rappresenta un diverso periodo storico, esprimendosi a volta a volta in una delle tre opere storiche più importanti tra quelle da lui composte. Il Meinecke di Weltburgerthurm und Nationalstaat, apparso nel 1907, vede fiduciosamente gli ideali nazionali tedeschi realizzarsi nel Reich bismarckiano e (…) identifica l’idea nazionale con la forma più elevata di universalismo: tutto ciò è un prodotto dell’età guglielmina, questa barocca prosecuzione dell’età di Bismarck. Il Meinecke di Die Idee der Staatsräson, apparso nel 1925, parla con l’animo angosciato e lacerato della Repubblica di Weimar: il mondo della politica è diventato un’arena in cui si svolge il conflitto irrisolto tra raison d’état e moralità – una moralità che è estranea alla politica, ma che in definitiva non può distruggere la vita e la sicurezza dello Stato. Infine, il Meinecke di Die Enstehung des Historismus, apparso nel 1936, allorché il diluvio nazista lo aveva strappato alle cariche accademiche, lancia un grido di disperazione, rifiutando uno storicismo che gli appare una giustificazione di tutto ciò che è reale, e oscillando penosamente tra il relativo della storia e un assoluto sovrarazionale. Nell’ultima fase, allorché, ormai vecchio, vide il proprio paese soccombere sotto il peso di una sconfitta militare ancora più spaventosa di quella del 1918, Meinecke ricadde sconsolatamente, in La catastroofe tedesca del 1946, in una visione della storia dominata da un caso cieco e inesorabile." (E. H. Carr, Op. cit., pp. 45-46).

Dovremmo concludere che, essendo passato attraverso alterazioni così notevoli, il pensiero storico del Meinecke andava esente, in partenza, da tendenze istintive, tali da influenzarne la successiva impostazione? Ma i fatti provano proprio il contrario: tutti i mutamenti del pensiero del Meinecke furono successivi alle profonde svolte storiche del suo paese, che agirono in lui sconvolgendone le certezze e modificandone le prospettive. Non esistono caratteri tanto forti (o tanto deboli?) da attraversare inalterati una tale successione di tempeste materiali e spirituali; esistono invece infinite reazioni umane alle medesime situazioni contingenti. Certo, entro gli anni dell’adolescenza il carattere dell’indivduo è già formato, ma una serie di forti impressioni possono modificare successivamente non il carattere, bensì i modi in cui esso reagisce alla realtà esterna.

Il fatto che ora affermiamo l’inevitabilità di un attegiamento mentale, talvolta inconscio, di "ottimismo" o di "pessimismo" da parte dello storico, potrebbe sembrare in contrasto con quanto abbiamo a suo tempo affermato circa la necessità di un "distacco filosofico" in ogni ricostruzione storiografica. Dobbiamo perciò operare una opportuna distinzione. Il distacco, la serenità fatta di disincanto e di imparzialità (la filosofia yoga parla di "equanimità non giudicante") si addice particolarmente in due tipi di circostanze: 1) quando lo storico, nel caso sia anche un uomo di parte, si accinge a ricostruire periodi del passato in cui si verificarono eventi o processi che chiamano direttamente in causa la sua ideologia; 2) quando ci si dispone allo studio della storia più recente o recentissima, ove passioni violente e dibattiti politci esacerbati si sono affrontati in scontri dichiarati, non ancora esauriti o smorzati sensibilmente. L’atteggiamento mentale di ottimismo o pessimismo, cui il singolo storico non può, come essere umano, sfuggire, è altra cosa. Qui non passioni politiche direttamente legate alla storia, più o meno recente, sono in gioco; e mentre la tendenziosità politica è un difetto storiografico che può e deve essere superato, i sentimenti soggettivi con cui lo storico si accosta alla ricostruzione del passato fanno parte del suo bagaglio umano e non vi è ragione che egli cerchi – cosa del resto impossibile – di spogliarsene.

A quanto sostengono la scientificità della storiografia, e negano di conseguenza l’influenza preponderante di fattori soggettivi quali l’"ottimismo" e il "pessimismo" dello storico, vorremmo far notare che già la scelta del periodo del passato da ricostruire è indice e testimonianza delle inclinazioni spirituali di uno studioso, quindi del suo atteggiamento "sentimentale". Lo abbiamo già visto facendo alcune considerazioni generali sulla genesi del concetto di "decadenza" in storiografia (vedi capitolo precedente). In secondo luogo, l’atteggiamento spirituale e filosofico dell’autore è rivelato dall’ottica con cui egli affronta un determinato argomento, e anche ciò abbiamo già visto, considerando l’interesse del singolo autore per gli aspetti "distruttivi" o per quelli "costruttivi" impliciti in ogni società in via di radicale trasformazione. Ma l’argomento più interessante a sostegno della inevitabilità di un atteggiamento mentale precostituito (non fazioso: sono due concetti assai diversi) da parte dello storico, ci è offerto proprio dall’opera concreta di quegli studiosi che tale inevitabilità hanno voluto negare.

Prendiamo il caso di Arnold Toynbee: egli muoveva da una critica dell’ottimismo tardo-vittoriano – del resto già smentito da due guerre mondiali – ma soprattutto del pessimismo spengleriano, il cui Tramonto dell’Occidente aveva esercitato una profonda impressione sul giovane studioso inglese. Egli considerò entrambi questi atteggiamenti "sentimentali" (come avrebbe fatto Benedetto Croce) e ne dedusse la loro "illegittimità" razionale. Indi, ponendo mano all’opera gigantesca di Civiltà al paragone, si sforzò di mantenere un atteggiamento "neutrale", alieno sia dall’ottimismo come dal pessimismo ingiustificati, per sfuggire a ogni forma di determinismo. Nella ciclopica fatica di esaminare la genesi, lo sviluppo, la decadenza e la fine di ciascuna delle civiltà umane, si sforzò di seguire dei metodi d’indagine il più possibile obiettivi. E quando, dopo averle passate tutte in rassegna, giunse infine a considerare l’unica civiltà non ancora scomparsa o agonizzante – quella occidentale – credette di poter legittimamente concludere che nulla indicava una sua prossima fine – ammesso e non concesso che fosse realmente in fase di decadenza.

Ma era davvero sfuggito, il Toynbee, a quella forma di determinismo che in Spengler aveva tanto criticato? Sfuggì al destino di atteggiarsi, sentimentalmente e filosoficamente, da un punto di vista "ottimistico" o "pessimistico", come si era proposto? Tutto lascia pensare il contrario. Quanto al determinismo, le sue elucubrazioni teologiche non sono meno arbitrarie e costrittive della concezione "organicistica" delle civiltà formulata da Spengler; la "direzione" che egli impose alla storia non è meno unilaterale di quella attribuitale dal filosofo di Blanckenburg. E quanto all’atteggiamento mentale e spirituale – che qui maggiormente ci interessa – la sua fede nella possibilità che la civiltà occidentale, seguendo la legge dell’Amore, sull’esempio di Gesù di Nazareth, possa vincere la morte e sfuggire al destino di tutte le altre civiltà umane, rivela un "ottimismo" che, dal suo punto di vista, non appare meno arbitrario del catastrofico pessimismo spengleriano. A ciò si potrebbe aggiungere che, per essere precisi, Gesù Cristo non è sfuggito alla morte: l’ha subita e poi l’ha vinta risorgendo; ma quale civiltà potrebbe morire e risorgere?

Nella religione il Toynbee aveva effettivamente trovato un’àncora di salvezza, che placò le angosce del suo spirito lacerato dagli orrori di due conflitti mondiali e dalla minaccia di distruzione nucleare, ma gl’impose un’ottica storica che non vi è motivo di giudicare meno deformante di quella dello sconsolato pessimismo di Spengler.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Pixabay from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.